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La schizofrenia che caratterizza questo tornante della vita politica >>>;
La schizofrenia che caratterizza questo tornante della vita politica, in cui si assiste ad un pericoloso ribaltamento di mezzi e obiettivi, interessa, per una curiosa convergenza temporale, anche il sistema del nostro patrimonio culturale. Proprio in queste ore, infatti, sono montate le polemiche sul testo di riorganizzazione del Ministero dei beni e attività culturali, trapelato seppur in versione non definitiva. La riforma del Mibact, l'ennesima in pochi anni, si era resa necessaria a causa del processo di spending review che obbligava tutti i ministeri a tagli del proprio apparato.
Per cercare di collegare questo obbligo legislativo ad un tentativo di riforma dell'obsoleta macchina ministeriale, il ministro Bray aveva costituto una Commissione che in due mesi di lavoro (settembre-ottobre 2013) ha prodotto un documento articolato e della quale ho fatto parte.

Tutto può essere detto di quel documento, tranne che lo spirito ne sia rifluito nel testo di riforma ora circolante. Sotto questo punto di vista, ma non solo, questo testo rappresenta una drammatica occasione perduta.
Nei molteplici elementi di critica cui si presta, ne sottolineerò solo un paio di carattere generale, anche in considerazione del carattere non definitivo del testo stesso.
Innanzi tutto la totale mancanza di innovazione dell'impianto generale, percepibile fin dal lessico adottato: la struttura del Mibact vi appare addirittura appesantita a livello centrale e direzionale in senso lato. Scarsissime le aperture verso un riequilibrio di competenze a favore dei territori, fondato su di una maggiore collegialità che la Commissione aveva sollecitato. Insufficiente e non sistemica l'evoluzione verso una suddivisione per funzioni e non per temi.
Il compitino della riduzione di poltrone reso obbligatorio dalla spending review, è così ottenuto con il minimo sindacale dell'accorpamento di alcune delle Direzioni Regionali.

Ciò detto, però, appare per lo meno stupefacente lo spirito di molte delle critiche espresse in queste ore, in generale improntate al semplice mantenimento dello status quo antea, con forti accenti di autoconservazione corporativa.
Come se il problema non fosse quello di ripensare alle fondamenta una struttura e un sistema che evidentemente non funziona più, ma di tutelare ciascuno il proprio orticello. Senza cioè ripartire da un'analisi non più procrastinabile di quanto e perchè in questo sistema non sia più adeguato al mantenimento e alla gestione di una delle infrastrutture fondamentali dello Stato: il patrimonio culturale.
Nella difesa, totalmente autoreferenziale, di talune Direzioni Generali, oltre alla miopia, gravissima sul piano culturale, di non considerare l'intero sistema nel suo complesso e non solo, e come è stato sinora, come somma di corpi separati (e addirittura in competizione fra di loro), tale atteggiamento è figlio dell'incapacità di analisi e di visione su ciò che è avvenuto negli ultimi decenni. Il fallimento della pianificazione paesaggistica sul piano nazionale, le debolezze e gli errori sull'archeologia preventiva (siamo l'unico paese in Europa che la applica solo alle opere pubbliche, in ossequio ultraliberista al diritto di proprietà), l'inconsistenza e il clientelismo che connota le attività legate al contemporaneo "guidate" dal ministero, sono solo alcuni dei casi più eclatanti dell'incapacità di elaborazione di politiche culturali degne di questo nome da parte dell'apparato centrale del Mibac.

Lo sapevamo da tempo, ma questa vicenda ci restituisce un quadro spietato di un paese (e in particolare di un paio di generazioni di classi dirigenti) che semplicemente ha smarrito il senso della propria funzione: quella di mettere al servizio dell'innovazione culturale e dell'emancipazione sociale uno straordinario patrimonio, lasciandolo invece ostaggio, per colpa della propria inadeguatezza culturale, di logiche altre, prevalenti perchè ben più consapevoli e organizzate.
Dum Romae consulitur...

L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on line, "nessundorma"

Sabato scorso si è svolta la manifestazione dei professionisti dei beni culturali>>>
Sabato scorso si è svolta la manifestazione dei professionisti dei beni culturali organizzata da alcune associazioni di categoria per protestare contro il bando del Mibact per 500 posti di tirocinio mirato alla “inventariazione e digitalizzazione del patrimonio culturale italiano”.
Proteste del tutto giustificabili, visto il testo del bando a dir poco infelice sia per impostazione complessiva che per le condizioni economiche offerte. 5000 euro lordi per un anno, per laureati fino ai 35 anni d’età sembrano davvero pochi, dal momento che in quella fascia anagrafica rientrano persone con specializzazioni, dottorati e anni di lavoro alle spalle.

Non per caso, in esordio, ho usato il termine “professionisti”, e non quello di “precari” comunemente adottato dai mezzi di informazione. Della precarietà questi (più o meno) giovani condividono in realtà molto, a partire dalle condizioni di lavoro, spesso ai limiti della dignità quanto a compensi e a tutele, così come hanno testimoniato recenti indagini.
Ma allo stesso tempo si tratta, quanto a competenze acquisite sul campo e a esperienze lavorative, di professionisti a tutti gli effetti, spesso plurispecializzati. In tutti i settori, dall’archeologia allo spettacolo, dagli archivi e biblioteche ai musei. E infatti, in piazza del Pantheon, sabato 11 gennaio, tante erano le professioni rappresentate, nella loro straordinaria diversità, per la prima volta riunite dall’evidenza della comunanza dei problemi.
Parlare di professionisti significa però anche cominciare ad uscire dalla prospettiva unica del concorso statale – posto fisso. Per quanto (e se) sarà possibile allargare le maglie del blocco del turn over imposto alla pubblica amministrazione, il Mibact non riuscirà ad assorbire, nei prossimi mesi (anni) se non qualche centinaio di nuovi addetti, per lo più in ruoli di basso livello: perché sono i custodi a mancare, soprattutto, e perchè le recenti graduatorie dei funzionari sono state esaurite da pochissime settimane (e forse non completamente).
Eppure, a tutti è evidente che il nostro patrimonio culturale abbia un immediato, urgentissimo bisogno di risorse umane. E di competenze nuove, capaci di superare i ritardi che un’amministrazione ormai tanto inceppata da avere elaborato un bando di quel genere non è più neppure in grado di scorgere.

Si pensi, ad esempio, alla situazione dell’archeologia preventiva, abbandonata da anni, fra ritardi e inerzie della dirigenza Mibac, a provvedimenti estemporanei quanto a impianto normativo e per di più ambigui e inadeguati nei contenuti, tanto da renderci, in questo settore, il paese europeo forse più arretrato, in un ambito in cui la ricchezza e la varietà del nostro patrimonio non hanno confronti a livello mondiale. Oppure al deficit, in termini di offerta didattica, informativa e di servizi in genere che caratterizza la grande maggioranza dei nostri musei. O ancora al limbo in cui si trova relegata la pianificazione paesaggistica e in generale le politiche di tutela del paesaggio.
Per questo ritardo il mondo della formazione, l’università in primis, ha colpe non meno gravi, basti pensare alla vicenda dei corsi di Conservazione in beni culturali nel loro complesso, pochissime eccezioni escluse, ormai da più parti definiti una vera e propria “truffa sociale”.

Nonostante questo deficit culturale delle massime istituzioni che si occupano di patrimonio, migliaia di giovani, a prezzo di sforzi e sacrifici personali, sono riusciti in questi anni ad acquisire competenze preziose e a ritagliarsi spazi di lavoro tali da arrivare a svolgere funzioni a tal punto essenziali da risultare insostituibili. In alcuni ambiti, se questi professionisti, improvvisamente e nel loro insieme, cessassero le loro attività, lo Stato non riuscirebbe a garantire un adeguato e capillare esercizio della tutela del patrimonio nazionale. Peccato che in cambio di queste funzioni essenziali, lo stesso Stato – e il Mibact nello specifico – si sia finora limitato a girare la testa di fronte a situazioni al limite dello sfruttamento.
La protesta dell’11 gennaio deve quindi servire sia a costringere Stato, e Mibact in particolare, ad assumersi responsabilità precise nei confronti di questi lavoratori, uscendo dalla logica – fallimentare non solo socialmente – per cui solo chi è all’interno dell’istituzione è garantito e al di fuori di questo recinto può esistere il far west. Tutti coloro che, a diverso titolo e in condizioni professionali molto diverse collaborano alla tutela del nostro patrimonio culturale e a produrre cultura devono godere delle stesse tutele: il progetto di legge sul riconoscimento delle professioni dei beni culturali ieri approvato alla camera è un primo, importante passo.

Ma oltre a questo, se vogliamo uscire dai ritardi che gravano sulla gestione del nostro patrimonio e gli impediscono di assumere quel ruolo di crescita sociale e civile che la nostra costituzione gli assegna, occorre ripensare a meccanismi di coinvolgimento di questi professionisti non più estemporanei e residuali. Si deve cioè creare, coordinare e sostenere uno spazio terzo fra lo Stato – Mibact e quel privato così tanto invocato su più fronti, ma che ha sinora offerto ben misere prove – basti pensare alla trentennale vicenda delle concessioni per i servizi aggiuntivi – sia sul piano culturale che di efficacia operativa.
Magari ripartendo proprio dal bando dei 500, che andrebbe riformulato non solo nelle condizioni offerte, ma anche e soprattutto negli obiettivi. Non è davvero pensabile che, ad esempio, dopo 40 anni di fallimenti, si continuino a proporre, per l’inventariazione e digitalizzazione del nostro patrimonio, modelli come quelli dell’ICCD o ci si riferisca ad esperienze altrettanto deludenti come quelle del portale CulturaItalia. Modelli e standards vanno ripensati, radicalmente: quale migliore occasione di “usare” (non sfruttare) energia e competenze giovani ed entusiaste?

L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma"

In questi giorni di inizio d'anno in cui tutti, chi più, chi meno, ci siamo affidati ad un qualche, seppur minimo, rito scaramantico,>>>

In questi giorni di inizio d'anno in cui tutti, chi più, chi meno, ci siamo affidati ad un qualche, seppur minimo, rito scaramantico, nulla di meglio che godere di un'intera sequenza di immagini il cui valore apotropaico ha attraversato i secoli. Le trovate, queste immagini, visitando "Mostri", l'evento espositivo del Museo Archeologico Nazionale Romano di Palazzo Massimo, inaugurato il 20 dicembre e aperto fino al primo giugno 2014.
Dedicata alle creature fantastiche della mitologia, dalle sirene, al Minotauro, dalle Gorgoni alle Sfingi ai centauri, ai grifi, la mostra presenta, attraverso un riuscito allestimento che suggerisce, nel percorso e nei giochi di luci e ombre, l'andamento del labirinto minoico, un centinaio di reperti che illustrano i mostri dell'antichità.
Moltissimi provenienti da istituzioni museali straniere - Atene, Berlino, New York, Basilea, Los Angeles, ma anche dai depositi della Soprintendenza Archeologica di Roma, i reperti, diversi per stile, materiale, epoca, ma tutti di altissimo livello formale, rimandano ad un universo iconografico di straordinaria varietà, che ha radici lontanissime, ma che fu codificato compiutamente soprattutto in epoca greca. Antichi come l'uomo e le sue paure di cui costituiscono la rappresentazione apotropaica, queste creature hanno attraversato e in taluni contesti dominato, l'universo figurativo del mondo occidentale - pur provenendo molti di essi da oriente - con inalterata forza simbolica per secoli e secoli, senza conoscere momenti di totale oblio, per approdare, mutati, talora stravolti, ma ancora pienamente riconoscibili, nel catalogo iconografico della contemporaneità, riemergendo attraverso molteplici codici linguistici, dalla pubblicità al cinema.
Non per caso, quindi, testimonial dell'evento e protagonisti di un applaudito incontro col pubblico in occasione dell'inaugurazione, sono stati Scott Ross e Shane Mahan, autori di effetti speciali e di alcuni dei mostri holliwoodiani più famosi, da Jurassic Park ad Avatar: entrambi hanno riconosciuto il loro debito creativo nei confronti del repertorio iconografico illustrato nella mostra curata da Rita Paris ed Elisabetta Setari.
Chiara e lineare nell'intento divulgativo, l'esposizione suddivide i reperti per tipologia rimandando al bel catalogo un'indagine più approfondita sull'evoluzione antica delle diverse iconografie (Setari), come anche una preziosa 'ricucitura' (Paris) fra i temi della mostra e i moltissimi oggetti presenti nelle collezioni del museo che vi si riconnettono. Si ricrea così quel dialogo necessario a stabilire un circuito virtuoso fra evento temporaneo e museo, obiettivo troppo spesso obliterato nelle mille mostre allestite solo per obbligo di marketing.

Assieme ai reperti antichi, tre opere stanno a testimoniare la persistenza delle figure mitologiche nella cultura moderna e contemporanea, una tempera di Alberto Savinio (Creta), un dipinto del Cavalier d'Arpino (Perseo libera Andromeda) e una Medusa di pittore fiammingo anonimo della prima metà del XVII secolo. Quest'ultimo dipinto, la testa mozzata della gorgone che giace a terra in un ultimo spasmo di orrore, a lungo ritenuta, sulla scorta di Vasari, opera leonardesca, costituì l'oggetto di un famoso poema di Percy Bysshe Shelley, On the Medusa of Leonardo da Vinci in the Florentine Gallery. È il 1819 e siamo alla radice del romanticismo nero, quella corrente culturale che dalla fine del XVIII secolo si concentrò sulla zona d'ombra, di eccesso e d'irrazionale che si celava dietro l'apparente trionfo delle luci della Ragione.
Così, in piena epoca moderna, i mostri antichi riappaiono a rappresentare quella categoria del "dionisiaco" che Friedrich Nietzsche si incaricherà di elaborare sul volgere del secolo.
La Nachleben degli antichi mostri è indagata in un altro saggio del catalogo (Verde) a partire dalla Rivoluzione francese fino al contemporaneo. È un percorso che illumina esemplarmente i meccanismi attraverso i quali questo ventre ancestrale che affiora nelle raffigurazioni dei mostri costituisca un sottofondo ineliminabile della nostra fragile civiltà.
Senza scomparire mai, anche nei periodi "apollinei", come ad esempio, per tornare nell'antichità, il periodo augusteo, quando, quasi scomparsi nei monumenti ufficiali, Gorgoni, Pegasi, Sfingi ricompaiono nelle abitazioni private, numerosissimi, anche in quelle riconducibili alla più stretta cerchia familiare di Augusto, dalla casa della Farnesina a quella di Livia sul Palatino, apparentemente ridotti a puro elemento decorativo.
Apparentemente. Perché fra le tante occasioni perdute della mostra Augusto, ora alle Scuderie del Quirinale, vi è la troppo frettolosa liquidazione dell'intuizione di Ranuccio Bianchi Bandinelli sul carattere dell'arte augustea come tentativo di congelare attraverso un nuovo classicismo (Apollo è il dio di Augusto, non per caso) altre originali forme artistiche di origine ellenistica ed italica.
In questo senso, la mostra e le collezioni di Palazzo Massimo (dove si possono ammirare i meravigliosi affreschi e stucchi della Farnesina) rappresentano, in un certo senso, il necessario "rovescio della medaglia", aprendo un'indispensabile finestra su di un repertorio che i momenti di trionfante classicismo - in ogni epoca della storia - non riusciranno mai ad estirpare.

