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Da qualche giorno la riorganizzazione/riforma del Mibac è entrata ufficialmente in vigore, almeno con gli effetti sanciti nel primo decreto (DPCM 76/2019). Se e come la crisi di governo inciderà sulla piena attuazione della riorganizzazione voluta dal ministro Bonisoli non è dato al momento sapere... (segue)

Da qualche giorno la riorganizzazione/riforma del Mibac è entrata ufficialmente in vigore, almeno con gli effetti sanciti nel primo decreto (DPCM 76/2019). Se e come la crisi di governo inciderà sulla piena attuazione della riorganizzazione voluta dal ministro Bonisoli non è dato al momento sapere, ma certamente è ora chiaro il suo disegno complessivo: molto si è detto su lacune (molte) e meriti (pochi) di questo provvedimento che nasceva con modalità nuove di ascolto di un’ampia platea di interlocutori, ben presto rivelatesi soltanto di facciata. Ricorrenti le accuse di centralizzazione della catena decisionale strettamente connesse ad una conclamata bulimia del Collegio Romano, la cui perdurante ipertrofia è del tutto sganciata – ormai da anni – da qualsiasi valutazione sui risultati ottenuti.

Pochi, e non sostanziali, i mutamenti rispetto allo schema delineato dalla così detta riforma Franceschini e soprattutto privi di una logica riconoscibile che non sia quella della redistribuzione delle poltrone dirigenziali. La sostanziale continuità con l’era Franceschini è però a mio avviso sottolineata da un altro elemento di ben maggiore impatto non tanto sull’assetto del corpaccione ministeriale, ma sul suo ruolo istituzionale e politico. Il paesaggio è di fatto scomparso dall’orizzonte del Mibac. Annullata già da anni la Direzione al Paesaggio, permangono le funzioni di tutela in capo alle Soprintendenze territoriali, le cui difficoltà operative, però, aggravate dai decreti Franceschini, rimangono intatte anche in questo passaggio pentastellato e consentono a stento la gestione dell’ordinario.

Eppure, una delle grandi emergenze del Ministero è proprio quella della pianificazione paesaggistica: in oltre un decennio solo 4 regioni sono riuscite ad adottare un piano frutto di copianificazione e forse solo in un caso i piani possono dirsi il frutto di una collaborazione au pair Stato-Regione, e non l’esito, non felicissimo, di un’operazione diretta integralmente dalla mano regionale, cui gli organi dello Stato hanno contribuito di rimbalzo. Significativo, a tal proposito, quanto sta accadendo per il Piano Territoriale Paesaggistico del Lazio, in fase di approvazione dopo lunghi anni di attesa, che negli emendamenti approvati a luglio azzera il lavoro di copianificazione svolto fra Mibac e Regione Lazio e dove brilla l’assenza di vincoli e tutele sul Centro Storico e sulla Città Storica di Roma.

Certo una simile disinvoltura si spiega con le pulsioni cementizie della Giunta Zingaretti, ligia esecutrice del piano casa Polverini. Ma un simile sgarbo istituzionale si giustifica anche con il vuoto creato dall’abbandono de facto del ruolo di governo del paesaggio da parte del Ministero. Vera posta in gioco della riforma Franceschini è stato sgomberare il campo dalla presenza del Mibact per quanto riguarda il controllo del territorio. Non è forse un caso che i primi decreti della riforma siano stati emanati dopo pochi mesi dallo “Sblocca Italia”, il provvedimento col quale il governo Renzi intendeva inaugurare l’ennesima stagione di mani libere sul territorio per infrastrutture di ogni genere.

Al contempo il paesaggio è stato declassato ad argomento per discussioni accademiche così come è successo con l’inutile Osservatorio sul Paesaggio e l’altrettanto inconsistente “Carta del paesaggio”.
In questi ultimi anni si è così sancito un abbandono che sul piano della politica culturale e istituzionale si era avviato fin dall’inizio del secolo: dal 2004 ad oggi il Ministero non ha mai neppure preso in considerazione l’idea di mettere in atto ciò che l’art. 145, primo comma, del Codice dei Beni Culturali gli assegna, vale e a dire l’elaborazione delle “linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione”.
In mancanza di una strategia complessiva, politica e culturale, la pianificazione è apparsa da subito un’operazione estemporanea, affidata alla buona volontà della controparte regionale. Al ritardo dello Stato si è poi sommato il contemporaneo abbandono, da parte regionale, delle pratiche pianificatorie, ovunque bollate come dirigiste e non sufficientemente “flessibili”.

Rimasti ad inseguire le emergenze, i funzionari delle Soprintendenze territoriali non riescono, con sempre maggiori limiti negli ultimi anni, che a concentrarsi sui casi puntuali, ma intanto è la trama complessiva del territorio che si polverizza. Se dal punto di vista politico la vicenda si spiega con la definitiva subordinazione del governo del paesaggio alle ragioni di uno sviluppo ancora e sempre fondato sullo sfruttamento territoriale, da quello culturale ciò che è successo è l’ennesimo, grave sintomo di un ritardo che connota Mibac e accademia nostrana sul terreno degli heritage studies. Questi ultimi ci raccontano, almeno da un decennio, di una visione del patrimonio culturale che –
per dirla con le parole di Laurajane Smith, è – tutto e sempre - politico e conflittuale. E se c’è un luogo del conflitto, questo è quel territorio che in Italia si sovrappone quasi perfettamente al paesaggio.

Gravato da decenni di speculazioni, condoni, alto o altissimo rischio sismico e idrogeologico, con migliaia di centri urbani di importanza storico monumentale preda di fenomeni di gentrification e
overtourism, quando non di abbandono, il territorio continua ad essere, da decenni, il grande malato di Italia. Ma al suo capezzale il Ministero appare sempre meno attrezzato.

che, ribaltando la decisione del Tar, concedono il via libera... (segue)
Due vicende, di ambito apparentemente diverso hanno caratterizzato gli ultimi giorni. Da un lato le sentenze del Consiglio di Stato che, ribaltando la decisione del Tar, concedono il via libera all'istituzione del Parco Archeologico del Colosseo, decretando lo smembramento definitivo di quella che era la storica Soprintendenza Archeologica di Roma. Sui problemi giuridici aperti dalle sentenze v. soprattutto i commenti su Emergenza Cultura, ma occorrerà ritornarci, per la gravità delle implicazioni che si estendono ben al di là del caso specifico, fornendo una legittimazione all'uso o meglio abuso della decretazione come modalità di sottrazione dell'attività dell'esecutivo ad ogni controllo preventivo in materia di pubblica amministrazione.

Le sentenze del CdS legittimano quindi - nel metodo e nel merito - la costituzione del Parco, decisa dal Ministero come un semplice atto regolatorio interno, quasi che la dissoluzione definitiva dell'unità archeologica di Roma e lo sconvolgimento amministrativo che comporta sul centro - fisico, culturale, urbanistico - della città sia questione da trattare fra le mura del Collegio romano senza alcun confronto con la città. Anche per questo, per l'evidente vulnus al principio di leale collaborazione istituzionale, il Comune di Roma aveva fatto ricorso, accolto dal TAR e poi respinto dal Consiglio di Stato (sentenza 3665/2017) con motivazioni acrobatiche su cui occorrerà ritornare. La creazione del Parco, un recinto che ritaglia, contro la storia antica e recente, senza alcuna idea se non quella dell'isolamento di littoria memoria, un complesso monumentale parte integrante di un organismo urbano complesso come quello romano, è stato l'ennesimo episodio di quel centralismo velleitario che connota questa stagione governativa.

La riforma costituzionale bocciata dal referendum ne era stata l'espressione più compiuta, con il tentativo di annullare 45 anni di regionalismo - senz'altro non privo di problemi - a vantaggio però di una neocentralità appiattita sul potere esecutivo. Lo spirito della riforma Renzi-Boschi era stato anticipato, nel 2014, dallo SbloccaItalia. Anche in quel caso, innumerevoli erano le "scorciatoie" concesse al governo centrale: "esemplare", in questo senso, l'art. 33 con il quale si sottraeva al Comune di Napoli la competenza urbanistica per quanto riguarda l'area di Bagnoli.

Proprio quella vicenda ha trovato qualche giorno fa un esito in qualche modo inaspettato: dopo mesi di contrasto durissimo - da parte del Comune e ancor più della città attraverso i molti comitati e associazioni - si è arrivati ad un accordo che azzera le molte, illegittime distorsioni del piano urbanistico vigente, ipotizzate in questi ultimi vent'anni. Ripristinate le dimensioni del parco urbano a 120 ettari, ripristinata l'integrità della linea di costa originaria della spiaggia di Coroglio, con l'arretramento dell'edificio abusivo di Città della Scienza, annullati gli aumenti di cubatura.
Certo persistono ancora molti problemi e lo stesso accordo non è esente da ombre e ambiguità, come testimonia il dibattito su eddyburg. Insomma, la battaglia per restituire alla città e al godimento di tutti una delle sue aree paesaggisticamente più belle, è ancora lunga.

Ma l'accordo è un buon punto da cui ripartire e soprattutto ha un valore simbolico che non può essere sottovalutato: è la dimostrazione del potere istituzionale di un'urbanistica pubblica interpretata al meglio. La variante su Bagnoli del 1996 ha dimostrato una capacità di resilienza che dovrebbe far riflettere. Capacità certo agevolata dalla cialtroneria politica e amministrativa con cui si è cercato di aggirare le previsioni del prg e che si è nutrita, al contrario, di un consenso popolare via via più tenace. Quel piano regolatore ha resistito, a dimostrazione anche della debolezza politicamente e socialmente intrinseca degli attuali approcci urbanistici, che rinunciano ab origine ad una visione ampia dell'organismo urbano, inchinandosi - a prescindere - agli interessi di parte.

Qualche anno fa, nel 2013, in un libretto sul rapporto fra le politiche di sinistra e l'urbanistica degli ultimi decenni (La sinistra e la città), gli autori, Roberto Della Seta ed Edoardo Zanchini, definirono Bagnoli come "simbolo del fallimento dell'urbanistica italiana" (p. 76), confondendo rozzamente fra progetto urbanistico e sua ritardata realizzazione.

Ma l'urbanistica ha tempi lunghi e già Antonio Cederna ci aveva insegnato a non arrenderci, mai. La resistenza contro un governo del territorio che rinunci a perseguire l'interesse pubblico e la difesa della legalità è stata anche la lezione della migliore stagione di Italia Nostra. Tuttora attualissima.

L'accordo su Bagnoli - nella sua imperfezione e migliorabilità - è una base da cui ripartire.
Anche per quanto riguarda Roma e quest'ultima vicenda del Parco del Colosseo, la cui istituzione, lungi dall'avere alcun effetto innovativo, costituisce invece la cristallizzazione - a puro scopo di speculazione turistica - della situazione di devastante incompiutezza dell'area archeologica centrale.
E soprattutto un ostacolo forse non casuale alla realizzazione del più grande progetto urbanistico che abbia interessato Roma moderna, il progetto Fori.

Come insegna Bagnoli, la buona urbanistica ha lunga vita.

Dilagante e per lo più scomposta è stata l'attenzione mediatica riservata, in questi ultimi giorni, alle sentenze con le quali il TAR ha stroncato il fiore all'occhiello della cosiddetta riforma Franceschini (segue)



Dilagante e per lo più scomposta è stata l'attenzione mediatica riservata, in questi ultimi giorni, alle sentenze con le quali il TAR ha stroncato il fiore all'occhiello della cosiddetta riforma Franceschini, la creazione dei 20+10 supermusei autonomi. Quella riforma si era concentrata, appunto, sui così detti "attrattori turistici", ovvero sia musei e monumenti ad alta redditività, con provvedimenti di cui ora sta emergendo l'opacità e l'illegittimità amministrativa, oltre che l'approssimazione culturale.

Obliterato nelle iniziative del responsabile politico del Mibact, il paesaggio è invece oggetto di attenzione privilegiato di alcuni degli ultimi provvedimenti che si iscrivono nel sempreverde ambito della "semplificazione" amministrativa accoppiato, ora, al nuovo passepartout del “ce lo chiede l’Europa”. Si tratta di decreti e disegni di legge tali, nei loro effetti convergenti, da rappresentare un pericolo gravissimo per la tutela paesaggistica dell’intero territorio nazionale.

Il 26 maggio eddyburg ha pubblicato l'appello contro il ddl Falanga (ALA di Verdini) che costituisce, con il pretestuoso obiettivo della regolamentazione delle demolizioni di immobili abusivi, una sorta di condono edilizio mascherato e, per di più, dilatato sine die, essendo privo di limiti temporali.
Il ddl è costruito in modo da costituire non solo un impedimento de facto alle demolizioni, ma da diventare addirittura un incentivo a nuove costruzioni abusive, reintroducendo una distinzione fra abusivismo di necessità e abusivismo di speculazione che riporta le lancette della storia indietro di almeno mezzo secolo.

Ma la continuità con la politica del ventennio berlusconiano dei due condoni edilizi va ben oltre.

Il recente decreto legislativo (401) di modifica della Valutazione di Impatto Ambientale, ora in fase di approvazione definitiva da parte del Consiglio dei Ministri, rappresenta un tentativo di compressione radicale di questo importantissimo sistema di verifica. Con la nuova VIA, non solo le Grandi Opere, ma ogni genere di infrastruttura godrà così di una sorta di percorso protetto, in quanto alla commissione di valutazione sarà sottoposto non più il progetto definitivo, ma solo quello preventivo, in moltissimi casi profondamente diverso dal precedente. Una cambiale in bianco che, anche in questo caso, ci riporta alle berlusconiane leggi Obiettivo (2001), annullando gli effetti del nuovo Codice degli Appalti che di quelle leggi voleva essere il superamento.

Circa un anno fa stesso destino era toccato alle Soprintendenze, i cui poteri di autorizzazione paesaggistica sono stati profondamente modificati - al ribasso - nei tempi e nelle modalità, dapprima con lo SbloccaItalia e poi soprattutto attraverso la nuova disciplina delle conferenze di servizio sancita dalla legge Madia.

Nel frattempo la Camera sta discutendo la pessima riforma della legge quadro 394/91, quella sui Parchi. Il ddl Caleo rappresenta, nell’attuale versione, lo stravolgimento della filosofia di conservazione delle aree protette, quella che aveva aperto – fra gli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso – una stagione di indubitabili progressi nella difesa dei beni naturali.

E infine, il 6 aprile scorso è entrato in vigore - tramite decreto (DPR 31/2017) - il nuovo regolamento che riduce ulteriormente l'ambito di applicazione dell'autorizzazione paesaggistica per gli interventi di "lieve entità" (fra i quali parcheggi, dehors, aperture di finestre, verande, impianti di microeolico e pannelli solari, e via elencando per oltre 70 tipi di intervento). Anche in questo caso, ci troviamo di fronte alla perfetta continuità con i governi Berlusconi che, non appena emanato il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, nella versione del 2008, anziché incentivare la copianificazione paesaggistica ivi prescritta a Mibact e Regioni sulle aree tutelate, cominciarono ad eroderne l’impianto soprattutto attraverso le limitazioni alla autorizzazione paesaggistica.

Anche da questo sommario elenco risulta evidente come esista una ratio comune che ispira i provvedimenti nel loro insieme: lo smantellamento progressivo del sistema di controlli e monitoraggi sul territorio, ad ogni livello. Processo che implica, inevitabilmente, un ribaltamento delle garanzie costituzionali: come noto, Corte Costituzionale e Consiglio di Stato hanno ribadito in innumerevoli sentenze come la tutela del paesaggio sia un interesse sovraordinato ad ogni altro, e addirittura “incompatibile con ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici” (CdS, sentenza n. 3652/15, con riferimenti a giurisprudenza precedente).

In questa vicenda, chiara è la responsabilità del Mibact che, oltre a concentrare le risorse solo sui grandi attrattori turistici, ha sistematicamente mancato, rispetto ai provvedimenti sopra richiamati, di esercitare il benché minimo controllo e difesa delle prerogative ministeriali, di fatto concedendo un via libera incondizionato anche a rivolgimenti istituzionali sostanziali, come l’incardinamento delle Soprintendenze coordinate, ai sensi della Madia, dai prefetti.

