loader
menu
© 2024 Eddyburg

Ogni tanto, quando il mitico mercato pare proprio non funzionare affatto, soprattutto nelle mani dei monopolisti, anche i cristallini liberali se ne accorgono. Corriere della Sera, 5 luglio 2014 (f.b.)

Come molti, anche io, a suo tempo, ho salutato con favore il nuovo corso delle Ferrovie inaugurato dall’ingegner Moretti e simboleggiato dall’Alta Velocità. Mi pare però, che alla lunga l’ansia sacrosanta di stare sul mercato, di avere bilanci in ordine e di ottenere utili, stia facendo perdere di vista alle Ferrovie medesime altri obiettivi non meno importanti. Per esempio quello di non deturpare parti importanti del patrimonio artistico-culturale del Paese: e cioè le stazioni, alcune stazioni ferroviarie.

Il desiderio di fare soldi comunque, a qualunque costo, infatti, sta inducendo da tempo la società di Fs che si occupa di tale settore a trasformare in altrettanti centri commerciali intasati di box e chioschi orribili, dediti alla vendita di ogni cosa, stazioni come quella di Roma, di Milano, di Firenze, che costituiscono pezzi importanti della storia dell’architettura italiana. Con l’inspiegabile beneplacito degli organi statali di vigilanza, opere di pregio — talora di altissimo pregio come la stazione di Michelucci a Firenze — vengono trasformate in squallide caricature di shopping center di periferia.

Un solo esempio macroscopico che dura da anni: nell’atrio d’ingresso della stazione Termini di Roma la possibilità voluta dal progettista che da una grande parete a vetri laterale si vedesse uno dei pochi tratti sopravvissuti della più antica cerchia di mura della città (le mura serviane) è stata brutalmente cancellata. Tutto quel lato, infatti, oggi è oscurato da un grande magazzino. E più o meno è così in molti altri posti. Infischiandosi di tutto quanto non sia il loro guadagno le Ferrovie che ancora si dicono (e sono) dello Stato stanno alterando gli equilibri volumetrici, i rapporti spaziali, il disegno, le prospettive visive, di manufatti spesso insigni della nostra vicenda culturale.

Cioè in pratica li stanno distruggendo. E in questo modo stanno anche rendendo impossibile in molte stazioni l’attesa dei passeggeri, costretti per la presenza di box e chioschi commerciali in spazi comuni sempre più piccoli, privi della possibilità di accomodarsi nei pochi sedili a disposizione, costretti in piedi per decine di minuti, stipati come un gregge.

Alla scadenza della concessione, le autostrade potrebbero tornare gratuitamente allo Stato. Una norma semplice e mai applicata. Perché i concessionari cercano in ogni modo di ottenere rinnovi senza gara o almeno lunghe proroghe. Come utilizzare i pedaggi per risolvere il problema degli indennizzi. Lavoce.info, 27 giugno 2014, con postilla

Rinnovo o ritorno allo Stato?
La concessione di ogni autostrada prevede che, alla scadenza, l’infrastruttura venga devoluta gratuitamente al concedente, cioè allo Stato. Perché questa norma, così chiara, non viene applicata alle varie concessioni già scadute? È ben vero che l’Unione Europea impone che i rinnovi di concessione vengano assegnati per gara, ma certo non potrebbe obiettare se lo Stato, magari tramite l’Anas, si appropriasse dell’autostrada senza bandire alcuna gara. L’ostacolo maggiore è rappresentato dall’indennizzo che lo Stato dovrebbe pagare al “vecchio” concessionario per gli investimenti realizzati e non ancora ammortizzati.

Quando i concessionari fanno melina
Per aumentare le probabilità di rinnovo, con o senza gara, le concessionarie minimizzano nel tempo gli ammortamenti, aumentando così sia il profitto che l’importo dell’indennizzo in caso di subentro. Anche i nuovi investimenti (ad esempio, terze corsie) sono avviati negli anni a ridosso della scadenza, sempre per accrescere ulteriormente l’indennizzo di subentro. I concessionari poi, forti anche dei loro appoggi politici, fanno di tutto per ottenere rinnovi senza gara o per evitare che ne vengano fatte di “vere” e aperte. La conseguenza è che, sino ad oggi, non si è riusciti a concludere nemmeno una gara per il rinnovo di una concessione.

Per la Padova-Mestre è stata rinnovata senza gara a una società mista tra Anas e Regione Veneto. La Cisa e la Brescia-Padova hanno ottenuto lunghe proroghe con l’appiglio della costruzione di nuove tratte previste all’origine, in concessioni ormai vecchie di quaranta o cinquanta anni, ottenute al tempo senza gara e gratuitamente. Tre concessioni già scadute – Centropadane (settembre 2011), Autostrade Meridionali (dicembre 2012, Autobrennero aprile 2014) – continuano a essere gestite in proroga dalle stesse concessionarie.

Per la Centropadane una gara bandita nel 2012 è in “stallo” e la società minaccia di chiedere 320 milioni di danni allo Stato se non otterrà una proroga; a bilancio il valore dei beni devolvibili ancora da ammortizzare è di 260 milioni. Le Autostrade Meridionali indicano a bilancio un indennizzo di subentro di circa 400 milioni. In entrambi i casi, per evitare esborsi rilevanti da parte dello Stato, la scelta della gara per il rinnovo sembra appropriata, purché si riesca infine a fare delle vere gare, aperte anche a concorrenti.

Il caso Autobrennero
Ben diversa appare invece la situazione dell’Autobrennero. Una legge del 2010 prevedeva che l’Anas dovesse indire una gara entro l’anno. Bandita poi con un anno di ritardo, è stata contestata dalla concessionaria con vari ricorsi al Tar e dopo tre anni non pare vi sia ancora in vista alcuna soluzione, mentre continuano i tentativi di parlamentari della Regione di ottenere proroghe o lunghi rinvii mediante “colpi di mano” con emendamenti a leggi finanziarie inseriti all’ultimo momento. Nel bilancio (2012) i beni devolvibili ancora da ammortizzare sono indicati in 200 milioni. Non sappiamo se i piani finanziari (secretati) indichino cifre diverse, ci sarebbe comunque da aspettarsi semmai somme inferiori a quelle di bilancio, visto che non per tutti gli investimenti fatti dalle concessionarie c’è l’assenso dell’Anas. Se l’autostrada venisse devoluta allo Stato, senza bandire alcuna gara per rinnovo, l’esborso per l’indennizzo potrebbe essere finanziato a debito con grande facilità dall’Anas (o da un altro ente pubblico che subentri nella proprietà dell’autostrada) e rimborsato in poco più di un anno, considerando che l’autostrada produce un flusso di cassa operativo di oltre 150 milioni l’anno. Né sono previsti significativi nuovi investimenti.

Non si tratterebbe di una “nazionalizzazione” perché, con l’unbundling, tutte le (poche e semplici) attività gestionali (esazione, pulizia, manutenzione) potrebbero essere messe separatamente e periodicamente a gara e assegnate alle imprese private più efficienti (magari alla stessa vecchia concessionaria). Non ci sarebbero nuovi occupati nel settore pubblico, tranne i pochi addetti alla gestione delle gare. Il gettito dei pedaggi affluirebbe invece direttamente allo Stato (magari tramite l’Anas). Un esempio di questo sistema esiste già in Spagna.

I pedaggi furono introdotti per finanziare il costo delle nuove autostrade. Logica vorrebbe dunque che, terminato l’ammortamento e la concessione, com’è nel caso dell’Autobrennero, i pedaggi venissero eliminati o quanto meno riportati a quanto necessario per coprire i soli costi di manutenzione. Mantenendo invece i pedaggi al livello attuale si genera un cospicuo flusso di profitto che ha la natura di imposta. È preferibile allora che sia lo Stato stesso a riscuotere questa componente d’imposta, piuttosto che venderla a un nuovo concessionario che, nella determinazione del prezzo offerto, applicherebbe certo un forte sconto al flusso di profitti atteso.

Con la devoluzione, si potrebbe avere anche una notevole riduzione di costi perché nelle gare per l’assegnazione dei vari servizi (esazione, pulizia, eccetera) vi sarebbe ampia e vera concorrenza: per manutenzioni e nuove costruzioni si potrebbero assegnare appalti “aperti” senza doverle affidare a imprese controllate in house. E si eliminerebbero tutti i costi societari come ad esempio i pletorici consigli di amministrazione.

postilla

Riemerge finalmente l'antica battaglia dell'indimenticabile (per chi lo ha conosciuto) Guglielmo Zambrini, che per primo svelò la truffa delle concessioni autostradali e del loro sempiterno rinnovo, uno dei primi veicoli dello spostamento di risorse dal pubblico al privato, di accrescimento del debito pubblico e del suo trasferimento alle generazioni future.

Solo in Italia non c’è obbligo di sottoporre i progetti finanziati dallo Stato, come Mose o Expo, a valutazioni economiche di esperti indipendenti. Poi dicono che la corruzione è colpa di poche mele marce, o dei troppi controlli della burocrazia. Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2014
In Italia si costruiscono grandi opere, ma nessuno spiega perché. Il 6 giugno, al Politecnico di Milano, si è svolto un convegno sulla valutazione economica dei grandi investimenti nei trasporti. L’Italia è un paese peculiare: non ha mai valutato seriamente nulla, nonostante diverse norme lo prevedessero, in particolare quelle ambientali. O meglio, sono state fatte ma sempre con risultati positivi. Trovare tecnici e accademici “non eccessivamente pignoli” non è difficile, soprattutto se retribuiti dai promotori degli investimenti stessi. In Italia, al contrario di quel che avviene negli organismi internazionali e nei paesi sviluppati, non è richiesta alcuna “terzietà” alle analisi: ci si limita a chiedere all’oste se il vino è buono. Solo da pochi tecnici indipendenti, e di rado, sono arrivati dei “no” basati su analisi economiche e finanziarie. I risultati di queste iniziative isolate si sono visti. Ma a danno delle carriere di quegli incauti che hanno fatto le analisi.

Molte mazzette e poche analisi

Quello delle grandi opere pubbliche è uno dei pochi in cui il governo è autorizzato dalla normativa europea a trasferire risorse alle imprese nazionali. Infatti le gare per l’affidamento sono certo obbligatorie, ma sono sempre e solo vinte da imprese nazionali, e generalmente sempre le stesse. Poi, si sa, le imprese tendono a manifestare gratitudine. E quanto sia diffuso questo sentimento per gli appalti vinti lo vediamo quasi ogni giorno, dalle inchieste sul Mose di Venezia a quelle sull'Expo di Milano, alla stazione sotterranea Alta Velocità di Firenze. Tutte opere per le quali era stata da alcuni sottolineata l’eccessiva onerosità per le casse pubbliche. Ma se per molti attori non fosse esattamente l’economicità e l’utilità dell’opera l’obiettivo principale, si potrebbe leggere un nesso tra i fenomeni di corruzione e lo scarso interesse per valutazioni indipendenti. Oltre a un elevato tasso di corruzione, il settore ha ricadute occupazionali scarsissime per ogni euro pubblico speso (spesso si afferma il contrario, contro ogni evidenza fattuale). Secondo la Corte dei Conti, e viste le cronache giudiziarie, le grandi opere sono anche caratterizzate da straordinari livelli di penetrazione della malavita organizzata e da scarsa innovazione tecnologica (è un settore maturo).

Inoltre, forse anche in relazione all’assenza di valutazioni degne di questo nome, il settore ha dato uno straordinario contributo alla crisi del bilancio pubblico italiano, come dimostrato anche dal prof. Arrighi sulle pagine del Fatto. Ma per fortuna, questo disastro non riguarda tutti i modi di trasporto: le autostrade almeno in buona parte le pagano gli utenti con i pedaggi. Per gli investimenti ferroviari non è così: è tutto a carico dello Stato, e per importi straordinariamente elevati (in media tre miliardi di euro all’anno). Non certo per le linee minori: l’Alta Velocità, un eccellente progetto dal punto di vista degli utenti, ha scavato una voragine nei conti pubblici (si stima che sia costata tre volte di più di opere analoghe nel resto d’Europa). Alcune tratte sono ben utilizzate, altre semi-deserte (la tratta Roma-Milano è percorsa da circa 100 treni al giorno su 300 di capacità, che è un grado di utilizzazione discreto, ma le altre tratte molti meno). Gli utenti sono di categoria medio-alta, ma lo Stato, con straordinaria generosità, ha deciso di non caricare su di loro nemmeno un euro dei costi di investimento. La letteratura internazionale dimostra che l’impatto ambientale di opere ferroviarie di questi tipo varia dal modestissimo al negativo, considerando anche le emissioni in fase di costruzione.

E la festa non sembra affatto finita: sono alle viste una trentina di miliardi di euro a carico dello Stato in nuovi progetti ferroviari, molti dei quali di nuovo analizzati indipendentemente da alcuni studiosi (si veda LaVoce.info), e alcuni con livelli di utilizzazione prevedibili persino inferiori di quelli già realizzati. Oppure invece questa volta la festa sta per finire? Qualche segnale positivo c’è: l’intervento al convegno di cui si è detto di uno dei consiglieri di Matteo Renzi (il deputato del Pd Yoram Gutgeld) ha fatto chiaramente intendere che se i soldi pubblici nel settore dei trasporti vengono buttati dalla finestra come si è fatto finora, difficilmente ne arriveranno altri. Panico tra molti studiosi del settore, abituati a sentire promesse mirabolanti provenienti dai vari governi, e ad assecondarle con analisi molto “benevole”.

È ora di smetterla con i soldi buttati

Non ci sono più soldi pubblici da spendere con disinvoltura, e certo questa non è una motivazione che di per se possa rallegrare (rallegra però averlo sentito dire con forza da un consigliere di Renzi). E forse una motivazione che rafforza questa c’è: la nuova autorità indipendente per la regolazione dei trasporti sembra fortemente intenzionata a lasciare alla politica la scelta delle infrastrutture, ma senza consentire ai concessionari pubblici e privati chiamati a realizzarle, di sprecare soldi dello Stato o degli utenti, sia con opere sovradimensionate rispetto alla domanda, che con soluzioni irragionevolmente costose.

*professore di Economia dei trasporti al Politecnicodi Milano

«In un viaggio da Nord a Sud Italia le nuove stazioni ferroviarie. Spesso progettate da archistar, ma funzionalità e utilità suscitano più di un dubbio. Mentre mancano del tutto controlli e sanzioni per eventuali costi impropri. Cosa farà l’Autorità dei trasporti?». Lavoce.info, 16 maggio 2014 (m.p.r.)

Il fenomeno del gold plating. Il fenomeno noto in linguaggio regolatorio come gold plating ha origini nella prima esperienza americana di regolazione economica dei monopoli naturali negli anni Trenta: quel regolatore aveva posto limiti al saggio di interesse sul capitale investito tramite il controllo delle tariffe (Rate of Return Regulation), si era generato così un ovvio incentivo a investimenti inutili, o inutilmente costosi, visto che il dispositivo ne garantiva la remunerazione. Da qui il nome.

Ma ovviamente l’incentivo a un uso inefficiente delle risorse si genera anche nel caso di finanziamenti pubblici per investimenti fatti sostanzialmente “in solido”, situazione che si verifica in Italia per le Ferrovie dello Stato. Non sembra infatti che sia in atto alcun controllo “terzo” ex-ante, né alcuna sanzione ex-post per costi impropri delle opere, se non forse per un’unica audizione parlamentare sui costi straordinariamente elevati delle infrastrutture per l’alta velocità, conclusa con la molto generica costatazione della “eccezionalità del caso italiano” rispetto agli altri paesi europei.
Ora, che il problema abbia dimensioni potenzialmente estese risulta anche da una semplice osservazione sulle stazioni Fs più recenti, fatta in termini intuitivi, mancando ogni contabilità accessibile sui costi e i ricavi aggiuntivi che quelle opere generano (una contabilità che qualsiasi privato terrebbe con estrema cura). Che poi motivazioni artistiche o “mecenatistiche” possano giustificare spesa pubblica a fondo perduto non sembra un argomento molto convincente, data l’autoreferenzialità della situazione e la totale assenza di verifiche contabili: per esempio, quanta spesa in più di quella necessaria viene giustificata con motivazioni artistiche? E d’altra parte anche l’esperienza diretta in valutazioni di questo tipo fatte all’estero da chi scrive conferma la fattibilità e l’opportunità dell’analisi per gli investimenti pubblici. (1) Anche perché le società “Grandistazioni” e “Centostazioni” hanno obiettivi unicamente legati alla massimizzazione dei ricavi, non alla remunerazione delle risorse pubbliche impiegate.

Un viaggio in Italia. Il primo caso che prendiamo in considerazione è la stazione centrale di Milano, rifatta integralmente con materiali pregiati e un sistema di rampe molto impegnativo e complesso. Ora accedere ai binari dalla metropolitana è molto meno diretto di prima, e questo grave disagio (si pensi a persone in ritardo e con bagagli) è chiaramente pensato in modo da “costringere” i viaggiatori a percorrere vaste aree commerciali. Potremmo classificare questo caso come “discutibile induzione alla spesa”. È un modo sensato e accettabile di spendere i denari pubblici, anche nell’ipotetico ma improbabile caso che i ricavi aggiuntivi ripagassero l’investimento pubblico con un ritorno accettabile?