Creature che rappresentano il disordine, il caos primordiale destinato ad essere abolito dall'ordine ristabilito dagli dei olimpici: rassicurante esito di tanti miti che li vedono sconfitti, i mostri. Eppure, la loro tenace sopravvivenza ci racconta di come gli uomini di ogni epoca, abbiano sempre saputo, in fondo, che loro, e non gli dei perfetti e distanti, erano più vicini ad una realtà umana in cui paura e orrore erano (e sono) elementi ineliminabili.

A noi vicini, quindi, allora come ora, in tutte le loro valenze: come strumenti scaramantici e quindi utili per sconfiggere la paura evocandola (gorgoni) o come simboli di forze ignote che però ci attraggono (le sirene, le sfingi) o anche come rappresentazione della diversità, di un'alterità che non inevitabilmente è ostile e quindi da respingere. Ce lo ricorda, con immediatezza struggente, il meraviglioso bronzetto dell'VIII secolo a.c. prestato dal Metropolitan Museum di New York.
È la raffigurazione di un uomo e di un centauro: le due figure sono poste l'una di fronte all'altra e paiono sostenersi appoggiandosi con le braccia l'una sull'altra, in un gesto di vicinanza che ci rimanda ad una lontana, lontanissima età dell'oro, tale anche perchè due esseri così diversi potevano convivere senza scontrarsi.

Il testo rappresenta una versione ampliata della recensione pubblicata su L'Unità, 7 gennaio 2014

Lunedì scorso sono arrivate le nomine del nuovo Direttore e vicedirettore incaricati di coordinare il progetto "Grande Pompei".>>>

Lunedì scorso sono arrivate le nomine del nuovo Direttore e vicedirettore incaricati di coordinare il progetto "Grande Pompei". Si tratta - ed è una buona notizia - di due figure fortemente legate all'ambito del Ministero bb.cc. : un generale dei carabinieri, Giovanni Nistri, per molti anni a capo del Nucleo per la tutela del patrimonio culturale e Fabrizio Magani, finora Direttore Regionale dei beni culturali e del paesaggio in Abruzzo, dove stava efficacemente guidando la ricostruzione postsismica dopo i vergognosi ritardi del precedente commissariamento.
Nomine al fotofinish - il 9 dicembre era l'ultimo giorno ai termini di legge - a causa dei forti contrasti che hanno visto contrapporsi, come hanno raccontato le cronache, alcuni membri della compagine governativa.

Eppure Pompei ha urgente bisogno di invertire quel destino di lento degrado che testimoniano non solo e non tanto i crolli che continuano, ma soprattutto i ritardi del così detto Grande Progetto Pompei, l'iniziativa lanciata nell'aprile del 2012 dal Governo Monti (ministro dei bb.cc. l'indimenticabile Ornaghi). Finanziata, direttamente o indirettamente, soprattutto da fondi europei, tale operazione non ha saputo finora imprimere una svolta decisiva, anche perchè metodologicamente approssimativa e sbilanciata, basti pensare che dopo oltre un anno e mezzo sono stati aperti cantieri per pochi milioni di euro (6,5) sui 105 disponibili, e non sono state ancora avviate le attività di diagnostica e di riassestamento idrogeologico del sito, causa prima dello stato di degrado delle strutture murarie.
Il lavoro che attende Nistri e Magani è dunque estremamente complesso, perchè si tratta sia di arginare emergenze diffuse, sia di reimpostare l'agenda del progetto sotto il profilo scientifico, superando le difficoltà organizzative e amministrative che hanno finora gravato come un macigno sull'azione della Soprintendenza.
Direttore e vicedirettore non saranno soli: secondo quanto stabilito dal Decreto, poi Legge 112/2013, essi potranno avvalersi di una struttura di supporto di una ventina di persone già nei ruoli dell'amministrazione statale e di cinque consulenti in discipline giuridiche, economiche, urbanistiche.

È questo uno dei due veri elementi di novità contenuti nel così detto Decreto Valore Cultura: l'aver abbandonato la logica dell'uomo solo al comando che arriva e, come il tarantiniano Wolf, "risolve problemi". È la nefasta logica dei commissariamenti che a Pompei, come a L'Aquila, ha provocato disastri, talora così gravi da fornire materiale per le procure della Repubblica.
Ora invece, a guidare il recupero del sito, troviamo competenze giustamente diversificate, che non si sovrappongono a quella tecnica -archeologica (come era invece avvenuto in passato con effetti paralizzanti) e in grado di presidiare due aspetti decisivi come il controllo della legalità e la gestione della macchina ministeriale.
E assieme, potranno, anzi dovranno essercene altre, a partire, soprattutto, da quella di pianificazione territoriale.

Perchè l'altro elemento di novità di questo decreto legge consiste nell'aver collegato il recupero del sito archeologico alla riqualificazione dell'area circostante: stiamo parlando di un territorio, quello di Pompei e dei comuni limitrofi, dove i fenomeni di abusivismo edilizio, consumo di suolo, carenza di servizi raggiungono livelli fra i più elevati d'Italia. Non si salva il sito di Pompei, se non si recupera l'intero territorio ad un livello di qualità urbana accettabile: se la situazione dell'area archeologica è tuttora a rischio, non è per carenza di fondi, che a Pompei non sono mai mancati, ma perchè per decenni si è continuato a ragionare in un'ottica esclusivamente intramoenia, priva di una visione di ampio respiro, quasi che il sito fosse ancora affare esclusivo di accademici e ricercatori.
Non è più così: non perchè la ricerca scientifica debba essere ora tralasciata a vantaggio di estemporanei esperimenti di "valorizzazione" come quelli del commissario Marcello Fiori (peraltro osannati, all'epoca, dall'allora presidente del Consiglio Superiore dei bb.cc.), ma perchè quella ricerca va ora indirizzata, massicciamente, a risolvere i problemi di sostenibilità derivanti da un turismo di massa cui va offerta un'esperienza culturale adeguata alle molteplici esigenze di un'utenza globalizzata nei numeri, ma non nei bisogni e nelle attese.

Fra un paio di settimane, con la nomina del Soprintendente della nuova Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia inizierà operativamente questa nuova fase. Sarà l'ultima occasione, in ogni senso, per il sito archeologico e il territorio circostante: è una sfida rischiosa perchè già da molto tempo, sin dall'arrivo dei fondi europei, si sono scatenati gli appetiti di chi pensa a questa come l'ennesima opportunità per rovesciare su di un'area già al collasso una colata di cemento residenzial-commerciale accessoriata di Archeopark stile Las Vegas (progetto già presentato dall'Amministrazione comunale).
Per il recupero non solo archeologico, ma urbanistico e soprattutto sociale di questo territorio occorre fare esattamente il contrario: senza cedimenti, senza ritardi. Solo così a Pompei, e non solo, potremo sperare di superare la nottata.

L'articolo è pubblicato, contemporaneamente, su L'Unità on-line, "nessundorma".

Nei prossimi giorni, forse ore, Pompei sarà dotata di un nuovo assetto dirigenziale>>>
Nei prossimi giorni, forse ore, Pompei sarà dotata di un nuovo assetto dirigenziale. È l'ultimo tentativo, non solo in senso cronologico, di invertire radicalmente il destino di declino di uno dei siti archeologici più importanti al mondo, da sempre simbolo della situazione di tutto il nostro patrimonio culturale.
Proprio per il suo carattere “metaforico”, il caso Pompei ha assunto un ruolo di primo piano nel Decreto valore Cultura, emanato nell’agosto di quest’anno e divenuto legge dello Stato nell’ottobre (n. 112/2013), il provvedimento con cui questo Governo intendeva dimostrare un mutato - rispetto ai disastrosi precedenti- atteggiamento nei confronti del nostro patrimonio culturale.

In questa stessa direzione è da interpretare l’istituzione della Commissione per il rilancio e la riforma del Mibact, presieduta dal giurista Marco D'Alberti e costituita da 20 membri, fra cui chi scrive, di competenze e provenienze istituzionali differenti, un terzo dei quali appartenenti ai ruoli del ministero stesso.
L'occasione per costituire questo organismo è stata determinata dalle prescrizioni della spending review che obbliga tutti i Ministeri ad una riduzione degli organici, nello specifico dei ruoli dirigenziali, nella misura del 20%.
Il 31 ottobre, nei tempi previsti, traguardo che dobbiamo soprattutto alle capacità di sintesi e coordinamento del presidente, è stata consegnata al Ministro dei Beni culturali la relazione elaborata dalla Commissione, insediatasi un paio di mesi prima e che ha lavorato senza compensi, né rimborsi.
Invece di limitarsi ad un "aggiustamento" , sostanzialmente basato su accorpamenti più o meno funzionali fra Direzioni e Soprintendenze - così come era avvenuto in precedenza, in situazioni analoghe - il Ministro Bray ha trasformato l'obbligo normativo della spending review in un'occasione di ridefinizione della struttura ministeriale.

Noto è lo stato di impasse di quest’ultima, accelerato dai disastrosi tagli di bilancio degli anni precedenti (in particolare dal 2008) e aggravato da una serie di riforme e riorganizzazioni accavallatesi negli ultimi lustri, spesso fra loro contraddittorie e scarsamente meditate nei risultati.
Il tentativo della Commissione è stato quello di proporre alcuni elementi di ripensamento dell'organizzazione nel suo insieme che fossero in grado sia di eliminare o limitare alcune fra le disfunzioni più evidenti che ne riducono l'efficacia di intervento, sia di costituire una prima cornice per una trasformazione più radicale della struttura in grado di rilanciarne il ruolo, rendendola non solo maggiormente funzionale dal punto di vista operativo, ma anche politicamente più incisiva.
I limiti, sia istituzionali, sia normativi (non si potevano proporre interventi legislativi a supporto) che temporali (meno di due mesi di lavori), sono stati draconiani.

In estrema sintesi, gli obiettivi cui mirano le proposte formulate sono da un lato il riequilibrio e il chiarimento delle funzioni fra i vari livelli: dalle Direzioni Generali a quelle Regionali, alle Soprintendenze. In sostanza ridare fiato e, per quanto possibile risorse - anche di personale tecnico attraverso una migliore redistribuzione - alle strutture periferiche, perché è sul territorio che vi è più che mai bisogno di una presenza costante e qualificata degli organi di tutela e, del resto non a caso, è a livello di Soprintendenze territoriali che questo Ministero ha dato, nella sua storia, le prove migliori.
Maggiore autonomia, ma anche maggiore collegialità decisionale, per contrastare le incongruenze di una superata ripartizione tematica (archeologia, storia dell’arte, architettura e paesaggio), non più adeguata nei confronti del continuum culturale patrimonio – paesaggio.
Allo stesso modo, si è suggerita, attraverso la creazione di una Direzione Generale specifica su Musei, Biblioteche, Archivi, l’opportunità di migliorare l'attività degli istituti culturali, riconoscendone le necessità di autonomia scientifica e gestionale: è il tentativo di riallineare, ad esempio, alcuni dei nostri grandi musei nazionali alle esperienze migliori della museografia e museologia europea, dall’Olanda, all’Inghilterra, alla Spagna.
In più punti la relazione si sofferma sul groviglio amministrativo determinato da un vero e proprio disordine normativo, in particolare nell'ambito degli appalti, che grava sull'attività delle Soprintendenze come un macigno: contribuire a scioglierlo, varrebbe come restituire al ministero parte delle risorse economiche sottratte negli scorsi anni.

Ancora, nel documento finale si è parlato ripetutamente del problema dei precari nel settore dei beni culturali. Di fronte alle migliaia di giovani e meno giovani laureati che ad ogni livello - dalle biblioteche, agli archivi agli scavi archeologici - prestano la loro opera come professionisti spesso iperspecializzati, ma allo stesso tempo precari ipersfruttati dal punto di vista delle tutele sindacali, era indispensabile ribadire la necessità di una riforma radicale nei rapporti di lavoro anche in questo settore. Indispensabile che un Ministero, spesso troppo concentrato solo sul proprio apparato, si faccia carico, attraverso regole e prescrizioni, di tutelare le condizioni di lavoro di tutti coloro che ogni giorno contribuiscono a garantire, in misura sempre più determinante, che l'articolo 9 della nostra Costituzione sia applicato.
Infine, ma non da ultimo, nella relazione è inserita anche la proposta di una Scuola Nazionale per il Patrimonio: struttura da pensare come un'operazione culturale che assicuri un'elevata formazione specialistica, ma allo stesso tempo consenta, attraverso un confronto fra esperienze molteplici, di riannodare connessioni e relazioni istituzionali e sociali, da troppo tempo pericolosamente sfrangiate.

Sono solo alcuni temi fra i molti sui quali la Commissione ha elaborato proposte e indicazioni, certo perfettibili.
Il documento, che ha carattere consultivo, dovrà ora essere applicato: si apre una fase delicata in cui molto potrà essere ridefinito o ridiscusso. L'importante è che l'obiettivo di tutti sia quello di approfittare al meglio di un'occasione forse non ripetibile di rilanciare il ruolo del Ministero. Abbandonando chiusure autoreferenziali per ritrovare un diverso e più consapevole rapporto con la comunità dei cittadini. È l'unico modo per contrastare la deriva che sta montando, che vede schiere sempre più numerose, sempre più disponibili a smontare una struttura ritenuta eccessivamente lontana e pregiudizionalmente ostile a quelle necessità dello "sviluppo" che solo gli eletti del popolo possono interpretare.
In questo senso è necessario che il Mibact si prepari alla sfida politica di essere il portatore di un'altra visione del territorio e delle sue risorse culturali, con i migliori strumenti e in tempi rapidi.

Il testo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, nessundorma

Un’occasione perduta. Questo, in estrema sintesi, il giudizio che può essere dato sulla mostra dedicata ad Augusto alle Scuderie del Quirinale>>>;

Un'occasione perduta. Questo, in estrema sintesi, il giudizio che può essere dato sulla mostra dedicata ad Augusto, aperta alle Scuderie del Quirinale dal 18 ottobre al 9 febbraio 2014, da dove si trasferirà al Grand Palais di Parigi dal 19 marzo al 13 luglio 2014. Già questa scelta temporale evidenzia qualche problema organizzativo, dal momento che l’evento da cui trae spunto l’esposizione è il bimillenario della morte di Augusto, avvenuta a Nola nell’agosto del 14 d.c. e quindi la mostra, nella sua versione romana, si colloca con un anticipo poco giustificabile sotto ogni profilo.

L’allestimento delle Scuderie, spazio di per sè non ottimale per la statuaria e i rilievi architettonici, come riconoscono gli stessi curatori nel catalogo, risulta al contempo troppo minimalista quando non riesce a sottolineare accostamenti, rimandi, contrasti ed eccessivo al limite del trash, ad esempio nella sala dei ritratti della famiglia augustea, dove si sfiora pericolosamente l’effetto negozio di parrucche. Sbagliato cromaticamente tanto che l’effetto complessivo è di una acromia falsificante che tutto appiattisce, approssimativo in molte soluzioni (gemme poco leggibili, monete visibili solo su un verso), incapace di restituire una prospettiva di lettura corretta di molte delle opere (il frontone dei Niobidi su tutte).