Vi è però un aspetto che, nell’attuale fase ministeriale, lega fra di loro valorizzazione e tutela, ed è l’invadenza della politica a scapito della competenza tecnica: come nella scelta dei direttori dei Musei o dei Parchi nazionali, così per quanto riguarda le decisioni ultime delle conferenze dei servizi, quest’ultima stagione politica proclama a piena voce una volontà di affermazione autoreferenziale che si dimostra insofferente di ogni limite e contrappeso.

Il rischio non è più solo sul piano della tutela del patrimonio e del paesaggio, ma su quello delle regole democratiche.

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Il carattere paradigmatico della sit-com "stadio della Roma" ha ormai ampiamente trasceso non solo l'ambito locale, ma anche quello della "sola" urbanistica e gestione della cosa pubblica. Che le sorti di un'area della città siano decise con tale approssimazione nell'uso degli strumenti amministrativi e normativi e in un ribaltamento degli orientamenti della pubblica amministrazione determinato da fattori esclusivamente mediatici o di opportunismo elettorale, ci parla di una degenerazione del processo democratico tanto profonda quanto pericolosa.

Della vicenda questa nota richiamerà solo gli elementi che chiamano in causa l'amministrazione del patrimonio culturale e paesaggistico, sottoposta a pesantissimi attacchi - sulla stampa e sui social media - per aver osato esercitare il proprio diritto di tutela sull'area, a partire dalla struttura del l'ippodromo di Tor di Valle.

Il documento di notifica dell'avvio del procedimento di dichiarazione dell'interesse culturale (l'atto iniziale del vincolo) di un paio di settimane fa, non giunge affatto con tempistiche sospette o ritardate: la conferenza di servizi è in pieno svolgimento e, da quel che risulta dalle ultime circonvoluzioni della giunta capitolina, il progetto subirà un cambiamento radicale. Pur in una situazione a dir poco fluida, quindi, la Soprintendenza ha svolto il proprio compito: unica istituzione in grado di apportare elementi di chiarezza nel magma indistinto di questa vicenda.

Si è scritto (fra gli altri, Sergio Rizzo, Corriere della Sera, 20 febbraio 2017) di una presunta contraddizione fra il documento di questi giorni e un precedente parere dell'allora Direzione Regionale, del 2014, allora responsabile del procedimento. Quel parere era conseguente ad una primissima fase del progetto, lo studio di fattibilità, mancante, come si rilevava già allora di una serie determinante di elementi di giudizio, oltre che delle procedure VAS e VIA che il parere Mibact del 2014 giudica, a giusto titolo, dirimenti. Oltre a queste limitazioni chiaramente espresse, non si trattava certo di un "via libera" incondizionato: tali erano le condizioni imposte sotto il profilo archeologico e quello paesaggistico, oltre che il richiamo di una serie vincoli preesistenti nell'area che un'amministrazione anche solo prudente, per non dire coscienziosa, ne avrebbe dovuto trarre conseguenze immediate e non superficiali.

A quanto risulta, invece, nulla è stato fatto per quanto riguarda ad esempio le procedure di verifica dell'interesse archeologico, ovvero sia quelle ricerche e sondaggi che, in via preliminare, dovrebbero servire per valutare la possibilità di impatto col patrimonio archeologico, rischio vicino alla certezza in una zona come quella, che comprende la via Ostiense e il fosso di Vallerano.

In estrema sintesi, da oltre due anni, gli organi di tutela sottolineano criticità dell'opera a più livelli, inascoltate, a fronte di un progetto a dir poco incompleto e per di più mai consolidato: come se ad un medico venisse richiesta una diagnosi senza radiografie, tac, e con esami del sangue con valori diversi da un giorno all'altro.

Tutt'altro che autocratico - carattere che solo la capziosità o l'ignoranza possono attribuire a simili procedimenti - ogni vincolo è l'esito di un'accurata indagine su una molteplicità di fonti e di ambiti (archeologico, paesaggistico, architettonico, storico artistico) e non può che derivare dal confronto di competenze plurime. Questo aspetto di multidisciplinarietà e di confronto è ribadito, nel caso in questione, dal giudizio - concorde - di 4 Comitati tecnici del Ministero Beni culturali, interpellati dalla Soprintendenza e costituiti da esperti delle discipline archeologiche, architettoniche, paesaggistiche e storico artistiche.

Gli esperti dei 4 Comitati riuniti, nella loro argomentazione, non solo ribadiscono l'importanza architettonica dell'Ippodromo, ma elencano molteplici elementi di rischio della lottizzazione nel suo insieme, ognuno dei quali basterebbe a renderne altamente improbabile la realizzazione.
Ancora, ad oltre due anni di distanza dal primo parere, né le procedure di VAS e VIA risultano compiute, e neppure l'adozione della variante del PRG, condiciones sine qua non i cui esiti, con molta leggerezza amministrativa, si continuano a dare per scontati.

Ciò che risulta evidente dall'intera successione dei procedimenti di questi ultimi 2-3 anni è che gli organi di tutela, nel loro insieme, sono stati interpellati solo nei passaggi assolutamente obbligatori dal punto di vista procedurale, ma mai coinvolti a livello di progettazione: confinati al solito ruolo di burocrati depositari di saperi specialistici, non necessari nel momento della pianificazione anche se (almeno sinora) ineludibili.

È una drammatica lacuna politica e culturale che si perpetua - non casualmente - da decenni: pianificazione territoriale e tutela del paesaggio e del patrimonio viaggiano, in Italia, su binari paralleli che si incrociano solo episodicamente perché pensati, dalla classe dirigente del nostro paese, come portatori di istanze diverse, spesso contrastanti e, nel caso della tutela, residuali e da circoscrivere.

È quanto avvenuto con l'ininterrotta sequenza di provvedimenti che da alcuni anni a questa parte hanno limitato, scientemente, l'operatività degli organi di tutela. Dalle "riforme" del Ministero allo SbloccaItalia, fino alla riforma Madia che con il nuovo regolamento della Conferenza di Servizi - regolamento cui dovrà attenersi anche il progetto dello stadio romano - ha inferto un colpo forse decisivo all'autonomia e alla prescrittività delle decisioni degli organi di tutela.

Eppure in quelle poche scarne paginette prodotte dal Mibact e dai suoi Comitati sono contenuti più elementi di rilevanza strategica che in tutto il diluvio delle migliaia di faldoni sinora elaborati dai privati proponenti: vi si parla di un'area fragile, quella di Tor di Valle, ma ricca sia dal punto di vista del patrimonio culturale - archeologico e architettonico - che di quello paesaggistico, si sottolineano i pericoli di costi eccessivi per la collettività a fronte di un progetto su cui i proponenti, a tutt'oggi, non hanno ancora fornito elementi di giudizio indispensabili.

Quanto infine alla popolarissima affermazione secondo la quale "le Soprintendenze dettano legge su tutto: hanno un indiscriminato potere privo di controllo democratico - non essendo elettive - e davvero spropositato" (sic il direttore del Messaggero, 24/02/2017 da ultimo di una lunghissima serie di giornalisti e politici di primo livello), nessuno dei suoi sostenitori ha ancora saputo rispondere alla constatazione secondo la quale, i funzionari della tutela, che agiscono sulla base di competenze comprovate da pubblici concorsi, sono come i medici: nel caso di un intervento a cuore aperto, davvero sceglieremmo che ad operarci fosse il raccomandato di turno o un chirurgo eletto "democraticamente"?

Le manipolazioni populistiche e mediatiche che la vicenda dello stadio della Roma ci propina quotidianamente ormai, dovrebbero piuttosto farci riflettere su di un più consapevole uso del fragilissimo strumento della democrazia. E su come la capacità di ogni amministrazione di decidere in maniera informata e trasparente ne sia elemento non negoziabile e unica garanzia della tutela dell'interesse collettivo.

Le proteste di questi giorni riaccendono il fuoco... (segue)

Le proteste di questi giorni riaccendono il fuoco di una rivolta che, con andamento carsico, perdura ormai da mesi. La miccia, in questo caso, è stata accesa dal caso della biblioteca universitaria di lettere. Un paio di settimane fa sono stati installati i tornelli per il controllo degli accessi. Tornelli immediatamente smontati dal CUA, il Collettivo Universitario a capo della rivolta, che ha successivamente presidiato la biblioteca. Mercoledì 9 febbraio, su disposizione del prefetto richiesto di un intervento dagli organi di governo universitari, la polizia, in assetto antisommossa, ha fatto irruzione nei locali della biblioteca, dove erano presenti numerosi studenti- non solo appartenenti al CUA, ma semplici utenti - e ne ha sgomberato gli spazi. Da qui la reazione del CUA che rivendica il diritto al libero accesso della biblioteca e che, da allora, quotidianamente, ha indetto proteste su questa vicenda.

L’accesa discussione aperta dall’episodio ha visto il sindaco Merola prontamente schierato a difesa del rettorato, mentre il personale delle biblioteche universitarie ha sottolineato a più riprese le difficili condizioni in cui si trova ad operare. Non frequento quelle biblioteche se non in maniera del tutto saltuaria. Non vivendola in prima persona, non so quindi valutare la gravità del degrado vissuto nelle aule e nell’area universitaria in genere, né soprattutto i rapporti di forza fra i vari gruppi che usano a diverso titolo quegli spazi. So che ormai da mesi, a partire dagli scontri per il caro mensa dello scorso autunno, cova sotto la cenere una rivolta che dà voce ad un disagio estremamente diffuso.

So, da cittadina bolognese, che questa città ha ormai perso anche gli ultimi residui di ciò che la rendeva famosa per l'accoglienza. Che la politica locale vivacchia, ormai da decenni, nella più completa stasi culturale, contrabbandando, ad esempio, per urbanistica del centro storico - ambito che l'aveva resa maestra in Italia e in Europa, molti anni fa - operazioni estemporanee di discutibile maquillage ad uso turistico.
Praticamente nulla, da molti lustri a questa parte, è stato fatto per offrire agli studenti quei servizi di cui la città è sempre stata avarissima, con fenomeni di caro-affitti mai combattuti con soluzioni organiche e di lungo periodo. Eppure l’alma mater rappresenta da parecchi anni a questi parte la principale “azienda” bolognese e gli studenti (circa 85.000 iscritti su una popolazione di circa 380.000 abitanti) una percentuale importante degli users cittadini, di certo la più vitale. Città universitaria per eccellenza, quindi, che ha però sempre vissuto il rapporto con gli studenti dell’Ateneo in modo ambiguo. La politica locale degli ultimi decenni, asfittica e inconsapevole, ne è cartina al tornasole perfetta.

A più riprese, in questi giorni, se non altro per la suggestione della ricorrenza anniversaria, sono stati evocati paralleli con il movimento del '77 che qui a Bologna ebbe uno dei centri principali di azione e di elaborazione. Paralleli manifestati soprattutto in negativo, per respingerli, quasi apotropaicamente, e derubricare le vicende odierne sotto l’etichetta di un disagio sociale indistinto o di puri e semplici vandalismi. “Punture di spillo” (Carlo Galli) sono state definite le proteste di oggi a confronto con il Movimento di allora.

Anche quarant’anni fa, però, come qualsiasi testimone poco men che distratto sa, per molto tempo fu negata ai protagonisti del Movimento qualsiasi dignità politica in senso pieno. All'epoca dei fatti - tutto si consumò in pochi mesi, meno di un anno - la sinistra storica si rivelò straordinariamente incapace di comprendere quel fenomeno, letto dai più benevoli solo come pulsione vitalistica senza sbocchi, e di cui si vollero cogliere soprattutto gli aspetti deteriori di violenza, condannabili senza riserve, ma fino ad un certo momento non prevalenti. E persino oggi, nelle “celebrazioni” che si riaffacciano (v. la Repubblica del 12 febbraio) si tende a riconoscere e rivalutare, del ’77, quasi esclusivamente l’aspetto “culturale” (come se ‘cultura’ e ‘politica’ fossero poi due sistemi scindibili), quella carica dirompente di innovazione creativa che ribaltò le modalità comunicative ed espressive di quella e delle generazioni successive. Quei ragazzi apparvero irriducibili alle vecchie categorie politiche, come lo sono i ragazzi del CUA oggi, privi, ora come allora, di ogni rappresentanza nel quadro delle forze politiche più o meno storiche.

I tornelli dell’alma mater non ci parlano solo di Bologna, ovviamente. Nelle stesse ore in cui si svolgevano questi fatti, il 10 febbraio, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il così detto “Daspo urbano”, un provvedimento che conferisce ai sindaci poteri di ordinanza contro episodi di degrado e vandalismo, ma anche contro attività che con i temi securitari non hanno una stretta connessione, come il commercio abusivo. Il decreto, che consentirebbe l'inibizione di intere aree urbane di "pregio" a chi è colpito da “daspo”, ha suscitato un residuo di perplessità persino nel sindaco Nardella, che ha definito il provvedimento "talmente potente" da dover essere usato “cum grano salis”.

Occorrerà analizzarne attentamente il testo, che apre molti interrogativi sulla legittimazione di una sorta di categorizzazione degli spazi urbani, ma fin da ora sembra evidente che l’uso della forza pubblica è l’unica risposta che si continua a fornire agli episodi di degrado. Accomunando e appiattendo, in questa categoria, fenomeni fra loro diversi e diversissimi e condannandosi, con ciò, alla loro incomprensione.

Dagli spazi universitari alle “zone di pregio” delle città, l’unica risposta al degrado diffuso è una sorta di “militarizzazione” degli spazi pubblici, proprio per questo destinati ad essere completamente snaturati. Una città suddivisa in zone a differente gradiente di sicurezza, in cui la differenza fra periferie e aree di pregio – i centri storici turistici e monumentali innanzi tutto - è destinata inevitabilmente a ingigantirsi.

Tornelli e daspo sono stati i provvedimenti con cui, in anni recenti, si è cercato di contrastare la violenza degli stadi: nessuna radicale inversione di tendenza del fenomeno si è verificata e gli stadi continuano ad essere tristi catini semivuoti, disertati dal pubblico delle famiglie o comunque non ascrivibile alla categoria degli ultras.

Queste risposte, applicate agli spazi urbani come unica misura preventiva, appaiono null’altro che una manifestazione, tragica quanto inconsapevole, di impotenza di fronte ad un disagio sociale crescente e diffuso. Che questa risposta venga dalla classe di governo, ha purtroppo smesso di stupirci; più inquietante è che nella stessa risposta si rifugi l’università. Quello che dovrebbe essere il luogo del confronto e dell’innovazione culturale, della condivisione dei saperi e che invece, sempre più avvitata in logiche aziendaliste, si sta trasformando, per dirla con le parole di Federico Bertoni, professore dell’alma mater (Universitaly. La cultura in scatola, Laterza 2016) in una “customer oriented corporation”.

p.s. Neppure nei giorni più caldi del '77, quando via Zamboni, sede storica dell’Università, era attraversata da barricate e le autoblindo presidiavano minacciosamente l’intera area, la polizia fece mai irruzione nei locali universitari. Limite invalicabile che neppure le forze dell’ordine di epoca fascista osarono infrangere. Fino ad oggi.

Riferimenti

Sul "daspo" e sulle sue nuove applicazioni da parte dal governo renziano attuale vedi su eddyburg gli articoli raccolti sotto il titolo I poveri come huligani

, il movimento cresciuto in pochi mesi, di oltre... (continua la lettura)

, il movimento cresciuto in pochi mesi, di oltre 100 Associazioni, 22 sigle sindacali e 9 fra partiti e movimenti politici, ha deciso che questa esperienza - preziosissima - non possa che essere l'inizio di un percorso.

Nato per contrastare la deriva che ha investito il nostro patrimonio culturale e paesaggio attraverso le riforme Franceschini e leggi quali SbloccaItalia, legge Madia, Codice degli Appalti e ddl sul consumo di suolo, Emergenza cultura è riuscito, in pochi mesi, a coalizzare un gruppo sempre più vasto di persone, di esperienze, di conoscenze di altissimo livello culturale, sociale, civico. Perché al contrario di chi ha pensato le riforme del Mibact, lo strumento che ci ha guidato per contrastare quello che riteniamo un gravissimo attacco all'art. 9 della Costituzione, è stato il confronto, la discussione, l'ascolto reciproco di posizioni diverse. Insomma, l'esercizio di quel senso critico che riteniamo essere uno degli obiettivi primari cui porta la conoscenza del nostro patrimonio culturale.