Proseguendo verso Sud, incontriamo la stazione di Reggio Emilia, progettata dall’archistar Santiago Calatrava e da alcuni maligni denominata lo “scheletro di dinosauro”. Al di là di soggettive valutazioni estetiche, era necessario convocare una celebrità (con i del tutto probabili costi relativi) per una stazione che in realtà è una semplice fermata in un’area in aperta campagna, dove sostano pochi treni al giorno? Qualche dubbio è legittimo. Potremmo classificare questa categoria come “discutibile pregio architettonico”.

La vicenda delle stazioni alta velocità che incontriamo più a Sud, quelle di Bologna e di Firenze, ha una storia peculiare. Tutto parte dalle preoccupazioni per il possibile inquinamento acustico che i treni veloci diretti avrebbero potuto generare transitando a piena velocità attraverso Bologna. L’amministrazione, invece di valutare la possibilità di schermature antiacustiche integrali alla linea, pretese una stazione sotterranea, decuplicando i costi. L’amministrazione di Firenze ritenne di non poter essere da meno di quella bolognese e richiese anch’essa una stazione sotterranea, per motivi analoghi.

Ora, la nuova stazione di Bologna ha senza dubbio un ruolo importante, ma si dispiega su una profondità di circa cinque piani interrati, con un volume interno straordinario (ricorda una cattedrale). I tempi e le complessità logistiche da superare per risalire dal livello dell’alta velocità alla superficie e ai treni locali sono altrettanto straordinari, e suscitano forti perplessità sulla razionalità dei costi di una soluzione così scarsamente funzionale per le coincidenze, una delle massime esigenze delle stazioni di interscambio.

Ma il caso più eclatante è quello della costruenda nuova stazione sotterranea di Firenze, progettata da un’altra archistar, l’inglese Norman Foster. Sul piano funzionale, si suppone che una stazione sotterranea si costruisca per accelerare i treni in transito e per ottimizzare l’interscambio con i treni locali. Ma non è così: la linea sotterranea percorre un tracciato tutt’altro che rettilineo e la risalita verso i treni locali è complessa, con una lunga rampa obliqua e una tratta ulteriore in orizzontale. Per quanto concerne i costi, poi, si possono stimare quadrupli di quelli di una soluzione a raso, ma in questo caso sarebbero stati ancora più alti: per raccordarsi con la soluzione sotterranea è stato modificato, sembra, lo sbocco in pianura della tratta alta velocità Bologna-Firenze, con una decina di chilometri supplementari in galleria e con costi aggiuntivi (parametrizzando sui costi dell’intera tratta) dell’ordine di molte centinaia di milioni. Potremmo classificare il caso di queste due stazioni come “gigantismo progettuale”.

Proseguendo verso Sud, nulla si può dire invece della funzionalità della nuova stazione “a ponte” di Roma Tiburtina, anche questa firmata da un’archistar (Zaha Hadid). La sensazione qui è di semplice gold plating, per i materiali e le dimensioni complessive, mentre gli sconfinati spazi commerciali la fanno rientrare nella tipologia della “discutibile induzione alla spesa”.

Rimanendo a Roma, possiamo ricordare un altro episodio celebre di gold plating, seppure accaduto più lontano nel tempo: la stazione Ostiense. Doveva essere il terminale urbano per i treni diretti all’aeroporto di Fiumicino. Già l’idea appariva insensata: perché non far proseguire semplicemente la metropolitana urbana per Fiumicino, visto che non esistevano problemi di scartamento né di alimentazione, che oltretutto avrebbe evitato ai viaggiatori uno scomodissimo interscambio? Sembra per semplici ragioni di gestione di risorse pubbliche afferenti a due amministrazioni diverse (nella più benevola della ipotesi). Comunque la scomodità della soluzione era tale che il (monumentale e, si suppone, costosissimo) terminal fu presto abbandonato e divenne per dieci anni rifugio per senzatetto. Nessuno ovviamente ha mai risposto dello straordinario spreco di risorse pubbliche che l’operazione ha comportato. Il livello di disfunzionalità di questo caso lo rende difficilmente classificabile.

Certo, questo è un “processo indiziario”, in cui prevalgono considerazioni qualitative, che per definizione risultano fragili e opinabili. Ma proprio questo è il problema: dati gli incentivi a massimizzare la spesa, incentivi condizionati politicamente sia dai costruttori che dalle amministrazioni locali (il residual claimant pubblico si è sempre dimostrato molto disponibile), è urgente una rendicontazione regolatoria e dettagliata, che sgombri il campo da ogni sospetto di gold plating. E questo vale ovviamente per tutte le infrastrutture regolate: la casistica infatti potrebbe ampliarsi molto. Finora, a questo tipo di fenomeni nel panorama italiano non è stata data alcuna attenzione, ma la recente costituzione dell’autorità regolatoria indipendente per il settore trasporti fa sperare (obbliga a sperare) in un radicale cambio di scenario.

(1) È il caso della verifica costi-benefici di una stazione di autobus a Montevideo, opera candidata al finanziamento da parte della Banca Mondiale.

Flâner, dicono i francesi. Anche se la tesi dell'Autore è che in fondo noialtri si ragiona coi piedi, interpretandolo in modo solo un pochino più esteso si arriva a un principio ovvio di urbanistica, che forse non val la pena ricordare. Corriere della Sera, 3 maggio 2014, postilla (f.b.)

Aveva ragione mio nonno Aurelio quando diceva che solo i piedi danno fiato al cervello, non era un gran lettore ma fosse nato un secolo prima avrebbe fatto volentieri compagnia a quell’omone barbuto di Charles Dickens accanito camminatore in cerca di ispirazione. Nonno Aurelio sosteneva che 50 passi erano sufficienti per scansare un guaio, 500 per avere un’idea decente e 10.000 per una rivoluzione. A Dickens ne bastavano un migliaio per risolvere un’empatia con un personaggio o sgominare un’ingiustizia tra le pagine scritte mentre passeggiava per la sua Londra notturna.

Chissà se avevano capito tutti e due la piccola alchimia del moto senza luogo, quella specie di incoscienza che lega una persona in movimento e la mancanza di un punto d’arrivo. In un modo o nell’altro entrambi mi inculcarono il segreto del camminare a zonzo verso qualcosa che non c’è e assomiglia a una cometa: è il processo che rigenera l’immaginazione e che invoco se la scrittura si blocca. Così, nel mezzo della disperazione, chiudo il computer e mi affido all’anarchia dei piedi che sanno trovare il bandolo della matassa. I primi cento metri sono di sconforto totale, poi qualcosa accade ed è una specie di coscienza che le gambe acquisiscono sottraendola alla testa. C’è una clausola fondamentale che vieta cellulari, MP3 e altre compagnie artificiali, nemici acerrimi e invincibili della camminata creativa.

Gambe intelligenti, cervello stolto: il miracolo passa da questa condizione stramba che mi ha tolto parecchie castagne dal fuoco, anche un vicolo cieco in cui mi ero cacciato nel mio ultimo romanzo. Il problema stava nel protagonista, avevo in mente un portinaio che usava le chiavi di riserva di un condomino per entrare segretamente nel suo appartamento, mi mancava il cuore dell’azione. Serviva un movente totale, cosmico, assoluto, ero certo che fosse già in un angolo del mio ipotalamo, corteccia cerebrale, emisfero destro o sinistro, dovevo solo scovarlo. Per farlo mi annotavo schemi, rovistavo nei ricordi, mangiucchiavo liquirizie, ammiravo rovesci di Federer, scribacchiavo incipit e facevo suonare musica folk, mi ero dimenticato che tutto questo era destinazione forzata. Le idee rifiutano le destinazioni, pretendono il vuoto. Invocai mio nonno e sgattaiolai fuori tra lo smog di Milano, passeggiai per il quartiere di porta Romana e giù verso Missori, attraversai il Duomo in direzione Scala, e verso Brera, e su per corso Garibaldi fino alla chiesa dell’Incoronata. Lì, poco prima che l’isola pedonale diventi traffico, mi sedetti su una panchina e mi accorsi di un uomo su un balcone che insegnava a un ragazzino a innaffiare i gerani. Il ragazzino lo fece con pazienza e quando finì disse «Mica sono una femmina, papà». Lo vidi rientrare in casa, mi alzai e feci una cinquantina di passi, poi l’avvertii: la cometa. Il romanzo aveva trovato il movente.

Tradii la camminata per un trotto, avevo fretta di arrivare a casa e annotarmi l’epifania come avrei fatto con le altre che sarebbero venute, figlie di gambe lente e svogliate, sempre senza bussola: nel tempo ho scoperto che i piedi amano stupirsi, più battono strade nuove più accendono neuroni, e sono abitudinari solo per l’ora. Preferiscono sgranchirsi in un momento della giornata che ricorre. Per Immanuel Kant il momento giusto era dalle due e trenta pomeridiane alle tre e cinquantaquattro, non un minuto di più. Circa il mio orario. Per mio nonno era di prima mattina, per Dickens dopo le undici della sera. Per tutti è il camminare senza testa, ormai estinto, che fa la differenza: può valere un guaio scansato, un’idea decente, una rivoluzione.

postilla
Einstein ricordava spesso che l'intuizione alla base della teoria della relatività gli era venuta pedalando in bicicletta, e qui volendo nascerebbe immediatamente la polemica tra pedoni e ciclisti, su quale genere di aerazione del cervello favorisce di più le idee geniali: un flusso costante a circa 5-7kmh oppure i più fugaci sbuffi delle falcate da un angolo di isolato all'altro o tra le panchine di un giardino? Oltre le facili battute, forse è bene ricordare quanto le immagini urbane complesse moderne derivino proprio dal genere di osservazione soggettiva che, da Baudelaire, a Benjamin, attraverso William H. Whyte e Kevin Lynch, arriva sino al massimo teorico contemporaneo delle pedonalizzazioni, ovvero Ian Gehl (che riconosce esplicitamente i suoi maestri). E non serve certo un lungo ragionamento per ricordarsi quanto il piegare gli spazi urbani alle pure necessità meccaniche del trasporto motorizzato abbia finito per ottundere certe funzioni complesse dei cittadini, magari non necessariamente geniali, e però indispensabili da recuperare alla svelta con adeguate politiche. Come quella particolarmente innovativa, non a caso promossa dal settore Trasporti della città di Los Angeles, cresciuta sulla mobilità automobilistica ma più che mai ansiosa di recuperare Cittadini da Marciapiede (f.b.)

«Un’operazione che ha avuto come conseguenza immediata l’aumento dei pedaggi fino al 350%. Ma ormai è chiaro che nemmeno le tariffe più alte d’Europa sono sufficienti per uscire da questa spirale perversa: di debito in debito il buco si sta allargando sempre di più e prima o dopo esploderà. Le conseguenze inevitabili saranno ulteriori aumenti delle tariffe, tasse e tagli ai servizi pubblici locali come sanità, trasporti e scuole» Il granello di sabbia, n.11 aprile 2014 (m.p.r.)

Venerdì 21, nel primo giorno della mobilitazione nazionale contro le grandi opere lanciata dai No TAV, alle ore 14 in punto scatta il blitz di vari comitati Veneto che con un’azione fulminea e precisa aprono alcuni caselli dell’autostrada presso la barriera di Villabona, «liberalizzando» di fatto la Padova-Mestre.

A darsi appuntamento ci sono il comitato Opzione Zero che lotta contro la Orte-Mestre, i No Grandi Navi, i No dal Molin, i No pedemontana, il Comitato Lasciateci respirare, attivisti dei Centri Sociali del Nordest. Un’azione per contestare l’aumento spropositato dei pedaggi sulla tratta Mestre-Padova e sul Passante, ma soprattutto un modo per denunciare come le Grandi Opere distruggono l’ambiente, minano la salute dei cittadini e generano debito pubblico.

Tutto parte dall’inchiesta sul Passante di Mestre messa a punto da Opzione Zero. La storia inizia alla fine degli anni ’90, quando, per risolvere il congestionamento della tangenziale, viene ideato il by-pass autostradale. Nel 2001 l’opera viene inserita nella famigerata Legge Obiettivo; nel giro di due anni viene nominato un Commissario straordinario e approvato il progetto. Lo stesso Commissario con procedura negoziata, e quindi “discrezionale”, affida i lavori al consorzio di imprese Passante di Mestre Scpa; ne fanno parte Impregilo S.p.a., Grandi Lavori Fincosit S.p.a. e Consorzio Cooperative Costruzioni; a fare incetta di sub-appalti c’è invece la Mantovani SpA, al centro della recente inchiesta sul malaffare in Veneto aperta dalla Procura di Venezia. Il costo iniziale del mostruoso nastro di asfalto si aggira intorno agli 800 milioni di euro, ma alla fine il conto è di quasi 1,4 miliardi. A far lievitare i costi non sono solo varianti e opere di compensazione, è la stessa Corte dei Conti nel 2011 a sollevare dubbi sulla regolarità delle procedure con le quali è stata approvata e realizzata l’opera, e sulla legittimità dei costi sostenuti.

Il caso del Passante fa scuola. Si tratta infatti di una sorta di Project Financing tutto “pubblico”: a finanziare l’opera sono infatti ANAS (società al 100% del Ministero dell’Economia) per circa 1 miliardo di euro, e direttamente lo Stato per circa 300 milioni di euro. Fino a qui nulla di strano, si tratterebbe di un’opera pubblica costruita usando legittimamentei soldi dei contribuenti. Nel 2008 però viene costituita la società CAV SpA (partecipata da Anas e da Regione Veneto) per la gestione del Passante, della tangenziale di Mestre e del tratto di autostrada Padova-Mestre. La convenzione tra CAV e ANAS del 2011 prevede che CAV restituisca ad ANAS circa 1 miliardo in 23 anni attraverso il gettito dei pedaggi.

Ma perché mai CAV, società pubblica, dovrebbe restituire quei soldi alla stessa ANAS, altra società pubblica, che li ha anticipati per realizzare un’opera pubblica (considerata) strategica, usando soldi prelevati dalla fiscalità generale? Per Opzione Zero si tratta di un “debito fantasma” totalmente illegittimo, addirittura diabolico se andiamo oltre con la storia. Ai vertici di CAV, infatti, appare ben presto chiaro che nonostante il notevole flusso di traffico che attraversa il nodo autostradale di Venezia, il “debito” verso ANAS non è solvibile; la situazione precipita con l’esplodere della “crisi”: nel 2012 il traffico crolla del 7,5%. Ed ecco il colpo di scena finale: in sede di approvazione del bilancio 2012, CAV SpA, per restituire i soldi a ANAS, sottoscrive due mutui a tassi di interesse di mercato: uno di 350 milioni di euro con Banca Europea degli Investimenti (BEI) attraverso un’intermediazione di Cassa Depositi e Prestiti del costo di 8,47 milioni di euro; l’altro di 73,5 milioni di euro direttamente con CDP, controllata dal Tesoro per oltre l’80% e per il 20% dalle Fondazioni Bancarie.

Un’operazione che ha avuto come conseguenza immediata l’aumento dei pedaggi fino al 350%. Ma ormai è chiaro che nemmeno le tariffe più alte d’Europa sono sufficienti per uscire da questa spirale perversa: di debito in debito il buco si sta allargando sempre di più e prima o dopo esploderà. A quel punto saranno direttamente Regione Veneto e ANAS a dover rispondere di questa situazione. Le conseguenze inevitabili saranno ulteriori aumenti delle tariffe, tasse e tagli ai servizi pubblici locali come sanità, trasporti e scuole.

«Le grandi opere sono diventate il totem dei faccendieri della grande impresa post-fordista, con cui apparecchiare la tavola alla quale invitare i mariuoli dello stato post-keynesiano» Un'analisi acuta di una delle più pesanti (per i cittadini) distorsioni del sistema economico vigente. Naturalmente, tutte "innovative". Il granello di sabbia, n.11 aprile 2014 (m.p.r)

Le grandi opere sono diventate il totem dei faccendieri della grande impresa post-fordista, con cui apparecchiare la tavola alla quale invitare i mariuoli dello stato post-keynesiano. La grande impresa del capitalismo globalizzato è caratterizzata da una organizzazione fondata sul cosiddetto outsourcing, che sta ad identificare un processo di scomposizione e svuotamento della fabbrica fordista, che passa da un’organizzazione “a catena piramidale” ad un sistema “a rete virtuale”.

Questo modello di impresa non può che essere orientato al controllo dei fattori finanziari e di mercato e sempre meno ai fattori della produzione. E’ una grande impresa virtuale che inevitabilmente scarica, attraverso una ragnatela di appalti e subappalti, la competizione verso il basso e induce, anche nella piccola e media impresa, una competizione tutta fondata sullo sfruttamento del lavoro nero, grigio, precario, atipico. La grande opera è l’unico prodotto che può consentire a questo modello di impresa virtuale di funzionare: in alcuni casi massimizzando i profitti, in altri permettendogli semplicemente di sopravvivere. Essa è il piatto più ambito e consumato sulla tavola della nuova tangentopoli, nella in cui i faccendieri postfordisti possono azzannare beni e risorse pubbliche, insieme ai mariuoli dei partiti virtuali dello Stato post-keynesiano. Le grandi opere consentono alla classe dirigente politica e imprenditoriale di scaricare sul debito pubblico le risorse necessarie alla sua realizzazione. In tal senso, il progetto TAV ha costituito un modello di architettura finanziaria e contrattuale.