Ma il vero problema di “Augusto” è la povertà della lettura che fornisce di uno dei personaggi e dei periodi più complessi e controversi della storia antica: la sequenza dei ritratti e delle altre opere esposte non riesce in alcun modo a restituirci la tensione politica, sociale, artistica di un’epoca, quella della fine della res publica, attraversata da contrasti fortissimi destinati a sfociare in cambiamenti epocali. Cambia la forma dello Stato: l’imperium muta la sua natura collettiva e da charisma etnico, cioè posseduto dall’intero populus Romanus, diviene charisma personale, incarnato nel princeps. Augusto è colui che pone fine all’interminabile sequenza delle guerre civili, che apre un’epoca di pace che sarà però una pax Romana, quella che Tacito con sarcasmo definirà pax cruenta, la pace insanguinata (ricorda qualcosa?). Da spietato vendicatore di Cesare e triunviro privo di scrupoli, Augusto si trasformerà in sobrio primus inter pares fra i senatori cui sono attribuite quelle virtù in grado di restituire la concordia ordinum e di aprire una nuova età dell’oro.

In questa costruzione, sapientissima, di pater patriae, grandissimo ruolo avranno le arti, dalla letteratura alla pittura e scultura. E all’architettura in particolare sarà riservato un ruolo fondamentale di trasmissione di valori. Ad Augusto è riferita, d’altronde, la famosa affermazione di aver trasformato una città di mattoni, Roma, in una città di marmo. I suoi interventi, numerosissimi, nel tessuto urbanistico, sono episodi intimamente correlati di un programma ideologico di legittimazione di un potere ormai assoluto. Architettura e scultura divengono strumenti del potere con una forza di impatto visiva sconosciuta a Roma fino a quel momento. Duemila anni di incessanti trasformazioni non hanno oscurato l’importanza di questa presenza: dal teatro di Marcello e al tempio di Apollo Sosiano, dalle sistemazioni augustee dei fori all’Ara Pacis, al mausoleo.

Tutto questo, alle Scuderie del Quirinale, non c’è: manca, incredibilmente, Roma stessa, la città di Augusto, l’imprescindibile scenario di questa inutile parata di statue che si riduce quindi a poco più che un’esercitazione antiquaria, per di più indebolita dall’assenza, non solo fisica, del materiale pittorico coevo, di straordinario livello artistico, dagli affreschi della villa di Livia a quelli della Farnesina (entrambi godibili, per fortuna, a poca distanza, nelle sale del Museo archeologico di Palazzo Massimo). Il catalogo pur se viziato da un impianto editoriale poco funzionale, contiene sicuramente maggiori spunti e riflessioni utili a restituire l’importanza di un momento e di un personaggio storico così cruciale, ma resta l’impressione di una distanza non colmata fra quella vicenda e la nostra contemporaneità. Non parliamo di un meccanico e superficiale esercizio di “attualizzazione”, ma, ad esempio, di una riflessione sulle cause della potenza di suggestione che da molti anni esercita l’analogia fra la pax Romana e la pax americana. O ancora sui meccanismi che producono trasformazioni sostanziali della forma dello stato e dell’esercizio del potere politico: temi che ci conducono dritto dritto all’hic et nunc.

Tempo ed occasioni per indagare con maggiore coraggio ed incisività su questi ed altri argomenti, ci auguriamo che non manchino nel futuro anno anniversario. Ma in questa occasione, il bimillenario augusteo, è soprattutto la città nel suo insieme a dover diventare “la” mostra dell’eredità di Augusto, riannodando gli elementi, straordinari e numerosissimi, distribuiti nel suo tessuto urbano, nei suoi musei e monumenti (alcuni dei quali, come il Mausoleo, abbandonati in stato vergognoso). Inventandosi nuove modalità di riflessione sulla propria storia, nuove possibilità di lettura e comprensione del proprio patrimonio culturale adeguati a molteplici livelli di comprensione, evitando nello stesso tempo banalizzazioni e scorciatoie che sono l'altra faccia di un'erudizione fine a se stessa.

È questa la cultura che manca a Roma da troppi anni, assenza che è causa non ultima del degrado non solo culturale, ma civile in cui la città è precipitata negli ultimi anni. Il riscatto non può che fondarsi anche su di un rinascimento culturale che faccia riemergere la città e riallinearla alle grandi capitali europee: speriamo che lo spirito di Augusto ci sia propizio.

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In questo week end 36 imbarcazioni di grandi dimensioni entreranno nel bacino di San Marco>>>

In questo week end 36 imbarcazioni di grandi dimensioni entreranno nel bacino di San Marco. Solo ieri 12 enormi navi da crociera sono state temporaneamente bloccate dalla manifestazione del comitato No Grandi Navi che da anni combatte contro lo scempio della laguna. Si tratta di imbarcazioni che superano di gran lunga il limite di 40.000 tonnellate di stazza lorda fissato dal decreto Passera-Clini del marzo 2012, emanato per tutelare le coste italiane dopo il disastro della Costa Concordia. Peccato che, solo per Venezia, il decreto ammetteva una proroga in attesa di una soluzione alternativa al passaggio canale della Giudecca -bacino di San Marco.

Quella soluzione non è stata ancora trovata e i passaggi delle grandi navi sono nel frattempo addirittura aumentati: il limite, che sembrava insuperabile fino a pochi mesi fa, di 10 transiti al giorno è stato oltrepassato più volte.

Così, da anni, questi mostri che imbarcano anche oltre 5000 persone fra passeggeri ed equipaggio, che arrivano alle 140.000 tonnellate di stazza lorda e che con un'altezza di oltre 60 metri danno ai passeggeri un'assurda visione dall'alto della città, continuano a stravolgere l'equilibrio fragilissimo della laguna.

Dopo anni di silenzi e di analisi ufficiali a dir poco omertose e assai poco rigorose sui danni, gravissimi, procurati dalle navi da crociera, da qualche tempo, alcune indagini finalmente indipendenti stanno svelando i dati del disastro: inquinamento pesantissimo dovuto a polveri sottili, metalli pesanti, diossine ed altri elementi cancerogeni, erosione dei fondali, danni a rive ed edifici provocati dai fenomeni di risucchio, dalle vibrazioni, inquinamento acustico (anche se ferme alla Marittima, i generatori rimangono accesi a ritmo continuo), enormi quantità di rifiuti da smaltire.

Se questi sono i danni accertati e sul lungo periodo dirompenti, i rischi connessi alle possibilità di un incidente (guasto, errata manovra) la cui probabilità aumenta esponenzialmente all'aumentare del traffico marittimo, sono incalcolabili e con conseguenze quasi certamente irreversibili.

Nonostante la scarsa reattività (per usare un eufemismo) dell'Unesco, organizzazione ormai priva di incidenza, le proteste anche internazionali per questo scempio continuo si sono a tal punto moltiplicate da indurre persino gli amministratori pubblici (da Orsoni a Zaia) fino a poco tempo fa a dir poco ambigui e possibilisti, ad affermare chiaramente che il transito delle grandi navi deve cessare da subito. E si comincia ad ammettere che il passaggio di questi mostri deve essere bloccato non solo in bacino San Marco, ma in tutta la laguna.

Per secoli la Serenissima, proprio per proteggere la prosperità della Repubblica, ha curato l'equilibrio delicatissimo di questo ambiente, provvedendo ad opere di manutenzione costanti e sottoponendo ogni cambiamento a rigorosi principii di gradualità e reversibilità. Gli stessi cui si ispirava la Legge Speciale per Venezia del 1973, poi ampliata nel 1984, ma di fatto disattesa.

Ha funzionato magnificamente per secoli: nei primi decenni del '900 è iniziata invece una manomissione costante, accelerata a dismisura dagli anni '60 in poi, dapprima nel nome di in industrialismo totalmente ignaro delle ragioni ambientali (Marghera) e, negli ultimi decenni, con pari cecità, di un turismo dei grandi numeri che ha ormai ridotto Venezia ad un parco a tema in cui le funzioni della città sono state asservite e stravolte dalle esigenze dell'industria turistica.

Le grandi navi sono il simbolo, l'elemento visivamente più fragoroso di uno stravolgimento ormai compiuto: Venezia non è più una città e le sue istituzioni sono al solo servizio di chi, in vari modi, ha interessi in questo settore: dalle grandi compagnie di navigazione, agli investitori immobiliari, alle catene alberghiere, alla distribuzione commerciale. Il finale di questa partita è purtroppo noto: questo tipo di turismo predatorio finirà per distruggere la risorsa che lo alimenta.

Ma se Venezia è forse giunta ad un punto di non ritorno, l'immagine che ci restituisce è lo specchio di ciò che sta succedendo in troppi centri storici, cominciando da Firenze e Roma. La spietata metafora di Joyce che paragonava gli italiani a quel nipote che campava offrendo la visione a pagamento della nonna defunta si sta avverando, tristemente. È l'immagine di un paese incapace di pensare al proprio patrimonio culturale e paesaggistico in termini diversi dallo sfruttamento economico immediato, incapace di una visione di ampio respiro che, in cambio di una reale sostenibilità di lungo periodo, imponga regole e limiti, e di una politica incapace di governare i fenomeni economici (non solo quelli macro) e quindi destinata ad esserne serva.

In questa partita contro la rovina, ormai giunta allo scadere di ogni tempo supplementare, non avremmo voluto sentire risuonare anche l'ignobile ricatto del lavoro: come, in maniera ancora più grave, sta succedendo a Taranto con la contrapposizione salute- lavoro, anche qui a Venezia si cerca di opporre alle ragioni della tutela del patrimonio e della difesa del territorio (e della salute, anche qui) il ricatto dei posti di lavoro messi a rischio dall'eventuale allontanamento delle grandi navi dalla laguna.

Purtroppo, anche stavolta, neanche questo ci è stato risparmiato: la politica ha forse l'ultima occasione per smascherare questo ricatto. Speriamo che lo faccia, subito. Non solo per Venezia.

Sul problema delle Grandi Navi e più in generale di Venezia e della sua laguna, v. eddyburg.it e il suo ricchissimo archivio. E ancora la collana: Occhi aperti su Venezia, dell’editore Corte del Fontego.
Delle Grandi Navi e dei problemi del turismo si parlerà domani, lunedì 23 settembre, nella trasmissione di Rai3 Geo&Geo, h.17.00

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Negli asfittici palinsesti di fine estate, Rai Uno ha infilato un programmino nuovo di zecca, in quattro puntate quattro: Petrolio.>>>

Negli asfittici palinsesti di fine estate, Rai Uno ha infilato un programmino nuovo di zecca, in quattro puntate quattro: Petrolio.
Come recitano i comunicati stampa, il titolo è “ metafora delle nostre ricchezze che per essere utilizzate devono essere identificate, estratte, valorizzate. ”
E le ricchezze che non aspettano altro che di essere colte e mangiate sarebbero, naturalmente, beni culturali e turismo in genere.
Come ha già rilevato con grande tempestività Vittorio Emiliani su questo giornale, il termine stesso ‘petrolio’ associato al nostro patrimonio culturale rimanda ad esperienze clientelari e scientificamente disastrose come furono i giacimenti culturali voluti dall’allora ministro del Lavoro Gianni De Michelis (siamo nei ruggenti ’80).
Ma è l’intera strategia comunicativa della trasmissione che si presta a molte critiche: nella prima puntata, ad esempio, si riciclava l’intero repertorio dei luoghi comuni ‘benculturalisti’ a partire dal ruspante sciovinismo del “possediamo il 70% del patrimonio culturale mondiale”. Affermazione destituita di qualsiasi fondamento scientifico, ma immortale mantra del giornalismo da salotto nostrano.
Meglio articolata la puntata di venerdì 23, forse perchè ci si concentrava su pochi temi. E che temi: l’argomento della puntata era, molto in sintesi, il destino dei nostri centri storici, a partire da Venezia e Firenze. Eppure, nonostante il dilagare retorico del primo cittadino che, con il consueto repertorio da venditore di tappeti, ha illustrato la sua strategia per “vendere il brand Firenze”, solo nel poco spazio concesso ad uno storico dell’arte abbiamo ritrovato il senso di una visione urbana complessiva, dove centro e periferia sono letti non come insieme di spazi – oggetti disgiunti e in vendita al miglior offerente, ma come elementi interdipendenti di un sistema inscindibile, costruito per i cittadini, ben prima che per i turisti.
Nonostante tutto, in ogni caso, Petrolio rappresenta pur sempre un tentativo, seppure un po’ approssimativo, di affrontare uno dei temi rimossi dell’agenda politica italiana.
Ma perchè è così difficile parlare in modo non superficiale, ma chiaro e argomentato del destino del nostro patrimonio culturale? Persino la benemerita Report, su quest’argomento, scivolò sugli stereotipi senza riuscire ad affrontare il vero nodo della questione.
Che è esattamente la funzione, il ruolo che vogliamo dare a questo patrimonio: se quello di merce di scambio nel contratto che presiede all’attività imprenditoriale turistica, o quello di strumento di conoscenza ed educazione alla storia e al progresso civile.
La risposta che trasmissioni come Petrolio e la quasi totalità dei media cercano di suggerire, anche in buona fede, è che non si tratti in realtà di un’alternativa e che le due funzioni possono e debbono coesistere.
È vero, e si potrebbero fare molti esempi, prevalentemente stranieri, ahimè, di una coabitazione felice. Ma ciò accade solo quando esiste una chiara gerarchia culturale e politica fra i due ruoli, che veda l’uno, quello dello sfruttamento turistico, come ancillare, virtuosa conseguenza di quello educativo. Dipendenza frutto non di snobismo intellettuale, ma di logica: solo una cittadinanza resa consapevole, nella sua larga maggioranza, del suo valore è in grado di “usare” una risorsa così fragile come il nostro patrimonio culturale in modo sostenibile, curandone la sua trasmissione nel tempo e restituendo ad altri cittadini di un mondo sempre più piccolo, non l’esperienza avariata del turismo di massa, ma l’opportunità preziosissima di una scoperta, di un incontro di conoscenza personale, seppur breve.
Nella retorica “petrolifera”, si nasconde in realtà l’inganno dell’asservimento alle logiche del mercato di ciò che dovrebbe rappresentare proprio lo strumento di contrasto più efficace a tali logiche, la cultura.
Su questo piano l’alternativa cultura -mercato diventa una contrapposizione frontale, aliena ad ogni mediazione.
Ed è una contrapposizione che sta divenendo sempre più marcata e a cui trasmissioni come Petrolio rischiano di apportare ulteriori elementi di confusione.
Lo ripetiamo, probabilmente in buona fede.
Atteggiamento che è difficilmente attribuibile a chi, per ruolo istituzionale, sarebbe chiamato a difendere le ragioni del pubblico e che invece non perde occasione per inneggiare alle virtù del privato. Secondo l’attuale sottosegretaria del Mibac, i “beni trascurati o minori” dovrebbero essere affidati a privati, o meglio a quel terzo settore ben conosciuto dall’ex presidentessa Fai (siamo o non siamo il paese del conflitto d’interessi istituzionalizzato?). In questa visione neofeudale incurante non solo della Costituzione, ma pure della logica (difficile che i privati subentrino laddove manca proprio il requisito della redditività) lo stato è opportunamente relegato alla funzione di “custode” (sic!) per conto terzi.

Possibilmente poco rumoroso, e servizievole.

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E così, da oggi è cominciato il grande esperimento della pedonalizzazione di via dei Fori Imperiali >>>

E così, da oggi è cominciato il grande esperimento della pedonalizzazione di via dei Fori Imperiali, preannunciato dalla kermesse di ieri sera, simbolica per molti aspetti. A partire da una gestione per così dire approssimativa che, ad esempio, non ha saputo impedire la gazzarra ostentata da Alemanno sul problema delle discariche (come dicono nell'Urbe quelli educati, 'la faccia come il gomito'): défaillance che interroga non solo l'organizzazione capitolina della serata, ma la stessa Questura, beatamente ignara di quanto si stava preparando in un luogo affollatissimo e potenzialmente a rischio incidenti.