Lo si è capito benissimo nell'affollatissimo convegno del 6 maggio al Centro Congressi di Roma. Tantissime le analisi, i commenti, i racconti delle esperienze e delle iniziative che ruotano attorno ai beni culturali e al paesaggio: quasi da sopraffare per complessità e vastità dei problemi e del loro intreccio. Un’amplissima disamina delle ragioni del patrimonio - dalle Soprintendenze agli archivi, dalle Biblioteche ai Musei, ai cantieri di scavo - che ha impietosamente rivelato lo stato di preparalisi di tantissimi Istituti e luoghi della cultura, non più in grado di svolgere le funzioni loro assegnate per una mancanza di risorse ormai più che decennale. Asfissia aggravata dall'insipienza amministrativa che ha guidato gli ultimi provvedimenti ministeriali, a partire da quello sulla mobilità interna del personale, costretto ad un'autogestione imbrigliata in criteri opachi e contraddittori.

Ma poi anche le iniziative "dal basso", di Comitati ed Associazioni, che in questi tempi così faticosi si affiancano nell'opera di denuncia, ma anche, spesso, svolgono un'efficace azione civica a tutela di patrimonio e paesaggio.

E assieme, l'analisi puntuale dei provvedimenti normativi, nella pericolosità derivante dal loro carattere sistemico; pur se farraginosi, giuridicamente deboli e talora contraddittori, decreti e leggi di quest'ultima stagione sono accomunati in realtà da una coerenza ferrea: la ridefinizione sistematica della pubblica amministrazione mirata ad una compressione radicale delle sue competenze e funzioni. Quelle funzioni che permettono ad uno Stato degno della maiuscola, l'esercizio dei principi costituzionali, compreso quindi l'art. 9.

Ma assieme, fra questi interventi troverete (sul sito emergenzacultura.org) l'analisi della latitanza e conclamata inadempienza del Ministero, nell'insieme della sua componente dirigenziale, di fronte a qualsivoglia funzione di programmazione di area vasta, a partire da quella cruciale connessa alla pianificazione paesaggistica.

E lo svelamento articolato nel dettaglio e supportato da cifre e dati inequivocabili del carattere velleitario, e spesso dannoso delle ultime "invenzioni" della riforma: dalle Soprintendenze "olistiche" (e quindi sulla necessità delle specializzazioni, non come territori circoscritti, ma come rivendicazione della supremazia del sapere scientifico su quello amministrativo), ai poli museali regionali (un limbo di strutture eterogenee con finalità velleitarie quali i "sistemi museali regionali") alla così detta Scuola del Patrimonio (un ircocervo senza alcuna precisa visione culturale).

E, infine, e non certo per importanza, le ragioni del mondo del lavoro: dalla delegittimazione costante del personale interno alle condizioni incivili di precariato cui sono costretti ormai molte migliaia di giovani che pur in situazioni al di sotto della dignità professionale (dai tirocini, ai voucher, dagli stages ai contratti a 5 euro lordi l'ora per studiosi spesso plurispecializzati e dottorati) contribuiscono - tutti i giorni - e in modo sempre più determinante, a far funzionare archivi, biblioteche e musei, a catalogare il patrimonio, a gestire migliaia di cantieri archeologici l'anno.

Nella propaganda governativa delle riforme Franceschini e del miliardo per la cultura, non un solo centesimo è assegnato alla tutela del paesaggio, o per il miglioramento delle condizioni professionali del personale - interno e non - cui è affidato il compimento dell'art. 9.

Gli eventi di emergenza cultura, che hanno trovato una loro perfetta continuità nel convegno - partecipatissimo - organizzato a Bologna dalla locale sezione di Italia Nostra il 13 maggio, oltre ad un indubbio successo mediatico, hanno ottenuto altri risultati straordinari: riunire verso un obiettivo comune, gruppi che sinora avevano proceduto su strade separate, e addirittura confliggenti.

Oltre al personale del Mibact, il mondo dell'Università, quello del precariato, i sindacati, gli operatori culturali sul territorio, i comitati civici, le Associazioni a tutela del patrimonio e di categoria, partiti e movimenti politici, il mondo intellettuale che si sta mobilitando in difesa della Costituzione per il No al Referendum. Perché, come è stato sottolineato da molti, a partire da Salvatore Settis, nella Costituzione - con sapiente costruzione - i vari articoli si richiamano l'un l'altro, necessitandosi: così la difesa dell'art. 9, si ricollega direttamente agli articoli 1, 3, 4, 33, 35, 36...

Credo che per i lavoratori del Mibact sia stato il momento dell'orgoglio ritrovato, per quello delle Università, il rinnovarsi della consapevolezza che la ricerca - ciò che lega tutela, valorizzazione, insegnamento - è tale solo se pienamente libera e non ammette cesure istituzionali, per i precari, la speranza che la loro condizione diventi una battaglia allargata: perchè il futuro di questo Ministero passa anche e soprattutto attraverso di loro. Inevitabile, adesso, che questa esperienza prosegua e, accanto e oltre la denuncia, riesca a costruire una diversa proposta per l'attuazione dell'art. 9.

Non sarà semplice, ma intendiamo "usare" le energie intellettuali e le competenze emerse in chi si riconosce in "Emergenza cultura", innanzi tutto per elaborare dei correttivi all'attuale quadro normativo e proporre, di conseguenza, una diversa e più efficace attuazione di quanto prescrive il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. È un impegno complesso, soprattutto perché passa attraverso un obiettivo ineludibile, che è quello dell'allargamento del "popolo dell'art. 9".

Abbiamo il dovere, prima di tutto, di ampliare la platea di chi riconosce l'importanza cruciale di quell'articolo come strumento di consapevolezza civile. La "democratizzazione" del patrimonio culturale è un passaggio ancora incompiuto della nostra democrazia: dalla ristretta platea di una colta élite di frequentatori di musei e monumenti, siamo approdati alla folla dei turisti consumatori, teleguidata nelle scelte. È successo in pochi decenni, senza mediazioni, anche per colpa nostra: abbiamo il dovere di recuperare, in fretta e aiutare a costruire una maggioranza di cittadini che, in quanto tali, rivendicano un diverso modo di accesso al patrimonio, più consapevole e critico.

Dopo il 7 maggio, però, sappiamo di possedere entrambi i "figli" della speranza:
La speranza ha due bellissimi figli, lo sdegno e il coraggio.
Sdegno per le cose come sono e coraggio per cambiarle.

Sant'Agostino

...(continua a leggere)

La seconda ondata di riforma del Mibact ha sinora ottenuto l'insospettato risultato di mettere d’accordo fautori e critici su di un aspetto determinante: considerati nel loro insieme, il precedente decreto del luglio scorso e l’attuale, configurano non un semplice adeguamento a precedenti provvedimenti legislativi di altro soggetto (spending review, riforma della PA, legge di stabilità), ma un vero e proprio stravolgimento del Ministero creato da Giovanni Spadolini nel suo assetto generale e del sistema della tutela in Italia. È chiaro a tutti, dunque, che siamo di fronte ad un'operazione strutturale, che, per quanto attuata con strumenti legislativi e amministrativi impropri, poco coerenti nel loro insieme, e a forte rischio di anticostituzionalità, persegue obiettivi non di semplice aggiustamento - ammodernamento di un sistema, ma di un suo radicale ridimensionamento-mutazione.

In estrema sintesi, questi obiettivi possono essere riassunti come: la definitiva cesura fra tutela e valorizzazione, a tutto vantaggio di quest'ultima in termini di risorse di ogni livello; la gerarchizzazione del sistema, finalizzata ad un più facile controllo politico del processo decisionale; la compressione dei residui meccanismi di controllo e monitoraggio sul territorio, tale da comprometterne radicalmente l'efficacia nel contrasto allo sfruttamento speculativo del paesaggio.
In questa direzione vanno dunque interpretati, sia la nuova ondata di supermusei, cui si affiancano ora anche alcune preziosissime aree archeologiche, sia la soppressione delle stesse Soprintendenze Archeologiche che seguono la sorte di quelle storico artistiche. Si ritorna così alle Soprintendenze miste, di sabauda memoria, in cui un solo dirigente dovrà occuparsi dell'intero patrimonio culturale e paesaggistico dell'area assegnata (pari almeno al territorio di due o più province).

Lo immmaginereste mai? La giustificazione politica - per questa seconda tranche della riforma - è la "semplificazione", la parola d'ordine che scandisce almeno da vent'anni lo smontaggio sistematico dell'apparato statale e la distruzione delle sue capacità di riequilibrio sociale e di regolazione democratica. Le nuove Soprintendenze "olistiche" dovrebbero in sostanza meglio sostenere la pressione del silenzio - assenso e dell'incardinamento all'interno delle prefetture: misure entrambe partorite dallo stesso Governo che ora si inventa questi contrappesi.

Viene ripresa, a sostegno dell'unificazione, la tesi tanto cara a politici, stampa ed amministratori locali, secondo la quale gli organi di tutela sarebbero spesso in contrasto l'uno con l'altro, portatori, insomma di istanze diverse e per questo causa di ritardi incompatibili con le superiori ragioni dello sviluppo territoriale. Che si tratti di competenze diverse e che la stessa area-monumento, addirittura oggetto possa avere esigenze diverse a seconda di queste competenze, non è frutto del relativismo soggettivistico di singoli Soprintendenti o funzionari, ma semplice dato di fatto oggettivo. Altrettanto semplice - e rapidissima - la soluzione: laddove esistano dei contrasti di fronte a richieste di trasformazioni territoriali di ogni tipo, deve prevalere l'istanza di tutela più ampia e quindi il parere conformato al principio di massima precauzione.

Con questa riforma, invece, a decidere su queste richieste - qualunque sia il monumento /area interessata - sarà un unico Soprintendente di competenze fatalmente non adeguate alla complessità dei casi e, nella totalità delle situazioni territoriali attuali, privo di idonei strumenti, in termini di personale, archivi, laboratori, risorse economiche. E, per sovrannumero, a sua volta dipendente da un'autorità superiore - il Prefetto - del tutto ignaro dei contenuti tecnico scientifici e dei meccanismi che governano l'esercizio della tutela.

Il risultato finale sarà - inesorabilmente - quello di un appiattimento verso il basso del livello della tutela, con una inevitabile evoluzione della figura del Soprintendente Unico in quella di un mediatore fra le diverse esigenze e pressioni politiche del territorio di competenza. E ogni "mediazione" fatta sulla pelle del territorio è una mediazione al ribasso. Ed è anticostituzionale, come ci ha spiegato attraverso innumerevoli sentenze la Corte Costituzionale, ribadendo come il paesaggio costituisca un "valore primario e assoluto", la cui tutela "precede e comunque costituisce un limite agli altri interessi pubblici" (sentenza n. 367/2007).

Lungi dal porre un argine al silenzio-assenso e alla subordinazione delle Soprintendenze alle Prefetture - i nuovi Uffici Territoriali Unici - questa seconda fase delle riforma rischia di condannare alla definitiva paralisi strutture che da mesi - dall'entrata in vigore del DPCM 171/2014 - si dibattono in difficoltà gestionali drammatiche: senza alcuna chiarezza quanto ad organici, suddivisione di competenze e di risorse. L'entrata in vigore della prima fase della riforma, infatti, è avvenuta nel segno dell'improvvisazione e della mancanza di regole chiare e univoche ed ha mostrato, da subito, gravi carenze d'impianto. Invece di procedere ad una revisione - correzione di rotta, con questo nuovo decreto, si accelera verso l'entropia.

L'archeologia, in particolare, è, in questa seconda fase, il settore maggiormente interessato dai cambiamenti: non solo per la soppressione delle Soprintendenze archeologiche, ma per lo smembramento della più importante (e ricca) Soprintendenza Archeologica italiana, quella di Roma, ridotta ad uno spezzatino (progetto che meriterà un'analisi specifica). Non è tutto: a dir poco inquietante è la notizia, riportata da più fonti, secondo la quale nella nuova versione del Codice sugli appalti che si sta mettendo a punto, sarebbero eliminati gli articoli relativi all'archeologia preventiva, il ridotto apparato normativo che a tutt'oggi regola oltre 6000 cantieri di scavo all'anno. Già ultimi, fra i paesi europei, per quanto riguarda la legislazione di questo settore cruciale, unici ad averne limitato la validità alle sole opere pubbliche, arrivati, con 24 anni di ritardo, ad una ratifica della Convenzione di Malta di pura facciata, ci ritroveremmo, in questo caso, in una situazione di totale deregulation.

D'altro canto, anticipando, nell'agosto 2014, il famoso SbloccaItalia, il premier l'aveva annunciato col seguente slogan: "Mai più cantieri fermi per ritrovamenti archeologici" (La Repubblica, 15 agosto 2014). Quest'accanimento verso l'ultimo, seppur debole, ostacolo alle mani libere sul territorio, sarebbe dunque di diretta ispirazione renziana, come vociferano i rumors di Palazzo.

Se davvero il Ministro Franceschini ha “subito” questa riforma ha ora l'occasione -l'ultima – di dimostrare quanto davvero abbia a cuore la tutela del patrimonio e la difesa delle prerogative del suo Ministero. Blocchi quest'ultimo decreto, se non altro in nome della necessità di un confronto allargato con chi, negli ultimi decenni, ha retto sul campo - con pochi mezzi e ancor meno riconoscimenti - le sorti del nostro patrimonio culturale.
E magari - in quest'operazione di ascolto - sia affiancato da un Consiglio Superiore dei Beni Culturali, conscio del proprio ruolo.

In alternativa, ai membri del Consiglio, non rimarrebbe che una sola via d'uscita. E non sarebbe nemmeno difficile trovare modelli di riferimento, che, ad ogni buon conto, richiamiamo come ausilio alla memoria:
"Onorevole Signor Ministro,
[...] Le mie dimissioni sono dovute, in effetti, al disgusto per il modo come il Consiglio Superiore, che nel linguaggio burocratico è tuttavia designato come "Alto Consesso", viene fatto funzionare, con discredito per questo organo; e alla volontà di non condividere più oltre, anche in parte minima, la responsabilità che l'Amministrazione delle Antichità e Belle Arti è costretta ad assumersi, e si assume, nella progressiva distruzione delle caratteristiche della civiltà artistica italiana. [...] Ma anche con l'attuale legislazione si potrebbe ottenere una salvaguardia molto più efficace, ove da parte della Direzione Generale e del Gabinetto vi fosse la effettiva e costante volontà di opporsi agli attentati che da tante parti vengono portati alle caratteristiche delle nostre città e del paesaggio italiano.


[...] Conosco perciò le pressioni che da parte di tutte le autorità della classe dirigente italiana (gruppi finanziari, autorità ecclesiastiche, prefetti, sindaci e parlamentari) vengono esercitate sui locali uffici e sul Ministero, sempre in un solo senso: perché, cioè, si deroghi alle leggi predisposte per la tutela artistica, storica e panoramica; so che i funzionari regionali delle nostre Soprintendenze conducono con tenacia e coscienza una lotta impari contro le pressioni e che la Direzione Generale potrebbe trovare il più valido appoggio nel Consiglio Superiore. Ma [...] il Consiglio Superiore è oggi tenuto [...] quale strumento per avallare e coprire decisioni già prese, spesso provocate da pressioni che possono dirsi politiche solo nel senso deteriore del termine, cioè del tutto particolaristico e clientelistico. L'esperienza , sempre più aggravata negli ultimi dieci anni, ha mostrato che nessuna seria garanzia è data ai componenti del Consiglio Superiore di trovare nell'autorità ministeriale la massima tutelatrice e interprete della legge nell'interesse comune.


[...] si pone il Consiglio Superiore dinanzi a decisioni già prese e a impegni già assunti nello stesso momento nel quale al Consiglio viene richiesto di pronunziarsi in merito. I casi del villaggio CEP di Sorgane e del cosiddetto Parco della CIA Appia sono, di tale prassi, solo gli esempi più clamorosi; [...]
Ma tutti coloro che hanno sensibilità storica e artistica e senso della decenza e che si preoccupano anche dell'importanza che nel nostro Paese assume l'elemento turistico, sanno, in Italia e ormai purtroppo anche fuori d'Italia, che l'Italia si sta distruggendo giorno per giorno, e che tale distruzione solo in casi isolatissimi è inevitabile conseguenza dei mutamenti tecnici, economici, e strutturali della civiltà moderna: nella maggior parte dei casi è conseguenza del prevalere degli interessi della speculazione privata e della grossolanità culturale della attuale classe dirigente italiana.