In esso si realizza una sorta di privatizzazione della committenza pubblica, attraverso l’affidamento in concessione della progettazione, costruzione e gestione dell’opera pubblica ad una società di diritto privato (Spa), ma con capitale tutto pubblico (TAV Spa appunto, ma anche Stretto di Messina Spa, e le migliaia di Spa di questo tipo). La Spa pubblica nel modello TAV serve solo per garantire al contraente generale (il privato) il pagamento oggi del 100% del costo della progettazione e della costruzione e di mantenere per sé (il pubblico) il rischio del recupero dell’investimento con la gestione (i debiti pubblici futuri).

Oltre ad un progressivo ricorso al contratto di concessione, nel quale la funzione del committente si trasferisce al privato e l’elemento finanziario diventa fondamentale, si sono introdotti ulteriori istituti contrattuali nei quali il regime privatistico ed il fattore finanziario sono dominanti. Ai contratti tipici se ne sono aggiunti altri (il project-financing, il global-service, il contraente generale, il contratto di disponibilità, il leasing immobiliare), nei quali la filiera del sistema della sub contrattazione non solo diventa più lunga e più articolata, ma si rendono anche inutilizzabili o di difficile applicazione le norme di contrasto della mafia, della corruzione o di tutela del lavoro, che sono state concepite e codificate per procedure di affidamento tradizionali, in particolare per l’appalto tipico. In questi casi infatti il contraente principale può sub-affidare tutte le attività in un regime privatistico, sottratto alle regole della gestione degli appalti pubblici.

Con l’uso di questi nuovi istituti contrattuali, ed in un contesto nel quale il fattore finanziario pesa in mododecisivo, si determinano condizioni che offrono opportunità straordinarie proprio a quei soggetti che, oltre a disporre di denaro a costo zero, hanno l’esigenza di riciclare capitali di provenienza illecita. Se infatti già nel contratto di appalto è connaturata una fisiologica esposizione finanziaria dell’appaltatore: sia per l’attività svolta, con la quale anticipa le risorse necessarie, sia per il patologico ritardo nei pagamenti della pubblica amministrazione; con i nuovi istituti contrattuali il valore finanziario si dilata enormemente fino a diventare il fattore determinante. Con la diffusione delle concessioni e delle società di diritto privato controllate o partecipate, siamo allo stesso livello della ricontrattazione del debito con le operazioni dei “derivati”, che scaricano sui debiti futuri gli oneri di convenienze virtuali immediate.

Un copione classico va in scena nella variante mobilità sostenibile: commercianti contro amministrazione per una limitazione di traffico, ma non è tutto. La Repubblica Milano, 11 aprile 2014, postilla (f.b.)

È la ciclabile della discordia. Progettata dal Comune, voluta dai ciclisti ma ostacolata dai commercianti. Prima ancora che siano partiti i lavori, la (doppia) corsia riservata alle bici in viale Tunisia ha già scatenato polemiche. Da una parte ci sono i proprietari dei negozi che temono di perdere clienti, dall’altra i ciclisti che hanno lanciato il boicottaggio degli esercenti anticiclabile. Ancora non è stata posata una goccia di vernice sull’asfalto e quella di viale Tunisia è già diventata la pista ciclabile della discordia. Scatenando una battaglia a tre, fra il Comune, i commercianti che si oppongono al progetto, e i ciclisti che attendono la corsia riservata da anni. Uno scontro durissimo, fra denunce, boicottaggi e polemiche al vetriolo sui social network.

Tutto è cominciato quando Palazzo Marino ha annunciato il progetto di una doppia corsia ciclabile (una su entrambi i lati del viale). La notizia ha mandato i commercianti dell’Asscomm Porta Venezia su tutte le furie perché secondo loro ostacolerebbe il traffico e la sosta dei clienti. «È un progetto inutile e scellerato — ha spiegato Luca Longo, presidente dell’associazione — perché esiste già una pista che viaggia parallela in via Monforte. Senza contare i soldi, 850mila euro per poche centinaia di metri. Risorse che chiediamo vengano investite per l’abbattimento delle barriere architettoniche ». Un disappunto che i commercianti — o almeno parte di loro, visto che la Confcommercio ha preso le distanze — hanno espresso nei modi più disparati: prima diffondendo vignette di Pisapia e Maran sopra una bara con la scritta “hanno condannato a morte commercio e sicurezza in tutta Milano”, poi intervenendo a un incontro pubblico dove hanno apertamente contestato l’assessore. Infine con volantini che hanno fatto infuriare la giunta per una frase («c’era scritto “le ciclabili si fanno per dare le mazzette agli assessori”», ha spiegato Maran) e per cui è stata avviata una causa. «Cose che non ci spaventano — ha commentato Longo — noi vogliamo che Maran ci incontri e ci ascolti».

Ma quello che probabilmente non si aspettavano i commercianti è la rivolta che si è scatenata sulla pagina Facebook dell’associazione dopo questa presa di posizione: decine e decine di ciclisti hanno cominciato a postare messaggi di indignazione, lanciando di fatto una campagna per il boicottaggio dei negozi di viale Tunisia. «Ho preso nota di tutti i vostri soci, dove non metterò mai più piede » ha scritto ad esempio Marco Mazzei, ciclista e attivista della critical mass. «Vista la vostra insensata posizione vedrò bene di non fare più acquisti in nessuno dei vostri negozi», ha commentato Federico Cupellini. Un boomerang che ha spinto alcuni esercenti a fare marcia indietro: come il ristorante Delicatessen che ha comunicato ufficialmente di non essere più un socio sostenitore.

I piani per l’avvio dei lavori, nel frattempo, procedono. E l’apertura dei cantieri (che dovrebbero durare otto mesi) è prevista entro il mese. «Questi commercianti stanno difendendo il diritto a sostare irregolarmente su strada — ha detto l’assessore Maran — perché il progetto della ciclabile, oltre a dare spazio alle bici, contrasta la sosta selvaggia. Senza contare che la pista in quel tratto ha una funzione fondamentale di raccordo con il resto della rete ciclabile».

postilla

Forse sfugge a prima vista l'analogia fra queste polemiche, che coinvolgono un paio di corporazioni (come altro definire chi si autodefinisce “ciclista” oppure “commerciante a orientamento automobilistico”?) e altre apparentemente lontanissime, come quelle fra gli esercenti tradizionali e le catene della grande distribuzione. Come insegnano di recente le numerose analoghe battaglie in grandi città del mondo dove non esisteva alcuna tradizione di mobilità su due ruote, introdurre o recuperare un certo tipo di metabolismo e scambio tra il fronte edificato e la strada/piazza può rivelarsi traumatico. E non riguarda solo, appunto, problemi di mobilità, inquinamento, gestione dei parcheggi, ma lo stesso funzionamento dell'organismo urbano, la distribuzione delle funzioni, i loro rapporti reciproci. Forse il commercio affacciato sulle arterie a scorrimento veloce (si fa per dire, quando sono mezze intasate dalla sosta dei veicoli) dopo mezzo secolo non ha ancora compreso davvero la massima secondo cui non si è mai dato che un'automobile entri in un negozio a comprare o consumare qualcosa. E che se si tratta di gestire l'interfaccia in termini di parcheggio loro hanno già perso in partenza, appunto da oltre mezzo secolo, la battaglia coi centri commerciali a scatolone e autosilo. In definitiva, come si immagina inizino a capire anche le amministrazioni cittadine, qualunque azione sulla mobilità innesca rapidissime reazioni a catena, e va inquadrata in un piano/programma con obiettivi di massima coordinati. Ecco: questi non si capisce ancora quali siano, e magari aiuterebbe anche a evitare scontri paralizzanti. Qualche considerazione in più su Millennio Urbano (f.b.)

Le città dovrebbero eliminare le auto a motore entro il 2050, ma non ci sono limiti stringenti per arrivarci. L'auto “pulita” resta un'utopia». Www.sbilanciamoci.info, 28 marzo 2014
L'Europa si richiama costantemente alla mobilità sostenibile, ma poi quanto si tratta di passare da Piani e Libri bianchi a direttive, finanziamenti e regole stringenti, molte restano buone intenzioni. Nel 2011 la Commissione europea ha adottato il nuovo Libro bianco sui trasporti "Per una politica dei trasporti competitiva e sostenibile" – nel tentativo davvero complesso di coniugare l'incremento della mobilità e la riduzione delle emissioni, con una strategia di ampio respiro e dal lungo orizzonte temporale fino al 2050 quando i trasporti dovranno ridurre del 60% le loro emissioni.

Le città entro il 2030 dovranno dimezzare l'uso delle auto con il motore a scoppio ed eliminarle del tutto entro il 2050. Sempre nella stessa data la maggior parte del trasporto di medie distanze dei passeggeri deve avvenire mediante ferrovia. Entro il 2030 almeno il 30% del trasporto merci che superi i 300 km deve utilizzare la ferrovia o la via d'acqua. Questa quota dovrebbe raggiungere il 50% entro il 2050. Nel trasporto aereo il Libro bianco propone di aumentare l'uso di carburanti a basse emissioni fino a raggiungere il 40% entro il 2050.

Nel trasporto marittimo occorre ridurre del 40-50% le emissioni di C02 derivate dagli oli combustibili entro il 2050. In concreto però nessuna nuova direttiva con limiti più stringenti è stata adottata, tutto si riduce a una proposta. (vedi il sito www.transportenvironment.org delle principali ong che vigilano sulla politica dei trasporti a Bruxelles).

Altri obiettivi rilevanti sono il completamento entro il 2030 della rete infrastrutturale Ten-T e il dimezzamento entro il 2020 della mortalità stradale, puntando all'obiettivo "zero vittime".

Non mancano debolezze e criticità in questo Libro bianco sui trasporti. In primo luogo la scarsa considerazione per i problemi del trasporto urbano (oltre due terzi della mobilità): è confermata la necessità del potenziamento del trasporto collettivo, della bicicletta e delle aree pedonali, ma poi si affida un ruolo chiave all'auto pulita, tralasciando i problemi di congestione, di uso dello spazio urbano e di pianificazione territoriale. Su questi temi il Consiglio europeo ha adottato nel 2010 il Piano d'azione per la mobilità urbana, che contiene ottime indicazioni strategiche, ma purtroppo ha scarsa attuazione, soprattutto in Italia.

Per l'auto "pulita" si punta su ricerca, innovazione tecnologica e carburanti alternativi, ammettendo che questo obiettivo è ancora molto lontano dalla soluzione. A tale scopo è stato approvato lo scorso anno "Cars 2020, Piano d'azione per una competitiva e sostenibile industria automobilistica" che, partendo dalla crisi del settore, punta al suo sostegno e rilancio. Alcuni obiettivi, come la riduzione delle emissioni di C02 per i veicoli, sono condivisibili, ma non si punta sulla necessità di ridurre il mercato dell'auto in Europa, che essendo maturo può solo essere un mercato sostitutivo.

L'esperienza concreta di questo decennio ha dimostrato che ogni positivo incremento di efficienza di automobili e veicoli stradali è stato divorato dall'aumento della potenza e dall'aumento dei chilometri percorsi, producendo alla fine un incremento significativo delle emissioni di C02, passate dal 23% al 28% nel settore dei trasporti e quindi fallendo ogni obiettivo di riduzione del 6,5% rispetto ai dati del 1990, fissato dal protocollo di Kyoto. Ed è solo per effetto della crisi che in Italia dal 2008 le emissioni nei trasporti hanno cominciato a scendere, ma adesso in Europa si discute dei nuovi obiettivi di riduzione con la strategia al 2030, quindi non basterà puntare solo sull'auto "pulita".

Un'altra criticità è rappresentata dalle reti Ten, che anche in questo Libro bianco costituiscono un pezzo essenziale della strategia, identica al ruolo centrale assegnato in Italia dalla politica alle grandi opere strategiche previste dalla Legge obiettivo, senza una efficace selezione e con costi pubblici insostenibili.

Il Libro bianco 2011 quantifica in 550 miliardi di euro il fabbisogno europeo di risorse fino al 2020 per il completamento delle reti Ten-T e arriva a 1500 miliardi di euro che servirebbero entro il 2030 per sviluppare le infrastrutture di trasporto. Risorse pubbliche e private non disponibili in ambito pubblico né privato e che rendono questi obiettivi sbagliati e fallimentari. Anche in Europa dunque, bisogna cambiare strada.

Ridurre il controllo pubblico sulla gestione degli affari è sempre stato un obiettivo centrale del neoliberismo. Ha tutti i titoli per lavorare con efficacia per questo obiettivo l'autorevole esponente lombardo del governo renzusconiano; troverà certamente aiuto tra i suoi colleghi. Arcipelagomilano online, 25 marzo 2014

Mercoledì scorso il ministro alle infrastrutture Maurizio Lupi in un’intervista pubblicata il giorno dopo su la Repubblica dichiarava: “… Un altro risparmio lo otterremo prendendo una decisione forte ma che non è più rinviabile: e cioè chiudendo l’Autorità dei Lavori Pubblici … visto che si può integrare in altre Authority.”. Due giorni dopo l’intervista la procura di Milano mette in galera i vertici di Infrastrutture Lombarde, con a capo l’ingegner Rognoni messo lì da Formigoni insieme ai soliti amici della ben nota famiglia di ciellini della quale fa parte lo stesso ministro.

Ma quali sono le competenze di questa autorità? Tante, tutte utili ma fra tutte cito quella che fa al caso nostro: “vigila sui contratti pubblici, anche regionali, per garantire correttezza e trasparenza nella scelta del contraente, di economicità ed efficienza nell’esecuzione dei contratti e per garantire il rispetto della concorrenza nelle procedure di gara.”. La stessa autorità in una sua nota immediatamente successiva all’arresto del Rognoni scrive: “L’Autorità con propria delibera n. 29 del 30 luglio 2008 segnalò le anomalie, oggi venute alla luce con le indagini della magistratura, al Presidente della regione Lombardia, al Consiglio di Sorveglianza ed al Consiglio di Gestione della società IL. S.pA.” e aggiunge maggiori dettagli. Vi sembra poco? Dobbiamo chiuderla e integrarla con altre autorità? Siamo di fronte al solito caso italiano d’insofferenza per ogni tipo di controllo. Quest’autorità, visto l’andazzo dovrebbe essere potenziata ma soprattutto costituita da personale “veramente” indipendente e non raccogliendo burocrati dall’inesauribile casta romana.

Ma veniamo al caso specifico: Infrastrutture Lombarde. Che nei suoi affari ci fosse poca chiarezza l’ho detto e l’ho scritto fin dai tempi della mia collaborazione con la Repubblica e poi dalle pagine di codesto settimanale e non solo ma anche a orecchie sorde e disattente. Ma la cosa che desta maggior stupore è che l’opposizione in Regione negli ultimi anni non avesse “mai” avuto la curiosità di guardare dentro questa società che faceva girare milioni. Per altro non l’ha fatto nemmeno nella sanità, dove le cifre in gioco erano ben maggiori. Io credo che per i pubblici amministratori valga quello che vale per gli amministratori delle società private, l’obbligo della sorveglianza: dunque nessun innocente per quello che è successo, anche se la gravità delle colpe è molto diversa tra sorveglianti e sorvegliati. I primi a casa i secondi colti, con le mani nella marmellata, in galera. L’opposizione i poteri li aveva e l’accesso ai documenti pure, perché non sorvegliare?

Non si può che ridere alle affermazioni che la legalità è stata garantita dall’intervento della magistratura: chiunque l’abbia detto è un ipocrita. La magistratura è intervenuta su segnalazione di una vittima di malversazioni in appalto, non certo su segnalazione di qualche pubblico amministratore attento e onesto.

Ma quello che finalmente emerge dalle carte dei magistrati è una cosa ben precisa. Siamo di fronte a un’organizzazione ben radicata sul territorio, in grado di pilotare appalti, di assegnare incarichi di progettazione, consulenze legali, di promuovere candidati a cariche elettive e di farli eleggere, di sistemare amici in consigli di amministrazione, di affrettare, rallentare o bloccare carriere, di favorire società di ogni genere purché amiche e così elencando. Cauti però, salvo qualche grossolanità come nel settore della sanità, nel far circolare denaro che, come si è visto lascia tracce indelebili o quasi.

Siamo di fronte alla sottile strategia del baratto corruttivo che può essere messo in atto solo da un’organizzazione capace ed efficiente in modo che i percettori delle utilità siano tanti, difficilmente individuabili, lontani dal vertice cui però resta saldamente in pugno il “potere”, che in fondo è quello che conta perché il cerchio si chiuda. E il cerchio si chiude quando si è tanto potenti da rendere inoffensiva qualunque forma di controllo.

Che fare domani? Passare al vaglio tutti gli appalti e gli incarichi per consulenze e progettazioni e i relativi concorsi, con un vaglio fine, per accertare che non solo la forma sia stata rispettata ma anche la sostanza. Rivedere le scelte fatte per accertare che non vi siano state collusioni tra giurie e giudicati, che la cosiddetta “urgenza” non sa l’ampio mantello che tutto copre e occulta.

Da tempo tutti quelli che si occupano di criminalità organizzata denunciano l’assoluta inefficacia ai fini del contenimento di questo fenomeno e di quello più generale della corruzione che la alimenta, l’inefficacia dicevamo della legislazione sull’appalto pubblico: voci nel deserto. È arrivato il momento di mettervi mano. È competenza del ministro delle infrastrutture e dei trasporti. Al secolo Maurizio Lupi. Siamo in buone mani?