Tutta la serata si è tenuta in realtà in bilico fra qualche banalità istituzionale, momenti di passione, un po' di contorno di inutile vipperia gestita dalla presentatrice di sinistra di prammatica e, per fortuna, una debordante partecipazione popolare. Perché erano veramente tanti i cittadini romani venuti a sfidare la sfiancante afa della capitale: volevano sapere, capire qualcosa di più di quel 'progetto Fori' che si riaffaccia dopo oltre trent'anni nell'agenda politica della capitale.

Divenuta il fiore all'occhiello della campagna elettorale di Ignazio Marino, la ripresa del progetto di Petroselli, Cederna, La Regina, ha innescato, da subito, una discussione aspra. I critici, per lo più dalle colonne del Messaggero, degno erede de Il Tempo degli anni '80, il tempio dei 'romanisti' anticederniani, hanno riciclato i temi dell'intangibilità di via dei Fori Imperiali, come se l'urbanistica del ventennio si celebrasse difendendo un massacro storico archeologico, quale fu la costruzione della strada, e non piuttosto tutelando adeguatamente i monumenti dell'EUR, dove, ad esempio, il Palazzo della Civiltà italiana, come raccontano le cronache di queste settimane, è in corso di privatizzazione, senza che questo susciti il benché minimo frisson da parte dei difensori dell'ex via dell'Impero. Pur di fronte all'evidente stato di degrado e di illeggibilità storica dell'intera area centrale, si è utilizzata l'intera panoplia del 'benaltrismo': ci vuol altro per recuperare il degrado di Roma, meglio cominciare dalle periferie, ecc. ecc. ecc.

In questa querelle il nome di Antonio Cederna è stato spesso evocato, dall'una e dall'altra parte, spesso a sproposito. Sia per palesi ragioni di faziosità, sia per conclamata ignoranza, come è apparso evidente anche ieri sera, vista la presenza, sul palco, di un rappresentante di quell'Istituto di Studi Romani che 30 anni or sono contrastò il 'progetto Fori' con i più beceri argomenti della retorica criptolittoria.

Dall'una e dall'altra parte, nella discussione odierna, si dimenticano le ragioni profonde del 'progetto Fori', urbanistiche prima che archeologiche. E sociali, perché nella visione di Petroselli soprattutto, quel parco archeologico, che si allargava da Piazza Venezia all'Appia antica, aveva innanzi tutto la funzione di riconciliare i cittadini romani, a partire da quelli delle periferie più degradate, con la storia della loro città, con quella città che li aveva espulsi e condannati a condizioni di vita urbana incivili. Quel parco, come ci ha spiegato anche recentemente Vezio De Lucia, doveva costituire il momento di riscatto di una città per troppo tempo governata esclusivamente dagli appetiti fondiari, la risarcitura, in nome della cultura e della storia, di una città lacerata dalla speculazione. Che poi questo comportasse la valorizzazione - tramite lo studio e la ricerca - della più importante zona archeologica del mondo, era effetto non secondario.

Delle molte critiche al 'progetto Fori', le uniche che meritano speciale attenzione riguardano la sottolineatura della complessità del progetto sia dal punto di vista archeologico che da quello della gestione successiva dell'intera area. È senz'altro vero che l'archeologia italiana nel suo insieme viva in effetti una fase piuttosto oscura (Pompei docet), per cui è lecito domandarsi se davvero esistono le energie culturali per un progetto di questo tipo che rappresenta una sfida ben diversa da uno scavo archeologico per quanto vasto e complesso. Nella stessa direzione, per gestire nel tempo l'area prefigurata, occorrono capacità e competenze culturali, istituzionali, amministrative e politiche che solo con molto ottimismo si possono accreditare a certi settori dell'attuale classe dirigente capitolina: basti per tutti l'infelice uscita della neo assessora alla cultura sulla necessità di un manager per il parco dei Fori.

Occorrerà uno sforzo enorme e la collaborazione di molte energie e competenze, anche di quelle dei critici di buona volontà. Però ieri sera, quando nella notte romana è apparso il video di Renato Nicolini che spiegava, in un minuto e mezzo, le ragioni - così evidenti, così importanti, così definitive - del 'progetto Fori', l'applauso finale di tutti noi ha in qualche modo sancito la necessità di quell'idea, per quanto difficile e tortuoso ne sia il percorso. Perché la cialtroneria devastante con cui Roma ci esaspera, è pur sempre superata dalla sua infinita bellezza.

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In questi giorni, commentando la trasformazione in legge del così detto decreto del fare, più di un giornale sottolineava>>>In questi giorni, commentando la trasformazione in legge del così detto decreto del fare, più di un giornale sottolineava, fra i punti a favore del provvedimento, le norme per la semplificazione in materia edilizia.
Di fronte alla più grave crisi economica dell'ultimo mezzo secolo e ai guasti evidenti e sempre più irrecuperabili della cementificazione del territorio, la risposta di questa transgenica compagine governativa è ancora, almeno in parte, quella del rilancio dell'economia del mattone.

Ma c'è del metodo in questa follia, in fondo. Ciò che accade oggi, cioè gli ennesimi provvedimenti a favore di una speculazione edilizia senza regole - perché è questo che si nasconde sotto il velo ipocrita delle "semplificazioni" - sono solo l'ultimo atto di un processo storico lungo, consapevole e coerente.
Quello che ha portato il nostro paese da giardino d'Europa, a primo fra i cementificatori, con un consumo annuale di 35.000 ettari di suolo fertile.
Quello che è analizzato con lucida passione, nel libro di Vezio De Lucia Nella città dolente (Castelvecchi, 2013), ultimo in ordine di tempo di un trittico iniziato con Se questa è una città (1989 e 2006) e proseguito con Le mie città (2010).

Nella città dolente viene ripercorsa cronologicamente e per exempla, la storia funestissima e dolente del degrado del nostro territorio nell'ultimo mezzo secolo, a partire cioè da quel momento che l'autore considera quale snodo fondamentale, in negativo, di tutta la successiva vicenda urbanistica, e non solo, italiana, cioè il fallimento della riforma urbanistica basata sull'esproprio delle aree edificabili voluta dal ministro democristiano Fiorentino Sullo.

Eravamo nel 1963, nel pieno di quel processo riformista che porterà negli anni successivi ad un'evoluzione decisiva sul piano sociale e democratico del nostro paese, pur fra contraddizioni e ripensamenti.
Eppure quel colpo d'arresto inferto dai poteri forti della proprietà fondiaria sarà destinato ad avere ripercussioni negative non solo sul destino urbanistico delle nostre città, ma anche sulla tenuta democratica della stessa società.
E rappresenterà un discrimine, mai più colmato ed anzi destinato ad allargarsi, nei confronti della cultura urbanistica europea, sviluppatasi su rigorosi principi di regolamentazione pubblica dell'uso del suoli.

L'inestricabile connessione che lega urbanistica e politica è da sempre uno dei temi privilegiati di De Lucia, testimone attivo e spesso protagonista delle vicende urbanistiche di alcune città e luoghi simbolo, da Napoli a Roma, da L'Aquila a Venezia e Milano, che assieme a tanti altri sono i luoghi attraverso i quali si dipana un racconto storico incalzante: l'uso stesso di una prosa priva di tecnicismi e di grande efficacia sottolinea come in realtà, parlare della storia urbanistica italiana, argomento da sempre negletto dai media, sia spiegare un pezzo di storia del nostro paese determinante anche per capire le ragioni della crisi di oggi, che è prima di tutto crisi culturale e di cultura urbanistica.

Questo libro è quindi importante per il contributo che fornisce alla comprensione di alcuni passaggi fondamentali della storia nazionale, dall'autunno caldo del '69 a Tangentopoli fino al ventennio berlusconiano che, non per caso, porta a compimento ed estremizza la deregulation non solo urbanistica iniziata negli anni '80 del craxismo arrembante, con i condoni e i piani casa e il famigerato disegno di legge Lupi di riforma urbanistica (2005).

Ma Nella città dolente è una bussola indispensabile oggi, in tempi di memorie distorte ed intermittenti, per comprendere i fenomeni che caratterizzano le nostre città, il nostro paesaggio attuale e per capire che non sono che l'inevitabile conseguenza di decisioni politiche maturate cinquant'anni fa, i cui frutti avvelenati ancora cogliamo con suicida coazione a ripetere, come sta a dimostrare quest'ultimo decreto del fare. Le 'semplificazioni' di oggi sono figlie del progressivo abbandono delle pratiche di pianificazione di area vasta da parte dell'amministrazione pubblica, sempre più disponibile nei confronti della speculazione fondiaria.

Non inaspettatamente, man mano che questo processo di sudditanza del pubblico nei confronti degli interessi privati progrediva, aumentava, in modo direttamente proporzionale, sia lo svilimento degli organi democratici- dal ruolo dei consigli regionali e comunali a quello dello stesso Parlamento - sia l'infiltrazione delle grandi organizzazioni criminali ormai presenti in tutto il territorio nazionale e in tutti i grandi cantieri aperti in questi ultimi decenni.
Così l'urbanistica contrattata che dagli anni '80, ha scardinato la forma delle nostre città, e che per De Lucia rappresenta il momento di resa della pianificazione pubblica agli interessi privati, si coniuga sia all'esplosione del fenomeno corruttivo, poi svelato da Tangentopoli, sia all'ampliamento, geografico e politico, del raggio d'azione delle economie mafiose, da sempre legate al ciclo del mattone e del cemento.
Esemplare di questi meccanismi, e della loro trasversalità politica, come il libro spiega esemplarmente, il caso Sesto San Giovanni.

Eppure, in questo panorama che De Lucia disegna con accenti pessimistici, ma mai rassegnati e anzi propositivi, esistono, come rileva lo stesso autore, oasi di resistenza e un allargamento della consapevolezza che qualcosa deve essere cambiato, impensabile all'epoca di Se questa è una città.
E, inaspettatamente, riaffiorano temi e progetti che parevano definitivamente travolti dall'ondata dell'urbanistica neoliberista.

Uno per tutti, quel progetto Fori la cui storia costituisce uno dei capitoli più amari del libro, e che pare, da qualche settimana, ritornato fra i primi posti nell'agenda della politica capitolina.
L'idea di una nuova idea di città, in grado di rilanciare il destino urbanistico di Roma a partire dalla sua storia e archeologia attraverso un grande parco che dall'area centrale dei fori si allarghi a comprendere Colosseo, Circo Massimo, fino all'intero parco dell'Appia Antica.

Era il progetto di Cederna e Petroselli. E di De Lucia e di quella sua stravagante idea di un'urbanistica regolata dalla mano pubblica come strumento necessario per garantire una migliore qualità di vita di tutti i cittadini.
Idea cocciutamente perseguita in cinquant'anni di attività in direzione ostinata e contraria: Nella città dolente è solo l'ultimo capitolo di una storia di resistenza che continua.

Vezio De Lucia, Nella città dolente. Mezzo secolo di scempi, condoni e signori del cemento dalla sconfitta di Fiorentino Sullo a Silvio Berlusconi, Castelvecchi, 2013.

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Fra pochi giorni, il 31 luglio, scadranno i termini del bando di gara>>>
Fra pochi giorni, il 31 luglio, scadranno i termini del bando di gara per la concessione di una delle più importanti aree archeologiche della zona centrale di Roma, quella che comprende il Teatro di Marcello, il Portico d'Ottavia e il Tempio d'Apollo Sosiano e di Bellona. L'area, di valenza storico monumentale straordinaria, è di pertinenza della Sovraintendenza capitolina ai Beni culturali, cioè del Comune di Roma. Da sempre trascurata, ma comunque inserita in uno dei quartieri, quello del ghetto ebraico, fra i più vivaci del centro storico, oltre ai monumenti sopra ricordati la zona comprende anche Monte Savello e tutta l'area archeologica di connessione fra le varie emergenze: secondo il bando emanato dalla moribonda giunta Alemanno (pubblicato il 22 maggio 2013), il Comune vorrebbe concederla in concessione per attività di gestione e valorizzazione per 20 - dicasi 20 - anni. Al vincitore della gara spetterà occuparsi, oltre che dell'apertura e dei servizi di accoglienza, anche della progettazione e realizzazione degli immancabili "eventi" e dei servizi didattici, oltre che di book shop, ristorazione, attività di comunicazione ed editoriali e marketing assortito. L'apertura, fino ad oggi gratuita, sarà a pagamento e questo significa che un altro pezzetto di spazio pubblico della città, ancor più prezioso in quanto di altissimo valore storico e artistico, sarà definitivamente sottratto ai cittadini ad uso esclusivo dei turisti.

Fra i tanti punti oscuri di questa operazione, decisa da un'amministrazione in dismissione, quello più macroscopicamente pericoloso è la durata della concessione: 20 anni sono un'era geologica per un'area urbana. Significa che per una generazione l'amministrazione pubblica non si occuperà più di questi spazi, delegati in toto al privato cui si richiedono ben poche garanzie sul piano culturale: nel bando non si parla affatto di meccanismi di verifica e monitoraggio, nonostante si tratti di attività complesse e assai diverse fra di loro per tipologia, per le quali il bando prevede infatti la possibilità di subappalti.

Anzi, l'unica possibilità di rinegoziazione del contratto è esplicitamente prevista solo in ampliamento, con l'inserimento, nell'area in concessione anche dell'ex Albergo della Catena a fronte di "eventuali finanziamenti derivanti da mecenatismo e/o sponsorizzazioni". Tradotto: l'unico elemento di riscontro sono i soldi, in cambio dei quali il diritto a "sfruttare economicamente" (sic) l'area è completo e, come sembra dal bando, senza controlli. Quest'ultimo colpo di coda della giunta Alemanno si inserisce perfettamente in quella politica di privatizzazione progressiva degli spazi pubblici e del patrimonio culturale che caratterizza l'attuale fase di governo a livello nazionale e locale.

Se a Firenze, come denuncia oggi Tomaso Montanari, la Soprintendente (statale) ha approntato il suo tariffario per la "concessione in uso dei beni culturali per eventi", includendo tali beni gli Uffizi, Palazzo Pitti e giardino di Boboli, di ieri è la notizia, sui giornali siciliani, dell'affitto del Tempio di Segesta per 'eventi' di qualsiasi tipo alla Modica cifra di 5.000 euro. Prezzo da saldo, considerato che comprende la possibilità di usare il piazzale dell'ex stazione ferroviaria come eliporto per gli ospiti dell'evento, come già accaduto lo scorso 20 giugno, per una cena a lume di candela che ha comportato, quale quisquilia collaterale, la mancata illuminazione notturna del tempio. È certo che le risorse economiche disponibili per il nostro patrimonio culturale siano poche e mal distribuite, ma è altrettanto certo che con queste svendite di fine stagione non riusciremo a colmare i buchi di bilancio, ma solo a proporci come un paese straccione disponibile a qualsiasi compromesso al ribasso.

Il sindaco Marino ha ora una possibilità fantastica di dimostrare nei fatti l'assoluta discontinuità con la giunta precedente: blocchi quel bando quale primo passo di un'autentica politica culturale che serva di esempio ai colleghi facilmente seducibili dal fascino del glamour rosso Ferrari e alla dirigenza del Mibac che ha ormai smarrito il senso della propria funzione.