I due anni di appartenenza al Consiglio, mi hanno convinto della assoluta inefficacia della mia appartenenza a tale organismo e quindi ne traggo le logiche e oneste conseguenze."

Queste righe di inalterata attualità, quasi alla lettera, risalgono al 28 maggio 1960. Ed era un archeologo.
Ma soprattutto, era Ranuccio Bianchi Bandinelli.

Un paio di settimane fa il Tar dell'Emilia Romagna ha dichiarato l'illegittimità del progetto - voluto innanzi tutto dalla locale Fondazione Cassa di Risparmio - di 'riqualificazione' del Sant'Agostino...(continua a leggere)
Un paio di settimane fa il Tar dell'Emilia Romagna ha dichiarato l'illegittimità del progetto - voluto innanzi tutto dalla locale Fondazione Cassa di Risparmio - di 'riqualificazione' del Sant'Agostino - l'ex ospedale modenese - attraverso la creazione di un "polo librario". Topograficamente, il complesso si trova di fronte al Palazzo dei Musei, il settecentesco "Grande Albergo delle Arti", la sede che dal 1889 accoglie la Galleria e la Biblioteca Estensi, entrambe istituzioni di primaria importanza per il patrimonio conservato.
Ma non solo: in quest'unico contenitore, grazie alla lungimiranza dei passati amministratori furono ospitati anche il Museo Civico, la Biblioteca Poletti, specializzata in storia dell'arte, l'archivio comunale, una gipsoteca, il lapidario e, fino a pochi anni fa, anche il museo del Risorgimento (ora sloggiato e imballato). Nel tempo, questo lucido disegno civico si è via via fatto più confuso, tanto che ampi spazi dello stesso enorme edificio sono stati destinati a funzioni del tutto diverse, fra cui soprattutto quelle ospedaliere, mentre, sul lato settentrionale della piazza, l'Ospedale Sant'Agostino, creato nel XVIII secolo dal Duca Francesco III, diveniva sempre più inadatto per le moderne esigenze di assistenza e cura.

A partire dalla metà degli anni ‘90 si costruì quindi il nuovo Ospedale Estense-Sant’Agostino, a Baggiovara. Operazione rivelatasi assai gravosa per le casse comunali e dell’Ausl al punto da costringere il Comune alla vendita del Palazzo del Sant'Agostino, ormai svuotato dalle funzioni di nosocomio. Comune e Azienda sanitaria, in sostanziale coincidenza di interessi politici e finanziari, invitarono caldamente la locale Fondazione bancaria ad acquisire il centralissimo complesso del Sant’Agostino di enorme valore sul piano architettonico e urbanistico.

Un buon affare, ma evidentemente non sufficiente per le strategie di visibilità della Fondazione da subito interessata al potenziale di immagine della dirimpettaia Biblioteca Estense con i suoi 500.000 volumi, fra i quali soprattutto 16.000 cinquecentine, incunaboli e codici miniati fra cui la famosissima Bibbia di Borso. Così, dal 2007, anno dell'acquisizione, è stato avviato un progetto di "riqualificazione" il cui obiettivo sarebbe stato il trasferimento dell'intero patrimonio librario dell'estense e della biblioteca Poletti nel Palazzo Sant'Agostino per la creazione di un nuovo "polo librario". Non di ‘semplice’ trasloco si sarebbe trattato, bensì di una radicale trasformazione del carattere e delle funzioni delle biblioteche pubbliche, suddivise fra una sezione no-profit per la pubblica lettura e un polo "espositivo" dove poter ammirare - a pagamento - codici miniati ed "eccellenze" librarie e dotato, ça va sans dire, di adeguati servizi commerciali a supporto.

Naturalmente adattare un ex ospedale a biblioteca non è impresa semplice e all'uopo è stata chiamata l'immancabile archistar, figura totem che ha ormai assunto, in Italia, un carattere taumaturgico rispetto a qualsivoglia problema urbanistico. Lo studio di Gae Aulenti, su commissione della Fondazione, ha quindi elaborato un progetto che prevedeva la costruzione di due torri librarie di oltre 23 metri di altezza inserite nell'edificio settecentesco, il riempimento dei cortili con altri fabbricati, demolizioni e altre vistose manomissioni. In sintesi, lo stravolgimento di un edificio tutelato ope legis, sul quale sarebbero consentiti quindi solo interventi di restauro conservativo e filologico.

Che tale progetto fosse poi in contrasto con il piano regolatore vigente, è stata ritenuta quisquilia superabile con stratagemmi al limite della liceità (tavole del piano strutturale comunale con indebite varianti, misteriosamente apparse nel frattempo). Oltre ai problemi urbanistici - e legali - e a quelli di tutela architettonica, sono state superate con la stessa souplesse tutte le obiezioni relative alla tutela del patrimonio librario: le torri librarie sono ormai ovunque ritenute strumento pericoloso per l'integrità dei volumi; l'inadeguatezza degli spazi del Sant'Agostino avrebbe costretto a modifiche disastrose degli arredi storici, il semplice trasloco, con la distruzione del microclima, avrebbe messo a serio rischio il patrimonio librario nel suo insieme.

Di fronte alle ripetute denunce della gravità di un simile progetto, non solo per la salvaguardia di beni culturali preziosissimi, ma per lo stravolgimento radicale del concetto di fruizione che comportava, denunce condotte quasi in solitudine dalla sezione Italia Nostra di Modena, gli organi del Ministero, ad ogni livello dirigenziale, hanno trascurato qualsiasi criterio di verifica e di prudenza e, con una catena ripetuta di errori amministrativi, per tacer di quelli sostanziali sull'esercizio della tutela, hanno ripetutamente avallato le decisioni di Fondazione e Comune.

Il progetto è stato approvato da Comune, Mibact e Fondazione, il 13 novembre 2007, quando i rapporti di forza pubblico- privato furono plasticamente evidenziati al momento della firma dell'accordo di programma, siglato presso la sede della Fondazione, dove l'allora ministro Rutelli e l'allora Sindaco Pighi si recarono a rendere omaggio al dominus della partita, accettando persino - il Mibact - di pagare tutte le spese per il trasferimento del materiale librario da un edificio pubblico ad uno di proprietà privata. Cornuti e mazziati, ma si sa, la politica ha ragioni che la ragione (e la cultura) non conosce.

Nella sentenza dello scorso 6 novembre, il Tar non ha potuto che prendere atto dell'incredibile serie di irregolarità che viziavano il progetto, negando la validità del permesso di costruire e interrompendolo in radice.

In perfetto Zeitgeist, le reazioni di politici e amministratori (attuali, ex, post...), che si sono affannati a sminuire la portata della decisione, relegandola a cavillo burocratico utilizzato dai soliti conservatori, misoneisti a prescindere. La superficialità (eufemismo) con cui, anche in quest’occasione, i politici locali hanno interpretato il loro ruolo di amministratori della cosa e degli interessi pubblici ha trovato compiuta espressione nelle dichiarazioni – scritte – dell’Assessore all’urbanistica Anna Maria Vandelli che non necessitano di alcun commento: “le norme sono un pretesto, l’architettura [quella della Aulenti n.d.s.] ha regole altre da quelle che possono essere contenute in un piano…è la qualità del professionista che fa la differenza […] …credo che la maggior parte dei cittadini ritenga che la produzione e continua modifica delle norme siano fastidiosi impedimenti, occorrono meno regole e più autorevolezza demandata alla professionalità” (Su Facebook e “Prima Pagina”, 10 novembre 2015).

Immediate anche le reazioni indignate della stampa locale, contro il danno incommensurabile derivato allo "sviluppo" della città dalla perdita del segno dell'archistar, a sottolineare tristemente quale sia ormai l'unico fine cui sembra destinata la pianificazione urbanistica o ciò che ne rimane: il marketing territoriale.

Quest’ultimo, appare l'obiettivo esclusivo di amministratori, classe dirigente e media assortiti, incapaci di concepire anche una minimale strategia culturale. Ma ancor meno, basterebbe appellarsi all'evidenza del buon senso per comprendere come, senza alcun trasferimento, lo stesso Palazzo delle Arti, svuotato delle funzioni incongrue, potrebbe offrire tutti gli spazi necessari agli ampliamenti di cui archivi e biblioteche sempre necessitano compresi quelli utili a trasformare queste istituzioni che da troppo tempo galleggiano al limite della sopravvivenza, in veri centri di ricerca al servizio dei cittadini e degli studiosi.

La vicenda del Sant’Agostino ha un carattere esemplare rispetto alla situazione italiana per più di un aspetto. Ci parla innanzi tutto della confusione in cui si trovano i nostri amministratori, per i quali il patrimonio culturale è quasi solo un fardello oneroso e se non ha immediati riscontri sul piano turistico, diventa un problema di cui liberarsi o (s)vendendolo ai privati (come a Venezia, o Siena, o Torino) o privandolo dei mezzi di sussistenza (v. il caso del Castelvecchio di Verona).

Ci racconta del ruolo distorto che hanno assunto, ormai da molti anni, le Fondazioni bancarie, in particolare per quanto riguarda la gestione degli eventi e delle istituzioni culturali. Enti privati (anche se amministrano pur sempre un patrimonio della collettività…) che, soprattutto dallo scoppio della crisi economica, sono man mano diventati, in virtù delle disponibilità economiche, gli arbitri – talora assoluti - delle politiche culturali delle nostre città. Con risultati alterni, spesso discutibili, sempre “opachi” perché frutto di operazioni decise da non eletti e non vincolate alla trasparenza di un pubblico dibattito, anche se – come nel caso di Modena – interferiscono pesantemente sul patrimonio collettivo e se, come accade sempre più di frequente, i costi di gestione delle operazioni intraprese sono troppo spesso destinati, prima o poi, a riversarsi sulle casse pubbliche.

Il vuoto culturale indebitamente – dal punto di vista costituzionale – occupato dalle Fondazioni, non ha però solo una genesi economica. E’ l’inevitabile conseguenza della progressiva incapacità degli organismi pubblici – il Mibact prima degli altri – ad elaborare una seria politica culturale o anche solo ad esercitare i compiti di tutela loro assegnati, a difesa degli interessi dei cittadini italiani. Tutela che non significa “solo” vincolo passivo, ma, prima di tutto, la restituzione, in termini di accessibilità, comunicazione, fruizione, del patrimonio culturale alla collettività. Incapaci di riconoscere e quindi trasmettere le funzioni e il valore non meramente patrimoniale dei beni culturali, tali organismi – in particolare a livello dirigenziale – tradiscono quello che dovrebbe essere il loro ruolo di guida e coordinamento culturale finendo sempre più spesso preda delle sirene di un concetto di sviluppo provinciale e attardato e autorelegandosi alla funzione di “facilitatori” di politiche culturali assunte da altri.
Nel caso di Modena, il provincialismo del progetto dell’archistar risiedeva – ad esempio – in un concetto stravagante di uso del patrimonio librario, ottenuto con metodologie superate e pericolose (le torri librarie) e contrario ad ogni principio di sostenibilità gestionale. Principio ben presente, al contrario, nella controproposta, quella sì innovativa, che suggeriva di utilizzare le ingenti risorse (come abbiamo visto anche pubbliche) del progetto per un’operazione di digitalizzazione a largo raggio del patrimonio librario. In linea con quanto sta avvenendo in tutte le maggiori biblioteche e istituzioni pubbliche, dagli Stati Uniti all’Inghilterra, questo progetto avrebbe inserito Modena e i suoi tesori librari all’interno di un patrimonio universale, ottenendo al contempo un effetto di “marketing territoriale” di ben altro spessore culturale.

Ma la vicenda del Sant’Agostino ci racconta drammaticamente anche della mutazione etica della nostra classe politica che, dimentica delle più elementari regole istituzionali, arriva a definire esplicitamente le leggi come un fastidioso orpello. Siamo dunque arrivati alle estrema evoluzione dei “lacci e lacciuoli” di berlusconiana memoria, il cui esito naturale è la “semplificazione”, obiettivo guida di quest’ultima stagione governativa.

La gravità di tale fenomeno – di cui il Sant’Agostino è solo un esempio fra i tanti – non è solo per le conseguenze operative che è destinato a provocare (sul nostro paesaggio, sul patrimonio culturale, sui centri storici, sulla qualità urbana, dell’ambiente, dei servizi), ma costituisce un vulnus mortale allo stesso concetto di democrazia. Dal codice di Hammurabi in poi, uno dei cardini di questo concetto è rappresentato da un insieme di regole scritte, perfettibile all’infinito, ma uguale per tutti. Il rispetto del quale è l’unica garanzia contro la violenza e il sopruso del più forte sul più debole.

… e infine, per fortuna, il caso Sant’Agostino ci ribadisce che, anche se non sempre, esiste un giudice a Berlino.

Le recenti polemiche sulla ricostruzione dell’arena del Colosseo, riattivate dalla decisione del ministro di destinare solo a quest’opera quasi il 25% dei fondi 2015-2016 del così detto “Piano strategico Grandi Progetti Beni culturali”, hanno riproposto alcuni stereotipi duri a morire. Come ad esempio la contrapposizione – sempre citata dai fautori della ricostruzione - fra presunti conservatori élitari, laudatores temporis acti fuori tempo massimo e chi invece si sforzerebbe di aggiornare il nostro patrimonio culturale destinandogli usi più moderni ed adeguati alla contemporaneità.

Si tratta di un’abusata coperta di Linus con cui si cerca di ovviare all’incapacità conclamata della nostra classe politica e accademica di pensare – anche solo per sommi capi – una politica dei beni culturali degna di questo nome, ovvero sia una politica che abbia una chiara cognizione della loro importanza e ne sviluppi finalmente le potenzialità di strumento di conoscenza (del rapporto presente-passato), di acquisizione degli strumenti critici e, per questo, di innovazione. In una parola una politica che abbia una qualche idea su cosa farci di questi beni culturali che non si limiti al loro sfruttamento turistico. O che, al minimo sindacale, si ponga almeno l'obiettivo di una redistribuzione dei flussi turistici più sostenibile, in grado di valorizzare non sempre solo i blockbusters, ma il museo diffuso sempre decantato a parole e sempre negletto nei fatti.

Di fronte all’incontrovertibile dato dello squilibrio delle risorse a favore della sola ricostruzione dell'arena, il ministro ha replicato - prontamente rilanciato dal codazzo dei clientes - che nei prossimi anni saranno fatte altre elargizioni e che si terrà conto di casi come quello della Domus Aurea, la fastosa dimora di Nerone, snodo della cultura figurativa dal Rinascimento in poi, abbandonata da anni in uno stato di difficilissima sopravvivenza.

Peccato che sarebbe esattamente compito di una politica e di una amministrazione adeguata saper stilare – tanto più di fronte alla fragilità complessiva e ai problemi che gravano sui nostri beni culturali – delle priorità secondo una linea di intervento trasparente, scientificamente motivata, amministrativamente conscia dei rapporti costi-benefici.

Al contrario il ministro ha deciso esclusivamente secondo propri criteri mentre il Consiglio Superiore è stato chiamato semplicemente a ratificare l’elenco proposto.

Questa completa distorsione della funzione del Consiglio e degli organi di consulenza scientifica testimonia il nuovo livello cui è stata abbassata la gestione del nostro patrimonio culturale: siamo dunque arrivati, in maniera conclamata, ad un uso politico – in senso personalistico – dei monumenti pubblici.

Per giustificare la spesa di 18,5 milioni si invoca una maggiore comprensibilità del monumento: stranoto al grande pubblico nelle sue funzioni e nella sua forma, il Colosseo di tutto ha bisogno tranne che di essere spiegato con la ricostruzione del piano dell’arena. E su questa linea, perché allora non ricostruire le gradinate? E il velarium? E i clipei bronzei?

Le migliaia di turisti che si ammassano quotidianamente per entrare nell’Anfiteatro avrebbero piuttosto bisogno di servizi adeguati: dai bagni al book shop – caffetteria, ad una maggiore efficienza degli ingressi. O, se vogliamo rimanere nell’ambito della didattica, di materiali informativi multilingui più aggiornati dei pochi cartelloni ora presenti, con ricostruzioni complessive e una storia del monumento che – ben più di un semplice piano di calpestio – ne farebbe comprendere l’importanza.

Altri sono invece i siti e i monumenti che necessiterebbero di una valorizzazione tesa finalmente ad una fruizione più informata e consapevole.