Anche a Firenze, come in Val di Susa, come a Venezia, chi si oppone alle Grandi opere inutili e devastanti non si limita a dire NO: Presenta anche soluzioni alternative. Ma l'alternativa in questo regime non è ammessa. Il manifesto, 23 marzo 2014

Il Pd di Mat­teo Renzi non ha dubbi: il farao­nico, costo­sis­simo e rischioso pro­getto del sotto-attraversamento fio­ren­tino dell’alta velo­cità deve andare avanti. “La Tav è un pro­getto nazio­nale di Fer­ro­vie dello Stato, e ci augu­riamo che que­sto can­tiere riprenda il prima pos­si­bile”. Parole di Dario Nar­della, neo depu­tato tor­nato vice­sin­daco per­ché il lea­der lo vuole in Palazzo Vec­chio. Un can­di­dato sin­daco che, alla vigi­lia delle odierne pri­ma­rie di un par­tito che gli ha subito tolto dai piedi l’unico peri­colo (Euge­nio Giani), snobba l’invito del comi­tato “No tun­nel Tav” ad una gior­nata di ana­lisi — eccel­lente — sulle enormi cri­ti­cità della grande opera. Con in paral­lelo la pre­sen­ta­zione di quella alter­na­tiva, di super­fi­cie, esi­stente fin dagli anni ’90. Diven­tata oggi un raf­fi­nato e inno­va­tivo maxi­pro­getto di sistema fer­ro­via­rio inte­grato per l’area metro­po­li­tana fio­ren­tina. Meno impat­tante. Assai meno costoso. Ben più utile per un traf­fico fer­ro­via­rio che, dati alla mano, conta molti più pen­do­lari locali – pena­liz­za­tis­simi — che utenti Tav.

Per giunta sul nodo di Firenze, e più in gene­rale sull’intero per­corso dell’alta velo­cità che da Bolo­gna arriva nel capo­luogo toscano, pesano costi stra­to­sfe­rici per la col­let­ti­vità. Anche senza con­si­de­rare il sotto-attraversamento, con annessa una nuova, grande sta­zione sot­ter­ra­nea a soli due chi­lo­me­tri dalla cen­trale Santa Maria Novella, la tratta appen­ni­nica di 78,5 chi­lo­me­tri è costata la cifra record di 96,4 milioni al chi­lo­me­tro. Una somma enorme, cui dovrebbe aggiun­gersi almeno un altro miliardo e mezzo per il pas­sante fio­ren­tino. Di più: le inda­gini della magi­stra­tura, e il pro­cesso per le deva­sta­zioni ambien­tali in Mugello che si è appena (ri)concluso in corte d’appello dopo che la Cas­sa­zione ha fis­sato alcuni impor­tanti punti fermi, hanno sco­per­chiato un vaso di pan­dora da cui è uscito l’intero codice penale o quasi. Tanto da aver bloc­cato, da più di un anno, i lavori del pas­sante sotterraneo.

In que­sto con­te­sto, tanto dram­ma­tico quanto abi­tuale per gli stu­diosi delle pato­lo­gie inva­ria­bil­mente con­nesse alle grandi opere ita­liane, il giu­di­zio di Alberto Asor Rosa è ful­mi­nante: “Se que­sti for­mi­da­bili errori non fos­sero com­messi per motivi di inte­resse eco­no­mico, non smet­te­reb­bero certo di essere di una gra­vità ecce­zio­nale. Se die­tro non ci fosse la cor­ru­zione, anche se fos­sero fon­dati solo su un ragio­na­mento sba­gliato dal punto di vista tec­nico, vor­rebbe dire comun­que che il cer­vello delle nostre classi diri­genti è finito in pappa”.

Anche Asor Rosa, che pre­siede la Rete dei comi­tati per la difesa del ter­ri­to­rio, ha fatto sen­tire la sua voce alla sala delle ex Leo­pol­dine in piazza Tasso. Insieme a quelle di Maria­rita Signo­rini di Ita­lia Nostra, Fau­sto Fer­ruzza di Legam­biente, e ad inge­gneri, urba­ni­sti, archi­tetti e geo­logi (Alberto Ziparo, Mas­simo Perini, Gior­gio Piz­ziolo, Vin­cenzo Abruzzo, Roberto Budini Gat­tai, Alberto Magna­ghi, Mauro Chessa, Teresa Cre­spel­lani, Enrico Becat­tini, Man­lio Mar­chetta e Ales­san­dro Jaff). Del resto fra gli orga­niz­za­tori della gior­nata c’era anche il “Lapei”, il Labo­ra­to­rio di pro­get­ta­zione eco­lo­gica degli inse­dia­menti, nato sotto l’egida dell’ateneo fio­ren­tino. Men­tre, sull’altro piatto della bilan­cia, a dare for­fait non è stato il solo Nar­della: il neo vice­mi­ni­stro Ric­cardo Nen­cini, mugel­lano, ha girato alla larga da piazza Tasso, così come Con­fin­du­stria, Con­far­ti­gia­nato, e gli stessi sin­da­cati confederali.

Sul punto, a nome del comi­tato No tun­nel Tav, l’ex fer­ro­viere Tiziano Car­dosi non ha nasco­sto l’amarezza: “Qual­cuno ci ha detto che aveva altri impe­gni. Qual­cun altro ha ammesso che non se la sen­tiva di rom­pere certi equi­li­bri. Ma se certi ragio­na­menti arri­vano anche dalle asso­cia­zioni di cate­go­ria, vuol dire che ad essere ‘malato’ c’è qual­cosa di più pro­fondo della sem­plice dina­mica partitico-politica”. Quest’ultima resta comun­que il fat­tore deci­sivo: “Abbiamo un nuovo pre­si­dente del con­si­glio che vuole agire con la spen­ding review per recu­pe­rare gli spre­chi di denaro pub­blico — osserva Ornella De Zordo — sce­gliere l’opzione del pas­sag­gio in super­fi­cie, in una città che lui cono­sce bene, sarebbe un’ottima occa­sione per pas­sare dalle tante parole ai fatti”. Con­ferma Asor Rosa: “Se Renzi volesse, nella sua posi­zione avrebbe la pos­si­bi­lità di eser­ci­tare una fun­zione molto rile­vante”. Se.

Un articolo descrittivo dei progettoni ciclabili (di qualche utilità?) tanto di moda in Italia, e soprattutto un fulminante commento di Paolo Rumiz che ne svela il senso reale. La Repubblica, 20 febbraio 2013

Le autostrade delle biciclette, ecco l’ultimo sogno verde pedalare da Torino a Palermo
di Cristiana Salvagni

ROMA — Da Torino fino a Palermo e da Trieste giù dritti a Santa Maria di Leuca. Tutto in bicicletta. Sono due delle rotte ciclabili ipotizzate in una proposta di legge messa a punto da 80 parlamentari bipartisan per realizzare, in pochi anni, una rete nazionale da percorrere a pedalate, lunga fino a 20mila chilometri. Utile per eliminare l’uso dell’auto sui tragitti più brevi, e che passando per i capoluoghi e i parchi naturali strizzi anche l’occhio al turismo sostenibile, tanto amato dagli stranieri.

«Il 60 per cento degli spostamenti in macchina copre una distanza inferiore ai 5 chilometri, il 15 per cento addirittura inferiore a un chilometro: sono distanze facilmente percorribili in bicicletta, se si hanno a disposizione percorsi sicuri» spiega Antonio Decaro, deputato del Pd che per primo ha firmato la proposta. «Così abbiamo creato una legge nazionale sulla mobilità ciclistica che include, oltre alla rete, un piano per accorpare le regolamentazioni che regioni, province e comuni saranno obbligati a fare». Per esempio «in tutte le stazioni ferroviarie e dei bus extraurbani gli enti locali dovranno costruire una velostazione per lasciare e riparare le bici — continua Decaro — e i comuni dovranno inserire, in caso di concessione edilizia, la clausola di prevedere anche spazi di sosta per le bici, così come ora avviene per le auto».

Questa futuristica autostrada ecologica, povera di asfalto e ricca di argini fluviali e antiche strade romane, si comporrà di 18 grandi itinerari, già tracciati in una mappa curata dalla Federazione italiana amici della bicicletta. «Da Bolzano si potrà pedalare fino a Catanzaro, dalla foce del Po fino a Venezia e da Milano si scenderà fino a Bari» racconta Antonio Dalla Venezia, responsabile Fiab del cicloturismo e della mobilità extraurbana. «C’è la ciclopista del Sole, lunga tremila chilometri, ma anche la ciclovia dei Pellegrini, di duemila, che ricalca la viaFrancigena: parte da Chiasso e attraversa Siena, Roma e Benevento fino all’antica meta di Brindisi, dove i fedeli si imbarcavano per raggiungere Gerusalemme. Un itinerario del genere potrebbe diventare un cammino internazionale come quello di Santiago de Compostela » prosegue Dalla Venezia. «In un momento in cui il turismo tradizionale è in crisi potremmo puntare su quello sostenibile praticato soprattutto da tedeschi, olandesi, francesi, visto che nel nostro Paese la stagione è molto lunga». Un tipo di vacanza che ogni anno muove in Europa dieci milioni di viaggiatori.

Se dai 4mila chilometri di piste esistenti ai 20mila in progetto la pedalata non sembra breve, in realtà le strade per trasformare il sogno in realtà sono molteplici. «Si possono riadattare i 5mila chilometri di lineeferroviarie dismesse, in particolare sulla dorsale adriatica — insiste Claudio Pedroni della Fiab — mettere in sicurezza le vie a basso traffico e poi recuperare gli argini dei fiumi e le piste di servizio degli acquedotti. E ancora le consolari storiche come la vecchia Salaria, che sfiora i Monti Sibillini e Campo Imperatore, o la Flaminia, puntellata dalle parti di Fano di manufatti romani». A pagare dovrebbe essere il ministero dei Trasporti. «Chiediamo — chiarisce Decaro — che il piano della mobilità ciclistica sia inserito nel piano nazionale dei trasporti: questo significa che ogni volta che viene finanziata la mobilità ferroviaria o automobilistica una piccola percentuale delle risorse, pari al 2 per cento, deve essere destinata alle biciclette». E i tempi? «Contiamo di depositare la proposta di legge entro una decina di giorni. E, una volta approvata, speriamo che per realizzarla bastino quattro o cinque anni».

Ma all'Italia non servono percorsi ghetto
di Paolo Rumiz

FOSSE per me, renderei ciclabile tutta l’Italia, quindi ben venga un ribaltone della viabilità. Sono stanco di rischiare la vita ogni giorno che mi muovo su due ruote per fare la spesa o andare al lavoro. Quella che temo è l’Italia, la sua cultura, che è tutta contro il velocipede. L’italiano medio disprezza chi lo usa, lo odia come un intralcio. «Ma quando sparirete», mi hanno gridato un giorno.

Per questo temo il trucco. Temo che ci si butti su piste “ghettizzate” già superate in tutta Europa, utili solo a togliere la bici dalle scatole degli automobilisti. Ho anche paura che ci si faccia scudo del mezzo ecologico per buttare soldi in inutili mega-progetti, o peggio che si faccia quella scelta solo per fare, senza crederci, qualcosa di sinistra.

Ho alcune convinzioni di ferro. La vera rivoluzione non è creare riserve indiane per turisti, ma rendere possibile l’uso della bicicletta nel quotidiano. Sogno pendolari sul sellino, mamme che vanno in bici a prendere i figli all’asilo, manager con gli incartamenti nelle sacche del mezzo gommato. Non so se avete mai visto la sera, ad Amsterdam o Zurigo, il rientro dal lavoro. C’è una città intera che fruscia. Bici col rimorchioper bambini, bici a tre ruote per originali, tandem per le coppie. Giorni fa a Vienna ho visto un ministro senza scorta parcheggiare il mezzo nel cortile della cancelleria. Il Reichstag, a Berlino, ha un parcheggio per soli quaranta posti macchina. I parlamentari affluiscono col metrò, a piedi o su due ruote.

Ne saremo mai capaci? Il fatto è che in Germania chi progetta piste ciclabili va in bicicletta, in Italia no. È questo che la fa differenza. E così accade che a Nord già si sperimentino piste ciclabili ad alta velocità, competitive con l’automobile, per connettere centri e periferie. L’obiettivo, oltre le corsie preferenziali, è la condivisione della strada e la moderazione del traffico in alcune aree con velocità ridotta per i motorizzati. Quella sarebbe davvero Europa.

Quando il cosiddetto sviluppo del territorio caro ai grandi interessi e micidiale per tutto il resto diventa politica nazionale e pure strategica di occupazione autoritaria dello spazio. Il Fatto quotidiano, 29 gennaio 2014

Più che a un piano aeroporti, quello presentato nei giorni scorsi dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Maurizio Lupi, assomiglia a un piano strade. La riorganizzazione degli scalisuddivisi in strategici, nazionali e locali, non aggiunge né toglie nulla infatti alla situazione del traffico aereo, decide a tavolino che ogni regione deve avere un aeroporto di riferimento anche se di fatto fa meno transiti di un rifugio di montagna. Invece di lasciar parlare il libero mercato, il piano – di chiara impronta statalista – di fatto certifica anche per il futuro la possibilità di buttare altri soldi pubblici in nuove infrastrutture. Anche attorno ad aeroporti che non cresceranno mai.

E’ vero, rispetto ai ministri che lo hanno preceduto nel tentativo di riorganizzazione, le piste con il certificato di valenza nazionale sono diminuite numericamente, ma è il mix di scelta a lasciare profondi dubbi. In sostanza ora esistono undici aeroporti strategici e altri 26 scali di interesse nazionale. Per individuare gli scali strategici, il territorio nazionale è stato ripartito in 10 bacini di traffico e per ciascuno è stato identificato un aeroporto strategico, con l’eccezione del Centro-Nord, dove ce ne sono due: Bologna e Firenze-Pisa che dovranno fondersi. Nel testo portato al consiglio dei Ministri il 17 gennaio scorso si scopre che in Sicilia a meritare contributi pubblici nazionali anche per le relative infrastrutture saranno Catania, Palermo, Pantelleria, Lampedusa e Comiso, che nel 2013 ha fatto registrare poco più di 60mila passeggeri. Un nulla che riesce a fare comunque bella figura se lo si mette a confronto con Brescia-Montichiari. L’aeroporto D’Annunzio, in sistema con il Valerio Catullo di Verona, nei primi 11 mesi del 2013 (ultimo dato disponibile) ha visto atterrare o decollare non più di 30 passeggeri al giorno (circa 10mila in tutto). Costerebbe meno accompagnarli in auto a destinazione.

Eppure anche Montichiari è rientrato tra gli scali da premiare, perché prima o poi diventerà cargo. L’anno scorso, a maggio, fu annunciato un importante accordo con un vettore vietnamita che avrebbe dovuto assicurare almeno un volo settimanale cargo (al momento a Montichiari atterrano praticamente solo i velivoli delle Poste con lettere e missive da smistare). Tutto è saltato. Tant’è che alcuni maliziosi ci hanno visto una mossa mediatica per far credere che le potenzialità di crescita fossero concrete. La mossa evidentemente ha funzionato. Il governo scommette su Montichiari e quando avrà bisogno di fare investimenti potrà chiederne direttamente allo Stato. Quanto scommette? Non è dato saperlo, ma quello che è certo è che per il pianificatore i “milanesi”Linate (8,4 milioni di passeggeri) e Orio Al Serio (8,3 milioni) sono allo stesso livello dello scalo bresciano.

E tutti valgono meno di Malpensa verso cui dovranno essere deferenti a cedere il passo quando si tratterà di investimenti. Chiaro. Peccato che quando si decise a priori di sviluppare lo scalo di Varese e ridimensionare Linate, i passeggeri hanno scelto Orio. Nello sguardo di Lupi, ancora più importante di questi scali lombardi c’è l’hub (si fa per dire) di Lamezia Terme. Nonostante i suoi 2 milioni di passeggeri è strategico quanto Fiumicino o Venezia. Prevale la logica politica. In questo modo tutti i referenti locali possono vantare una vittoria. Tant’è che il piano del governo non ha scontentato quasi nessuno. A parte Torino che si aspettava la certificazione di strategico, ma che comunque già si muove per aprire una trattativa. “Quello del ministro Lupi è un piano aperto al confronto, ci sono tutti gli elementi per dimostrare la valenza strategica dell’aeroporto di Torino Caselle per il Piemonte e per l’Italia. Nei prossimi giorni avremo con Lupi un incontro per affrontare la questione”, ha detto il sindaco di Torino, Piero Fassino, sottolineando che “bisogna dotare la città di infrastrutture adeguate e tra queste è fondamentale il potenziamento dell’aeroporto”.

E così si torna a discutere del leit motive: strade e cantieri. Come quelli che verranno aperti “per il soddisfacimento del previsto aumento della domanda di traffico e al fine di migliorare la qualità dei servizi”, come recita il piano Lupi che contempla “l’individuazione delle opere necessarie per il miglioramento dell’accessibilità e dell’intermodalità; le priorità degli interventi di potenziamento della rete e dei nodi intermodali di connessione e l’inserimento nella programmazione e pianificazione delle istituzioni competenti, quali urgenti ed indifferibili, dei collegamenti viari e ferroviari con i tre gate intercontinentali”.