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Improvvisamente, ma non inaspettatamente, si riaccendono le polemiche su Pompei.>>>
Improvvisamente, ma non inaspettatamente, si riaccendono le polemiche su Pompei. L’occasione è la diffusione del secondo rapporto UNESCO sullo stato del sito che sottolinea il degrado nella sua vastità: nell’area degli scavi e in quella circostante e soprattutto il tempo perduto in questi 3 anni.

Era il 6 novembre 2010 quando il crollo della Schola Armaturarum, la casa dei gladiatori, divenne il caso simbolo, a livello mondiale, della condizione del nostro patrimonio culturale e dell’incapacità del Ministero dei Beni Culturali di tutelare persino uno dei siti archeologici più importanti al mondo. Qualche mese dopo (dicembre ‘10– gennaio ‘11), l’Unesco - Pompei, dal 1997, è nella World Heritage List - inviò un gruppo di ispettori Icomos per monitorare la situazione. I tre ispettori, studiosi di riconosciuta competenza, stilarono un report inviato, oltre che all’Unesco, al Mibac, dove fu prontamente “archiviato”, senza riscontri.

Nel rapporto, con grande diplomazia, si evitarono ultimatum ed anzi si riconobbero le difficoltà insite nella gestione di un sito così ampio (66 ettari di cui 44 scavati) e complesso. Nello stesso tempo si evidenziarono le criticità sulle quali agire, riassunte in 15 raccomandazioni finali di esemplare chiarezza: la mancanza di tecnici specializzati (non solo archeologi, ma restauratori , manutentori, ingegneri), la necessità urgente di operazioni per l’eliminazione del rischio idrogeologico (tutte le volte che piove, c’è un crollo), la fragilità del contesto, ovvero sia della zona extra moenia, attorno al sito. Il report sottolineava infatti come Pompei fosse stata inserita nella lista Unesco dei siti dell’umanità non solo per l’importanza in termini archeologici, ma per il rapporto, allora ancora in gran parte intatto, fra la città e il panorama circostante, a partire dal Vesuvio. Questa zona che circonda gli scavi è invece stata terreno di abusi di ogni tipo che l’hanno ridotta a livello di un suk informe di costruzioni e allestimenti più o meno provvisori e più o meno legali.

Da allora, mentre i crolli si sono succeduti, sono passati due anni abbondanti: sono cambiati tre ministri dei beni culturali e due governi, l’ex commissario Marcello Fiori è stato incriminato per i restauri del Teatro Grande, sono arrivati i soldi della UE, molte decine di milioni (anche se le cifre del Mibac sono un po’ ballerine), e, ai primi di aprile del 2012, è stato avviato, fra squilli di trombe e rulli di tamburo, il Grande Progetto Pompei (maiuscole incluse). Nelle intenzioni dei 4 ministri 4 presenti all’epoca, doveva trattarsi del definitivo piano di rilancio del sito: non solo messa in sicurezza, quindi, ma “alto impatto di sviluppo” per l’intera area.

Dopo molti stop and go, i primi cantieri (un paio) del Grande Progetto, relativi al restauro di due domus, si sono avviati, alla fine, nel febbraio di quest’anno, 2013, in seguito a gare aggiudicate con ribassi del 57% e il commissariamento, per lo meno amministrativo, della Soprintendenza Archeologica da parte della società Invitalia.

Come preannunciato in quel primo report del 2011, intanto, gli ispettori Unesco sono tornati a verificare la situazione nel gennaio di quest’anno. E si sono resi conto che pochissimo era stato fatto rispetto a quelle recommendations, sia sul piano del personale specializzato che sulle attività di manutenzione ordinaria: decisamente peggiorato lo stato di conservazione complessivo delle strutture e ampliato il rischio di danni anche gravi con pesante impatto sulla fruizione (73% del sito inagibile per il pubblico). E hanno pure dovuto constatare che le costruzioni incongrue ed abusive erano aumentate. Eleganti, ma radicali, infine, le critiche al Grande Progetto in termini di tempistica ed efficacia.

La gravità del rapporto Unesco non sta solo in ciò che segnala sull’attuale situazione, ma nel fatto che in oltre due anni, i responsabili del Ministero (o dei ministeri) abbiano colpevolmente trascurato le indicazioni di un organismo scientifico di altissimo livello e super partes (e animato, almeno finora, da grande spirito di collaborazione) per inseguire i Grandi Progetti, voluti in particolare dall’ex ministro Barca, e abbiano, con questo, buttato a mare tempo e competenze preziosissime.

La polemica di queste ore comprende anche le profferte dell’amministratore delegato di Impregilo che, a suo dire, avrebbe voluto donare 20 milioni al sito senza riuscirci. Al di là delle doverose verifiche che vanno effettuate su generosità che prevedono spesso lauti ritorni - almeno in termini di immagine- da parte del “mecenate” di turno, come ci ha insegnato il caso Colosseo-Della Valle, il problema di Pompei non sta nella mancanza di risorse economiche: i soldi ci sono, anche se naturalmente altri fondi sarebbero benvenuti.

Quello che manca è invece la capacità organizzativa e la consapevolezza che il recupero di Pompei non può che essere il frutto di un insieme di molteplici operazioni, singolarmente modeste – così come indicavano gli ispettori UNESCO fin dal primo rapporto – ma inquadrate in una stategia complessiva e quella sì, grandiosa, coerente e di lungo respiro.
A Pompei, come per l’Italia.

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Luci e ombre nel programma del neo ministro per i beni e le attività culturali illustrato alle commissioni parlamentari il 23 maggio scorso...>>>
Luci e ombre nel programma del neo ministro per i beni e le attività culturali illustrato alle commissioni parlamentari il 23 maggio scorso.Apprezzabile la buona volontà di superare il consueto carattere general-generico di documenti analoghi anche molto recenti, intenzione che traspare più che dal testo in sè, dagli allegati finali, dove è finalmente possibile avere qualche dato sulle risorse economiche e di personale del Ministero, sulla loro ripartizione e sul loro andamento negli ultimi dieci – otto anni (non era scontato per un’amministrazione notoriamente omertosa).
Scontato invece che l’autocritica su quest’ultima stagione ministeriale da dimenticare, sia piuttosto debole: il documento risulta palesemente ispirato, in molti punti (paesaggio, rapporti internazionali, archeologia), da quella stessa dirigenza responsabile dell’attuale situazione di degrado sottolineata dall’insieme dei media e del mondo culturale, non solo italiano.
Però in un orizzonte storico e politico eccezionale quale è quello attuale, un’analisi meno edulcorata che non indulgesse in autoassoluzioni sarebbe non solo fortemente auspicabile, ma costituirebbe il primo indispensabile passo per ripartire. E per cominciare a delineare una politica culturale degna di questo nome: non solo quindi un elenco di buone intenzioni (talora contraddittorio), ma uno schema che individui pochi obiettivi di fondo, priorità d’azione chiare e risorse necessarie, affrontando alcuni nodi ineludibili.
A partire dalle risorse economiche: l’immagine che emerge dal documento del 23 maggio riguardo a questo tema è piuttosto quello di una navigazione a vista. I soldi non ci sono e non ci saranno (per tutta la legislatura?), ergo non resta che rivolgersi al soccorso di chi può: privati e fondi europei su tutti.
La grande penalizzata dei tagli di bilancio che hanno colpito il Mibac è la tutela, le cui risorse risultano decurtate negli ultimi 5 anni di oltre il 58%: impossibile, in questa situazione, esercitare quelle attività di manutenzione programmata che pure lo stesso documento correttamente individua come prioritarie operazioni di prevenzione del rischio sismico.
Ma la crisi incombe e molto prudentemente, nel documento, a parte l’evergreen dell’incentivazione della fiscalità di vantaggio, non si individuano altri percorsi. Eppure vi è un ambito dove il Ministero potrebbe, finalmente, cominciare ad esercitare una tutela efficace e addirittura elaborare una politica culturale vera e propria praticamente senza risorse aggiuntive: il paesaggio.
Il paesaggio ricorre in verità in più punti delle linee programmatiche, ma questa dispersione appare piuttosto indice di una mancanza di visione complessiva: consumo di suolo, tutela e qualità del paesaggio, centri storici sono parti di un tutto inscindibile e andrebbero ricollocati non pensando, come sembra di capire, a distinti provvedimenti normativi da elaborare ex novo o da riprendere, ma all’interno di quel processo imprescindibile che è la pianificazione paesaggistica, come normata dal Codice.
La costituzione, cui si allude nel documento, di un apposito gruppo di lavoro per la “manutenzione” del Codice alla cui presidenza – come trapela da varie fonti – sarebbe chiamato Salvatore Settis è un punto fermo che aiuta a sperare. I compiti di questo gruppo di lavoro, però, oltre che sugli aspetti accennati nelle linee ministeriali (normativa sui monumenti nazionali) dovranno essere prioritariamente rivolti proprio alla parte sul paesaggio, investita dagli innumerevoli attacchi ai fianchi portati soprattutto dalla Conferenza delle Regioni e dal mondo dell’imprenditoria edile.
Un esempio fra tutti: il provvedimento di autorizzazione paesaggistica, l’ultimo baluardo rimasto nelle mani delle organismi territoriali di tutela, le Soprintendenze. L’esercizio dell’autorizzazione paesaggistica, provvedimento necessario a qualsiasi trasformazione si voglia operare sul territorio in aree tutelate, in questi ultimi anni è stato oggetto di pressioni fortissime e bersaglio preferito di un complesso farraginoso – ma a suo modo perfettamente congruente – di norme ricadenti sotto l’etichetta passepartout di “semplificazione” : il grimaldello usato per operare una contrazione generalizzata degli spazi riservati al sistema delle tutele in nome di una fantomatica agevolazione della ripresa economica (le grandi opere, in particolare). Suona pertanto minacciosamente contraddittorio il documento di indirizzo, laddove afferma che “occorre semplificare alcune procedure eccessivamente burocratiche” (punto 2).
Ma ad oltre cinque anni di distanza dall’entrata in vigore dell’ultima versione del Codice, bisogna riconoscere che la legge, in mancanza di una volontà politica adeguata, non è stata sufficiente ad innescare un processo virtuoso di tutela e il disegno prefigurato è tuttora largamente incompiuto. Nessuna delle Regioni tenute alla pianificazione paesaggistica ai sensi del Codice si è dotata di un piano paesaggistico conforme al Codice stesso, un terzo risulta in uno stadio iniziale o addirittura non ha ancora attivato l’iter di copianificazione. Nulla si sa di quell’Osservatorio nazionale del paesaggio, istituito nel 2008 ai sensi dell’art. 133 del Codice per divenire il presidio di indirizzo e controllo dell’operazione di pianificazione e mai operativo.
Ancora più grave è l’ormai conclamata rinuncia - organizzativa, culturale, politica - da parte del Mibac a governare le operazioni della pianificazione, a partire dalla redazione delle “linee fondamentali sull’assetto del territorio” previste dall’art. 145, tuttora mancanti seppur indispensabili a garantire una cornice unitaria all’insieme del paesaggio nazionale. E se manca la cornice – imprescindibile – delle linee guida, manca anche una definizione puntuale del contenuto degli accordi di pianificazione, le regole e i criteri affinchè i piani possiedano le prescrizioni e le cogenze necessarie a tutelare l’identità dei paesaggi propri delle singole regioni.
Purtroppo, sotto questo punto di vista, il documento del ministro, non solo non riconosce (punto 10) la gravità dei ritardi accumulati e non accenna minimamente alle linee fondamentali, ma sembra addirittura ridurre l’attività della copianificazione alla semplice ricognizione dei vincoli. Si tratterebbe dello svuotamento definitivo del carattere innovativo della copianificazione: il tentativo di definire il destino del territorio italiano a partire da un confronto paritario – istituzionalmente – fra Stato e Regioni, ma chiaramente gerarchico – costituzionalmente – perchè mirato a salvaguardare, innanzi tutto, il paesaggio italiano, riconosciuto come patrimonio comune della collettività da anteporre a qualsiasi obiettivo economico.
Il testo programmatico conferma purtroppo la deriva interpretativa sposata, in una convergenza viziosa, da Ministero e Regioni, in virtù della quale la copianificazione si sta trasformando in una semplice operazione di maquillage normativo da un lato, e di compromesso al ribasso, nei contenuti: ampi, lirici preamboli e, a volte, accurate analisi dal punto di vista culturale e geomorfologico sono anteposte, esornativamente, ad un insieme di disposizioni quasi mai a valore prescrittivo, quasi sempre inutili ai fini della tutela, quando non palesemente in contrasto e pertanto incostituzionali.
Depotenziata la pianificazione paesaggistica, ben poco rimane in mano al Ministero per governare la partita della tutela del paesaggio, tanto che lo stesso testo ministeriale è costretto a debordare in spazi di pertinenza non propria, laddove invoca, per il contenimento del consumo di suolo, nuove norme urbanistiche, oppure quando rivendica per il progetto architettonico una funzione di panacea universale contro gli orrori delle periferie urbane, in nome di una qualità perseguibile con strumenti giuridici (ma una Dives Misericordia, chiesa pur di altissima qualità architettonica, non basta da sola a riqualificare l’anonima distesa cementizia di Tor Tre Teste).
L’incomprensione della funzione della pianificazione paesaggistica traspare del resto in tutto il documento, anche laddove, ad esempio (punto 14), si proclama la necessità della ratifica della Convenzione di Malta. Quel documento fu elaborato, nel 1992, in seno al Consiglio d’Europa per proporre, ai paesi sottoscrittori, un insieme di linee guida sulla protezione del patrimonio archeologico minacciato dai lavori edilizi e infrastrutturali (in particolare le grandi opere): la firma del Mibac manca da vent’anni non per casuale distrazione, ma perchè l’Italia, al contrario di molti paesi europei, non ha mai voluto inserire le attività di archeologia preventiva fra le operazioni indispensabili alla pianificazione territoriale. In questo modo scontiamo su questo tema vitale per la tutela del patrimonio archeologico un ritardo drammatico che è alla base della situazione di precariato diffuso che contraddistingue le ultime due generazioni di archeologi professionisti.
Il rilancio politico della pianificazione paesaggistica, in questo senso, non è quindi uno dei tanti punti possibili dell’azione governativa del Mibac, ma “il” punto fondativo di una riqualificazione dell’intero sistema delle tutele.
Sulla pianificazione paesaggistica, di inalterata attualità (purtroppo), v. Primo Rapporto sulla pianificazione paesaggistica in Italia, a cura di Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi, Roma, 2010.
Lo so che i programmi elettorali sono come le promesse degli amanti che, come ci insegnava Catullo, sono scritte sull’acqua e nel vento >>>

Lo so che i programmi elettorali sono come le promesse degli amanti che, come ci insegnava Catullo, sono scritte sull’acqua e nel vento.
Però imbattersi, a pag. 47 del programma elettorale di Ignazio Marino, candidato sindaco di Roma, nella riproposizione articolata del progetto Fori, fa tornare a sognare.

