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Chiara Panzeri
Quando la pista ciclabile passerà dal cielo
20 Ottobre 2013
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Era quasi prevedibile, anche se naturalmente per nulla auspicabile: la mobilità dolce rivendica centralità urbana? Arrivano archimedi conformisti e elettrotecnici vari a tentare di levargliela subito, perché mai e poi mai si deve mettere in dubbio il dogma di una città organizzata attorno all'automobile.

Era quasi prevedibile, anche se naturalmente per nulla auspicabile: la mobilità dolce rivendica centralità urbana? Arrivano archimedi conformisti e elettrotecnici vari a tentare di levargliela subito, perché mai e poi mai si deve mettere in dubbio il dogma di una città organizzata attorno all'automobile. La Repubblica 20 ottobre 2013, postilla (f.b.)

Era il 1982. Cinque ragazzini scapparono dalla polizia volando sulle loro biciclette: riportavano a casa un extraterrestre con la fissa del telefono. Ma era solo un film. Poi sono arrivate le green cities,i dibattiti sulla mobilità sostenibile e soprattutto milioni di novelli ciclisti metropolitani. E così, architetti, designer e ingegneri si sono messi al lavoro: tutti a progettare città in cui saranno proprio i ciclisti a farla da padroni. Il film è diventato realtà, e trent’anni dopo ETlebici volanti esistono davvero. O quasi. Il prototipo è nato nella Repubblica Ceca. Si chiama Design Your Dreams Flying Bike. Si tratta di una bici elettrica a cui hanno lavorato tre aziende e a godersi il primo volo è stato un manichino pilotato da remoto.

«L’ispirazione ci è venuta dalla letteratura» spiega Ales Kobylik, ad di Technodat, «siamo cresciuti con i romanzi di Jules Verne e con le macchine volanti che compaiono nelle sue avventure». Tuttavia, nonostante sia in fase di studio un prototipo che possa essere pilotato da un essere umano,gli scenari allaET restano ancora lontani dalla vita di tutti i giorni. «Non abbiamo nessuno scopo commerciale per la Flying bike — continua Kobylik — per ora l’abbiamo presa come una sfida». In attesa che qualcuno la raccolga, per i ciclisti del 2050 le alternative non mancano: forse non potranno decollare, ma ci andranno vicino. Un esperimento arriva dalla Nuova Zelanda. Si chiama Shweeb, è un circuito sopraelevato lungo il quale scorrono delle cabine e a muoverle sono gli stessi passeggeri che pedalano all’interno. L’idea è di Geoff Barnett, ciclista australiano: nel 2007 il suo progetto è diventato un prototipo vero e proprio, composto da due monorotaie costruite a sei metri d’altezza, lungo le quali si muovono delle capsule. Ognuna di queste prevede un passeggero, che pedala in posizione reclinata per ridurre l’attrito con l’aria. I vantaggi sono molteplici: si riduce il rischio di incidenti, non si occupano porzioni di terreno, non si emette Co2. Costruito all’interno di un parco divertimenti a Rotorua (Nuova Zelanda), il prototipo di Barnett non è uno scherzo.

E infatti nel 2010 ha attirato l’attenzione di Google che ha promosso un investimento da un milione di dollari. L’obiettivo è studiare le possibili applicazioni in un contesto urbano vero e proprio, facendolo diventare un mezzo di trasporto a tutti gli effetti. «Abbiamo sviluppato una partnership con un’azienda canadese e una olandese — spiega Peter Cossey, ceo della Shweeb Monorail Technology — probabilmente ci vorranno ancora un paio d’anni prima di riuscire ad avere un prototipo del mezzo di trasporto vero e proprio». Ma intanto a Sofia un architetto ha avuto un’idea simile: meno futuristica, certo più funambolica. Si chiama Martin Angelov, e il suo progetto Kolelinia. Bisogna immaginarselo come una sorta di minuscolo canale sospeso a mezz’aria, sostenuto da una serie di piloni. Parallelo a questo, scorre un po’ più in alto un cavo: l’ardito ciclista dovrà fissare il manubrio al cavo e lanciarsi con la sua bici lungo il canale. C’è chi l’ha già fatto. Lo stesso Angelov non nasconde un certo ottimismo: «Al momento stiamo sviluppando Kolelinia come un’attrazione perturisti. Io e i miei collaboratori stiamo effettuando una serie di test all’interno di parchi naturali, utilizzando gli alberi come piloni. Se la cosa avrà successo, pianificheremo lo step successivo, la sperimentazione in ambito urbano».