Restano tagliati fuori dai soldi pubblici e dagli aiuti solo gli scali declassati. Siena, Albenga, Aosta, Grosseto, Bolzano, Brindisi, Foggia, Taranto, Oristano e Forlì. Ma sul loro futuro c’è solo nebbia. Chiuderanno? Non sembra. Saranno finanziati dalle Regioni, probabilmente. Con quali soldi non si capisce. Certo definirli nazionali sarebbe stato stavolta un insulto all’intelligenza dei cittadini. Basti pensare che Siena-Ampugnano (per cui il cui ampliamento nel 2010 sono stati indagati l’ex numero uno del Monte dei Paschi Giuseppe Mussari e altri 15) nei primi 11 mesi del 2013 ha fatto registrare 258 passeggeri. Di cui 71 a gennaio scorso, 187 a febbraio e poi zero. E dire che erano stati stanziati 15 milioni di euro con la previsione di raggiungere 100mila passeggeri. Insomma, rileggendo il piano Lupi e cercando di rispondere alle domande che lascia senza risposta, viene da pensare che nella migliore delle ipotesi per l’ennesima volta l’Italia pensi che debbano essere i viaggiatori al servizio dei vettori e degli scali e non viceversa oppure viene da pensare che a guadagnare saranno le aziende che vivono del business dei cantieri. Che si apriranno anche se non necessari.

Nota: ce ne sono ovviamente decine di casi orribili di trasformazioni fini a sé stesse del genere, a suo tempo ci occupammo di una particolarmente grossa e spudorata, citata anche qui, quella dello Hub Montichiari (f.b.)

Mentre si tagliano risorse per i bisogni di tutti (pendolari e altri) si arricchiscono i ricchi coi soldi di tutti. «Tra Genova e Milano si costruisce una linea ad Alta velocità, ma nessuno ha mai calcolato se è utile e se vale il costo previsto di 6 miliardi. Tanto paga lo Stato». Il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2013

Una grande opera è stata finalmente avviata, con pochissime proteste e un sostanziale silenzio mediatico: si chiama Terzo Valico. È un tunnel ferroviario tra Genova e la Pianura padana, pensato per le merci del porto di Genova, e che in futuro potrà anche divenire una linea Alta velocità fino a Milano.

Si chiama “terzo valico” perché di linee ferroviarie ce ne sono già due, fortemente sottoutilizzate. Oltre a questa comunanza con la Torino-Lione, anch’esso affiancato da una linea sottoutilizzata, il progetto costa molto caro (circa 6 miliardi, rispetto agli 8,5 della To-Li). Questa linea servirà anche a rendere più veloci i treni passeggeri, non solo quelli merci, e il traffico passeggeri è certo più consistente che sulla linea Torino-Lione . Però la dovremo pagare interamente noi: è una tratta nazionale, quindi niente contributi da altri paesi né dalla Unione europea. Persino l’ingegner Mauro Moretti, amministratore delle Ferrovie dello Stato, l’aveva dichiarata un’opera inutile in un convegno, poi è stato sgridato sul Sole 24 Ore per questa libertà che si era preso in pubblico, dall’ex-ministro dei Trasporti Pietro Lunardi. L’appalto è stato assegnato molti anni fa senza gara al Cociv, gruppo pilotato dall’impresa Gavio. Ovviamente questo appalto è inossidabile, ci mancherebbe.

Ci si aspetterebbe che al pubblico, agli amministratori e politici locali e a quelli dello Stato centrale, siano state fornite analisi economiche e finanziarie che dimostrino che non solo l’opera serve molto in relazione al suo elevato costo, ma che sia prioritaria rispetto ad altre. Infatti quelle analisi lì servono proprio a quello, soprattutto in una situazione di soldi pubblici scarsi.

I numeri che non si trovano

Lo scrivente, con l’aiuto di un bravo laureando genovese, ha cercato questi documenti economici, ma stranamente non è stato trovato nulla di nulla. Ma è stato trovato un graziosissimo documento di istruzioni su come l’opera deve essere presentata al pubblico da parte dei promotori. Anche lì, nessun cenno a dati economici o finanziari, o anche solo a previsioni dettagliate di domanda futura. L’opera è utile “in se”, metafisicamente (bè, c’è un grande porto e una grande città, che altro serve sapere? Poi il vasto pubblico non capirebbe quelle analisi complicate...). Inoltre può essere molto dannoso fornire argomenti ai perfidi nemici del progresso, dell’occupazione , dell’ambiente, del Porto, ecc., insomma della Patria, che poi magari leggerebbero quei dati in modo malevolo, come è già successo più volte in casi simili.
Tuttavia negli ultimi anni qualcosa è filtrato, da varie fonti. Chi scrive fu consultato per caso da due giovani ingegneri che erano stati incaricati di fare una analisi costi-benefici dell’opera. Ingenuamente chiesero: “Ma lei, che è così pratico di queste analisi, non può mica consigliarci qualche modo per far venire positivi i risultati? Noi ci abbiamo provato, ma non ci si riesce proprio...”. Peccato che si trattò di una rapida conversazione, e niente di documentabile.

Più recentemente, emerse un’ipotesi di finanziare l’opera con un finto intervento di capitali privati (cioè in “project financing”, come si dice in termini tecnici). L’impresa destinata a gestire la linea, Ferrovie dello Stato appunto, avrebbe pagato ai costruttori un “canone di disponibilità” fisso, cioè non dipendente dal traffico (che magari poi era poco, chissà...). Il canone annuo sarebbe stato ovviamente tale da ripagare interamente l’opera. Fs è una impresa al 100 per cento pubblica, ma giuridicamente una società per azioni, come le Poste che intervengono “spontaneamente” per salvare Alitalia. Quindi formalmente si tratta di un privato.

Bene, sembra tuttavia che anche con questo “schema creativo” i numeri in gioco fossero così tragici (ricavi da traffico previsti meno di un decimo della rata annua che Fs avrebbe dovuto pagare), che non se ne fece nulla. Allora il ministero dello Sviluppo guidato da Corrado Passera (nella persona del suo viceministro Mario Ciaccia), prese una decisione eroica: basta perder tempo, non occorre nessuno schema finanziario (scartoffie!), pagherà il 100 per cento lo Stato, cioè noi.

Il Sole 24 Ore, nello stesso periodo, pubblicò un articolo di lodi a una proposta di sconti fiscali dedicati alle “Grandi Opere”, articolo che conteneva questa perentoria affermazione: “In questo modo si potranno anche realizzare opere molto costose e con poco traffico”. L’ironia, si sa, non è patrimonio di tutti.

Intanto i cantieri sono partiti, che è quello che davvero interessa a costruttori e politici. Non si sa se ci saranno i soldi per finire l’opera, cosa che vale per quasi tutte queste iniziative. Alcuni gruppi locali protestano per possibili danni ambientali. Ottima cosa, i costi per risarcirli generosamente, e con molta pubblicità, sono assolutamente irrilevanti rispetto al valore dell’appalto. E così alla fine tutti saranno contenti.

Un manifesto significativo:


Finalmente qualche istituzione elettiva si oppone al progetto di finalizzare l’organizzazione del territorio e dell’accessibilità esclusivamente ai più ricchi, e di abbandonare i lavoratori, gli strudenti e gli altri pendolari al dominio dell’automobile. Greenreport, 4 dicembre 2023

Molto probabilmente tra il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e l’Ad delle Ferrovie Mauro Moretti, non corre buon sangue. Anche a livello di rapporti personali. Ma la polemica tra la Regione e le Ferrovie è soprattutto nel merito. Rimanendo solo ai fatti degli ultimi tempi: il “taglio” degli intercity (non solo in Toscana) da parte di Trenitalia (poi in parte salvati grazie alla mobilitazione delle regioni). Ora la proposta del nuovo orario ferroviario, che entrerà in vigore a metà dicembre, che penalizza, sempre per quanto riguarda i servizi veloci (Av esclusa) in particolare la tratta Firenze-Arezzo e Valdichiana, vista la mancata sinergia con il servizio di trasporto ferroviario regionale. A tal proposito l’assessore a infrastrutture e trasporti Vincenzo Ceccarelli ha scritto agli amministratori delegati di Rfi e Trenitalia per denunciare queste criticità (e la mancanza di condivisione per le decisioni prese) che avranno come conseguenza il peggioramento del servizio. Da parte sua Moretti ha invitato i pendolari che si lamentano con le ferrovie per i disagi, a rivolgersi a chi fa i programmi di trasporto, cioè le Regioni, affermazione che ha fatto andare su tutte le furie Rossi.

«Moretti pensi a far arrivare i treni in orario, si prepari a non bloccare i treni nell’eventualità di nevicate e ci rifornisca nei tempi previsti i nuovi treni che abbiamo contrattualizzato. Ci rivolgiamo al governo nazionale, da cui attendiamo ancora le risposte che non abbiamo avuto. Ad esempio ci piacerebbe sapere se il governo intende metterci in condizioni di effettuare una regolare gara pubblica, veramente competitiva per il trasporto regionale». Intanto per toccare con mano l’entità dei disservizi e dei disagi che devono affrontare ogni giorno i pendolari, questa mattina il presidente Rossi, accompagnato dall’assessore Ceccarelli, ha effettuato un viaggio, a sorpresa, su un treno regionale dal Valdarno a Firenze e poi ha postato le prime impressioni su facebook: «Arrivato a Firenze Campo Marte in orario. Treno sovraffollato, anche se, mi dicono, un po’ meno del solito. Dalla stazione di Figline solo posti in piedi. Ho incontrato la vicesindaco di Montevarchi Elisa Bertini (anche lei pendolare) e sempre casualmente il portavoce dei pendolari del Valdarno, Maurizio Da Re. Voglio fare questo giro, in incognita, nelle tratte toscane per capire e vedere direttamente pregi e difetti del trasporto regionale per poter sostenere al meglio una pressione su Trenitalia, sul rispetto degli orari, sulla fornitura dei nuovi treni, sugli interventi da realizzare per migliorare il servizio. Fino ad oggi si sono spesi miliardi per l’alta velocità e solo spiccioli per i pendolari: uno squilibrio che deve essere corretto. Questo è l’obiettivo- ha concluso Rossi- e voglio arrivare fino in fondo».

Questa iniziativa ci pare opportuna e lodevole, ma quello che è necessario capire, al di la delle polemiche, è quale tipo di mobilità ritiene prioritaria il governo nazionale e quale azione intende esercitare nei confronti di Trenitalia e Rfi per le inadempienze lamentate dalla Regione Toscana (e da altre), confermate dai cittadini pendolari. Se il governo, come talvolta ha dichiarato, intende puntare sulla mobilità sostenibile bisogna riqualificare il servizio ferroviario rendendolo sempre più competitivo in rapporto all’utilizzo dell’auto privata, anche nei piccoli e medi tragitti

-

Saskia Sassen ce l’aveva raccontato: è un effetto perverso della globalizzazione al servizio del turbocapitalismo: rafforzare l’infrastuttura globale” e abbandonare il resto al degrado a al dominio della motorizzazione individualeUn'analisi di Legambiente, ma pochi i governanti che si oppongono; cominciano però le proteste dei governati. Il Fatto quotidiano, 2 dicembre 2013

Sulle ferrovie è sempre più un'Italia a due velocità. Da una parte il trasporto locale è in fibrillazione per le annunciate soppressioni. Legambiente accusa: "Priorità solo all'alta velocità". Trenitalia e Ntv pagheranno il 15% in meno per la rete, mentre Moretti vuole tassare i pendolari. Intanto è sempre più alto il rischio di procedura di infrazione alla Corte Ue: "Passeggeri poco tutelati"

I nuovi orari arriveranno solo il 15 dicembre, ma il trasporto ferroviario locale vive settimane di fibrillazione per le annunciate soppressioni di corse e tratte: nuove cancellazioni all’orizzonte in 10 Regioni stanno provocando proteste tra i pendolari e sono oggetto di interrogazioni e interpellanze parlamentari. Il fenomeno dura da anni: secondo Legambiente, in 13 Regioni tra il 2011 e il 2012 si è assistito ad un taglio di treni e corse in media del 5% ogni anno, che ha toccato punte del 15% in Puglia. Ferrovie dello Stato annuncia l’arrivo di nuove carrozze destinate alle tratte locali, ma da sempre più parti si punta il dito contro l’alta velocità: “Si dà priorità ai treni veloci, investendo e migliorando i tratti extra-urbani della rete – spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente – per quelli urbani, invece, i fondi latitano e ritardi e disagi aumentano”. Il tutto mentre il governo fa uno sconto del 15% sul canone per l’uso dell’infrastruttura per l’Alta Velocità a Trenitalia e Ntv e l’Europa pressa l’Italia perché si adegui alle direttive comunitarie sui diritti dei passeggeri: Roma è a rischio deferimento davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Gli ultimi tagli alle tratte locali
A ottobre varie Regioni hanno deciso di usare le forbici. Il Piemonte ha annunciato nuovi tagli per risparmiare 5 milioni: a meno di ripensamenti, dal 14 dicembre cesseranno il servizio 18 treni che collegano la regione con la Liguria, creando disagi a oltre 2mila pendolari. Esemplare, poi, la vicenda degli interregionali Milano-Venezia. A luglio la Regione Veneto ne aveva soppressi 8, sostituendoli con i più lenti regionali e creando disagi a circa 10 mila utenti. “Ora la Lombardia ha ripristinato la tratta, ma solo fino a Verona – spiega Dario Balotta, responsabile trasporti Legambiente della Lombardia – e non garantendo le coincidenze. Così per andare a Venezia ed evitare il trasbordo a Verona, i 4mila pendolari giornalieri tra le due regioni saranno costretti a servirsi dei Frecciabianca, che costa dal doppio al triplo di un interregionale. Un vero favore all’Alta velocità”. A settembre, invece, era toccato alla Calabria: 14 i treni locali soppressi, decisione che aveva spinto il Pd a presentare un’interrogazione alla Camera. La scure si è abbattuta anche sugli Intercity: a fine ottobre Trenitalia ha deciso di tagliarne 12 tra la Toscana e altre 8 Regioni, dalFriuli alla Campania. I pendolari sono scesi sul piede di guerra e la politica si è mossa: il 24 ottobre i governatori interessati hanno scritto al presidente del Consiglio Enrico Letta e il Pd ha presentato un’interpellanza alla Camera. “Durante il periodo natalizio il servizio sarà assicurato”, ha fatto sapere il sottosegretario ai Trasporti, Erasmo D’Angelis. Ma per l’anno nuovo non c’è certezza.

Ma il ministero fa lo sconto a Trenitalia e Ntv

Un decreto del ministero dei Trasporti datato 10 settembre 2013, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 19 settembre, taglia del 15% le tariffe di pedaggio per l’Alta Velocità pagate da Trenitalia e Ntv al gestore dell’infrastruttura, Rete Ferroviaria Italiana. A proporre lo scontro, si legge nel testo, era stata la stessa Rfi. La motivazione: gli utili del biennio precedente erano stati più alti del previsto e i conti dell’azienda “devono presentare un tendenziale equilibrio tra i ricavi da riscossione dei canoni, le eccedenze provenienti da altre attività, i contributi pubblici” da un lato, e “i costi di gestione” dall’altro.
“Non è accettabile – ha spiegato l’assessore ai trasporti della Regione Toscana,Vincenzo Ceccarelli – che da un lato si taglino servizi essenziali per i cittadini e dall’altro si emani un decreto per fare sconti agli operatori dell’alta velocità, che genereranno minori introiti per 70 milioni a Rfi e risparmi per 50 e 20 milioni a Trenitalia ed al gestore privato”. Decisione che ha fatto infuriare il governatore Enrico Rossi, che il 21 novembre è tornato a ricordare che secondo la legge il pedaggio dovrebbe essere ulteriormente tassato e non scontato: il decreto 98 del 6 luglio 2011, infatti, introduce a partire “dal 31 dicembre 2011 un sovrapprezzo al canone dovuto per l’esercizio dei servizi di trasporto di passeggeri” dell’Alta Velocità da destinare al sistema ferroviario regionale. “Ma il decreto non è stato mai applicato perché manca un decreto attuativo”, fanno sapere dalla Regione.

Fino al 15% di corse tagliate in un solo anno


Intanto i tagli ai treni locali non conoscono sosta. Legambiente ha fatto il conto dei treni soppressi negli ultimi 2 anni nel rapporto Pendolaria 2012. Qualche esempio: in Abruzzo i servizi sono stati tagliati del 10% nel 2011 e di un altro 10% nel 2012; identiche le percentuali in Campania, dove i tagli “hanno toccato il 90% dei treni sulla Napoli-Avellino e il 40% sulla Circumvesuviana“. Si viaggia peggio anche in Liguria (-12% nel 2011, -10% nel 2012), Marche (-13% nel 2011) e Puglia (-15% nel 2012). In Piemonte, poi, le corse sono state ridotte del 5% sia nel 2011 che nel 2012 e “sono state chiuse 12 linee”. In totale “i convogli regionali di Trenitalia in circolazione sono oggi circa 6.800 mentre nel 2010 erano oltre 7.100, con una diminuzione di circa il 5%”. Gli unici a crescere sono stati i prezzi dei biglietti: nel 2012 +20% in Abruzzo e Toscana, +15% nel Lazio, +10% in Liguria. “Aumenti che si sommano a quelli del 2011 in Campania, Emilia-Romagna,Liguria, Piemonte, Veneto e Lombardia, dove le tariffe erano salite del 23,4%. L’aumento medio complessivo è stato del 10%”.