Si tratta del progetto nato da un’idea di Leonardo Benevolo, voluto da Adriano La Regina, allora Soprintendente archeologo di Roma, che nel dicembre 1978 lanciò un drammatico appello sul degrado dei monumenti antichi nell’area centrale, dovuto all’inquinamento da traffico. Ciò che si proponeva era, in estrema sintesi, la chiusura al traffico e successiva eliminazione di via dei Fori Imperiali (la mussoliniana via dell’Impero, costruita per le parate militari fasciste) e la creazione di un grandioso parco archeologico che da Piazza Venezia giungesse a collegare Colosseo, Circo Massimo, e tutta l’area dell’Appia Antica. Un cuneo di verde e archeologia, natura e cultura che da Piazza Venezia potesse giungere fino ai piedi dei colli albani. Come l'ha più volte definita Vezio De Lucia, la pagina più straordinaria dell'urbanistica della Roma contemporanea.
L’idea fu subito sostenuta senza riserve da Antonio Cederna, Italia Nostra ed altri intellettuali e sposata, con grande energia, da Luigi Petroselli, divenuto sindaco nel settembre dell’anno successivo, il 1979.
Cederna in particolare la difese in ogni sede e, prima di altri, ne comprese il valore dirompente sul piano urbanistico: quel parco archeologico nel centro della città significava soprattutto dare forma ad un’altra idea di Roma, ripensarla facendo del suo passato archeologico non più solo una sfilata di monumenti per turisti, ma la riappropriazione della storia da parte dei cittadini romani.

Finchè Petroselli fu sindaco, il progetto conobbe progressi entusiasmanti: in pochi mesi l’eliminazione di via della Consolazione che spezzava in due il foro romano e quella del piazzale che separava l’arco di Costantino e il Palatino dal Colosseo. Ma dalla sua morte, nell’ottobre del 1981, cominciò un lento abbandono che neppure la tenacia polemica di Cederna riuscì a ribaltare. Nel 2001 il Ministero dei Beni culturali appose addirittura un vincolo sulla sistemazione littoria di via dei Fori Imperiali.

Eppure, nonostante la vittoria di chi si opponeva, in nome dei diritti degli automobilisti, ad un progetto così innovativo, il progetto Fori ha continuato ad aleggiare fino ai giorni nostri: sia per la suggestione che continua a provocare quell’idea di “sublime spazio pubblico”, come lo definì Leonardo Benevolo, sia perchè i problemi dell’area centrale a Roma si sono, se possibile, aggravati.

Lo spazio archeologico forse più importante al mondo è tuttora spezzato in due monconi incongrui dallo stradone fascista, tutta la zona è congestionata dai cantieri della metropolitana, e continua ad impazzare il suk di gladiatori, guide abusive, venditori di gadgets e souvenirs, camion bar e connessa umanità.

Naturalmente il traffico che ancora circonda il Colosseo non ha mancato di provocare danni sia all’anfiteatro che ai monumenti vicini: i milioni di Della Valle (se mai arriveranno) saranno utilizzati per rimediare soprattutto ai guasti da inquinamento.

L’area centrale è, come sempre, lo specchio della politica culturale e urbanistica del Campidoglio: cinque minuti bastano per avere la sintesi di questi ultimi anni di amministrazione della capitale, connotati dal degrado e dalla mancanza di una qualunque strategia per la città, il suo passato e il suo futuro.

Leggere nel programma di Marino le parole di Benevolo sul progetto Fori, risveglia antichi sogni. E non bastano i mugugni dei vecchi brontoloni – sempre Catullo – che subito hanno ribadito “l’impossibilità” del progetto: perchè mancano le risorse, perchè un parco di tali dimensioni sarebbe ingestibile, perchè altri sono i problemi, oppure semplicemente perchè ormai è passato troppo tempo.

La politica deve poter essere anche lo spazio della speranza.
Ripartire dal progetto Fori, anche se gradatamente, come saggiamente indica Rita Paris, archeologa candidata della lista civica per Marino, significa credere nella possibilità di un diverso destino per Roma. Significa riconquistare ai suoi cittadini, prima che ai turisti, uno spazio pubblico di enorme valore simbolico e sociale.
Significa realizzare il sogno di Cederna e Petroselli nei cui confronti Roma ha un debito enorme che bisogna cominciare ad estinguere.

La storia dettagliata del progetto Fori, la potete leggere oltre che su eddyburg, in due volumi recenti: E.Baffoni, V. De Lucia, La Roma di Petroselli, Roma 2011 e V. De Lucia, Nella città dolente, Roma 2013.
In eddyburg, in particolare:
V. De Lucia, Antonio Cederna, Luigi Petroselli, il progetto ForiV. De Lucia, L'Appia antica e il Progetto Fori

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Il 18 maggio ci sarà la Notte dei Musei: la possibilità di visitare decine e decine di musei in tutta Europa >>>
Il 18 maggio ci sarà la Notte dei Musei: la possibilità di visitare decine e decine di musei in tutta Europa con aperture straordinarie fino a tarda notte e di assistere ad eventi, performances, concerti o visite guidate nelle istituzioni coinvolte.
Si tratta di un’iniziativa ideata nel 2005 dal Ministero della Cultura francese e poi rilanciata, a livello europeo, dal 2011 quale espansione della giornata dei Musei creata dall’ICOM nel 1977 che coinvolge oltre 30.000 musei in tutto il mondo.
L’International Museum Day è un appuntamento di grande importanza culturale che ogni anno si focalizza su di un tema preciso: quest’anno, 2013, è dedicato al museo come strumento del “social change”.

Il Mibac non aderisce al Museum Day, nessun museo statale è quindi presente. In compenso, molte istituzioni museali parteciperanno alla Notte europea dei Musei: l’appendice più dichiaratamente mirata all’infotainment, versione semplificata e glamour della vecchia didattica.
Non stupisce questa scelta da parte di un ministero che negli ultimi anni ha appiattito il concetto di fruizione del nostro patrimonio culturale sulla logica dell’evento e della valorizzazione turistica.

Senonchè, di fronte a problemi di organico sempre più gravi che limitano le attività quotidiane di musei e siti archeologici, persino quelli più celebrati come Colosseo (aperto, in alcuni giorni, con 8, dicasi 8, custodi in tutto) e Pompei, il Mibac ha annunciato nei giorni scorsi l’intenzione di ricorrere a volontari per garantire l’organizzazione dell’iniziativa.
Di fronte alle proteste subito esplose dei tantissimi professionisti precari del settore culturale, la decisione è poi stata difesa dal sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni con l’incredibile giustificazione che, poichè non ci sono le risorse, e in attesa di tempi migliori, non si può che fare così; i volontari diventano quindi, sic stantibus rebus, una necessità. Affermazioni perfettamente allineate con quelle che il successore di Borletti Buitoni al Fai va ripetendo all’unisono con la stampa benpensante e gran parte del mondo politico: la gestione del patrimonio culturale va lasciata ai privati (mentre la tutela, oscura, faticosa e sempre più costosa, rimane ovviamente in capo allo Stato).

Questa vicenda, oltre a ribadire l’approssimazione con cui il Mibac affronta le iniziative di valorizzazione, ne sottolinea anche la colpevole indifferenza nei confronti di chi, in situazioni spesso al limite della dignità, garantisce ormai da anni servizi e attività di primaria importanza nei musei, nelle biblioteche e archivi, sulle centinaia di scavi di archeologia preventiva o di emergenza.

Stiamo parlando delle migliaia di giovani (e spesso non più tali) laureati nell’ambito dei beni culturali, spesso plurispecializzati, costretti, in quanto precari e anche a causa della mancanza di regole dovuta all’inadempienza dell’alta dirigenza ministeriale, ad operare in condizioni professionali che la riforma Fornero ha spinto alle soglie dello sfruttamento: con retribuzioni orarie fra i 5 e i 10 euro lordi e un reddito annuo che non supera, nella maggioranza nei casi, i 10.000 euro lordi l’anno (la soglia di povertà secondo l’ISTAT).

Così, invece di affrontare, sul piano dell’azione politica, quello che è divenuto un vero e proprio problema sociale e in ogni caso una insufficienza di risorse umane interne che non potrà che avere pesanti ripercussioni sul piano della stessa tutela, al Collegio Romano ci si trastulla con gli eventi effimeri della Notte dei Musei.

La protesta dei professionisti precari dei beni culturali, sacrosanta, nei confronti non dei volontari in quanto tali, ma dell’ennesima dimostrazione di arroganza miope di un Ministero incapace di ribellarsi alla propria conclamata irrilevanza politica, è dilagata soprattutto sui social media (#no18maggio). Andatele a leggere quelle ragioni e quelle storie: pur in mezzo a tanta rabbia, prevale la passione per il proprio lavoro e la tenacia a continuare nel percorso intrapreso. Tanto che al posto di “generazione co.co.co.” è spuntata, su twitter, la definizione di “generazione pro.pro.pro.”, come protesta, progetto, proposta.
A questa #generazionepro è affidato l’unico futuro auspicabile per il nostro patrimonio culturale: forza ragazzi!

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Su questi temi, in eddyburg,
Beni culturali: tra l'inferno del precariato e l'arroganza della politica
Strada senza uscita

Domenica scorsa, centinaia di storici dell’arte, architetti, archeologi, operatori a vario titolo dei beni culturali si sono ritrovati a L’Aquila >>>
Domenica scorsa, centinaia di storici dell’arte, architetti, archeologi, operatori a vario titolo dei beni culturali si sono ritrovati a L’Aquila per testimoniare attraverso un percorso lungo le strade abbandonate del centro storico e un incontro nella chiesa di San Giuseppe artigiano, una delle poche agibili in centro, che il problema della ricostruzione della città abruzzese è un problema di tutto il paese. L’iniziativa, nata da un’idea di Tomaso Montanari e da lui organizzata con appassionata tenacia, assieme soprattutto a Santa Nastro, ha conosciuto molti momenti di grande intensità e si è conclusa con l’orazione civile di Salvatore Settis che, rileggendo le vicende aquilane, a partire dalla costruzione delle new towns, vera e propria antitesi del concetto di città, ancora una volta ha additato nella nostra Costituzione il baluardo della cultura della tutela, fattore essenziale di aggregazione civile.

E’ un percorso, quello nel centro storico, che dovrebbe essere reso obbligatorio a tutti i nostri rappresentanti politici e ai giornalisti: a quattro anni dal sisma, L’Aquila è una città deserta e abbandonata. Le migliaia di impalcature che la rivestono, ossessivamente, implacabilmente, sono ancora là, più che a proteggere, a congelare in un abbraccio che si è fatto mortale. I timidi segnali di ripresa che consistono in qualche cantiere di restauro attivato negli ultimi mesi, sono ancora ben lontani dall’aver raggiunto una massa critica tale da innescare un processo virtuoso di rinascita.

D’altronde lo stesso sindaco Cialente, il giorno seguente, restituendo la fascia tricolore, ha scritto, al Capo dello Stato: «Ieri, 5 maggio, mille storici dell’arte italiani, si sono incontrati a L’Aquila per denunciare lo stato di abbandono del centro storico ed il fallimento della ricostruzione. Mi sono sentito mortificato come Sindaco, mortificato di dover mostrare ancora le nostre piaghe».

Al primo cittadino, come a tutta la classe politica locale, possono, in realtà, essere imputate molte responsabilità, ma è soprattutto sulle cause di questo fallimento che è opportuno interrogarsi.
Per quanto riguarda la ricostruzione del centro storico, certamente, uno dei problemi principali è quello dei soldi, che mancano, per i restauri e le ricostruzioni.
Ma forse ancora più grave è l’incapacità dimostrata sino a questo momento dagli organi di tutela di imporre politicamente la ricostruzione del centro storico – uno dei più importanti, dal punto di vista monumentale, in Italia - come l’elemento guida per la rinascita della città.

Così si è lasciato spazio e risorse all’esperimento delle new towns, prima, e recentemente si sono sostenute le avventurose affermazioni del documento OCSE che in sostanza ammette, con qualche restrizione di facciata (in senso anche letterale), ogni genere di trasformazione per il tessuto edilizio non monumentale.

E’ il ribaltamento di quanto la Carta di Gubbio, nel 1960, aveva affermato, ovvero sia il “carattere unitariamente monumentale dei centri storici”, all’interno del quale non esistono trasformazioni fra monumenti di pregio ed edilizia minore e per questo l’unica modalità d’intervento consentita è il restauro. Il centro storico non può essere perciò il luogo dove si realizzano nuove architetture (come si è fatto invece con l’Auditorium di Renzo Piano). Le nuove architetture sono destinate, come ci aveva insegnato Cederna fin da I vandali in casa, a riqualificare la periferia, anche a L’Aquila di pessima qualità edilizia ed architettonica.

Leonardo Benevolo ha recentemente definito la pratica del restauro conservativo nei centri storici come il più importante contributo della scuola italiana all’urbanistica del Novecento: questa lezione ha fatto scuola in Europa, ed è ormai un’acquisizione consolidata.

Non in Italia, dove, al contrario, viene continuamente rimessa in discussione in nome della “modernità”. E’ di queste ultime settimane lo slogan “dov’era, ma non com’era” che in sostanza oppone alla pratica del restauro filologico il 'progetto' del nuovo, come soluzione per la ricostruzione posterremoto di centri storici e monumenti in Emilia.

Quest’ossimoro della ricostruzione senza restauro è purtroppo appoggiato dalla stessa Direzione Regionale dell’Emilia Romagna, l’organo del Mibac che coordina le operazioni per quanto riguarda l’insieme del patrimonio culturale, che pare favorevole a consentire che molti dei monumenti danneggiati dal sisma di un anno fa, soprattutto se gravemente danneggiati, possano essere ricostruiti con forme e tecniche del tutto differenti da quelle precedenti.

Il caso emiliano rischia di non essere isolato: ancora qualche anno, forse qualche mese e gran parte degli edifici del centro storico aquilano non potranno più essere recuperati se non con operazioni di consolidamento e restauro costosissime, troppo costose per non far riemergere la tentazione del “dov’era, ma non com’era”.

La ricostruzione e rinascita del centro storico aquilano, non è solo una questione culturale nel senso settoriale del termine; come è stato ribadito da Vezio De Lucia nel convegno del 5 aprile, il centro storico deve tornare ad essere il perno territoriale per contrastare la tendenza dell’Aquila allo sparpagliamento e alla dissipazione del territorio, tendenza esplosa con le new towns e che rischia di trasformare L’Aquila in una sterminata periferia, per di più priva di servizi.

Anche per questo, come hanno scritto sui loro cartelli i tantissimi studenti di storia dell’arte presenti alla manifestazione del 5 maggio “non c’è più tempo per aspettare domani”.

Fra tutti i compagni di viaggio che si potevano auspicare per il nostro disastrato patrimonio culturale, quello del turismo è sicuramente il più scontato. E il più pericoloso. Già in passato avevamo rilevato come un abbinamento di questo genere tende ad appiattire, inesorabilmente, la funzione dei beni culturali e paesaggio a quella di strumento al servizio delle rendite economiche derivate dai flussi turistici. Non solo: il turismo, prima industria a livello mondiale, ha un’impronta ecologica pesantissima e, se non governata, è causa di pesanti ricadute su monumenti, città e paesaggi, in termini di pressione antropica, degrado dei centri storici, speculazione edilizia: fenomeni ormai ben noti al Bel Paese. Insomma rischia di essere l’attività che vampirizza e distrugge la risorsa che la alimenta.

Intendiamoci, la legittimità e opportunità di un uso turistico del nostro patrimonio culturale non è in discussione. Il problema è piuttosto di governare un fenomeno con strumenti più efficaci di quelli finora adottati, considerate le caratteristiche quantitativamente espansive che lo connotano. L’uso a fini turistici del nostro patrimonio culturale è invece tuttora caratterizzato da elementi di improvvisazione e superficialità di analisi che tendono ad appiattirsi su di uno sfruttamento acritico, in cui una “valorizzazione” improvvisata sforna eventi e attività senza innovazione e senza strategia.