Invece si continua ossessivamente a intervenire sul grande feticcio, sull’icona turistica per eccellenza, nella speranza di spremerne ancora più soldi (i diritti televisivi per gli spettacoli futuri).
E perché è molto più semplice intervenire su di un monumento che non ha ora più bisogno di costosi e lunghi restauri (troppo lunghi per i tempi della politica…).

Certo gli 80 milioni non potevano sanare tutti i problemi del nostro patrimonio, ma occorreva fare delle scelte lungimiranti che, soprattutto in questa prima tornata, rendessero ragione di un programma non estemporaneo e raccogliticcio quale è quello che appare.

L’enormità del compito – la gestione del nostro patrimonio - avrebbe dovuto attivare una pianificazione complessiva e soprattutto un’azione politica di ampio raggio capace, ad esempio, di raccogliere le risorse disperse nei tanti rivoli delle amministrazioni pubbliche per un programma di emergenza nazionale (obiettivo troppo lungo e complesso per coesistere con i criteri di semplificazione e rapidità, valori cardine dell’attuale governo).

L’accanimento sul Colosseo, al contrario, testimonia in modo esemplare l’ormai avvenuta scissione fra i beni culturali di serie A, economicamente fruttuosi, mediaticamente spendibili, su cui vale la pena investire e beni di serie B, destinati ad un abbandono sempre più accelerato. La bad company così come l'ha definita Salvatore Settis anche recentemente.

E’ lo stesso criterio che ha guidato la “riforma” del sistema museale statale, il cui unico obiettivo appare ristretto all’accensione dei riflettori sulle “eccellenze” (peraltro discutibilmente designate).
Con il velleitario presupposto che un megadirettore possa magicamente risolvere la marea di problemi organizzativi, amministrativi, avendo peraltro le mani legate sulla gestione del personale.
Megadirettori che saranno scelti, alla fine di un iter concorsuale a dir poco improvvisato, dallo stesso ministro, come ai tempi di Bottai.

Si replica, anche in questo caso, quell’uomo solo al comando stigmatizzato dal Presidente della Repubblica qualche giorno fa.

E’ al Presidente Mattarella che ci rivolgiamo ora – da ultimo con la lettera aperta di un gruppo di costituzionalisti – perché presidi, come gli compete, il rispetto dei principi costituzionali, in primis dell’articolo 9.

Perché attraverso la legge delega Madia viene esplicitata – con la sottomissione delle Soprintendenze ai prefetti e in generale con l’abolizione de iure della primazia dell’interesse del patrimonio culturale sopra ogni altro (sul tema cfr. Tomaso Montanari) – la vera posta in gioco di questa stagione politica: l'estromissione delle Soprintendenze e del Mibact dalla gestione e dal controllo del territorio.

In maniera ancor più sistematica che attraverso lo Sblocca Italia, gli unici organi ormai in grado di esercitare un controllo, attraverso l’esercizio di tutela del paesaggio, gli unici ancora dotati di un’autonomia – almeno formale – dal potere politico, sono definitivamente sottoposti ad un potere, quello del prefetto, di diretta emanazione politica.

L’opposizione ad un disegno simile dovrebbe essere la priorità per ogni Ministro dei Beni Culturali, in nome della più importante innovazione che il nostro territorio attende da sempre, ovvero sia il coordinamento della pianificazione paesaggistica.

Al contrario, a ribadire l’irrilevanza del Ministro in questo settore, i piani sono in gravissimo generalizzato ritardo e gli unici due casi della Puglia e della Toscana si devono quasi esclusivamente alla determinazione e alla competenza di singole figure di assessori regionali (Barbanente e Marson).
A tutt’oggi il Ministero non ha mai esercitato quel ruolo di guida e di indirizzo prescritto dal Codice (art. 145) e si è dimostrato – soprattutto a livello centrale – sempre pronto alla mediazione al ribasso, come nel caso dello splendido paesaggio Apuane, sfregiato dalle cave i cui proprietari hanno imposto – contro lo stesso Assessore, ma con l’acquiescenza del Mibact – un radicale “ammorbidimento” delle regole di piano.

Privo di competenze interne consolidate e diffuse in quest’ambito cruciale, invece che dotarsene per governare questa partita vitale, il Ministero si è quindi ritirato in un ambito sempre più circoscritto, limitandosi quasi sempre a correzioni di rotta marginali senza mai riuscire ad imporre una visione autonoma «capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale», così come hanno scritto i giudici della Corte Costituzionale (sentenza nr. 151 del 1986).

E’ questa radicale inversione di atteggiamento politico e culturale che manca da sempre in chi ha guidato il Mibact, ridotto, nell’ultimo ventennio, su posizioni di mera difesa e, troppo spesso, di compromesso.

L'azione dell’attuale ministro si è sinora rivelata incapace sia di elaborazione innovativa, sia almeno di un contrasto efficace a tutela delle prerogative del proprio Ministero.

E fra poco, rischia di essere davvero troppo tardi.

(leggi tutto)

Un diamante è tornato a brillare, nei giorni scorsi, nel cielo di Roma e svetta, con la sua cuspide candida, riuscendo a spandere una parte del suo splendore sulla consueta cornice di traffico e caos urbano che lo circonda. La piramide Cestia, innalzata alla moda egizia da un ricco commerciante romano, nel I secolo a.c., è stata di nuovo riaperta al pubblico completamente ripulita e consolidata, dopo un restauro durato 327 giorni (quanto la costruzione) e terminato con 75 giorni di anticipo rispetto alla stima di progetto. L'operazione, curata integralmente dalla Soprintendenza Archeologica statale di Roma, è stata finanziata in toto da un imprenditore giapponese, Yuzo Yagi che, come unica contropartita, ha voluto offrire una festa finale in occasione della conclusione dei restauri e della riapertura al pubblico del monumento, il 20 aprile scorso.

Alla festa non ha partecipato il ministro Franceschini che pure questo rarissimo - forse l'unico da molti anni a questa parte - esempio di mecenatismo puro nei confronti del nostro patrimonio culturale dovrebbe tenerselo caro, visti i non esaltanti risultati del suo Art Bonus, il provvedimento che avrebbe dovuto moltiplicare le erogazioni liberali dei privati a sostegno del patrimonio (comunque posteriore all'elargizione di Yagi).

Non è il suo unico problema, in verità: allo stesso modo la cosiddetta riforma del Mibact, la riorganizzazione della macchina ministeriale originata dalla spending review, pare impantanata in gravi impasses organizzative, con strutture, archivi e biblioteche in primis, già ora in forte sofferenza, mentre si dilatano i tempi per l'avvio a pieno regime dei venti Musei autonomi: sicuramente i 20 direttori non arriveranno, come previsto, a giugno.Esito non stupefacente considerato il modus operandi del ministro e dell'altissima dirigenza Mibact programmaticamente diffidenti nei confronti delle competenze interne, costantemente ignorate quando non delegittimate.

È accaduto, ad esempio e a più riprese, con la vicenda della ricostruzione dell'arena del Colosseo che il ministro, anche pochi giorni orsono ha ribadito di voler ricostruire per ricavarne i diritti TV derivati da "rappresentazioni uniche al mondo". Uniche non solo nello spazio, ma anche nel tempo, visto che nessun romano ha mai assistito agli spettacoli dal livello dell'arena. A meno che - falsificazione per falsificazione - non si intenda poi procedere con la ricostruzione delle gradinate: peccato che quei guastafeste dei magistrati abbiano messo sotto accusa quel brillante antecedente costituito dal rifacimento del Teatro Grande di Pompei. Anche in questo caso, il ministro ha ignorato il parere dei propri funzionari: la direttrice del Colosseo ha più volte pacatamente esposto le molteplici ragioni tecniche e scientifiche che si oppongono ad un progetto simile.

Lo spregio nei confronti delle competenze interne è evidentemente una delle cifre "stilistiche" di questo governo, basta pensare alle inaudite dichiarazioni della ministra Giannini sugli insegnanti suddivisi fra abulici e squadristi. E le conseguenze nefaste di una simile deriva si sono viste ieri, 3 maggio, a Bologna, dove l'unico confronto concesso dal premier agli insegnanti che protestavano- manganelli permettendo - è stata un'udienza in un retrobottega, a favor di telecamere.

Al contrario, proprio chi cerca di far valere le ragioni della scienza e dell'esperienza, di una competenza maturata sul campo in condizioni sempre più difficili di anno in anno, sia sul piano materiale che della delegittimazione politica è forse l'unico antidoto efficace agli squadrismi reali, da un lato e dall'altro alla "retorica delle puttane" (cit. Montanari) di cui l'inaugurazione Expo ci ha fornito esemplificazione mortifera.Una retorica che non può nascondere il vuoto culturale di una manifestazione ormai fuori tempo massimo quanto a spirito e motivazioni socioeconomiche e il cui unico obiettivo appare la celebrazione acritica della monocoltura commerciale. Osservando le inutili e pretenziose architetture dei padiglioni di questa fiera scombiccherata - una sorta di postalmarket dell'archistar - si pensa sconsolati al "less is more" dell'autore del più bel padiglione Expo mai concepito, quello sì, all'insegna dell'innovazione. Ma era il 1929 ed era Ludwig Mies van der Rohe.

E si pensa che l'innovazione, in realtà, nonostante tutto, qualcuno riesce ancora a farla in questo paese malandato. Con un'architettura di 2000 anni fa, riportata alla bellezza originaria attraverso l'uso sapiente e sperimentale di nuove metodologie di restauro e manutenzione e nuovi studi che ne hanno ricomposto una storia particolare e affascinante. E così pienamente restituita al godimento di tutti, per i secoli a venire.

È la piramide Cestia, o meglio i pochi ma competentissimi tecnici di un'istituzione di tutela statale, che meriterebbero il palcoscenico dell'Expo, perché è il loro sapere, esercitato sui resti del passato, non per feticismo, nè per sfruttamento effimero, che è in grado di insegnarci qualcosa di profondo sul nostro presente e di indicarci una possibile via per un futuro un po' più consapevole e meno retoricamente velleitario.

La notizia che Renzo Piano progetterà il prossimo museo di Ercolano >>>
La notizia che Renzo Piano progetterà il prossimo museo di Ercolano è stata riportata dagli organi di stampa, nei giorni scorsi, con generale consenso e plauso corale per il magnate americano, David Packard III che finanzierà l'operazione, e la scelta dell'archistar. Anche se ai lettori più attenti non sarà sfuggito che nei commenti di qualche studioso si è insinuato qualche distinguo, Renzo Piano è monumento nazionale e non si discute. Non per i lettori di eddyburg, cui sono ben note le critiche documentate di cittadini e addetti ai lavori che hanno accompagnato operazioni discutibili, firmate dal senatore, come il grattacielo Intesa-SanPaolo a Torino e l'Auditorium "provvisorio" a L'Aquila.

Sulla figura di David Packard, filantropo americano innamorato dell'Italia e desideroso di contribuire alla salvaguardia del suo patrimonio, in anni recentissimi, dopo un decennio di oblio, si sono accesi riflettori e riconoscimenti.Ma negli anni precedenti, quando ad esempio Pompei era precipitata nel caos dei commissariamenti e dei crolli (2008-2011), da parte dello stesso Ministero dei Beni culturali si preferiva continuare ad ignorare il modello dell'Herculaneum Conservation Project. Il Progetto, finanziato dalla Fondazione Packard a partire dal 2000 per il recupero del sito vesuviano. La novità di quell'esperienza consisteva nel fatto che il finanziatore non si limitava a fornire le risorse economiche, ma affiancava gli organi di tutela italiani nelle loro attività scientifiche e gestionali con figure professionali da lui prescelte che, di concerto con i funzionari della Soprintendenza, elaboravano i progetti e li gestivano.

È un meccanismo che ha funzionato bene per molto tempo come dimostrano i risultati che ha prodotto, apprezzabili da tutti i visitatori dell'area archeologica, in termini di recupero e consolidamento di strutture e infrastrutture, di riapertura di domus e di una migliore conoscenza della città antica.

Da un paio d'anni, quasi improvvisamente, il modello Packard è diventato di gran moda anche ai piani alti del Mibact, quando, cioè, è ripartita la campagna del "privato è meglio", rinvigorita, dopo un lustro di tagli di bilancio selvaggi, dal mantra ossessivamente ripetuto secondo il quale "lo Stato non può fare tutto da solo, quindi, largo agli sponsors".La caccia al mecenate, sponsor, donatore (le emergenze politiche amano la flessibilità lessicale) che ne è derivata - da cui la strombazzatissima legge sull'Art Bonus - aveva bisogno di esempi virtuosi e la Fondazione Packard ha così conosciuto, nel nostro settore, il suo momento di gloria mediatica.

Ciò che non funzionava se non come caso di nicchia all'epoca dei Bertolaso boys e dei commissariamenti dei siti culturali - da Pompei a Roma, a L'Aquila - improvvisamente è diventato un modello esportabile senza eccezioni. E senza riflessioni.

In pochissimi (peraltro gli stessi ad averla apprezzata in tempi non sospetti) abbiamo cercato di sottolineare la particolarità di quell'esperienza, la cui riuscita dipende anche e soprattutto da elementi contingenti, non ripetibili, mentre sul piano del metodo istituzionale presenta, al contrario, qualche criticità.Permettere che a decidere delle sorti di un sito culturale pubblico sia un organismo misto, per metà costituito da persone che vi risiedono per volontà - e forza economica - di un soggetto privato è un azzardo che, come testimonia la grande maggioranza delle Fondazioni culturali in Italia, ha condotto a risultati pessimi. È, comunque, una delega di funzioni pericolosa sul piano scientifico e perdente su quello istituzionale (e costituzionale...). Anche nei casi che partono con le premesse migliori, come è questo di Ercolano.

A parte la scelta - un po' provinciale - dell'archistar di turno per la costruzione del futuro museo, questa vicenda rivela i rischi che si presentano quando il pubblico abbandona funzioni che, per complessità, è il solo a poter governare. Criticabile, in questo caso, è la decisione di costruire ex-novo - proprio ad Ercolano, e quindi in un contesto urbanistico di delirio edilizio - senza prendere in considerazione la possibilità di recupero di strutture già esistenti, fra cui quella creata proprio per ospitare l'antiquarium ercolanense.

Vicenda italica per eccellenza, quella dell'edificio museale costruito e collaudato nei primi anni '70, di buona qualità architettonica e poi abbandonato a se stesso, per decenni (Corriere del Mezzogiorno del 23/07/2010).Per non parlare di altri edifici di grandissima qualità, quali la Reggia di Portici, per i quali già esistono i progetti finalizzati ad un uso museale. Ma certo riadattare e recuperare l'esistente suona meno glamour per l'etichetta di "Museo Packard" rispetto ad un edificio creato ad hoc.
Altro aspetto criticabile deriva dall'evidenza che, ad Ercolano come altrove, su di un intervento non irrilevante per il contesto urbanistico come è la costruzione di un edificio museale, ci dovrebbe essere un processo un po' più articolato e allargato rispetto alla sola volontà, pur rispettabile, del magnate di turno. Anche perchè le risorse coinvolte, a partire dal suolo pubblico, per non parlare del contenuto del museo stesso, non derivano dalla munificenza del mecenate, ma sono, appunto, pubbliche.

L'episodio, pur marginale, del museo vesuviano, illustra bene alcuni aspetti della nostra contemporaneità: a partire dalle distorsioni che governano la gestione del nostro patrimonio culturale.
Oltre e forse ancor più che le risorse economiche, ciò che è stato programmaticamente affossato, in questi ultimi decenni, è l'autorevolezza del personale, dei suoi tecnici e funzionari: la vera forza motrice, la colonna vertebrale di un sistema complesso che, seppur bisognoso di aggiornamenti e riforme reali, non meritava una liquidazione frettolosa ed estemporanea quale è quella che sta avvenendo in questi anni. Pensare che il ricorso a privati taumaturghi possa risolvere la crisi in atto è illusorio e pericoloso, anche se purtroppo perfettamente in linea con l'attuale deriva sociale che vede noi cittadini sempre più disponibili a deleghe in bianco all'uomo della provvidenza, sia esso il mecenate, l'archistar o il premier di turno.

Al contrario, come altrove anche nel settore culturale occorre ricostruire una cultura istituzionale (anche solo amministrativa, ci contenteremmo) che sappia elaborare regole precise disegnando i perimetri d'azione dei diversi ruoli e presidiando lo svolgimento di progetti e iniziative con rapidità e competenza. Senza concedere o addirittura teorizzare, come accade sempre più spesso, invasioni di campo da parte del privato, anche animato dalle migliori intenzioni filantropiche: non per ottusa rivendicazione di un ruolo fine a se stesso, ma perchè è solo ad un determinato livello - quello del governo della cosa pubblica - che vi sono (dovrebbero) essere le competenze e le risorse per una visione d'insieme che sappia tenere insieme esigenze diverse e complesse.