L’Italia a due velocità
“Le risorse nazionali per il trasporto ferroviario, erogate dallo Stato alle Regioni, sono diminuite a partire dal 2010 – spiega ancora Zanchini – e a subirne le conseguenze sono i treni locali e gli intercity”. Il risultato è un Paese a due marce: da un lato i pendolari costretti a viaggiare nell’inferno delle tratte locali in treni lenti, sporchi e sovraffollati; dall’altro i passeggeri dell’Alta Velocità, coccolati da standard di qualità elevati e in costante miglioramento. “Per far capire la differenza – si legge ancora su Pendolaria 2012 – tra Roma e Milano nel 2007 i collegamenti Eurostar al giorno erano 17 mentre nel 2012 sono ben 76 le corse di Frecciarossa, a cui si sommano le 8 Italo. Sull’Aalta velocità l’aumento dell’offerta in 5 anni è pari a +395%”. Poi c’è il trasporto pubblico locale: “Nello stesso periodo a Genova i treni che attraversano la città da Voltri a Nervi sono passati da 51 a 35, su una linea percorsa ogni giorno da 25mila pendolari con ulteriori tagli effettuati anche quest’anno. A Roma, i 65mila pendolari della linea Fiumicino Aeroporto-Fara Sabina hanno visto cancellare 4 treni, quando la linea è progettata per 50mila viaggiatori al giorno”.

La ricetta di Moretti: “Tassare i pendolari”


Mauro Moretti, ad di Trenitalia, non ne ha mai fatto mistero: il trasporto locale è un problema, perché non si ripaga con i biglietti. Se nel 2012 minacciava di interrompere il servizio (“Nel 2013, se non ci saranno soldi a bilancio, non faremo il servizio regionale“) qualche settimana fa l’ad di Trenitalia ha spiegato la propria ricetta: tassare i pendolari per fare cassa e svuotare i treni locali. Come? Istituendo “fasce tariffarie differenziate come ci sono negli altri Paesi, con sistemi di incentivazione e disincentivazione di certi orari”, dichiarava Moretti il 7 novembre. Tradotto: i biglietti dei treni più affollati dovrebbero costare più degli altri. “Stiamo investendo 3 miliardi per comprare treni locali – concludeva l’ad – peccato che dalla politica non abbiamo visto un centesimo”. Per gennaio il gruppo ha annunciato l’arrivo di 70 nuovi treni per il trasporto locale in Piemonte,Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo e Calabria, per un investimento di 450 milioni di euro.

L’Ue: “Italia a rischio deferimento”


Per ora però a rimetterci in tutto ciò sono gli utenti. Il 20 novembre l’Italia è finita nel mirino della Commissione Ue per lo scarso interesse mostrato verso le condizioni di vita dei suoi 3 milioni di pendolari. Bruxelles ha inviato a Roma un parere motivato (secondo stadio della procedura di infrazione) perché lo Stato, a 4 anni dal regolamento che avrebbe dovuto essere attuato entro il 3 dicembre 2009, non ha ancora istituito un’agenzia nazionale permanente per vigilare sulla corretta applicazione dei diritti dei passeggeri nelle ferrovie, né stabilito norme volte a sanzionare le violazioni della legislazione comunitaria. Se l’Italia non provvederà entro 2 mesi, la Commissione potrà decidere di deferire lo Stato alla Corte di Giustizia del Lussemburgo
Riferimenti
Vedi su eddyburg, a proposito di Saskia Sassen e della "infrastruttura globale", il mio scritto "intervista per il "pianeta degli urbanisti"

Basterebbe questo per fermare il mostro. Ma c'è altro, più consistente che StopOr_Me da tempo denuncia. Il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2013

Il ministro Lupi sblocca l’autostrada Orte-Venezia che vale 10 miliardi: i lavori andranno all’azienda di Vito Bonsignore, ex UDC protagonista di Tangentopoli E poi dicono che questo governo vive alla giornata, incapace di scelte incisive. La riprova di quanto sia fuorviante una convinzione del genere è data dal via libera all'autostrada Orte-Mestre da parte del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica). Un progetto che sembrava esaurito per auto-consunzione, eroso dalla crisi e dalla mancanza di soldi, e che a sorpresa, invece, viene riportato all'onor del mondo nonostante i costi proibitivi. Con un'invidiabile dose di ottimismo dicono che i lavori partiranno tra due anni e saranno completati nel 2021. C'è da dubitarne parecchio, visto l'andazzo italiano.

Alcune cose, invece, appaiono sicure: quei 380 chilometri di asfalto in 5 regioni (Lazio, Umbria, Toscana, Emilia e Veneto) costeranno quasi 10 miliardi di euro, 4 in più di quelli preventivati per il fu Ponte sullo Stretto. L'altra sicurezza è che, nonostante la promessa che tutto sarà pagato dai privati con il project financing, alla fine dalle casse statali uscirà invece una cifra di uguale entità a favore dei realizzatori, un debito che peserà sui conti per almeno un quindicennio. La terza sicurezza è che i cittadini-automobilisti fino ad ora abituati a viaggiare gratis su quel tragitto, dovranno contribuire con il pagamento di pedaggi autostradali che per circa mezzo secolo finiranno nelle casse della società concessionaria dell'opera.

La quarta certezza è che si tratta di un affare destinato a finire in bocca a Vito Bonsignore, il finanziere-costruttore-politico che per primo ha presentato un progetto assicurandosi un preziosissimo diritto di prelazione che varrà oro al momento della gara europea per la scelta dell'azienda che dovrà realizzare l'opera. La gara sarà indetta tenendo come punto di riferimento proprio la proposta Bonsignore e nel caso in cui qualcuno riuscisse ad offrire condizioni migliori, lo stesso Bonsignore avrà diritto all'ultima parola.

Bonsignore è uno dei protagonisti della Tangentopoli di vent'anni fa e vanta una sfilza di procedimenti giudiziari lunga mezza pagina, condannato in via definitiva a 2 anni per corruzione e turbativa d'asta, presente nella lista dei cittadini italiani esportatori di capitali in Liechtenstein, fondatore dell'Udc, tuttora vice presidente del Partito Popolare al Parlamento europeo. L'ultima certezza è che il ripescaggio della mega opera avviene con ministro delle Infrastrutture uno dei politici più vicini a Bonsignore, il ciellino Maurizio Lupi, ovviamente desideroso di legare il suo nome ad un'opera destinata a restare nella storia d'Italia (sempre che alla fine si faccia). Tutto ciò dimostra che a dispetto delle dicerie, il governo delle larghe intese è vivo e vegeto e molto reattivo quando si tratta di affari con nove zeri.

La storia dell'autostrada Orte-Mestre comincia 12 anni fa, lo stesso giorno in cui il governo Berlusconi approva la famosa legge Obiettivo, quella che avrebbe dovuto far sbocciare il “nuovo Rinascimento italiano” assicurando pure un periodo di splendore ai costruttori, soprattutto i 13 maggiori riuniti nell'Agi. Come è andata a finire lo sanno tutti: di grandi opere nemmeno l'ombra, l'edilizia agonizza e proprio alcuni mesi fa una bella fetta di costruttori piccoli e medi ha abbandonato l'Ance e la Confindustria proprio in polemica con la legge Obiettivo. L'Orte-Mestre fu inserita nell'elenco degli “interventi strategici” e nella tacita spartizione dei pani e dei pesci, Bonsignore si fece avanti con una proposta e un progetto. L'iniziativa poi sembrava si fosse arenata perché lo Stato non trovava i quasi 2 miliardi iniziali necessari per passare dalle intenzioni ai primi passi concreti. Quei quattrini sono spuntati questa estate con un sistema molto complesso, sulla cui correttezza e linearità si sa già che alla fine dovrà pronunciarsi la Corte dei Conti. I quattrini sono stati promessi ai futuri realizzatori (leggi Bonsignore) con un abbuono di circa 2 miliardi di euro sulle tasse delle imprese (Ires e Irap) valido per 15-20 anni. Il periodo ritenuto necessario per completare i lavori e avviare la gestione. Nel frattempo quei quattrini Bonsignore se li farà anticipare cash dalle banche e quindi su di essi graveranno fior di interessi che lo Stato dovrà via via coprire.

postilla

Il giornale fuori dal coro ricorda alcune delle nefandezze di cui è intrisa la storia della Mestre-Orte: quelle più immediatamente suscettibili d'attenzione da parte dell'opinione pubblica. Altre conseguenze negative, ben più rilevanti e durevoli nei minacciati effetti sono state raccolte e divulgate dalla rete interregionale di comitati e associazioni NO OrMe. Vedi tra l'altro su eddyburg il reportage di Luca Martinelli daAltraEconomia.

Applaudita dalle due ali del partito larghe intese, una delle più devastanti Grandi opere, tra le moltissime che si programmano e realizzano nell’Italia berlusconista, finanziandole coi debiti dei nostri posteri e con tagli sulla pelle degli abitanti, a partire dalle fasce più deboli. La Nuova Venezia, 9 novembre 2013

VENEZIA La prima applicazione della defiscalizzazione su un investimento infrastrutturale porta al Veneto un passo decisivo verso la realizzazione dell’autostrada Orte-Mestre e, con questa, della Nuova Romea. Ieri, grazie alla sostituzione del previsto contributo pubblico da 1,8 miliardi con una cifra equivalente di riduzioni fiscali (Ires, Irap e Iva) che la società concessionaria dovrà pagare dopo l’avvio della gestione, il Cipe ha dato il via libera (con prescrizioni) al progetto preliminare di nuovo corridoio autostradale (396 chilometri) Nord-Sud in grado di collegare Mestre a Orte.

Un’opera da 9,8 miliardi che sarà realizzata interamente in project financing. Il promotore è la cordata guidata dalla Gefip Holding del gruppo Bonsignore, proposta riconosciuta di pubblico interesse nel lontano 2003 e poi via via modificata. Il nuovo preliminare aggiornato, con relativo piano finanziario, dovrà andare in gara, con la possibilità per altri soggetti privati di aggiudicarsi la concessione (49 anni) migliorando le condizioni a base d’asta. Ora, dopo l’approvazione da parte della Corte dei conti, ci sarà un bando internazionale pubblico entro aprile 2014 e in fine «nel primo trimestre 2015 dovrà essere posta la prima pietra» ha detto ieri il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. «La Nuova Romea, che collegherà Mestre a Ravenna fornendo una dorsale strategica al collegamento tra il Veneto e il Sud Italia e tra questo è l’Europa centrale e dell’Est, sarà pronta entro il 2021. Io ci conto, il Veneto ci conta» sottolinea l’assessore regionale alle Politiche della mobilità Renato Chisso, che ieri ha partecipato alla riunione del Cipe. Il Comitato ha stabilito che l’opera dovrà essere realizzata entro il 2021, anche se ha consentito che alcune tratte possano essere realizzate e messe a pedaggio anche prima, per cominciare a produrre flussi di cassa. Probabile che si cominci dalla Nuova Romea e dalla Orte-Perugia, lasciando invece per ultima la tratta più complessa, costosa e meno trafficata, l’attraversamento appenninico Perugia-Cesena. «Il via libera» ha detto il governatore Luca Zaia «dà una ulteriore accelerazione al completamento del programma di ammodernamento infrastrutturale del nostro territorio. «Oltre alle opere programmate, però, quello che ci serve per il futuro non è ulteriore asfalto ma più sicurezza del territorio dal punto di vista idrogeologico».
Ancora non è stato sciolto il nodo relativo alla partenza (o arrivo) della nuova autostrada la cui definizione è rinviata alla progettazione definitiva. Si tratta del tracciato da Lughetto, nel comune di Campagna Lupia, alla connessione con il sistema autostradale. Due le ipotesi: l’ingresso a Roncoduro, sul Passante, o l’inserimento in A4 con uno svincolo a Villabona, in connessione con la Tangenziale di Mestre. Nell’arco di 15 giorni, inoltre, dovrebbero esserci novità anche per la Nogara-Mare, altro project financing, attesa dal via in giunta regionale. Rimane aperta l’ipotesi defiscalizzazione: il costo (2 miliardi) la fa ricadere nell’ambito dell’applicabilità della norma in questione e questo consentirebbe alla Regione di risparmiare i 50 milioni di contributo pubblico previsti.

Pare ovvio, che non bastino i cartelli per un'idea diversa di flussi urbani, ma si debba lavorare sulle forme. Basterà? La Repubblica Milano, 7 novembre 2013, postilla (f.b.)

Una nuova isola ambientale per “proteggere” via Sarpi pedonalizzata e per ridurre la congestione dell’intera zona. Parte dal Consiglio di zona 1 la proposta bipartisan di trasformare le vie della Chinatown milanese in una nuova zona che privilegia il traffico pedonale e riduce la velocità delle auto. Proposta che il Comune si prepara a recepire perché, come conferma l’assessore all’Ambiente Pierfrancesco Maran, «l’ambito di via Sarpi ha tutte le caratteristiche per diventare una zona 30», intesa come velocità massima consentita. Un progetto, quindi, che sarebbe l’ideale prosecuzione dell’isola ambientale approvata dalla giunta a luglio tra corso Como e Porta Garibaldi e su cui lavorano da tempo le associazioni e i comitati di zona Sarpi per migliorare la qualità della vita nel quartiere. Potrà prendere il via dopo che si sarà risolta la controversia sull’uso delle telecamere nella Ztl di via Sarpi (a maggio il Tar aveva dato ragione ai commercianti cinesi che ne contestavano l’utilizzo, così il Comune ha sospeso la delibera).

Quello che chiedono, i residenti delle vie comprese tra Melzi d’Eril, Elvezia, Montello e Sarpi, sono «una serie di provvedimenti mirati, per migliorare la circolazione, la qualità dell’aria, la mobilità ciclistica e pedonale », spiega l’ordine del giorno votato dal Consiglio di zona. Il cui presidente, Fabio Arrigoni del Pd, spiega: «Il quartiere è fatto di molte strade strette che attraversano via Sarpi dove le auto sfrecciano mettendo a rischio l’incolumità della gente: servono per lo meno dissuasori, come cordoli o restringimenti della carreggiata, e cartelli per ridurre la possibilità di correre». Il problema riguarda soprattutto via Giusti: qui c’è una scuola media dove spesso genitori e insegnanti lamentano la scarsa sicurezza degli attraversamenti, ed è proprio sul tratto di strada davanti alla scuola che il Consiglio di zona chiede un maggior intervento. A corredo, poi, l’ultima richiesta: far esaminare dall’Amat, l’Agenzia per la mobilità del Comune, i flussi di traffico pubblico e privato nella zona, per capire se e come si potrebbe deviare da alcune strade, troppo piccole o troppo congestionate, su altre.

Il piano per l’estensione delle isole ambientali milanesi, assicura Maran, arriverà presto anche a coprire quell’area (che ricade anche in parte nel Consiglio di zona 8): qui, del resto, ci sarà la fermata della linea 5 della metropolitana nel piazzale del cimitero Monumentale «quindi si potrebbero creare già prima dell’apertura della fermata condizioni che favoriscano il traffico pedonale in tutta la zona». Non sarà l’estensione di Area C a via Sarpi — proposta che i comitati di zona avevano anche immaginato nei mesi scorsi — ma sarebbe comunque un inizio. Per la giunta, poi, conferma Maran, sarebbe la naturale prosecuzione delle decisioni che hanno portato in due anni Milano a scendere di dieci posizioni (dal 14esimo al 24esimo posto) nella classifica fatta da “Tom Tom traffic index” sulle città maggiormente congestionate dal traffico.

postillaSu questo sito abbiamo già sottolineato più volte, come la gestione della mobilità sicura e tendenzialmente sostenibile (per quanto vale ancora la banalizzata definizione) debba necessariamente passare per una considerazione complessiva del contesto urbano in cui si sviluppa, e l'idea di procedere per passi successivi non alla chiusura-pedonalizzazione, ma a un riequilibrio delle modalità, pare davvero cosa diversa dalla pura imposizione di regole, cartelli, sanzioni. A maggior ragione come, nel caso specifico della zone detta Chinatown a Milano, si colloca su un asse di sviluppo particolarissimo, vero e proprio urban mall a connettere zone storiche e quartieri nuovi, tessuti tradizionali e (anche discutibili) sperimentazioni moderniste. Resta da vedere sino a che punto risulti davvero efficace agire esclusivamente a scala urbana, dato che specie in zone così mixed use i flussi interessati sono per loro natura di raggio assai più vasto. Ovvero, se non si rischi di chiamare con un nome diverso e più accattivante l'ennesima pedonalizzazione, buona sicuramente a migliorare la qualità della vita locale, ma scaricandone i costi all'esterno (f.b.)

Un intervento repressivo, l'ennesimo, contro i rischi e i disagi indotti dalla mobilità urbana auto-centrica, non pare riflettere davvero la natura del problema. La Repubblica, 3 novembre 2013, postilla (f.b.)