E soprattutto, il turismo deve tornare ad essere una fra le tante possibili attività di fruizione del nostro patrimonio culturale. Non la sola e predominante. Perchè oltre ai turisti ci sono i cittadini e coloro che aspirano a diventarlo e per i quali l’integrazione può e deve avvenire anche attraverso quello strumento formidabile di inclusione e coesione che possono diventare i nostri beni culturali.

Oltre e più che al turismo, quindi, occorrerà tessere stretti legami con altri settori, quali quello dell’istruzione, dell’integrazione, della coesione territoriale. E quello dell’ambiente, perchè una delle prime emergenze che si troverà ad affrontare il neoministro è quella del paesaggio, abbandonato da almeno tre ministri in un limbo di inazione politica gravissimo (v. su questo blog: Dopo lo tsunami, chi vuole il paesaggio?).Accanto a questa, il problema drammatico della carenza di risorse economiche (chiudere Arcus, subito!) e quello del personale. E qui, per trovare competenze ed energie, meglio guardare ai territori e uscire dagli ambienti asfittici e autoreferenziali di un centro ipertrofico e poco incline all’innovazione, come stanno ad esempio a dimostrare i fallimenti di ICCD e del portale CulturaItalia.

L’insieme di questi problemi può essere però ricondotto ad una causa fondamentale: ciò che manca da troppo tempo al Collegio Romano è la capacità di elaborazione di una strategia complessiva che parta da una visione finalmente aggiornata e democratica della funzione sociale del nostro patrimonio culturale. Insomma, una politica dei beni culturali e del paesaggio degna di questo nome che sappia restituire al Ministero un ruolo di rilevanza primaria all’interno delle dinamiche governative.

Non sarà facile, ma mentre scrivo queste righe si rincorrono ancora le notizie relative all’attacco compiuto davanti a Montecitorio. L’autore è un operaio edile rimasto disoccupato. Una delle tante vittime del crollo di un settore che nel nostro paese è stato, negli ultimidecenni, al servizio soprattutto della speculazione e della rendita edilizia. Eppure il nostro paese avrebbe immediato, urgentissimo bisogno di quelle opere di manutenzione del territorio e riqualificazione edilizia che costituirebbero la prima e più importante opera di tutela di paesaggi e città. Insomma un filone in cui il Ministero dei beni culturali e quello dei lavori pubblici e infrastrutture potrebbero collaborare su di un piano non di contrapposizione o sudditanza (del primo nei confronti del secondo), come avvenuto finora, ma di reale parità. A vantaggio del patrimonio culturale, del paesaggio, della chimerica “crescita”. E di tutti i cittadini.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a l'Unità, per il blog "nessun dorma"

L'Unità on line, dal blog"Nessun dorma", 13 aprile 2013
Fra una settimana si voterà in Friuli Venezia Giulia per il rinnovo del Presidente e del Consiglio regionale.Questi sono quindi i giorni in cui i vari candidati sparano le loro cartucce più roboanti. È il momento, per intenderci, del “meno tasse per tutti”. Ma l’attuale presidente, Renzo Tondo, candidato del centrodestra, ha deciso di andare oltre: così, accanto alla quasi scontata proposta dell’abolizione della Tares (balzello sul quale la Regione non ha alcun ruolo, ma, si sa, tutto fa brodo), troviamo addirittura l’istigazione alla “disobbedienza civile”.

Scordatevi Dossetti e il suo tentativo di introdurre in sede costituente il diritto-dovere di ogni cittadino alla resistenza agli atti dei pubblici poteri che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione stessa. Con Tondo voliamo ben più in basso: secondo i programmi elettorali del nostro, la Regione dovrebbe farsi carico “dell’assistenza legale ai cittadini e alle imprese che decidessero di contravvenire a precise indicazioni di leggi o decreti amministrativi palesemente contrari al buon senso” (sic! Virgolettato sul Quotidiano del Friuli, 11 aprile 2013)
E fra queste leggi contro il buon senso – udite, udite – Tondo cita quel Decreto n. 42 del 2004 che altro non è se non il Codice dei beni culturali e del paesaggio: il caposaldo su cui ruota il nostro sistema di tutela di cui, in particolare, si stigmatizza il provvedimento di autorizzazione paesaggistica. Naturalmente la cornice entro la quale queste inaudite affermazioni si inquadrano è quella di una maggiore semplificazione della macchina amministrativa e di una riduzione dell’odiata burocrazia, radice di tutte le nequizie.

In un precedente post di “nessun dorma”, avevo richiamato la recente vicenda della rivolta degli amministratori e politici friulani contro la locale Soprintendenza ai beni architettonici e al paesaggio, accusata di frapporre troppi vincoli e prescrizioni alle autorizzazioni paesaggistiche. Si noti bene che l’accusa nei confronti dell’organo di tutela non era quella di eccessiva burocrazia o di lentezza nell’espletamento delle pratiche, ma piuttosto del contrasto opposto allo “sviluppo” e quindi, in sostanza, di un esercizio “senza sconti” del proprio ruolo. Insomma, di fare il proprio mestiere a tutela del paesaggio in nome di tutti i cittadini italiani.

Non sorprende questa avversione alle regole della tutela paesaggistica in una Regione che, è notiziadi questi giorni, ha approvato l’ennesima variante urbanistica proposta dal comune di Osoppo per l’aumento della zona produttiva e quindi la costruzione di decine di capannoni, in barba all’opposizione di ampi strati della popolazione e di associazioni locali che la giudicano devastante per il territorio. Ma in questo caso l’aspetto più grave della vicenda è costituito dal vulnus inferto alle più elementari regole della democrazia: attraverso le sue dichiarazioni, Tondo prefigura una società dove le regole sono adattate e adattabili in base alle esigenze, preferenze, necessità dei singoli cittadini e da loro modificabili secondo l’ “oggettivo” criterio del buon senso (dei cittadini? dei vincitori delle elezioni? dei portatori di qualsivoglia interesse?) Chi parla non è solo un candidato fra gli altri, ma l’attuale Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia in carica che ha giurato fedeltà alla Costituzione di cui il Codice rappresenta l’espressione sancita dal Parlamento.
Nessuna giustificazione può esserci per un tale livello di degrado civile e politico: è evidente che si possano mettere in discussione leggi e norme, ma per sostituirvi altre norme e leggi che si ritengano più adeguate. In nessun caso un rappresentante delle Istituzioni, al più alto livello, può neanche immaginare di istigare i propri concittadini all’illegalità.

La mutazione genetica di matrice berlusconiana del “ciascuno padrone a casa propria” è arrivata all’ultimo stadio: non c’è neanche bisogno di creare leggi ad hoc, perchè è la legge stessa a diventare un optional trascurabile e ignorabile ogni qualvolta ostacoli il percorso verso l’affermazione degli interessi del singolo. Purtroppo è questo un atteggiamento condiviso, in pectore, da ampi settori dei nostri rappresentanti istituzionali, come si può leggere in queste affermazioni contenute in un documento dell’attuale governo: «E' possibile affermare che la maggiore innovazione che ha interessato l’urbanistica con riferimento al complesso della legislazione nazionale e a quella delle legislazioni regionali (caratterizzate da profonde diversità fra di loro) è la trasformazione del suo carattere fondamentale che è passato da una natura fortemente autoritativa-conformativa alla individuazione di modelli organizzativi basati sulla ricerca di accordi fra pubblico e privati e fra gli stessi soggetti pubblici letti, in alcuni casi, come derogatori della normativa vigente». (Comitato Interministeriale per le politiche urbane, Metodi e contenuti sulle priorità in tema di Agenda urbana, Roma, 20 marzo 2013, p. 19). Insomma, siamo allo “sdoganamento” ufficiale della deregulation come pratica innovativa. Dove l’innovazione diventa aristocratico sinonimo del buon senso.

Cittadini friulani, il 21 e 22 aprile, ribellatevi: non alle leggi, ma a tutti coloro che ne sono indegni rappresentanti.

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Di ritorno da una straordinaria mostra padovana su Pietro Bembo, ne suggerisco caldamente a tutti i lettori...>>>

Di ritorno da una straordinaria mostra padovana su Pietro Bembo, ne suggerisco caldamente a tutti i lettori la visita. Non solo perchè l’esposizione “Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento” ha rare qualità culturali: rappresenta l’esito di una ricerca scientifica esemplare, restituito con eleganza e sobrietà in un efficace allestimento che si snoda nelle piccole stanze del Palazzo del Monte di Pietà, a Padova. Quest’ultima divenne la città di elezione del veneziano Bembo, uno dei più grandi intellettuali di quell’inquieto, straordinario periodo fra Quattrocento e Cinquecento che vide, anche grazie alla sua attività, l’affermarsi di una civiltà, quella rinascimentale, divenuta modello per tutto l’Occidente.

In questi tempi di mostre strombazzate come “imperdibili” , che si risolvono quasi sempre in sfilate mal organizzate di capolavori veri e presunti, con attribuzioni fantasiose e banalità assortite, nell’iniziativa padovana si percepisce immediatamente lo spessore di una ricerca durata alcuni anni e finalizzata a illustrare, non solo un personaggio, ma attraverso di lui e del suo milieu culturale, una fase di importanza cruciale per la storia europea.

Anche la mostra padovana ospita, in realtà, non pochi capolavori assoluti, dai ritratti di Giorgione, Raffaello, Tiziano, ad aldine di incomparabile nitore tipografico, al sorprendente gessetto di Michelangelo, a gemme e ritratti della Roma imperiale, medaglie rinascimentali di Valerio Belli e Danese Cattaneo, e lo stupefacente arazzo su cartone di Raffaello con la conversione di Saulo, ciascuno dei quali varrebbe di per sè la visita. Ma niente è scelto per il valore intrinseco del singolo pezzo, bensì ognuno degli oggetti rimanda a molteplici altri, presenti e non all’interno del percorso, in una fitta rete di precisi richiami di assoluta coerenza (“proprietà” la chiamano i tre curatori), perfettamente funzionale all’obiettivo complessivo. Attraverso la ricostituzione di una delle più importanti figure del nostro Rinascimento e della sua collezione, museum ante litteram, si rivela, stanza dopo stanza, oggetto dopo oggetto, il progetto del Bembo, di costruzione di una nuova idea dell’Italia a partire dalla cultura, letteraria e artistica.

In un momento di gravissima crisi politica, segnato dalla morte del Magnifico e dall’invasione dell’esercito francese, un gruppo di intellettuali, fra i quali Bembo occupa una posizione di preminenza anche per il prestigio da tutti riconosciutogli, seppe costruire una nuova visione culturale, che a partire da uno studio scientifico del passato potesse fornire alla politica le armi per un “rinascimento”. Anche se sul piano politico il sogno della rinascita si infrangerà, irrimediabilmente e simbolicamente nel 1527 con il disastroso sacco dei lanzichenecchi, su quello culturale, quella visione trionferà in Europa, facendo dell’Italia, delle sue città e dei suoi artisti, il modello di riferimento imprescindibile nei secoli a venire.

Come suggeriscono i curatori, allora, questa mostra apparentemente lontana dalla nostra attualità, molto ci racconta di una crisi profondissima come quella italiana di questi giorni, di queste ore. E ci insinua anche il dubbio che allora come ora, prima che politica, questa crisi sia culturale.

Simbolo spietato di questa eclissi, è l’attuale situazione di degrado del nostro patrimonio culturale,ribadita nei giorni scorsi dalle denunce di alcuni funzionari del Mibac, ormai impossibilitati ad esercitare anche le più elementari funzioni di tutela per mancanza di risorse.

Nella mostra padovana, la lettera manoscritta di Raffaello e Baldassarre Castiglione, reduci da una gita a Tivoli assieme al Bembo e altri amici, ci riporta ad una delle primissime espressioni di quella necessità di cura dei monumenti antichi di cui Raffaello sarà interprete massimo nel ruolo di Soprintendente, creato per lui da Leone X. In quella lettera del 1519 c’è la supplica al papa perchè “quello poco che resta [...] non sii estirpato e guasto dalli maligni et ignoranti”.
Allora come ora.

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Si è concluso ieri a Ferrara il XX Salone del restauro, dedicato quest’anno ai problemi della ricostruzione post- terremoto >>>

Si è concluso ieri a Ferrara il XX Salone del restauro, dedicato quest’anno ai problemi della ricostruzione post- terremoto. È stato il momento per fare il punto su quanto fatto per recuperare gli enormi danni subiti dal patrimonio culturale devastato dal sisma emiliano romagnolo dello scorso maggio. Ma si è trattato anche dell’occasione per un confronto con la situazione “gemella” de L’Aquila: una ferita ancora aperta, ma in cui, finalmente, dopo 4 anni, si comincia a intravedere qualche spiraglio di operatività.

Molti i problemi tuttora irrisolti, a partire da quello delle risorse che, proprio per i beni culturali sono fino a questo momento del tutto insufficienti a fronte delle necessità: stime ancora incomplete parlano di un miliardo di danni al patrimonio culturale, di cui 400 per i soli beni ecclesiastici. Purtroppo, a distanza di un anno gli organi di tutela, rigidamente gerarchizzati alle dipendenze della Direzione Regionale, non sono ancora in grado di fornire un quadro completo della situazione, nè tanto meno hanno terminato le operazioni di messa in sicurezza degli edifici. In compenso, una parte del mondo accademico dell’architettura italiana, e in particolare l’Università di Ferrara, ha già proceduto alla quasi totale occupazione degli spazi comunicativi.

Peccato che poi occorrerebbe anche avercelo, qualcosa da dire, mentre lo slogan che ha imperversato in questi ultimi mesi è quel miserevole “dov’era, ma non com’era”, i cui contenuti paiono risolversi, però, nella riaffermazione della supremazia del “progetto”. In nome di quest’ultimo si pretende di archiviare la pratica del restauro filologico quasi che quest’ultima prescinda da ogni progettualità e non implichi invece sempre, a priori, uno studio e una ricerca storico filologica, fondata su una precisa, scientifica metodologia che ne costituisce il tratto distintivo di modernità.

Come dimostra, con esemplare chiarezza, una piccola mostra fotografica di Italia Nostra inaugurata al Salone, su alcuni esempi di restauro che hanno guidato la ricostruzione dei nostri centri storici massacrati dalle guerre e dai sismi. La mostra, che si intitola “La restituzione della memoria” e verrà allestita, dal 5 aprile, a L’Aquila, testimonia come restauro e recupero del patrimonio siano essi stessi innovazione, tanto nell’uso dell’artigianato, quanto nell’uso e nell’evoluzione di metodi e tecnologie.

Al contrario, per i fautori del “progetto”, che sempre implica la visibilità del “segno” dell’architetto di turno (impossibile non ripensare agli “architetti impegnati” sbeffeggiati da Cederna), il restauro filologico è poco più di un arcaico arnese che la contemporaneità deve lasciarsi alle spalle.
Peccato che per questi progetti, appunto, seppure rivestiti dell’apparato tecnologico di inevitabile complemento (ah, i laser scanner!) l’unico criterio discriminante per decidere della qualità di un intervento ricostruttivo (perchè la manica lunga del Castello di Rivoli sì e las Arenas di Barcellona no?) si appiattisce inesorabilmente sul gusto del decisore di turno, criterio che, quanto a metodologia, lascia un po’ a desiderare.

