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Marco Missiroli
Andare a zonzo senza una meta. L’abitudine (perduta) dei geni
3 Maggio 2014
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Flâner, dicono i francesi. Anche se la tesi dell'Autore è che in fondo noialtri si ragiona coi piedi, interpretandolo in modo solo un pochino più esteso si arriva a un principio ovvio di urbanistica, che forse non val la pena ricordare.

Flâner, dicono i francesi. Anche se la tesi dell'Autore è che in fondo noialtri si ragiona coi piedi, interpretandolo in modo solo un pochino più esteso si arriva a un principio ovvio di urbanistica, che forse non val la pena ricordare. Corriere della Sera, 3 maggio 2014, postilla (f.b.)

Aveva ragione mio nonno Aurelio quando diceva che solo i piedi danno fiato al cervello, non era un gran lettore ma fosse nato un secolo prima avrebbe fatto volentieri compagnia a quell’omone barbuto di Charles Dickens accanito camminatore in cerca di ispirazione. Nonno Aurelio sosteneva che 50 passi erano sufficienti per scansare un guaio, 500 per avere un’idea decente e 10.000 per una rivoluzione. A Dickens ne bastavano un migliaio per risolvere un’empatia con un personaggio o sgominare un’ingiustizia tra le pagine scritte mentre passeggiava per la sua Londra notturna.

Chissà se avevano capito tutti e due la piccola alchimia del moto senza luogo, quella specie di incoscienza che lega una persona in movimento e la mancanza di un punto d’arrivo. In un modo o nell’altro entrambi mi inculcarono il segreto del camminare a zonzo verso qualcosa che non c’è e assomiglia a una cometa: è il processo che rigenera l’immaginazione e che invoco se la scrittura si blocca. Così, nel mezzo della disperazione, chiudo il computer e mi affido all’anarchia dei piedi che sanno trovare il bandolo della matassa. I primi cento metri sono di sconforto totale, poi qualcosa accade ed è una specie di coscienza che le gambe acquisiscono sottraendola alla testa. C’è una clausola fondamentale che vieta cellulari, MP3 e altre compagnie artificiali, nemici acerrimi e invincibili della camminata creativa.

Gambe intelligenti, cervello stolto: il miracolo passa da questa condizione stramba che mi ha tolto parecchie castagne dal fuoco, anche un vicolo cieco in cui mi ero cacciato nel mio ultimo romanzo. Il problema stava nel protagonista, avevo in mente un portinaio che usava le chiavi di riserva di un condomino per entrare segretamente nel suo appartamento, mi mancava il cuore dell’azione. Serviva un movente totale, cosmico, assoluto, ero certo che fosse già in un angolo del mio ipotalamo, corteccia cerebrale, emisfero destro o sinistro, dovevo solo scovarlo. Per farlo mi annotavo schemi, rovistavo nei ricordi, mangiucchiavo liquirizie, ammiravo rovesci di Federer, scribacchiavo incipit e facevo suonare musica folk, mi ero dimenticato che tutto questo era destinazione forzata. Le idee rifiutano le destinazioni, pretendono il vuoto. Invocai mio nonno e sgattaiolai fuori tra lo smog di Milano, passeggiai per il quartiere di porta Romana e giù verso Missori, attraversai il Duomo in direzione Scala, e verso Brera, e su per corso Garibaldi fino alla chiesa dell’Incoronata. Lì, poco prima che l’isola pedonale diventi traffico, mi sedetti su una panchina e mi accorsi di un uomo su un balcone che insegnava a un ragazzino a innaffiare i gerani. Il ragazzino lo fece con pazienza e quando finì disse «Mica sono una femmina, papà». Lo vidi rientrare in casa, mi alzai e feci una cinquantina di passi, poi l’avvertii: la cometa. Il romanzo aveva trovato il movente.

Tradii la camminata per un trotto, avevo fretta di arrivare a casa e annotarmi l’epifania come avrei fatto con le altre che sarebbero venute, figlie di gambe lente e svogliate, sempre senza bussola: nel tempo ho scoperto che i piedi amano stupirsi, più battono strade nuove più accendono neuroni, e sono abitudinari solo per l’ora. Preferiscono sgranchirsi in un momento della giornata che ricorre. Per Immanuel Kant il momento giusto era dalle due e trenta pomeridiane alle tre e cinquantaquattro, non un minuto di più. Circa il mio orario. Per mio nonno era di prima mattina, per Dickens dopo le undici della sera. Per tutti è il camminare senza testa, ormai estinto, che fa la differenza: può valere un guaio scansato, un’idea decente, una rivoluzione.

postilla
Einstein ricordava spesso che l'intuizione alla base della teoria della relatività gli era venuta pedalando in bicicletta, e qui volendo nascerebbe immediatamente la polemica tra pedoni e ciclisti, su quale genere di aerazione del cervello favorisce di più le idee geniali: un flusso costante a circa 5-7kmh oppure i più fugaci sbuffi delle falcate da un angolo di isolato all'altro o tra le panchine di un giardino? Oltre le facili battute, forse è bene ricordare quanto le immagini urbane complesse moderne derivino proprio dal genere di osservazione soggettiva che, da Baudelaire, a Benjamin, attraverso William H. Whyte e Kevin Lynch, arriva sino al massimo teorico contemporaneo delle pedonalizzazioni, ovvero Ian Gehl (che riconosce esplicitamente i suoi maestri). E non serve certo un lungo ragionamento per ricordarsi quanto il piegare gli spazi urbani alle pure necessità meccaniche del trasporto motorizzato abbia finito per ottundere certe funzioni complesse dei cittadini, magari non necessariamente geniali, e però indispensabili da recuperare alla svelta con adeguate politiche. Come quella particolarmente innovativa, non a caso promossa dal settore Trasporti della città di Los Angeles, cresciuta sulla mobilità automobilistica ma più che mai ansiosa di recuperare Cittadini da Marciapiede (f.b.)

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