LIMITE a 30 km orari per le auto in città: la rivoluzione prende corpo. L’Anci, l’associazione dei Comuni italiani, ha lanciato la sua proposta di modifica del codice della strada e subito il governo ha risposto. Lo ha fatto accorciando i tempi di un progetto che martedì prossimo inizia l’iter legislativo, per «tutelare e garantire la sicurezza nelle aree urbane», come conferma il sottosegretario alle Infrastrutture e ai trasporti Erasmo D’Angelis. La misura più importante lanciata dai Comuni e recepita dal governo? La possibilità, appunto, «di moderare la velocità massima nei centri abitati a 30 km/h in tutte quelle aree con caratteristiche infrastrutturali che lo consentono, con eccezione delle principali arterie di scorrimento».

Il tema è dibattuto: anche se l’idea di abbassare il limite piace, perché difende gli anelli più deboli della mobilità, ossia utenti delle due ruote e pedoni, restano tanti dubbi: l’Anci è composta da sindaci e assessori che nei loro Comuni non hanno (quasi) mai realizzato nulla del genere. E poi è sotto gli occhi di tutti come in pochissime città si riesca a far rispettare il limite dei 50 all’ora, figuriamoci quello dei 30. Senza contare l’esempio romano, che brucia ancora: nella nuova viabilità intorno al Colosseo è stato da poco introdotto proprio il limite dei 30 km/h, sorvegliato dauna fitta rete di autovelox. Com’è finita? Nessuno sapeva di questi nuovi limiti, segnalati male, con il risultato che è stato multato praticamente chiunque passasse di lì: il limite c’è ancora, ma gli autovelox sono spenti.

In realtà, anche se il passaggio da 50 a 30 porterà non poche polemiche, il progetto dell’Anci è molto più articolato, e non consiste nella semplice imposizione di un limite. Si parla infatti di «una drastica rivoluzione dei principi delle regole della strada ». La proposta prevede, per esempio, che il lato destro delle strade sia libero da parcheggi e dedicato alle piste ciclabili. Si chiedono poi nuovi semafori con la precedenza di ripartenza dei ciclisti e la fine per le due ruote dell’obbligo di utilizzare le corsie a loro dedicate. I sindaci vorrebbero anche impedire ai regolamenti condominiali di vietare il parcheggio negli androni dei palazzi. La rivoluzione dei 30 all’ora, spiega il sottosegretario De Angelis, sarà «il punto di partenza per un’idea nuova di città e di mobilità che risolva la malattia italiana di ritardi accumulati da almeno 15 anni di sostanziale immobilismo con norme tecniche ormai da rottamare ». Siamo il Paese più indisciplinato d’Europa, con 78,5 milioni di multe l’anno, 215.000 al giorno. Per il governo, però, non si tratterà di un attacco frontale alle quattro ruote: «Non è guerra all’auto, ma al suo abuso. Del resto, le nostre città non sono più autocentriche. Ormai c’è una forte domanda di mezzi pubblici, di aree pedonali. E, finalmente, un intelligente investimento sulla bicicletta vista come fattore di modernità». I dati lo confermano: siamo passati dal 2,9% di ciclisti urbani del 2001 al 9% di oggi, con 5 milioni di persone che pedalano per spostarsi da casa al lavoro. E non è un caso d’altra parte che il nostro Paese — a livello europeo — sia secondo solo alla Grecia per numero e gravità di sinistri che coinvolgono le due ruote e i pedoni. È ora di fare qualcosa.

postilla

Difficile non concordare sulle premesse e gli obiettivi di quanto descritto, ma resta una certa perplessità sullo strumento e le specifiche strategie che delinea: PRIMA un nuovo divieto, un cartello, la minaccia di sanzioni, e POI si vedrà. Come sottolinea anche l'articolo, i cartelli (nel nostro paese, poi, dove anche i limiti di velocità paiono decisi con criteri del tutto surreali, e le sanzioni applicate in modo altrettanto discrezionale) quando non corrispondono a comportamenti indotti in altro modo restano solo una pia intenzione. Ovvero, ci sfugge qualcosa, o forse, più probabilmente, siamo di fronte all'ennesima iniziativa estemporanea di qualche esponente politico che cerca visibilità, magari consenso da parte di alcuni settori sociali, ma che susciterà subito le ire di chi, magari con qualche motivo, si sente inutilmente penalizzato. Come sosteniamo da sempre su queste pagine, le città sono un'insalata mista di spazi e comportamenti, e per raggiungere un pur vago equilibrio non basta intervenire solo su un aspetto, e neppure tre o quattro. Occorre pensare in modo complesso, e con tutto il rispetto un paio di cartelli, qualche straordinario dei vigili, e una mano di vernice a tracciare piste ciclabili, non paiono proprio riflettere la complessità urbana (f.b.)

Un rapporto Eurispes presentato a CityTech fotografa la dipendenza del nostro sistema territoriale e sociale dal trasporto individuabile (il dominio del dio Automobile), Le ricette sono individuate da decenni, ma non sono praticate vere strategie alternative. Dal sito Omniauto, 28 ottobre 2013

L'Italia è alle prese con lo Urban Sprawl ovvero con la rapida e disordinata crescita delle città. Negli anni la popolazione è aumentata e si è spostata dai centri abitati nelle province alle periferie e ai territori ex agricoli. "Questa nuova distribuzione ha aumentato la domanda di trasporto e reso inadeguata l'offerta tradizionale", spiega il Direttore del Comitato Libro Bianco, Luca Masciola. Il Libro Bianco sulla Mobilità ed i Trasporti in Italia dell'Eurispes ogni anno fotografa la mobilità ed il trasporto in Italia e verrà presentato in primavera per offrere un dettagliato quadro su temi sociali, infrastrutturali, commerciali e tecnologici legati ai trasporti. Una breve anteprima è stata appena data a Milano in occasione di Citytech dal Direttore dell’Osservatorio dell'Eurispes, Carlo Tosti.

PROBLEMI SOMMATI A PROBLEMI
Nel corso del suo intervento a Citytech, alla presenza del Ministro ai Trasporti, Maurizio Lupi, del Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, del Presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà, Tosti ha approfondito i macrotemi affrontati nel Libro Bianco: l'urbanizzazione e l'accesso ai servizi di trasporto; le infrastrutture critiche, i parcheggi di scambio, le linee tranviarie, le infrastrutture tecnologiche, l’infomobilità e bigliettazione integrata, l'intermodalità, il trasporto turistico, il trasporto merci, il ruolo e l'efficacia delle normative.

"Inquinamento atmosferico e acustico, congestione, occupazione del territorio, inefficiente utilizzo del fattore tempo - ha detto il Direttore dell’Osservatorio Eurispes sulla Mobilità e Trasporti - costituiscono indicatori cui sia le persone che le imprese pongono rilevante e crescente attenzione. Queste problematiche vengono avvertite con più forza nell’ambito urbano, dove c’è ovviamente maggiore concentrazione di popolazione, produzione e distribuzione delle merci. E proprio l’utilizzo esclusivo del trasporto stradale per quanto riguarda le merci crea le maggiori problematiche, non solo dal punto di vista ambientale. L’Italia poi assomma a questa predilezione stradale in ambito urbano una vocazione per la gomma anche nel trasporto merci in medie e lunghe percorrenze. Questo significa che a problemi si sommano problemi". Il Direttore ha quindi ricordato come le Amministrazioni pubbliche locali stiano intervenendo per regolare il trasporto merci in città.

SEMPRE PIU' ABITANTI, TRAFFICO E CITTA'
Oltre a Tosti è intervenuto nel corso della sessione istituzionale, anche il Direttore del Comitato Libro Bianco, Luca Masciola. "Nel decennio tra i due ultimi censimenti in Italia abbiamo registrato una crescita del 9% dei territori abitati (con punte del 19% in Basilicata, del 17% in Molise del 13% in Piemonte e Marche). Il fenomeno è ancor più evidente nelle dieci aree metropolitane nazionali che da sole rappresentano il 30% della popolazione e l'11% del territorio. È in queste aree che lo urban sprawl esprime tutti i caratteri di criticità", ha detto citando due indicatori per tutti: le 600 auto private per mille abitanti (con punte superiori alle settecento su Roma e Firenze), l’altissima percentuale di trasporto merci conto proprio per tragitti inferiore ai 50 km (anche per questo possiamo dire che la merce più trasportata nelle grandi città sia l’aria, ovvero il mancato carico dei mezzi i movimento). Gli effetti sono traffico, congestione, elevati costi diretti, elevatissimi costi indiretti (inquinamento, deturpamento del territorio, incidentalità, ecc.).

"Le ricette sono condivise da larga parte degli analisti del fenomeno: integrazione modale, infrastrutturazione fisica e tecnologica, individuazione di un nuovo e più sostenibile rapporto tra mobilità privata collettiva e dolce - ha detto -. Ma le ricette devono essere adeguate al malato e ciò è possibile solo al termine di un’analisi attenta delle variabili demografiche economiche e di urbanizzazioni delle diverse aree metropolitane".

La città contemporanea e i cittadini che la pensano e la vivono sono succubi della logica automobilistica, : fermiamoci a riflettere su alcuni portati della cultura razionalista novecentesca, e ad alcuni sviluppi perversi della separazione fra ambiti e funzioni diverse. Postilla di e.s.

C'è gente che proprio non vuole capire certe regole del vivere civile: quando è rosso ti fermi, quando c'è il verde passi, ci vuole tanto a ficcarselo in testa? Questo in buona sostanza il tono dominante delle reazioni, ancora assai vive, all'incidente stradale di Milano che ha coinvolto una mamma e due bambini, falciati in centro alla carreggiata in una maledetta sera di pioggia. Lasciamo qui perdere, deliberatamente, tutti i commenti della pancia sociale scatenati sui social network, che si riassumono eufemisticamente in: la poveraccia era un'immigrata da poco, non aveva evidentemente chiari alcuni comportamenti che a noi cittadini metropolitani vengono spontanei.

Chi mai si metterebbe ad attraversare la strada in quel modo, quando c'è un comodo sottopassaggio? Pare più o meno il pensiero di tutti quelli che pensano qualcosa a riguardo. Colpisce però che anche i sedicenti esperti e operatori di settore, intervistati dalla stampa, non si discostino gran che da una posizione del genere, nel senso di girare in tondo attorno a cose quali i limiti di velocità, i semafori, le strisce pedonali, i sottopassaggi ecc. Perché, magari si chiederà qualcuno adesso, cosa c'è ancora? Cosa manca dall'equazione? Facile: nell'incidente sono stati coinvolti direttamente quattro cittadini, e nell'equazione manca lei, la città. Ne ho ritagliato un pezzettino da Google Earth, che provo a descrivere di seguito.
Il punto dell'incidente è evidenziato in verde brillante sull'asse di via Famagosta, in corrispondenza al punto in cui termina fisicamente il sistema dello svincolo, ovvero risale a livello la rampa di uscita dal sottopassaggio. La fermata dell'autobus si trova sul lato opposto rispetto al sistema della fermata della metropolitana e autosilo, per chi è diretto in direzione verso la sinistra dell'immagine. Il concetto di quartiere "razionalista" qui non riguarda tanto le forme architettoniche

Quello che si vede nella prospettiva dall'alto che ho provato a inquadrare, è il quartiere che fabbrica massacri così, perché pare costruito apposta per fabbricarli. Ho aggiustato un po' l'inquadratura per mettere in risalto certi elementi: lo svincolo su tre livelli, la bretella autostradale che lo alimenta (l'asse sud-nord che qui vedete in orizzontale), la circonvallazione esterna di Milano nel tratto iniziale in senso orario fra Naviglio Pavese e Naviglio Grande, che dallo svincolo puntando in alto verso sinistra è denominata via Famagosta. Toponimi a parte, come credo capiscano in molti, potemmo essere in una città qualsiasi, perché in qualsiasi città sull'arco dell'ultimi secolo urbanisti e amministratori hanno perseguito in varia misura e forme specifiche quel modello di sviluppo.

In buona sostanza, si tratta dell'ideale razionalista tradotto in realtà: a ogni spazio una funzione, una rete di circolazione gerarchizzata, e gli interfaccia gestiti con strumenti tecnici, di cui i più comuni sono sovrappassi, sottopassi, incroci a livello semaforizzati. Una macchina perfetta, che magari funzionerebbe benissimo se contenesse altre macchine perfette. Purtroppo contiene noialtri, imperfetto coacervo composto sia di impeccabili ragionieri comportamentali consapevoli delle regole, che povere mamme immigrate ignare di questa attitudine razionale-blasé.
E se invece avessero ragione proprio i cosiddetti ignari delle regole? Se fossero loro, forma estrema di imperfezione meccanica, bambini, immigrati recenti, popolazioni marginali in genere, a fare da cartina di tornasole degli errori macroscopici in cui ci siamo cacciati fino all'inverosimile, al punto di non vederli più? E anzi, a considerare errori noi stessi, quando invece non esprimiamo altro che un anelito a vivere la città in modo coerente? Riguardiamo l'immagine: non si intravede una città inutilmente squartata da un paio di rigacce che paiono cascate lì dalla squadra di un disegnatore sadico?
Via Famagosta, con le sue sei corsie, e i tre soli punti di attraversamento, è stata artificiosamente allargata sulla spinta teorica dello svincolo, il quale a sua volta esiste perché smista il traffico sparato lì direttamente dall'anello autostradale. C'è un altro grosso settore urbano, quello sulla sinistra dello svincolo, inghiottito dal vistoso parcheggio di corrispondenza multi-livello, e relative corsie di avvicinamento. In buona sostanza a ridosso del centro città, con la solita scusa di “facilitare la circolazione” si è lasciato incistare un automobilistan rigido ed escludente, che non solo sottrae superfici enormi all'abitabilità, ma tende ad allargare all'infinito la propria sfera di influenza. Del resto su scala minore lo sanno benissimo tutti coloro che hanno avuto a che fare con gli autosilos in centro: lungi dall'eliminare il problema sosta, producono nuova congestione che chiede nuovi spazi … ad libitum.

Dal punto di vista concettuale, è la segregazione funzionale che ha raggiunto vette sublimi, trasformandosi in una sorta di cessione di sovranità, di servitù militare dell'automobile (di solito giustificata dalla nostra sicurezza). Accade da molti decenni, e come ho già scritto parecchie volte anche le formalizzazioni della neighborhood unit contemporanea (che nella zona di via Famagosta vede ad esempio una sua impeccabile applicazione coerente nel quartiere San'Ambrogio, che si intravede a sinistra nell'immagine) accettano la grande arteria come margine di definizione del proprio territorio di competenza.
Ma questa apparente applicazione in positivo delle formazioni spaziali (margini, nodi, quartieri, percorsi) definite da Kevin Lynch, nasconde ancora una cessione di sovranità: tutto equilibrato dentro al quartiere, ma poi ogni cosa si arresta ai sacri confini, gli ormai classici terrapieni a verde che immettono nel sovrappasso o svincolo o che altro. Insomma, mai come oggi salta all'occhio quanto l'aggettivo organico, sparso a piene mani per decenni dalla critica a connotare l'approccio ad architetture ed altri spazi urbani, altro non sia che non una sovrastruttura ideologica a una concezione tradizionalmente meccanica della città.

E tutto, concettualmente, inizia proprio con quella benintenzionata idea di separare e specializzare gli spazi. Forse non è un caso che il primissimo modello di baraccone insediativo in stile automobilistan si debba a un avvocato, e non a un ingegnere o architetto. Ma di avvocato sperimentatamente abilissimo a difendere l'idea di proprietà privata e la concezione meccanica di città che questa si porta dietro: Edward Murray Bassett, estensore della prima famosa ordinanza di zoning esclusionista adottata da New York nel 1916, nonché ideatore di un meno noto ma altrettanto significativo freeway business center, negli anni '30 delle prime arterie veloci urbane a molte corsie. Gli storici dell'architettura collocano questo aggeggio fra gli antenati del centro commerciale contemporaneo, per la sua capacità di proporre negozi servizi e parcheggi in forma integrata, facendo in sostanza evolvere l'ambiente della pompa di benzina.
Io, da italiano, ci vedo anche l'antenato del nostro cosiddetto Autogrill a ponte, quella caratteristica struttura a cavallo dell'autostrada che unisce un nulla a un altro nulla. Ecco, l'impressione è che proseguendo concettualmente sulla strada della “gestione del traffico” e della cessione di sovranità da parte dell'urbanistica, finiremo per rinunciare in modo definitivo alla città, trasformandola in una specie di grande Autogrill, a carico del contribuente. Altro che povera immigrata che non conosce le regole del vivere moderno.

postilla

Osservazioni giuste. Il fatto è che la città che conosciamo non è quella dei modelli proposti dagli urbanisti, ma quella costruita da tre attori fondamentali: la cattiva amministrazione, gli architetti vanitosi e la rendita fondiaria. Basterebbe confrontare tra loro alcune immagini per comprendere che la colpa non è degli urbanisti che hanno introdotto la razionalità e il funzionalismo nei modelli di città proposti a chi doveva costruirla, ma di quei tre attori. Suggerisco alcuni confronti illuminanti. La Barcellona disegnata da Ildefonso Cerda (i grandi isolati di 100 metri per lato, edificati solo sui lati e sistemati a verde all'interno) e quella di oggi (i quadrati quasi interamente riempiti da edifici). Oppure i disegni in cui Le Corbusier illustra la sua Ville Radieuse (pochi grandi edifici disseminati un un'ampia regione urbana dominata dal verde) e la rappresentazione del pezzo di Milano illustrata da Bottini. E basterebbe visitare, forse ancora oggi, i grandi quartieri di edilizia popolare progettati da Bruno Taut e realizzati dalle amministrazioni socialdemocratiche delle città tedesche prima del Nazismo, per rendersi conto che, accanto alla visione di città e al suo progetto, occorre anche una buona struttura tecnica, una buona politica e architetti che ricordino che prima dell'oggetto che loro disegneranno viene la città. Dimenticare il legame tra razionalità del disegno, subordinazione della proprietà immobiliare agli interessi comuni, e qualità dell'amministrazione pubblica, conduce alla città devastata che provoca il disagio dei suoi abitanti, soprattutto dei gruppi più deboli. Sembra che anche molti urbanisti lo abbiano dimenticato, a partire dall'Inu; la politica, e gran parte dell'intellettualità, sembra che non l'abbiano nemmeno mai saputo (e.s.)