Il ruolo del privato è importante e funziona benissimo, così come dimostrano le esperienze di altri paesi, quando affianca il governo pubblico allineandosi ad un percorso preventivamente e compiutamente definito da quest'ultimo, così come è accaduto, ad esempio, nel caso del restauro della Piramide Cestia a Roma o nella recentissima e democratica operazione di crowdfunding lanciata per il restauro del Battistero di Firenze. Là dove assume un carattere "indispensabile", diventa la spia di una falla che va recuperata in fretta, prima che diventi una voragine.

Non ci sono soluzioni alternative, se non velleitarie, alla costruzione di una politica culturale complessiva, all'interno della quale il rapporto fra pubblico e privato possa dispiegarsi con modalità più chiare e soprattutto più efficaci per la gestione del nostro patrimonio culturale di quanto avvenuto finora.In mancanza di un'elaborazione di questo tipo, capace di esprimere, innanzi tutto, cosa si vuole fare dell'insieme del nostro patrimonio culturale, con che mezzi, verso quali obiettivi, nessun Decreto Art Bonus - come sta puntualmente avvenendo - potrà innescare un meccanismo virtuoso di cooperazione fra pubblico e privato.

Nel frattempo, mentre aspettiamo l'emanazione di questa politica culturale, già sarebbe un successo l'allentamento della tendenza ormai prevalente, a concentrare le risorse - pubbliche o private - verso l'evento e l'inaugurazione, e, in generale, verso tutto ciò che si presta ad un rilancio mediatico.
Dalla grande mostra, all'arena dell'anfiteatro, al nuovo museo disegnato dall'archistar.

Per il momento, non resta che augurarci che il futuro museo di Ercolano, almeno, non sia #verybello.

Assieme ai nuovi calendari e alle pessime notizie d'oltralpe, l'inizio d'anno ha conosciuto anche un rinfocolarsi delle polemiche sul Progetto Fori >>>

Assieme ai nuovi calendari e alle pessime notizie d'oltralpe, l'inizio d'anno ha conosciuto anche un rinfocolarsi delle polemiche sul Progetto Fori, scaturite dalla relazione conclusiva della Commissione che Ministro dei Beni culturali e Sindaco di Roma avevano costituito sul tema della sistemazione dell'area archeologica centrale. La relazione collaziona molti e diversi spunti derivati da studi precedenti, in particolare dalle Linee Guida per la Sistemazione dell'area monumentale centrale del 2008 e dai progetti elaborati dalla Soprintendenza Archeologica statale, oltre che dal Piano prodotto dall'Assessore Caudo, presentato nella primavera del 2014.

Da quest'ultimo, che a sua volta esprimeva compiutamente, in questo senso, uno dei punti qualificanti del programma elettorale di Marino, la relazione riprende giustamente l'idea di uno spazio urbano aperto, pienamente inserito nel flusso della vita quotidiana, senza recinzioni e quindi da intendersi non come Parco Archeologico in senso tradizionale, ma luogo - di valore storico, archeologico, estetico inestimabile - destinato alla libera fruizione di cittadini e visitatori.
Conseguente a questa impostazione è il corretto suggerimento di restituire l'area del foro romano al libero accesso, così come era stato per alcuni anni, fino al 2004.
Un'altra indicazione del tutto sottoscrivibile deriva dall'auspicio di una completa ridefinizione del progetto del Centro Servizi collegato al Colosseo, al momento caratterizzato da un livello architettonico, funzionale e di impatto inaccettabili.
Altre considerazioni, pur condivisibili, non riescono invece ad assumere un'articolazione tale da superare il livello del mero buon senso: la necessità di soluzioni non semplicistiche (ma non meglio specificate), di miglioramento del decoro urbano, di superamento di una concezione elitaria tramite una comunicazione moderna, di un approccio partecipato, ecc.

Nel suo complesso la relazione non restituisce una visione organica che possa inquadrare il Progetto nelle sue finalità e in un contesto metodologico compiutamente definito, impegnata come si mostra in più punti, nello sfibrante esercizio della conciliazione degli opposti anche a costo di spericolate acrobazie verbali e talora contraddizioni palesi. Esito non sorprendente se si considera che - per colpa di chi l'aveva designata: Franceschini e Marino - la Commissione era priva o carente di competenze fondamentali, dalla trasportistica, all'economia, dalla museologia all'ingegneria strutturale (in un'area ad altissimo rischio idrogeologico).

La più vistosa delle contraddizioni è rappresentata sicuramente dall'ambiguità che caratterizza il destino di via dei Fori Imperiali: sottolineando la mancanza attuale oltre che di risorse, di "progetti di alto profilo" (ma non era l'obiettivo stesso della Commissione?), la relazione dilata ad un futuro indistinto l'ipotesi dell'eliminazione della strada, negandone, in ogni caso, la necessità quale elemento costitutivo del Piano Strategico ed anzi riservando a future soluzioni innovative - evidentemente non alla sua portata - la conciliazione delle due esigenze - poste sullo stesso piano culturale - "di ricomposizione dei Fori e mantenimento dell'asse". Conciliazione che si incrina subito dopo, laddove si propone invece lo scavo del Foro di Cesare che, inesorabilmente, "richiederebbe lo smantellamento del bordo occidentale della via".

La rimozione concettuale del problema di via dei Fori Imperiali produce altre evidenti incongruenze: così ad esempio, mentre si dichiara in più punti la necessità di restituire a cittadini e visitatori una comprensione chiara dei resti monumentali, si sorvola sul fatto che proprio la stradone d'asfalto è uno degli elementi di disturbo più evidenti per una lettura spaziale corretta dell'intera area dei Fori imperiali: vero e proprio muro dissonante, cesura posta a frammentare un'area continua, ben più invasiva di quella via Alessandrina di cui si propone, proprio per questi fini, lo smantellamento.
E le passerelle o viadotti di varia natura che la relazione addita come soluzioni preferibili sono, al contrario, ulteriori barriere che si frappongono alla creazione di quello spazio di libera circolazione da tutti auspicato, soluzioni accettabili in luoghi chiusi di modesta estensione, incongrue in un'area di questo tipo.

Non sorprende, in questo quadro, che l'unico componente della Commissione che potesse vantare consolidate competenze sul Progetto Fori, Adriano La Regina, abbia messo a verbale - e poi ribadito in altre sedi - il proprio dissenso proprio su questo aspetto.

Una contraddizione palese è poi rappresentata dall'ipotesi di moltiplicazione degli organismi decisionali e di controllo: per risolvere il groviglio amministrativo e gestionale che grava su di un'area con competenze suddivise fra troppi attori, si propone addirittura di triplicare le strutture di coordinamento (cabina di regia, commissione di coordinamento, organismo di gestione) creando così un sistema di scatole cinesi, nel migliore dei casi inutile, quando non palesemente peggiorativo dell'efficacia operativa e in conflitto con i compiti istituzionali di Soprintendenza e Comune.

Per altri aspetti la relazione si rivela un'occasione persa - ma, ripeto, la responsabilità principale è dell'inettitudine della politica a decidere e a scegliere - laddove, ad esempio, cita a più riprese la necessità dell'innovazione - quasi un'ossessione lessicale, raramente esemplificata - ignorando poi, per quanto riguarda alcuni fondamentali aspetti quali il tema della partecipazione e della comunicazione, il dibattito più aggiornato in tema di public archaeology e Critical Heritage studies e sorvolando così su di un problema cruciale quale il rapporto, in uno spazio come questo, fra le diverse e potenzialmente conflittuali esigenze di differenti categorie di utenti e le criticità del turismo di massa, elemento di dirompente novità rispetto al Progetto Fori degli anni '80.

Al di là delle difficoltà insite in operazioni di questo tipo, vi è però, a giustificarne l'esito complessivo, una ragione politico concettuale evidente: la relazione esordisce con un'inaudita celebrazione dell'attuale PRG romano, che, al contrario, rappresenta una delle cause primarie dell'attuale situazione di degrado urbanistico della capitale (su eddyburg, qui), un macigno che ne sta ostacolando i faticosi tentativi di risanamento edilizio e sociale.

Il Progetto Fori è, da questo punto di vista, il simbolo di una visione urbanistica, politica, culturale diametralmente opposta: impossibile inquadrarlo in un simile contesto, ne è irriducibile, a meno di non stravolgerne l'identità. Anche per questo, per il suo carattere di fiaccola di resistenza nei confronti di un'urbanistica, quale quella incarnata dal PRG capitolino del 2008, che ha svenduto gli spazi pubblici e si è mostrata incapace di proporre una visione di città che aspiri a perseguire il miglioramento nella qualità dell'abitare e del vivere dei suoi cittadini, il Progetto Fori è oggi ancor più indispensabile.

Perchè nel campo dei diritti, come ci ricordava, da ultimo, Ken Loach, bread and roses sono inscindibili.

Narra la leggenda che durante l'ultimo fatale assedio di Costantinopoli, nel 1453 >>>
Narra la leggenda che durante l'ultimo fatale assedio di Costantinopoli, nel 1453, esattamente nelle ore in cui Maometto sferrava il decisivo assalto alla capitale, i teologi bizantini - gli intellettuali dell'epoca - stessero disquisendo su sofisticatissime questioni di dottrina, quali la determinazione del sesso degli angeli, del tutto disinteressati ad un accidente della storia quale la caduta dell'Impero Romano d'Oriente.
La storia, come si sa, ha la fastidiosa tendenza a ripetersi in farsa.

Le cronache di questi giorni sono focalizzate sul Colosseo: come ormai tutti sanno, tale ne è stata l'immediata eco mediatica, si tratta dell'idea di completare l'arena dell'Anfiteatro, per ora ripristinata solo in parte, ricreando così integralmente il livello dove anticamente si svolgevano spettacoli di vario tipo. Progetto non nuovo, ma che ha suscitato consensi plebiscitari.
Il tweet Renzi-style di domenica scorsa con il quale il ministro Franceschini ha espresso il proprio favore alla proposta ha innescato una gara entusiastica all'approvazione che ha coinvolto archeologi e amministratori ad ogni livello: l'attuale Soprintendente archeologa di Roma, responsabile del monumento per conto del Mibact, a poche ore dal tweet ha dichiarato che la Soprintendenza starebbe addirittura già studiando la questione.

Naturalmente le rarissime voci di saggezza (Salvatore Settis e Tomaso Montanari) levatesi a ricordare come la questione sia tutt'altro che urgente e prioritaria, sono state immediatamente tacciate di conservatorismo passatista, l'odiosa tabe responsabile di quasi tutti i problemi italici.
Più volte, in questa climax di celebrazione autoreferenziale, è risuonato il termine "coraggio", evidentemente ormai così desueto nel lessico politico, da aver subito un completo bouleversement semantico.

Attualmente la proposta è del tutto priva di qualsiasi elemento progettuale vagamente consolidato: sia dal punto di vista tecnico-scientifico, che da quello economico, che da quello gestionale.
Gli unici accenni dal punto di vista economico ipotizzano costi senz'altro elevati: inevitabili nella nuova situazione creatasi dopo gli scavi di epoca moderna che per ciò stesso rendono problematico un ripristino sic et simpliciter ad una situazione come quella ottocentesca.
Tranquilli: da questo punto di vista, la soluzione c'è già. Un ex Soprintendente ha sottolineato come gli introiti elevatissimi del Colosseo - la gallina dalle uova d'oro dell'intero patrimonio nazionale - potrebbero ben ripagare questi costi. Peccato che tali entrate da sempre servano a sostenere le spese di mantenimento, restauro, gestione dell'intero patrimonio archeologico romano, dall'Appia ad Ostia, dalle decine di musei ai mausolei, agli acquedotti (e d'altro canto, se l'Anfiteatro fosse del tutto autonomo, non ci sarebbe stato bisogno della sponsorizzazione Dalla Valle per un restauro ben più doveroso di questo ripristino).

Se nulla può essere detto neppure sul piano tecnico (auspicabilmente più meditato, ci si augura, dei recentissimi, pesanti restauri sul Palatino), in compenso su quello gestionale il genio italico ha dato prova, in questi ultimi giorni, di tutta la sua poliedricità.
Per decidere cosa fare nel futuro Colosseo ripristinato à l'ancienne, si può scegliere fra voli di aquiloni, concerti di musica classica (l'acustica essendo un dettaglio), partite di calcio, spettacoli assortiti ed 'eventi' pudicamente non meglio identificati.
In questo modo, sostiene questo esercito di progressisti della domenica, finalmente il monumento sarebbe utilizzato pienamente e i visitatori godrebbero di un'esperienza ben più appagante della visione di una serie di rovine poco comprensibili.

È vero che il Colosseo sia un sistema complesso, a tal punto che le scoperte si succedono, per certi versi, ancora oggi, ma non è presentando una versione comunque sia congelata ad un determinato - ed arbitrario - momento storico, che lo si rende maggiormente leggibile. La complessità di cui è portatore, geneticamente, dal punto di vista storico, architettonico, simbolico, si è poi moltiplicata esponenzialmente attraverso la dimensione temporale e quindi gli usi e le interpretazioni che in circa due millenni ne sono state date, e che comprendono le forzature ideologiche del ventennio fascista, solo per fare un esempio vicino cronologicamente. È una complessità - ineliminabile - che va invece spiegata, anche se è faticoso, soprattutto in tempi di semplificazione.
Ricostruire l'arena perchè questo aiuterebbe a leggere meglio il monumento è, invece, una scorciatoia che strizza l'occhio alla versione più tranquillizzante, perchè più nota, alla Massimo Meridio. Lettura ad una sola dimensione e consolatoria, in quanto priva di quelle incertezze, quei dubbi che costituiscono la vera essenza non solo della ricerca storico-archeologica, ma di quello spirito critico che, solo, può aiutarci ad una intepretazione meno superficiale del mondo che ci sta attorno.

E che magari ci può aiutare ad interpretare lo stesso successo di questa proposta, in un contesto in cui, a pochi passi di distanza, la Domus Aurea, con la necessità di un complicatissimo restauro pluridecennale e una cronica mancanza di risorse che uno Stato impotente non riesce a recuperare, sottolinea impietosamente la totale mancanza di una visione complessiva e consapevole nei confronti del nostro patrimonio archeologico.
Da anni, ormai, l'agenda del Collegio Romano si risolve in un accumulo estemporaneo di attività in cui è impossibile rintracciare priorità consolidate e durature.

Questa desolante mancanza di una programmazione - per quanto elementare possa essere - che contraddistingue la gestione del nostro patrimonio, viene da molto lontano. Effetto e causa, al tempo stesso, di quella perdita di senso dei nostri beni culturali sottolineata dalle addizioni lessicali nella definizione del Ministero voluto da Spadolini, quarant'anni fa.
Ai beni culturali furono così dapprima aggiunte le attività, poi il turismo. Nel frattempo, la nascita del Ministero dell'Ambiente - era il 1986 - cominciava a frantumare quel principio di tutela unitaria del territorio con le disastrose conseguenze sul paesaggio aggravatesi negli ultimi anni.

Da circa un lustro il Mibact subisce ridimensionamenti sempre più gravi alle sue prerogative di tutela non solo paesaggistica. L'ultimo attacco, in ordine di tempo è rappresentato da quello Sblocca Italia che, in queste ore, il Senato sta definitivamente ratificando nell'afasia del Ministro che si troverà - di conseguenza - a governare un dicastero pesantemente sminuito nei compiti istituzionali.
Si potrà consolare con un bell'incontro di lotta greco-romana nell'arena ripristinata, mentre fuori i nuovi ottomani si suddivideranno le spoglie dell'ultima spartizione di bottino.

La cosiddetta riforma del Mibact è stata dunque approvata >>>

La cosiddetta riforma del Mibact è stata dunque approvata fra luci (la ridefinizione al ribasso delle Direzioni Regionali e l'attenzione ai musei) e ombre (la tragicomica ipertrofia dell'amministrazione centrale in parallelo alla carenza di una strategia degna di tale nome sul territorio).
In realtà si è trattato più modestamente di una riorganizzazione dettata dalla spending review che, quindi, per la sua stessa impostazione di legge mirata al risparmio finanziario, ha ben poche possibilità di apportare decisivi miglioramenti alle attività del Mibact.