Che siano cabine, o cavi sospesi nel vuoto, lo scopo di questi progetti resta uno solo: potersi muovere nelle grandi metropoli (e non) nella maniera più rapida ed efficace possibile. Sganciarsi dalle code, dai parcheggi che non si trovano e dal blocco delle auto quando i livelli di Co2 raggiungono il limite del tollerabile. Lo sforzo allora è concepire centri urbani in cui i mezzi alternativi siano veramente tali, e ci permettano di arrivare ovunque.

Al lavoro, al centro commerciale, allo stadio: ma parcheggiando sulle tribune, mica fuori. Quentin Perchet e GabrielScerri sono due architetti francesi, ideatori di Bike the Floating Stadium. Sta già tutto nel nome: si tratta di uno stadio galleggiante, al quale si accede in bici mediante una serie di rampe. «Un aspetto interessante della bicicletta — spiegano — è che ti permette di arrivare molto vicino alla tua destinazione, perché è facile da parcheggiare. Uno stadio è una struttura che richiede molto spazio da riservare ai parcheggi e che prevede accessi multipli, così da smaltire l’afflusso di tante persone contemporaneamente. Da qui, l’idea della bici».

E se il bello delle due ruote è che si parcheggiano ovunque, uno studio di New York ha pensato di sfruttare le facciate degli edifici. L’idea è di Jeeyong An, che alla Seoul Cycle Design Competition ha presentato il progetto Bike Hanger. Al solito, serve uno sforzo di immaginazione: un gigantesco ingranaggio messo in movimento da una bici (ma va?) posizionata a terra. Pedalando, si fanno scorrere le biciclette fissate lungo la ruota, finché la propria non torna al livello del terreno, pronta per ripartire. In volo, sospesa lungo una fune, o chissà.

postilla
Tutte le volte che leggo articoli del genere di questo, su biciclette volanti o automobili con annesso ristorante e piscina olimpionica, mi torna in mente quel povero bambino rincoglionito a sua insaputa, appena sceso dall'utilitaria di famiglia al lunare parcheggio del Tronchetto, inopinatamente piazzato in mezzo alla Laguna Veneta: “Papà, ma qui a Venezia la gente parcheggia la barca sotto casa come facciamo noi con la macchina?”. Non so cosa esattamente gli abbia risposto quel padre, ma temo una sostanziale conferma dell'idea del pupo. Del resto la media dei cittadini di solito non ha letto quella scheda dedicata da sir Colin Buchanan alla straordinaria particolarità del centro lagunare nel suo Traffic in Town (1963). Dove in pratica ringraziava la storia e la geografia per aver consentito lo sviluppo di uno spazio urbano in cui la scatoletta a motore novecentesca non era perversamente riuscita a modellare tutto quanto attorno a sé stessa, compreso il cervello dei cittadini. Un cervello ormai cotto al punto da non capire che non esiste proprio, una bicicletta più o meno svolazzante del futuro, ma eventualmente un rapporto futuro auspicabile fra l'evoluzione tecnologica della bicicletta, quella urbanistica e comportamentale, e dulcis in fundo quella piuttosto improbabile (in tempi brevi) dei sederi che alla bici stanno appoggiati sopra. Sederi che però a quanto pare qualcuno continua a usare, inopinatamente, al posto del cervello, per propinarci idee assurde e strampalate sull'ennesima “città del futuro” (f.b.)

Per capirci meglio, ecco qui da Eddyburg Archivio (inserimento a.d. 2005) l'estratto dal Rapporto Buchanan da condividere nel metodo e nel merito, salvo forse nelle conclusioni - ma siamo nel 1963 - che promuovono segregazione modale, vagamente analoga a quella delle bici volanti

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