Pareva superata, la faccenda delle vittime collettivamente accettate da pagare ahimè al progresso, invece con le reazioni all'incidente di via Famagosta a Milano ci siamo ancora dentro fino al collo, grazie all'invasione concettuale del modello di autostrada urbana, contro lo spazio condiviso

Questo è il genere di intervento che non vorrei scrivere, anzi che non voglio scrivere e infatti mi sono inventato una variante ad hoc, su cui tornerò poi. Non voglio parlare (solo) del motivo per cui accadono gli incidenti stradali, e che continua a sfuggire più o meno al 100% dei commentatori sulla stampa: la durissima carrozzeria di un'auto che in media a 70-90 all'ora pesta sul morbido corpo, più o meno fermo, di un pedone, con risultati tragici e noti a tutti. Dato che questi risultati tragici sono noti a tutti, anche nel recentissimo caso della mamma con due bambini falciata da un coetaneo in uno stradone periferico di Milano, via Famagosta, pare che i commenti evitino di andare al sodo, divagando sulla biografia dei personaggi principali anziché sui presupposti immediati del loro inopinato incontro: uno che arriva a settanta all'ora foderato di lamiera, gli altri nudi e inermi, immobili sulla sua traiettoria. Perché si trovavano in queste condizioni?

Per lo stesso motivo che, di passaggio, notano inconsapevolmente sui giornali anche alcuni commentatori: c'è un'autostrada in città, e le due cose non ci azzeccano l'una con l'altra. Per chiarire meglio il concetto, vorrei usare un'immagine coniata da un gruppo di opposizione locale conservazionista a uno dei tanti sventramenti a cavallo fra XIX e XX secolo, del tipo di solito giustificato da motivazioni igieniche e di efficienza: “il nuovo viale della Stazione è come una freccia puntata al cuore della città”. Naturalmente quegli antichi cultori dell'arte con “cuore della città” intendevano il patrimonio monumentale del centro storico, ma basta riflettere solo qualche istante, col senno di poi, per capire che l'arma di questi tecnocratici ispettori Callahan puntata verso la città minaccia proprio la sua essenza di città. Sventra qui, sventra là, il ventre non c'è più, al suo posto una meravigliosa (almeno per certi elettrotecnici dell'urbanistica) distesa di parcheggi, collegati da stradoni multicorsia, su cui incombono palazzoni a pareti cieche almeno fino al terzo piano. Per andare dall'uno all'altro, nei casi migliori, qualche passerella sospesa, del tipo che già si intravedeva negli schizzi leonardeschi, la faceva da padrone in Metropolis di Fritz Lang (1927), ma ancora certi idioti ci presentano oggi chissà perché come “futuristica”.

Queste immagini di città ad ambienti ermeticamente segregati, le abbiamo mille volte intraviste negli schizzi razionalisti novecenteschi, quando l'idea schematica che a ogni specifica funzione dovesse corrispondere uno specifico spazio andava per la maggiore. Il coronamento del concetto però si deve allo scenografo Norman Bel Geddes, autore del padiglione Futurama alla fiera mondiale di New York 1939 finanziato dalla General Motors, nonché vera e propria eminenza grigia della trasformazione progressiva dell'autostrada da infrastruttura relativamente eccezionale a dogma indiscutibile della vita contemporanea, anche nella sua versione più assurda in ambiente urbano, appunto a trasformare gli ex quartieri in una sorta di castello assediato da forze amiche. E forse è anche il caso di ricordare come l'unità di vicinato, nell'elaborazione originaria congiunta del sociologo Clarence Perry e degli urbanisti di matrice prevalentemente razionalista, aderisca in pieno a questa matrice: il quartiere, con tutte le sue qualità quantità e caratteri, è sempre definito dal margine di una autostrada urbana o assimilata. Non a caso agli schemi viari a cul-de-sac si sommano sempre i percorsi pedonali e ciclabili convergenti verso gli attraversamenti in quota di quel margine stradale, unico sbocco delle Little Big Horn residenziali in cui l'ubiqua cultura modernista-automobilistica vorrebbe ritagliare la città.

Naturalmente le cose non sono andate così lisce per quel modello di sviluppo meccanico e astruso. La maggior parte delle città, specie quelle con una notevole sedimentazione storica, provano se non altro a reagire a quell'arma puntata al proprio cuore identitario, fatto di impasti complessi di spazi e persone, non certo di ingranaggi alimentati a benzina. Ma la spinta a quel genere di trasformazioni è gigantesca, e l'autostrada (o qualcosa che le assomiglia parecchio) diventa sempre più invadente. Nel caso specifico di cui parlano a sproposito le cronache di questi giorni, il perverso sistema si compone di una bretella ad accesso riservato che collega le Tangenziali a una circonvallazione più interna, di uno svincolo piuttosto complesso su vari livelli, della via Famagosta propriamente detta che taglia due quartieri con le sue rigide corsie scandite da cordoli New Jersey, interrotte solo in corrispondenza dei semafori. In buona sostanza, il viale (termine corrente quanto mai improprio per queste arterie) organizzato per corsie centrali veloci e controviali laterali di servizio è il classico pessimo ibrido fra un'autostrada urbana vera e propria, e una via con case, negozi, affacci, insomma la vita, no?

Sempre secondo l'automatica vulgata novecentesca tradotta in regole e codici, l'ambiente automobilistico dedicato autostradale qui dovrebbe essere addomesticato e metabolizzato da alcuni espedienti tecnici: il limite di velocità (i perentori surreali cartelli 50, su un'arteria che arriva sparata da uno svincolo!), i citati controviali e i semafori con strisce di attraversamento, un sottopassaggio pedonale in corrispondenza della fermata della metropolitana. Funziona? Nemmeno per sogno, come hanno scoperto bontà loro i commentatori facendosi un giro da quelle parti, e come sanno benissimo i frequentatori abituali che in buona sostanza ignorano le regole ufficiali. La città, qualunque città, non funziona come il circuito elettrico con cui ci riassumono le fermate della sotterranea, strisce colorate separate da cui si entra ed esce solo in corrispondenza dei pallini scuri. Un noto urbanista internazionale l'ha pure inconsapevolmente usato poco tempo fa, lo slogan Ville Poreuse, a definire questa organicità metropolitana, del resto già stigmatizzata un secolo fa da Patrick Geddes, e per nulla riconducibile alle scatole incomunicanti del modello modernista.

Quello che non funziona, dettagli a parte, è escludere artificiosamente, concettualmente, e poi ragionare e comportarsi come se questa esclusione fosse effettiva. Nei territori extraurbani qualche volta, e con risultati altrettanto tragici, il mondo reale fa il suo ingresso coi famigerati sassi dal cavalcavia. Negli spazi metropolitani densi, invece dei sassi arrivano persone in carne ed ossa, ma il risultato è analogo. Città è condivisione, shared space, spiegatelo al vostro assessore che magari ai convegni parla di mobilità sostenibile, e poi davanti a casi come quello della signora incinta falciata insieme al figlio che teneva per mano, non sa fare altro che togliersi il cappello al funerale, e poi mettere un altro semaforo, o cartello lampeggiante. La forma urbana, assessore, è quella la leva su cui intervenire, al resto ci pensiamo noi coi nostri comportamenti, dettati da un'intelligenza media del tutto paragonabile a quella sua e degli altri amministratori.

Purtroppo il problema non finisce qui, cioè non finisce al limite delle competenze del nostro magari ricettivo assessore alla mobilità sostenibile. Perché nei territori dell'area metropolitana (di tutte le future città metropolitane potenzialmente dotate di assessore alla mobilità metropolitana sostenibile) si nota non da oggi una perniciosa tendenza a fissare un modello stradale esattamente identico a quello descritto sinora, forse anche peggio. Infiniti rettifili chiusi da guard rail zincato doppio, canna di fucile claustrofobica che spara veicoli da un mini-svincolo in area semirurale all'altro. Invece di semafori e strisce pedonali, molto più radi interventi tecnici di attraversamento sopra o sotto le multi-corsie. Come ammettono gli interessati (nel senso di stakeholders vari) la logica di queste arterie stradali metropolitane è perfettamente autostradale, ivi compresa la possibilità non troppo teorica di imporre un pedaggio per l'uso dell'infrastruttura. E, qui concludo, la possibilità di infiniti, desolati e surreali commenti sui giornali, a proposito del tragico destino di quel ragazzo che chissà come per andare a trovare la fidanzata che abita a cento metri in linea d'aria, non trovava logico passare dal comodo sottopasso a cinque chilometri di distanza. Prepariamoci, o magari proviamo a pensare e prevenire: città, coraggio, non farti ammazzare così!

Qui la seconda parte di Futurama, quella dedicata alla città del futuro: vera e propria profezia che si vuole autoavverare, al netto dei morti sulle strade e della qualità abitativa sotto zero

Era quasi prevedibile, anche se naturalmente per nulla auspicabile: la mobilità dolce rivendica centralità urbana? Arrivano archimedi conformisti e elettrotecnici vari a tentare di levargliela subito, perché mai e poi mai si deve mettere in dubbio il dogma di una città organizzata attorno all'automobile. La Repubblica 20 ottobre 2013, postilla (f.b.)

Era il 1982. Cinque ragazzini scapparono dalla polizia volando sulle loro biciclette: riportavano a casa un extraterrestre con la fissa del telefono. Ma era solo un film. Poi sono arrivate le green cities,i dibattiti sulla mobilità sostenibile e soprattutto milioni di novelli ciclisti metropolitani. E così, architetti, designer e ingegneri si sono messi al lavoro: tutti a progettare città in cui saranno proprio i ciclisti a farla da padroni. Il film è diventato realtà, e trent’anni dopo ETlebici volanti esistono davvero. O quasi. Il prototipo è nato nella Repubblica Ceca. Si chiama Design Your Dreams Flying Bike. Si tratta di una bici elettrica a cui hanno lavorato tre aziende e a godersi il primo volo è stato un manichino pilotato da remoto.

«L’ispirazione ci è venuta dalla letteratura» spiega Ales Kobylik, ad di Technodat, «siamo cresciuti con i romanzi di Jules Verne e con le macchine volanti che compaiono nelle sue avventure». Tuttavia, nonostante sia in fase di studio un prototipo che possa essere pilotato da un essere umano,gli scenari allaET restano ancora lontani dalla vita di tutti i giorni. «Non abbiamo nessuno scopo commerciale per la Flying bike — continua Kobylik — per ora l’abbiamo presa come una sfida». In attesa che qualcuno la raccolga, per i ciclisti del 2050 le alternative non mancano: forse non potranno decollare, ma ci andranno vicino. Un esperimento arriva dalla Nuova Zelanda. Si chiama Shweeb, è un circuito sopraelevato lungo il quale scorrono delle cabine e a muoverle sono gli stessi passeggeri che pedalano all’interno. L’idea è di Geoff Barnett, ciclista australiano: nel 2007 il suo progetto è diventato un prototipo vero e proprio, composto da due monorotaie costruite a sei metri d’altezza, lungo le quali si muovono delle capsule. Ognuna di queste prevede un passeggero, che pedala in posizione reclinata per ridurre l’attrito con l’aria. I vantaggi sono molteplici: si riduce il rischio di incidenti, non si occupano porzioni di terreno, non si emette Co2. Costruito all’interno di un parco divertimenti a Rotorua (Nuova Zelanda), il prototipo di Barnett non è uno scherzo.

E infatti nel 2010 ha attirato l’attenzione di Google che ha promosso un investimento da un milione di dollari. L’obiettivo è studiare le possibili applicazioni in un contesto urbano vero e proprio, facendolo diventare un mezzo di trasporto a tutti gli effetti. «Abbiamo sviluppato una partnership con un’azienda canadese e una olandese — spiega Peter Cossey, ceo della Shweeb Monorail Technology — probabilmente ci vorranno ancora un paio d’anni prima di riuscire ad avere un prototipo del mezzo di trasporto vero e proprio». Ma intanto a Sofia un architetto ha avuto un’idea simile: meno futuristica, certo più funambolica. Si chiama Martin Angelov, e il suo progetto Kolelinia. Bisogna immaginarselo come una sorta di minuscolo canale sospeso a mezz’aria, sostenuto da una serie di piloni. Parallelo a questo, scorre un po’ più in alto un cavo: l’ardito ciclista dovrà fissare il manubrio al cavo e lanciarsi con la sua bici lungo il canale. C’è chi l’ha già fatto. Lo stesso Angelov non nasconde un certo ottimismo: «Al momento stiamo sviluppando Kolelinia come un’attrazione perturisti. Io e i miei collaboratori stiamo effettuando una serie di test all’interno di parchi naturali, utilizzando gli alberi come piloni. Se la cosa avrà successo, pianificheremo lo step successivo, la sperimentazione in ambito urbano».

Che siano cabine, o cavi sospesi nel vuoto, lo scopo di questi progetti resta uno solo: potersi muovere nelle grandi metropoli (e non) nella maniera più rapida ed efficace possibile. Sganciarsi dalle code, dai parcheggi che non si trovano e dal blocco delle auto quando i livelli di Co2 raggiungono il limite del tollerabile. Lo sforzo allora è concepire centri urbani in cui i mezzi alternativi siano veramente tali, e ci permettano di arrivare ovunque.

Al lavoro, al centro commerciale, allo stadio: ma parcheggiando sulle tribune, mica fuori. Quentin Perchet e GabrielScerri sono due architetti francesi, ideatori di Bike the Floating Stadium. Sta già tutto nel nome: si tratta di uno stadio galleggiante, al quale si accede in bici mediante una serie di rampe. «Un aspetto interessante della bicicletta — spiegano — è che ti permette di arrivare molto vicino alla tua destinazione, perché è facile da parcheggiare. Uno stadio è una struttura che richiede molto spazio da riservare ai parcheggi e che prevede accessi multipli, così da smaltire l’afflusso di tante persone contemporaneamente. Da qui, l’idea della bici».

E se il bello delle due ruote è che si parcheggiano ovunque, uno studio di New York ha pensato di sfruttare le facciate degli edifici. L’idea è di Jeeyong An, che alla Seoul Cycle Design Competition ha presentato il progetto Bike Hanger. Al solito, serve uno sforzo di immaginazione: un gigantesco ingranaggio messo in movimento da una bici (ma va?) posizionata a terra. Pedalando, si fanno scorrere le biciclette fissate lungo la ruota, finché la propria non torna al livello del terreno, pronta per ripartire. In volo, sospesa lungo una fune, o chissà.

postilla
Tutte le volte che leggo articoli del genere di questo, su biciclette volanti o automobili con annesso ristorante e piscina olimpionica, mi torna in mente quel povero bambino rincoglionito a sua insaputa, appena sceso dall'utilitaria di famiglia al lunare parcheggio del Tronchetto, inopinatamente piazzato in mezzo alla Laguna Veneta: “Papà, ma qui a Venezia la gente parcheggia la barca sotto casa come facciamo noi con la macchina?”. Non so cosa esattamente gli abbia risposto quel padre, ma temo una sostanziale conferma dell'idea del pupo. Del resto la media dei cittadini di solito non ha letto quella scheda dedicata da sir Colin Buchanan alla straordinaria particolarità del centro lagunare nel suo Traffic in Town (1963). Dove in pratica ringraziava la storia e la geografia per aver consentito lo sviluppo di uno spazio urbano in cui la scatoletta a motore novecentesca non era perversamente riuscita a modellare tutto quanto attorno a sé stessa, compreso il cervello dei cittadini. Un cervello ormai cotto al punto da non capire che non esiste proprio, una bicicletta più o meno svolazzante del futuro, ma eventualmente un rapporto futuro auspicabile fra l'evoluzione tecnologica della bicicletta, quella urbanistica e comportamentale, e dulcis in fundo quella piuttosto improbabile (in tempi brevi) dei sederi che alla bici stanno appoggiati sopra. Sederi che però a quanto pare qualcuno continua a usare, inopinatamente, al posto del cervello, per propinarci idee assurde e strampalate sull'ennesima “città del futuro” (f.b.)

Per capirci meglio, ecco qui da Eddyburg Archivio (inserimento a.d. 2005) l'estratto dal Rapporto Buchanan da condividere nel metodo e nel merito, salvo forse nelle conclusioni - ma siamo nel 1963 - che promuovono segregazione modale, vagamente analoga a quella delle bici volanti

© 2024 Eddyburg