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Giuliano De Felice
Strada senza uscita
5 Novembre 2012
Scritti ricevuti
Continua la discussione sul precariato nei beni culturali: una critica – dall’interno – delle responsabilità del mondo accademico. Scritto per eddyburg, 5 novembre 2012 (m.p.g.)

"Le lauree in beni culturali e in archeologia aprono sbocchi nella ricerca, valorizzazione e tutela presso Enti di ricerca, istituzioni pubbliche e private (enti locali, soprintendenze, musei, biblioteche, archivi, ecc.) nonché presso aziende ed imprese operanti nel settore ...".

Queste parole potrebbero essere prese dal sito di un qualunque ateneo italiano, sezione corsi di laurea, paragrafo sbocchi professionali.

E suonano come una crudele presa in giro. Credo infatti che sia ormai evidente a tutti (e non da poco tempo) che nessun ente di ricerca e nessuna istituzione pubblica potrà mai assumere le migliaia di laureati in beni culturali sfornati annualmente dalle Università italiane; non parliamo nemmeno di aziende e imprese, che non hanno molto interesse a investire in un settore che non promette grandi prospettive di business e in cui la litigiosità fra gli attori è spesso paralizzante.

Eppure ci si continua a meravigliare della contrazione del numero degli iscritti nei corsi universitari, chiamando in causa di volta in volta declinazioni bizzarre e pericolanti del più classico degli o tempora o mores:

"colpa delle giovani generazioni, sono ignoranti", "in Italia non c'è interesse per la cultura", "viviamo un momento di imbarbarimento dei tempi".

Spesso avallate da un forte sentimento antimodernista e antitecnologico: "ormai non legge più nessuno", "i ragazzi giocano sempre con il telefonino", ecc. ecc.

Al di là di questi facili pretesti, buoni solo ad autoconvincersi dell’imminente fine del mondo, esistono in realtà cause ben più serie che minano alla radice un possibile, vero sviluppo del settore dei beni culturali.

Fra queste va sicuramente additato il disinteresse della formazione universitaria umanistica verso il mondo del lavoro.

Che lo sbocco professionale dei propri laureati non sia esattamente il primo pensiero delle facoltà umanistiche è cosa nota. La situazione negli ultimi dieci anni si è ulteriormente aggravata con l'istituzione dei corsi di laurea in beni culturali e affini, che, ben più della contemporanea e famigerata riforma del 3+2, hanno costituito un'occasione persa.

Quel che ha reso disastrosa questa prospettiva, che pure si presentava potenzialmente molto positiva è stata la mancanza di una riforma contestuale del mercato del lavoro e di un impulso deciso verso la creazione di nuove professioni, considerato che veniva meno anche la 'comoda' rete di protezione dell'insegnamento scolastico che storicamente assorbiva (o perlomeno ci provava) i laureati in Lettere che non riuscivano a trovare una occupazione più in linea con i propri studi (archeologi, storici dell'arte, ecc.).

Si sarebbero potute fare cose straordinarie in questi dieci anni, ma non si è nemmeno riusciti ad aggiornare i siti web. Tutti eravamo impegnati in battaglie di civiltà e a difendere il diritto allo studio, e abbiamo colpevolmente trascurato il dovere di pensare al lavoro.

Oggi che vengono al pettine questi nodi atavici (e gordiani!) ci lamentiamo del precariato che uccide la passione, e dei tanti giovani che non ottengono un riconoscimento professionale consono con i loro studi. Ma trascuriamo di indagare più nel profondo, chiedendoci, ad esempio, quanto le nostre ricerche e i nostri insegnamenti siano professionalizzanti e quanto invece siano frutto della totale autoreferenzialità del mondo accademico.

- Siamo infatti noi ricercatori a decidere che ricerche fare e come usare le risorse; poi, se nessuno ci vuole finanziare, è perché il mondo è cattivo e nessuno capisce nulla (all’infuori di noi ...).

- Siamo sempre noi a decidere, di conseguenza, che cosa insegnare, e se gli studenti non capiscono l'importanza dei nostri corsi ... (vedi punto precedente)

- Di conseguenza se i nostri studenti sono bravissimi ma imparano cose che non serviranno mai, questo è colpa del mondo che, ancora una volta è cattivo, e pieno di gente che non capisce nulla, ecc. ecc.

- Idem se i nostri collaboratori se ne vanno a tentare mestieri altrove;

- E lo stesso se nessuno si iscrive più ai corsi di studio;

- E ancora lo stesso motivo se non esistono programmi di finanziamento in cui è possibile candidare una nostra ricerca.

Per un istante proviamo anche noi, ricercatori e docenti, a pensare alle nostre responsabilità e alle colpe di una formazione che non porta all’acquisizione di competenze spendibili sul mercato del lavoro ma solo ad una specializzazione estrema nella ricerca.

Specializzazione che non ha alcun esito se non quello di proporre una perpetuazione infinita di un meccanismo insostenibile di creazione di nuova ricerca (a sua volta fine a se stessa ...)

Sarebbe ora di smetterla con l'autocelebrazione della ricerca 
e con la conseguente immancabile commiserazione del volontariato e del precariato, termini di una triste liturgia che noi stessi abbiamo contribuito a costruire e imporre, 
con la didattica inutile
 e con la ricerca inutile, ma soprattutto rifugiandoci nella aulica impenetrabilità del nostro mondo.

Sarebbe di contro molto utile pensare al placement dei nostri laureati, e iniziare a lavorare per proporre una visione dei beni culturali che non sia più solo protezionistica ed erudita.

Nessun governo infatti darà mai le risorse per assumere diecimila ricercatori o cinquemila archivisti o mille ispettori di soprintendenza. Perché nessuno avrà mai le risorse per pagare un costo così alto.

Oggi infatti i beni culturali sono solo un costo. Dalla formazione al (poco) lavoro è un settore che produce, per la collettività, solo ed esclusivamente oneri, e, ed è la cosa più grave, non è in grado di immaginare un futuro diverso.

E' evidente invece la necessità di una mentalità nuova, e di un nuovo modello per l’utilizzo delle risorse (compreso il tempo) di tutti ed in particolare dei ricercatori e dei docenti universitari, che partecipano da protagonisti alla fase delicata di creazione (e demolizione) di prospettive e speranze.

Il ritardo è enorme. Senza indugio si deve costruire una nuova formazione nel settore, immaginare e realizzare scenari nuovi di impiego delle competenze dei nostri laureati, che non siano quelli, avvilenti, che tutti conosciamo. Prospettive nuove che diano finalmente impulso a un'industria: innovativa, creativa, tecnologicamente avanzata, che assorba e richieda lavoro competente e specializzato (che non è certo la sorveglianza archeologica ...).

Che spinga i nostri laureati a diventare dei professionisti, come fanno i loro colleghi, avvocati, ingegneri, architetti, medici e anche, più recentemente, insegnanti e professori di scuola ...

Il testo costituisce una rielaborazione di un post presente su Passato e futuro (www.passatoefuturo.com), un blog nato nell’ottobre 2012 per iniziativa di Giuliano De Felice, ricercatore in archeologia presso l’Università degli Studi di Foggia. I temi che affronta sono legati alla convinzione che uno sviluppo nel settore dei Beni Culturali in Italia sarà possibile solo all’interno di uno scenario completamente nuovo, in cui tutti gli attori imparino a ragionare in maniera condivisa e costruttiva, contribuendo ad una crescita che risulti sostenibile e misurabile in termini di ricchezza e occupazione. In Passato e Futuro riflessioni, proposte e denunce... e un pizzico di ironia.

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