Il problema principale del Ministero consiste infatti proprio nella sempre più accentuata mancanza di risorse economiche, di personale, e soprattutto di elaborazione culturale: improbabile che qualsiasi provvedimento teso a ridurne, in qualche modo, i bilanci, possa generare effetti positivi, né tanto meno quel rilancio che lo stesso Ministro Franceschini aveva auspicato al suo esordio e che questo provvedimento è destinato a eludere in radice.

In compenso, in queste ultime settimane, lo stesso Mibact è stato investito - "a sua insaputa"? - da una vera e propria controriforma che ne stravolge sostanzialmente la stessa ragion d'essere e che rischia di innescare la dissoluzione del nostro sistema di tutela.
Il ddl Lupi e il cosiddetto 'sblocca-Italia' rappresentano infatti un attacco scomposto - anche per la rozzezza del dettato legislativo, specie per lo 'sblocca-Italia' - ma convergente, all'integrità del nostro territorio e quindi del nostro paesaggio e dei centri storici nel loro insieme.

Innumerevoli e palesi gli elementi di incostituzionalità che riguardano gli ambiti delle competenze istituzionali, del diritto alla casa e all'abitare, di tutela ambientale e della salute e, ripetutamente, della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale, a partire dai centri storici.

Devoti al mantra della "semplificazione" e della lotta alla "burocrazia", le parole d'ordine che hanno accompagnato le peggiori deregulation dell'ultimo decennio, i due provvedimenti sono dunque permeati dalla medesima logica che si può sintetizzare nell'abolizione / riduzione generalizzata dei meccanismi di controllo, nel parossismo verticistico attraverso cui, con il pretesto della rapidità, ogni decisione converge su un decisore unico, si annullano le verifiche democratiche e i processi partecipativi, ci si fa beffe delle procedure di trasparenza amministrativa e contabile e, più in generale, si eliminano le pratiche di pianificazione di ogni tipo, a partire da quella territoriale, accantonata come un vecchio arnese troppo rigido e troppo lento.

Ispirate ad una ottusa necessità del 'fare', le opere di cui si vorrebbe favorire la realizzazione, immobili o infrastrutture che siano, mancano, ab origine, di un'adeguata progettualità che ne individui, prima di tutto, le caratteristiche di necessità e urgenza dal punto di vista economico, territoriale, ambientale, sociale e di quell'indispensabile valutazione costi-benefici senza la quale si rimane confinati nell'ambito dei progetti velleitari, inutili e, quasi sempre, economicamente disastrosi per le finanze pubbliche.

Per quanto riguarda poi l'ambito della tutela paesaggistica e dei centri storici nel caso del ddl Lupi, che ripropone con ben poche modifiche, il precedente provvedimento sul governo del territorio del 2005, duramente contrastato da eddyburg, si tratta sostanzialmente di una variante di quel "ciascuno padrone in casa propria" con il quale, in anni recenti si pretese di rilanciare il comparto dell'edilizia, con l'unico effetto di una serie di sfregi, più o meno gravi, ma diffusissimi, sul paesaggio, già provato da 3 condoni ravvicinati di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.
E in effetti, l' "urbanistica" nel testo governativo si appiattisce sull'edilizia, ignorando beatamente ogni finalità di qualità paesaggistica, urbana ed ambientale, con un arretramento di circa mezzo secolo che ci condanna ai margini della cultura urbanistica europea.
Con un rovesciamento di 180 gradi rispetto ai principi costituzionali, la stella polare del disegno di legge diviene la tutela della proprietà privata, a danno di tutto ciò che è spazio pubblico e patrimonio collettivo (a partire da quello culturale).
Più che un attacco alla politica di tutela dei centri storici, infine, il ddl ne rappresenta la completa negazione, a tal punto che nel testo, questi ultimi non compaiono neppure.

Quanto allo "sblocca-Italia", paragonabile, nella farraginosità, ai peggiori decreti omnibus di tremontiana memoria, in esso l'unico elemento di coerenza è rappresentato dalla costante rimozione di ogni verifica e controllo e, in particolare, di quelli esercitati, secondo Costituzione, dal Mibact: si giunge così ad introdurre, in modo generalizzato, il silenzio-assenso, ad annullare - de facto - l'archeologia preventiva (mai veramente decollata secondo i principi della Convenzione di Malta per incapacità dello stesso Mibact), a ridurre la funzione del Ministero a quella di osservatore, il più possibile silenzioso o comunque accomodante per dettato legislativo: nessun ostacolo deve essere posto a strutture quali inceneritori, impianti eolici, impianti di stoccaggio, metropolitane e in genere infrastrutture di ogni livello ed importanza.

Se così è, quindi, se cioè tale è l'ideologia che guida in particolare questi recenti provvedimenti legislativi, il primo e più acerrimo nemico dovrebbe esserne lo stesso Ministro Franceschini, il cui Dicastero viene ridotto, ex professo, alla totale subalternità rispetto ad esigenze economiche, per risolvere le quali si rispolverano le stesse arcaiche e disastrose ricette colpevoli della situazione di sfascio territoriale in cui ci troviamo.

Il sospetto è dunque che la cosiddetta riforma del Mibact, se letta in sinergia con questi provvedimenti devastanti, altro non sia che l'attestazione di una radicale trasformazione del ruolo del Ministero, d'ora in poi confinato ad occuparsi, con risorse peraltro declinanti e insufficienti, solo di musei e dei monumenti feticcio, dal Colosseo a Pompei, con esclusive finalità ludico-turistiche.
Dunque, mentre il Mibact viene lasciato a baloccarsi con gli estemporanei esperimenti di valorizzazione di qualche museo e monumento, paesaggio e centri storici sono sostanzialmente sottratti alla sua orbita di azione: operazione sancita, in perfetta complementarietà, proprio da 'sblocca-Italia' e ddl Lupi.

Per la verità si tratta di un processo iniziato ormai un lustro fa, quando, ad esempio, contemporaneamente a quello che doveva essere l'avvio della più radicale operazione di tutela del territorio, vale a dire la pianificazione paesaggistica ai sensi del Codice, il Ministero allora guidato da Bondi, decise, con formidabile tempismo, di abolire la Direzione Generale per il Paesaggio. Fu uno dei primi sintomi di quel progressivo allontanamento dalle attività di controllo del territorio che, fra tagli di risorse e slittamento inesorabile verso una realpolitik da parte della dirigenza ministeriale, si è via via accentuato fino ad appiattirsi su rinunciatari obiettivi di mitigazione del danno e su di un sostanziale cedimento a ragioni, o meglio interessi, "altri".
Nel frattempo, provvedimenti apparentemente di altro ambito (magistrali, in tal senso, i "mille proroghe"), hanno mano a mano ridotto le prerogative, gli spazi d'azione, le risorse degli organismi di tutela, provocando, de facto, un ribaltamento delle gerarchie costituzionali stabilite dall'articolo 9. Indimenticabile fu, in tal senso, l'affermazione, del ministro dei beni culturali - sempre Bondi - che, di fronte alle Commissioni parlamentari, per giustificare uno dei primi provvedimenti di semplificazione dell'autorizzazione paesaggistica, sostenne che le tutele allora in vigore sul territorio per merito della Galasso fossero "eccessive".

A rendere ancora più amaro questo passaggio è la consapevolezza che gli obiettivi cui mirano sblocca-Italia e ddl Lupi, oltre a scardinare il sistema di tutela, non sortiranno alcun effetto positivo di lungo termine in campo economico, sia perché improntati alla più preoccupante improvvisazione amministrativa e progettuale, sia perché procedono entrambi, come i ciechi di Bruegel, esattamente in direzione contraria a quello che dovrebbe essere l'unica indifferibile grande opera: la tutela integrale del paesaggio e la diffusa, continuativa manutenzione territoriale e riqualificazione dei nostri centri urbani, opera il cui ritardo è causa ormai quotidiana di danni economici e sociali, oltre che ambientali e culturali, gravissimi.
Per tacere di quei "danni collaterali" che sono le vite umane di cui ci raccontano le cronache, con desolante ripetitività: ieri dal Veneto, oggi dalla Puglia, domani, chissà.

Una settimana fa, l'annuale appuntamento del festival della regina viarum , "Dal tramonto all'Appia" >>>

Una settimana fa, l'annuale appuntamento del festival della regina viarum, "Dal tramonto all'Appia", ha vissuto una tappa di straordinaria importanza: dopo anni di restauri, l'intera tenuta di Santa Maria Nova, di proprietà privata fino al 2006, anno di acquisizione da parte della Soprintendenza Archeologica di Roma, è ritornata ad essere uno spazio pubblico aperto a tutti, cittadini e turisti. E che spazio pubblico: siamo al V miglio, all'altezza del tumulo degli Orazi e Curiazi, dove accanto al basolato di 2300 anni fa sorge un casale di impianto romano, con ampliamenti medioevali e rinascimentali, immerso in 4 ettari di agro romano contigui all'area archeologica della Villa dei Quintili.

Le ricerche archeologiche svolte in questi anni, anzi, hanno rivelato che, con forte probabilità, quest'area era anch'essa parte della stessa enorme proprietà confiscata da Commodo per impadronirsi di uno degli edifici più belli e grandiosi di Roma.
E intorno, per tre quarti del giro d'orizzonte, la campagna romana, intatta, come doveva essere quando i pretoriani dell'imperatore (sì, proprio quello del Gladiatore) la frequentavano per rilassarsi nelle terme ritrovate e restaurate a pochi passi dal casale di Santa Maria Nova.

Già questo sarebbe bastato per una festa in grande stile, ma in più, per celebrare questo momento, la Soprintendenza Archeologica ha organizzato una serie di concerti, accanto ai luoghi restituiti al pubblico godimento. Per ore, fino oltre la mezzanotte, una lunga fiumana di persone ha passeggiato lungo i sentieri che collegano le due tenute - Quintili e Santa Maria Nova, quasi 30 ettari complessivi, ora finalmente riunite - e ballato sulle note delle musiche popolari, visitando, in sovrappiù, il neonato "Giardino dei Patriarchi", con i cloni, messi a dimora all'ombra dei ruderi romani, dei grandi alberi monumentali provenienti da tutte le regioni italiane.

Sono serviti anni e sforzi di ogni tipo per raggiungere questo obiettivo, ma il risultato è commovente nella sua grandiosa bellezza, ancora più preziosa perchè destinata a tutti. E perchè si tratta solo di una tappa di un lungo, tenacissimo percorso che, negli anni, ha portato a conquistare, sulla regina viarum, passo a passo, metro a metro, monumenti e spazi pubblici, da Cecilia Metella a San Nicola a Capo di Bove, a intraprendere e coordinare dozzine di campagne di scavo, ad aprire antiquaria e luoghi di loisir, a restaurare il basolato e centinaia di reperti archeologici: tutto sotto l'etichetta della Soprintendenza Archeologica dello Stato.
Che, en passant, si è anche occupata del problema dei condoni edilizi (una piaga che amareggiò Antonio Cederna per decenni) e, in generale, dei mille problemi di tutela con pochi mezzi e pochissimo personale (bello tosto, però!).

La curiosità è che la Soprintendenza non è l'unico ente pubblico che opera su quest'area: dal 1989 esiste anche un Parco Regionale, per sublime stravaganza non archeologico.
Antonio Cederna che pure avrebbe voluto altro per la sua strada, divenutone primo Presidente, trascorse i suoi ultimi anni di vita nel disperato e vano tentativo, puntualmente illustrato nei suoi struggenti articoli, di trasformare il Parco in uno strumento di qualche efficacia e seppur debole operatività per la tutela dell'Appia. Alla fine, con onestà, ne denunciò, all’allora Ministro Veltroni, l’inadeguatezza.
Dopo di lui, il nulla: sancito anche per legge, quando, con l'avvento del Codice dei Beni Culturali nel 2008, gli strumenti regolatori del Parco, mai emanati, sono stati definitivamente superati dalla pianificazione paesaggistica.

Per una miracolosa congiuntura astrale, mentre il Parco entrava definitivamente in una spirale involutiva, lo stesso anno della scomparsa di Cederna, il 1996, l'Appia veniva affidata a Rita Paris, l'attuale responsabile della regina viarum per quanto riguarda la Soprintendenza Archeologica: a lei si deve, in estrema sintesi, se l'altra sera, a Santa Maria Nova, abbiamo potuto esclamare, con infinita soddisfazione: ecco, questo è lo Stato sull'Appia.

Dall'altro lato, il Parco non è mai riuscito a costruire, in 25 anni, una riconoscibile presenza operativa, e ancor meno una sana collaborazione istituzionale per migliorare il controllo del territorio e la repressione di abusi di ogni tipo. Così, mentre ad esempio il traffico, come sa ogni cittadino romano, è aumentato sempre più con grave danno dei monumenti e della vivibilità, gli obiettivi del Parco si sono concentrati (ed esauriti) nello studio del trifoglio cornuto e in qualche scampagnata assistita o poco più.
Nonostante ciò, l'Appia, da più di 15 anni a questa parte, è diventata un luogo di eccellenza, caratterizzato nel tempo da una faticosissima, ma continua espansione di spazi pubblici della qualità più alta, quella che possiede il nostro patrimonio culturale e paesaggistico.
In totale controtendenza con quanto accade per lo più nel resto del paese.
Merito di passione e competenze, certo, ma anche e soprattutto di una capacità progettuale di primissimo piano, quella della Soprintendenza, ispirata ad una visione di ampio respiro e in grado di pianificazioni complesse, basate su di un uso molto più che intelligente delle pochissime risorse disponibili: insomma, con i fichi secchi, qui sull'Appia sono riusciti a fare il banchetto di Sardanapalo.

Ovviamente, dopo simili successi, gli autori sono stati premiati, portati ad esempio e dotati di maggiori risorse e ...
No, purtroppo questo non è il finale di questa storia, almeno non ancora.

Al contrario, è accaduto che la Società Autostrade, universalmente nota, come ognun sa, per le molteplici attività di tutela e valorizzazione del paesaggio, abbia presentato, negli scorsi mesi, un progetto per la 'valorizzazione' dell'Appia, mirato sostanzialmente alla regolamentazione del traffico su gomma (ma va'?), progetto denominato, con sfoggio di fantasia piuttosto modesto, 'Grand Tour' e che vorrebbe gestire tramite un'apposita cabina di regia e a fronte di non ben precisate e neanche approssimativamente quantificate elargizioni.

Nonostante la vaghezza di una simile proposta, immediata è stata l'adesione del Parco che si è affrettato a sostenere il progetto (?) difendendolo contro le critiche di un nutrito gruppo di Associazioni (dalla Bianchi Bandinelli a Italia Nostra Roma, da Salviamo il Paesaggio alla Rete dei Comitati per la difesa del territorio, dal Comitato della Bellezza ad eddyburg).

Nella foga di questa difesa, il Parco ha perfino rassicurato tutti noi - beata innocenza! - sul fatto che Autostrade garantisce di non costruire nuovi volumi sulla regina viarum: rassicurazione che per un'area ad inedificabilità assoluta fin dal 1965 non appare propriamente come una conquista di straordinario spessore.

Riassumendo: c'è un posto, in questo disgraziato paese, dove le cose funzionano, udite, udite, per merito dello Stato, addirittura del Mibact. Vogliamo, signor Ministro Franceschini, usare questo esempio come modello di gestione pubblica? E allo stesso tempo, interpretando finalmente un ruolo di governo degno di questo nome, indirizzare il privato (che, in questo caso, ha le idee un po' confuse) e guidarlo verso un corretto rapporto di sponsorizzazione? In tutti i paesi civili ciò significa esclusivamente, semplicemente, la disponibilità di un privato - regolata dall'autorità pubblica - ad un'elargizione finalizzata alla tutela o fruizione del patrimonio a fronte di un vantaggio fiscale, cui magari aggiungere l'imperitura riconoscenza dei cittadini di oggi e di domani (targa in marmo pario compresa).Così è successo, a pochi metri di distanza dall'Appia, per il restauro della piramide Cestia, finanziato dal giapponese Yuzo Yagi e, pensate un po', senza neanche il ritorno fiscale.
A proposito, signor Ministro, chi ha gestito questa operazione ce l'ha in casa, è la stessa responsabile dell'Appia antica, pensi che fortuna!