Ma se la naiveté culturale di un approccio di questo genere, dove è palese l’indifferenza al contesto urbano e paesaggistico, può essere per lo meno comprensibile in un orizzonte accademico, soprattutto quello nostrano, diventa colpevole laddove sposata acriticamente dagli organismi di tutela. Il vero dramma del posterremoto diventa allora, ancor più della mancanza di risorse economiche, l’incapacità di una visione coerente del destino e della funzione del nostro patrimonio culturale: triste in ambito accademico, inammissibile da parte di chi è demandato istituzionalmente a tutelare questo stesso patrimonio.

Gravissimo infine, che a questo ossimoro della ricostruzione senza restauro gli amministratori regionali abbiano prontamente fornito le armi giuridiche: quella legge sulla ricostruzione (n.16/2012) frutto di micidiale, ma non casuale, amnesia storica nei confronti di una tradizione di tutela dei centri storici della Regione Emilia – Romagna. La legge cancellando, nei comuni colpiti dal sisma, la vigente e gloriosa normativa dei piani regolatori, “svincola” dalla regola del ripristino filologico gli edifici crollati o gravemente danneggiati dal terremoto e addirittura affida a “piani di ricostruzione” la facoltà di riprogettare radicalmente gli insediamenti urbani storici.

In questo contesto, la salvaguardia dell’identità civica dei centri colpiti dal terremoto rimane affidata alla responsabilità degli amministratori comunali. Segnale di speranza è allora la passione cocciuta del giovane sindaco di Finale Emilia, che, proprio al Salone di Ferrara, ha ribadito la volontà sua e di tutti i concittadini di ricostruire la torre dei Modenesi, il simbolo di Finale, com’era e dov’era.

Un’ultima considerazione: trasformare l’opera di ricostruzione di monumenti e centri storici in un’operazione di recupero e riqualificazione territoriale fondato sui criteri del restauro filologico, significherebbe anche affidarsi a manodopera di elevata competenza, ad un artigianato specializzato che niente ha a che spartire con un’imprenditoria edile largamente infiltrata dalle cosche calabresi, com’è ormai anche nelle zone terremotate (cfr. G. Tizian, Le mani sul terremoto, L’Espresso, 22 novembre 2012).

Si toglierebbero insomma spazi di manovra alle ‘ndrine dominanti nelle attività connesse all’edilizia e al movimento terra, anche grazie ai prezzi “stracciati” proposti per queste attività e possibili solo a chi si pone soprattutto obiettivi di riciclaggio e di infiltrazione.
Una sorta di presidio di legalità che, anche in questo, contribuisce alla rinascita di un territorio.

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Mentre continua la partita a scacchi sulla costituzione del nuovo governo, già si affacciano altre scadenze non di poco conto che mai come in questo caso avranno ripercussioni sul complicatissimo puzzle politico nazionale. Il 26 e 27 maggio si voterà a Roma per il nuovo Sindaco e il rinnovo del Consiglio comunale.

Il bilancio del governo di Alemanno è così disastroso, sotto tutti i punti di vista (ritorneremo sui beni culturali, presto), che parrebbe scontato un ricambio. Senonchè, come ormai da tradizione, il centro sinistra risulta sinora privo di proposte autorevoli. Senza affrontare la cabala nominalistica, proviamo a suggerire alcune considerazioni di buon senso sul programma.

Al primo posto, ovviamente, un’inversione di rotta radicale sulla politica urbanistica, anche se chiamare politica ciò che è avvenuto da troppi anni a questa parte per quanto riguarda appunto l’urbanistica è un vero e proprio eufemismo, perché il termine rimanda in ogni caso ad una visione coerente – condivisibile o meno che sia – della città, nella sua forma e nei suoi usi. Al contrario, ciò che è avvenuto in questi anni, dalla redazione dell’ultimo, infausto pgt, si apparenta di più ad una pura e semplice svendita di territorio e di funzioni operata dall’amministrazione pubblica a vantaggio di alcuni privati e con rischi gravissimi sulla residua qualità urbana.

Questo tema, su cui da anni si concentrano analisi e denunce di urbanisti, da Italo Insolera a Vezio De Lucia a Paolo Berdini (i materiali sono consultabili su eddyburg.it) e dei mille comitati sorti a contrastare speculazioni di ogni tipo in tutti i quartieri della città, non può che essere la cornice entro cui si muovono tutti gli altri. A partire dal traffico: uno dei fattori di degrado che condannano da decenni Roma all’ultimo posto fra le capitali europee, ben al di sotto di Madrid e Atene, per intenderci, dove in anni recenti le amministrazioni pubbliche sono riuscite a dotare le rispettive città di servizi adeguati alle esigenze di moderne metropoli.

Non così a Roma, dove la costruzione della metropolitana assume ormai i contorni di una soap opera farsesca, con sceneggiatura almodovariana e amministrazioni pubbliche civiche e statali (quelle della Soprintendenza archeologica e del Mibac) sull’orlo di ripetute crisi di nervi. Comunque incapaci, tutte e nonostante i commissariamenti recenti e inutili, di risolvere problemi senz’altro gravi, ma non insormontabili, come dimostra l’esperienza di Atene.

Nonostante questa situazione perennemente sull’orlo del tracollo, lo spirito indomito del civis Romanus, temprato da decenni di malgoverno cittadino, trova nuove forme di sopravvivenza: risalgono a un paio di settimane fa i risultati, pubblicati su Repubblica del 3 marzo scorso, di un Rapporto sulla ciclabilità a Roma che fornisce dati inaspettati sull’uso della bicicletta da parte dei cittadini romani: decuplicato – dallo 0,4 al 4% – nel giro di due anni (dal 2010 al 2012). In cifre assolute si tratta di circa 150-170.000 cittadini che utilizzano abitualmente la bicicletta per i loro spostamenti. Eroicamente, perchè Roma non è decisamente un paese per ciclisti, considerata la tetragona indifferenza dell’amministrazione capitolina a politiche sulla ciclabilità.

Il fenomeno è da collegare ad alcuni fattori convergenti, fra cui il crollo della vendita delle auto dovuto alla crisi economica, ma anche la diffusione dei movimenti che lottano per una mobilità urbana sostenibile, quali Critical Mass, attiva a Roma già da dieci anni.

Al prossimo primo cittadino, va la richiesta di vere politiche sulla ciclabilità che non si esauriscono, come i puerili tentativi finora compiuti, nell’allestimento di qualche pista ciclabile in più, ma presumono, innanzi tutto, un mutamento di orizzonte sull’intera questione della mobilità, finalmente orientata a favore dei mezzi pubblici e, in generale, ripensata non a partire dai flussi delle auto, ma dalle esigenze di spostamento di chi vive la città.

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Uno dei miei post precedenti aveva il titolo “Di chi è il paesaggio?” e argomentava la necessità che su di un ambito così sensibile come il nostro paesaggio, lo spazio del nostro vivere, il “giudice di Berlino”, quello chiamato alle decisioni di ultima istanza a tutela degli interessi comuni, fosse dotato di caratteristiche di competenza e indipendenza. Nell’attuale quadro istituzionale e legislativo, quella figura di decisore ultimo, pur con molte difficoltà e criticità, è incarnata dal Soprintendente, le cui prerogative sono però spesso, e sempre più frequentemente, messe in discussione, in particolare da politici e amministratori locali.
In nome delle esigenze dello sviluppo – leggi costruzioni e infrastrutture – unico rimedio possibile ad una crisi sempre peggiore.

Come i ciechi del quadro di Bruegel che se ne vanno ignari verso il baratro, i nostri politici locali (e non solo), di ogni colore, hanno pervicacemente sostenuto questa visione, indifferenti ai segnali che da quello stesso territorio raccontavano di una montante ribellione nei confronti di politiche speculative che, senza alleviare la recessione, hanno abbassato, in molte aree pesantemente, qualità urbana e della vita in genere.

Indifferenza di cui i programmi elettorali sono stati specchio immediato nell’assenza programmatica di politiche di governo del territorio articolate che superassero le retoriche posticce di una generica riduzione del consumo di suolo o del risparmio energetico. Quella spruzzata di green economy vissuta come obbligatoria strizzatina d’occhio all’elettorato “ggiovane” o “alternativo”.

Neppure nel programma del Movimento 5 stelle questi temi sono presenti. Ma non sono certo in contraddizione con ciò che c’è, a partire dalle proposte sulla mobilità, sull’energia e, in particolare, sulla necessità di un ripensamento radicale delle grandi opere (per non parlare di altri temi, come quello dell’informazione, condivisibili al 99%).

In questo contesto politico, il territorio italiano sembra ancora res nullius, il che significa che rimane abbandonato al diritto del più forte in termini economici.

A chi, se ancora esiste, si candida ad interpretare il ruolo di partito di sinistra, che si ponga quale obiettivo primario la difesa del bene comune, indicherei come spazi di manovra privilegiati quelli di una politica del territorio orientata su due – tre principi rigidi: tutela integrale del paesaggio, stop (non riduzione) al consumo di suolo rurale e costiero, riqualificazione edilizia delle città, riduzione drastica del rischio idrogeologico.
Su questi temi, la sinistra riuscì, molti anni fa, a diventare un modello per le politiche orientate al bene comune. E costruì il proprio successo nelle regioni rosse, Emilia Romagna in testa.

Opinione pubblicata anche su Unità on line 4/3/2013
p.s. Nelle elezioni della scorsa settimana la coalizione di centro sinistra, in Emilia Romagna, ha perso il 10% rispetto alle precedenti elezioni politiche e circa il 18% rispetto al 2001.

Il Presidente della Regione Friuli, Renzo Tondo (Pdl), è tornato a chiedere, Il Presidente della Regione Friuli, Renzo Tondo (Pdl), è tornato a chiedere, qualche giorno fa, il trasferimento delle competenze in materia di tutela del paesaggistica dal Ministero dei Beni Culturali alla Regione da lui governata. Richiesta non nuova che ripropone l’insofferenza di quasi tutte le Regioni italiane nei confronti delle prerogative statali sancite dal Codice dei beni culturali e da innumerevoli sentenze della Corte Costituzionale chiamata ad esprimersi su questo tema proprio dai ricorsi suscitati dalle Regioni italiane. In questo caso, il casus belli è stato determinato dai difficili rapporti dell’amministrazione locale con l’attuale Soprintendente ai beni architettonici e paesaggistici del Friuli, accusata – trasversalmente, da tutte le forze politiche, oltre che dall’Associazione Costruttori – di bloccare regolarmente i lavori producendo gravi danni all’economia locale.

Non conosciamo nel dettaglio gli episodi che in Friuli hanno condotto a questa contrapposizione fra poteri dello Stato ed è sicuramente vero che il meccanismo dell’autorizzazione paesaggistica – il provvedimento di nulla osta del Soprintendente - non sia esente da rischi in termini di arbitrarietà. Ma, come diceva Churchill per la democrazia, di meglio non siamo riusciti ad inventare e il parere di un tecnico, nominato sulla base di specifiche competenze, di un concorso pubblico e che agisce in nome dello Stato, e quindi dell’intera comunità dei cittadini, continua ad essere di gran lunga preferibile.

Significativo quanto, in questa occasione, ha dichiarato un Consigliere friuliano della Lega, sostenendo la necessità del passaggio di consegne dal Mibac alla Regione in tema di tutela: “La Regione, se investita direttamente del ruolo di soggetto decisore, saprebbe trovare il giusto compromesso tra salvaguardia del patrimonio culturale ed esigenze amministrative.” Nell’ossimoro del “giusto compromesso” sta il nodo della questione: di fronte allo scempio del paesaggio, alla gravità del fenomeno del consumo di suolo e del degrado del territorio rurale, ogni “compromesso”, oltre che incostituzionale, e quindi illeggittimo, è politicamente, culturalmente, socialmente innammissibile. Gravissimo è che la risposta dei politici continui ad essere ispirata a quei criteri di arroganza del potere cui il ventennio berlusconiano ci ha assuefatto: agli eletti dal popolo non possono essere frapposti ostacoli, neanche in nome di principi costituzionali che guardano ai diritti di tutti e non di pochi.

Anche a difesa del nostro paesaggio, è tempo di seppellire questa funesta pagina della storia nazionale.

Articolo inviato contemporaneamente al blog dell'Autore su l'Unità
L'Unità on-line, 30 gennaio 2013

Colpisce, in questa campagna elettorale rissosa e poco propizia ad una reale discussione sui contenuti, il numero di appelli, decaloghi, proposte sul nostro patrimonio culturale. La situazione preagonica del Ministero per i beni e le attività culturali è ormai conclamata: le cronache quotidiane ci raccontano sia del degrado dei monumenti, sia delle difficoltà sempre più pesanti che affrontano musei e biblioteche pubbliche. Crolli e chiusure sono i sintomi della condizione di totale irrilevanza cui il Ministero è ridotto da troppi anni e almeno tre ministri. Associazioni ambientaliste, intellettuali, giornalisti ne richiedono, unanimemente, una radicale riforma. Renato Esposito ed Ernesto Galli della Loggia si sono spinti oltre, proclamando la necessità di istituire un Ministero della Cultura che costituisca niente meno che l’antidoto all’attuale “paralisi della coscienza nazionale” ed elabori un nuovo “ruolo dell’Italia in Europa”.

Davvero improbabile che una specifica struttura dell’amministrazione statale possa essere investita di un compito così vasto e complesso, per cui caso mai occorre ripartire dalla scuola e dall’educazione, ad ogni livello e pensando ad un processo interdisciplinare che coinvolga anche patrimonio culturale e paesaggio. Ma la provocazione di Esposito e Della Loggia ha l’indubbio merito di ribadire una gerarchia di priorità verso la quale il mondo politico dimostra un consenso superficiale e puramente mediatico. Basta leggersi quell’Agenda di Mario Monti che alla voce cultura ha riservato una striminzita paginetta con molte banalità, mentre una delle sue candidate, l’ex presidentessa del Fai, per ribadire quale sarà il suo impegno a favore del patrimonio culturale ha auspicato che «la cultura sia, naturalmente dopo il lavoro, naturalmente dopo l’emergenza dei nostri conti, naturalmente dopo altre emergenze, una delle grandi priorità del Paese» (Giornale dell’Arte, 1/2013)

E’ esattamente quello che non vogliamo più: la tutela del nostro patrimonio culturale e del nostro paesaggio deve essere al primo posto dell’agenda di chi ci governerà perchè significa in primo luogo lavoro: per i tantissimi giovani precari che già adesso, in condizioni davvero poco dignitose, garantiscono la tenuta del nostro sistema, scavando nei cantieri archeologici, catalogando libri e documenti, consentendo l’apertura di musei, siti, biblioteche, altrimenti chiusi.

E ancora lavoro ottenuto attraverso un’opera di manutenzione e riqualificazione delle nostre città, dei nostri centri storici e di un territorio che in Italia coincide con il paesaggio. La prima grande opera che, attraverso la prevenzione dei danni sempre più ingenti provocati dai disastri naturali, consentirebbe ingenti risparmi sui bilanci dello Stato.

La cultura non viene nè prima, nè dopo le grandi emergenze che conosciamo, ma le attraversa tutte. E si fonda su quell’infrastruttura fondamentale che sono patrimonio culturale e paesaggio. Da lì occorre ripartire, ripensando radicalmente al Ministero per i beni e le attività culturali, non solo in termini di aumento della qualità e quantità delle risorse – economiche, di personale, di competenze – ma anche e soprattutto di rapporti funzionali fra le strutture dello Stato e della Repubblica.

Ancora prima di ogni costruzione o riforma ministeriale, infine, occorre tornare, dopo un decennio di apnea intellettuale, ad una visione politica del patrimonio culturale e del paesaggio degna di questo nome.

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