L'articolo è inviato contemporaneamente anche a l'Unità on-line, nel blog "nessundorma"

Ci avevagià pensato la CorteCostituzionale, attraverso una serie di sentenze, fra gli anni '90 e il primodecennio del 2000, a ribadire come il paesaggio, inserito dai nostri padricostituenti fra i principi fondamentali della carta all'art. 9, costituisca un "valore primario eassoluto", la cui tutela "precede e comunque costituisce un limiteagli altri interessi pubblici" (sentenza n. 367/2007). Ora, a una sentenza della IV sezione delConsiglio di Stato di pochi mesi fa (n. 2222/2014) tocca ribadire ciò che sarebbe ovvio in uno Stato di diritto dove ledecisioni della Corte Costituzionale vengono rispettate.


Non quiin Italia e non in questo contesto politico e sociale. Il Consiglio di Stato hadovuto quindi richiamare le precedenti sentenze della Corte e il Codice,all'art. 145, laddove si dichiara laprevalenza del piano paesaggistico su qualsiasi altro strumento dipianificazione territoriale per riaffermare la prevalenza della tutela sugliinteressi economici e sulle esigenze urbanistiche.

ll casodibattuto era l'ennesimo progetto di speculazione edilizia su uno dei tratti più belli della costa ligure, prospiciente l'isola diGallinara: una devastante ristrutturazione della storica Villa Brunati cheavrebbe comportato una colata di cemento di nuove costruzioni, l'abbattimentodi decine di alberi per la costruzione di parcheggi interrati, la creazione diuno svincolo di accesso diretto al mare per il nuovo complesso e la rettificadella strada statale Aurelia conconseguente spostamento dei relativi sottoservizi.
In unaparola, lo sconvolgimento radicale dal punto di vista non solo paesaggistico,ma geologico (siamo in Liguria...) di Punta Murena ad Alassio. Purtroppo nonstupisce neppure più che questo demenzialeprogetto avesse ottenuto l'approvazione sia del Comune di Alassio che dellaProvincia di Savona: grazie alla battaglia condotta principalmente dal WWF e invirtù di questa sentenza, questo scempio è stato risparmiato.

L'episodio,da manuale, sottolinea sia l'importanza della pianificazione paesaggistica comestrumento di efficace tutela del nostro territorio, sia la ormai conclamatapropensione alla svendita di quest'ultimo da parte degli enti locali. Purtroppogli ultimi provvedimenti governativi sembrano piuttosto fomentare questa propensione.
Fra glialtri - ed è, in tal senso, unostillicidio continuo - segnaliamo il recentissimo e pessimo emendamento alDecreto Cultura (n.83/2014) emanato dal ministro Franceschini.
Con uncolpo di mano, nel Decreto è stato inserito un comma checonsente "d'ufficio o su segnalazione delle altre amministrazionicoinvolte nel procedimento [di autorizzazione paesaggistica n.d.r.]"(quindi Comuni, Regioni e quant'altro) di riesaminare i pareri, nulla osta oaltri atti di assenso rilasciati dagli organi periferici del Mibact.L'ulteriore verifica è affidata ad una sedicenteComissione di Garanzia interna allo stesso Mibact, ma non meglio definita. Inuna parola, si crea una sorta di tutoraggio nei confronti delle Soprintendenze,allungando ulteriormente i tempi dei procedimenti (il ricorso a questoescamotage sarà quasi automatico in caso didiniego).

Naturalmentel'obiettivo, esplicito, di quest'ennesimo attacco all'autonomia del nostrosistema di tutela, è il contrasto al così detto carattere autocratico degli atti emanati daiSoprintendenti. Può sicuramente essere accadutoche, in decenni di esercizio della tutela, in alcuni casi questo poteredecisionale sia stato esercitato non correttamente, ma basterebbe la più banale delle statistiche a svelare come si tratti dipercentuali irrisorie e come nell'insieme dei provvedimenti di autorizzazionepaesaggistica, il numero di quelli negati si attesti - purtroppo - supercentuali largamente minoritarie rispetto a quelli concessi.
Di frontealle devastazioni di ogni tipo cui il nostro paesaggio è sottoposto, l'accanimento nei confronti di questi aspettidiventa persino surreale: è come se di fronte ad unmalato terminale di cancro, i medici si affannassero a curargli una micosidell'unghia.
Ma lavicenda dell'emendamento in questione, approvato dalla Commissione Culturadella Camera il 27 giugno scorso, esprime esemplarmente anche un altro segnodei tempi: la ciliegina sulla torta è che tale capolavoro di approssimazioneamministrativa e di ambiguità legislativa al servizio diuna ipocrisia politica neppure troppo celata, sia contrabbandato, secondo leparole del ministro, come un rafforzamento del ruolo di tutela del Mibact.

Al nostropaesaggio restano i giudici di Berlino.
Nelle ultime ore convulse di una campagna elettorale mediamente pessima per contenuti e toni>>>

Nelle ultime ore convulse di una campagna elettorale mediamente pessima per contenuti e toni, è risuonato più volte il nome di Enrico Berlinguer. In modo spesso improprio: per ricordarlo degnamente, usiamo le sue parole, nel pieno di quella campagna elettorale per le europee del 1984 che gli risultò purtroppo fatale, in risposta a chi gli chiedeva se ci fosse correlazione fra il voto europeo e la situazione politica italiana: “Certo. Soprattutto nel senso che dobbiamo portare in Europa l’immagine e la realtà di un Paese che non sia caratterizzato dalla P2, dalle tangenti, dall’evasione fiscale e dalla iniquità sociale [...] per portare invece nella Comunità europea il volto di un Paese più pulito, più democratico, più giusto”.

Al solito, il richiamo alla legalità come valore primario e basterebbe questo termine a misurare la distanza con questo nostro tempo opaco. Da questo punto di vista, quello della legalità, questi ultimi mesi ci restituiscono, a giudicare da cronache giudiziarie e provvedimenti di governo, un quadro drammaticamente univoco.Se infatti le notizie di arresti e indagini per fatti di corruzione si accavallano in modo vorticoso, la risposta che viene dall'azione governativa è sorprendentemente speculare, ma programmaticamente antitetica ad un'azione di contrasto. Ispirati evidentemente ad una filosofia omeopatica, si succedono decreti e disegni di legge che invece di rendere più efficaci controlli e regole, tendono a depotenziarli, quando non a eliminarli in nome del demone onnipresente di questi ultimi lustri governativi: la semplificazione.

In questa strategia deregolatoria rientrano tutti i provvedimenti che hanno a che fare col governo del territorio, tanto per citare alla rinfusa, la così detta legge sugli stadi, il ddl di riforma della legge sui parchi, quello, recentissimo, sulla nuova riforma urbanistica (la riproposizione spinta della legge Lupi, do you remember?), l'emendamento che rende possibile costruire casette e bungalow a gogo.E assieme ritornano i commissari, i mister Wolf cui delegare la soluzione di un problema, anche laddove tale esperimento era già stato fatto, con risultati disastrosi.

Sta succedendo anche nel recente decreto sul patrimonio culturale e il turismo emanato, giusto in tempo per le ultime vendite preelettorali, nel consiglio dei ministri di giovedì scorso.Se il testo che viene anticipato per spot mediatici sarà confermato - perchè un testo ufficiale e definitivo ancora non c'è, alla faccia delle regole, appunto - accanto a provvedimenti lungamente attesi come l' "art bonus", torneranno commissari o figure dotate di poteri commissariali a Pompei e Caserta, mentre, sempre a Pompei, sono previste ampie deroghe alla legislazione vigente che si vogliono giustificare con i ritardi accumulati, nei primi due anni, dal Grande Progetto Pompei.

A proposito di Expo, il 9 maggio scorso, Gianantonio Stella aveva descritto con precisione il meccanismo: "Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli.”Secondo la stessa nefasta logica, ora, a Pompei, si preannunciano deroghe di vario tipo, anche per quanto riguarda il piano strategico: si tratta, come risulta dal Decreto Valore Cultura, art. 1 commi 4 e 5, del piano che dovrebbe assicurare niente meno che il rilancio economico e sociale dell'area dei comuni di Pompei, Ercolano e Torre Annunziata.
Questo intervento, cruciale per la riqualificazione di un'area devastata da decenni di abusi, riguarda la zona extra moenia, e quindi non il sito archeologico vero e proprio: per conseguenza tale piano non è interessato dai 105 milioni su cui pendono le scadenze imposte dalla Commissione Europea. Anzi, a dirla tutta, il piano strategico è, a voler essere ottimisti, in una fase di preavvio. Perchè questa fretta, allora? Non sarà che per i circa 400 milioni di fondi previsti per tale pianificazione sarebbe così comodo eliminare, fin dalla partenza, i lacci e lacciuoli di una legalità sempre più fastidiosa?
Cattivi pensieri che speriamo siano spazzati via da un testo finalmente all'altezza dell'importanza del nostro patrimonio e della gravità della situazione in cui versa. Basterebbe che la legalità ne fosse il faro, in questo come in altri ambiti.

Per amor di verità i dubbi sulla rilevanza della legalità come pilastro costitutivo della società si sono moltiplicati in questi mesi non solo sui provvedimenti governativi, ma anche per quanto riguarda enti locali e istituzioni assortite.Certo talora meno gravi per conseguenze, ma significativi di un allentamento complessivo della tensione su questo tema cruciale: paradigmatico, in questo senso, quanto è accaduto domenica scorsa, sull'Appia.
Fra gli eventi organizzati dall'Ente Parco nell'ambito di un'iniziativa di promozione denominata - con arguto sfoggio di fantasia - il Parco della Bellezza, erano previste alcune visite a ville private di particolare interesse. Non stravagante di per sè, dal momento che il 95% del territorio del Parco pubblico dell'Appia antica, è di proprietà privata. Senonchè, una di queste proprietà coinvolte nell'ameno tour organizzato dal Parco, situata all'interno del castrum Caetani, immediatamente alle spalle di Cecilia Metella e a ridosso delle mura demaniali, è esattamente quella contro i cui abusi edilizi, innumerevoli e ripetuti, lottò per anni e fino agli ultimi giorni, Antonio Cederna.
Quegli abusi e i loro proprietari sono ancora lì, ma in compenso, profondamente cambiato, a quanto pare, è il nostro tasso di attenzione nei confronti di ciò che è illegale e, in quanto tale, mina alle radici le regole basilari della vita democratica secondo le quali la legge è uguale per tutti e garantisce perciò parità di condizioni fra il potente e il debole, fra il povero e il ricco, fra il "normale" e il "diverso".

Anche per sconfiggere, qui in Italia, questa deriva, votiamo, oggi, per l'Europa, nello spirito di Enrico Berlinguer.

E così, in extremis, l’ennesimo “caso” Colosseo ha trovato una soluzione>>>
E così, in extremis, l’ennesimo “caso” Colosseo ha trovato una soluzione: il monumento simbolo dei nostri beni culturali, della capitale e del paese tutto parteciperà alla “notte dei musei” e sarà aperto, seppure per numeri di visitatori contingentati, per l’evento a carattere europeo di promozione delle istituzioni museali. Rispettando in pieno l’italica prassi, il dramma riacciuffa, a tempo quasi scaduto, l’happy end, rivelando, una volta in più, l’amarognolo sapore della farsa che connota le nostre politiche culturali o meglio quella congerie estemporanea di provvedimenti ed eventi che testimoniano impietosamente, da troppi anni ormai, il provincialismo con cui gestiamo il nostro patrimonio culturale.

La notizia era rimbalzata sulle cronache da qualche giorno, lanciata dallo stesso Ministro Franceschini: il Colosseo sarebbe rimasto chiuso in occasione della “Notte Europea dei Musei”, sabato 17 maggio 2014, perché non si trovavano 5 custodi “volontari” disponibili ad assicurare il minimo di personale necessario per la sicurezza del pubblico. Apriti cielo: si è scatenata a quel punto una ridda di prese di posizione, dichiarazioni, anatemi, deprecazioni, provenienti in massima parte dal mondo politico ed istituzionale – sindaco e assessori in forze, per dire - ispirate alla più totale ignoranza delle regole in ballo.
Solo dopo che si era un po’ diradato il comico arrembaggio di “volontari” estemporanei (nel giro di poche ore si è parlato di studenti in beni culturali, neolaureati disoccupati, carcerati, mentre persino alcuni rappresentanti della stessa classe politica, evidentemente non indaffaratissimi, si sono offerti in prima persona per salvare l’onore della patria) si è cominciato a capire che il termine di “volontari”, assume in questo contesto una precisa connotazione.

In ossequio a quanto stabilito in sede di contrattazione nazionale, in casi di aperture straordinarie, è comunque richiesta la presenza di una certa percentuale di personale non esterno che però non può essere obbligato: precetto che soddisfa ad elementari regole di sicurezza, in quanto solo chi conosce bene una struttura - e il Colosseo è, come noto, struttura molto complessa - ne può garantire un accesso sicuro.
Fraintendimenti a parte, il tono di disappunto e spesso e non velatamente di stigma nei confronti del personale Mibact che con inspiegabile pervicacia attentava all’onorabilità del paese peggio di un crollo a Pompei, ha dilagato per giorni su tutti i media (fra le pochissime eccezioni, il blog di Storie dell’Arte, Tomaso Montanari e Luca Del Fra) con i politici in questo ruolo autoassegnato di impotenti di buona volontà.

Ora che l’onore è salvo, anche se a prezzo di uno stravolgimento dei calendari a Roma (peraltro ancora indisponibili ad oggi sul sito del Mibact…), può essere il momento per alcune considerazioni a commento. L’iniziativa della notte dei musei, inventata nel 2005 dal Ministero della Cultura francese e ora promossa dal Consiglio d’Europa, consiste nell’offrire, ad un prezzo simbolico, l’accesso per una notte a musei e siti dei paesi aderenti, e alle molte diverse iniziative e spettacoli organizzati per l’occasione.
Un evento, nato per avvicinare l’istituzione museale ad un pubblico in particolare giovanile, ben conosciuto in tutta Europa, consolidato, non certo inaspettato: eppure l’adesione ufficiale del Mibact e quindi dei musei statali c’è stata solo pochi giorni fa a ulteriore testimonianza dell’approssimazione organizzativa che caratterizza l’azione del Collegio Romano.
Magari con qualche settimana in più di tempo a disposizione, la preparazione dell’evento e quindi anche la concertazione coi sindacati sarebbe stata vissuta con meno pathos; non che questi ultimi – i sindacati – siano esenti da colpe nella vicenda complessiva della gestione dei nostri monumenti.

Quest’ultimo episodio ribadisce le modalità da “prova di forza” che governano i rapporti di lavoro all’interno del Mibact, modalità incancrenitesi nel tempo a esclusivo vantaggio di alcune fasce di lavoratori e a danno, in particolare, dei visitatori- utenti e di un precariato giunto al limite del dramma sociale. Anche queste distorsioni, del resto, hanno potuto perdurare e ingigantire sull’inettitudine e la mancanza di un progetto complessivo sul nostro patrimonio dimostrata dalla dirigenza Mibact negli ultimi lustri.

E’ su questa mancanza di visione, infine, che si è innestato anche questo “caso” dell’anfiteatro flavio, un monumento iperconosciuto, ipervisitato e sottoposto ad una pressione antropica fortissima. Invece di utilizzare l’evento della notte europea come un’occasione per far conoscere ad una platea più allargata le decine di musei e siti pochissimo conosciuti (e le statistiche al riguardo sono drammatiche), ci si è concentrati, ministero, politica e media, sulla star Colosseo che di turisti e di pubblicità proprio bisogno non ha. L’episodio ha finito così per sottolineare impietosamente l’angustia culturale con cui il Mibact affronta il tema del ruolo dei musei, quasi del tutto ignaro, a livello centrale, delle riflessioni della new museology, dei programmi di long-life learning e di inclusione sociale che nella maggioranza dei paesi europei stanno trasformando radicalmente – e felicemente – funzioni e identità di queste istituzioni culturali.
E pensare che quelle istituzioni ce le siamo inventate qui, nel Bel Paese, tanto tempo fa.

L'articolo è pubblicato, contemporaneamente, su L'Unità on-line, "nessundorma"

Domenica prossima, 4 maggio, a Mirandola >>>
Domenica prossima, 4 maggio, a Mirandola, in provincia di Modena si terrà la manifestazione "com'era, dov'era" per discutere con architetti, storici dell'arte, cittadini i problemi della ricostruzione post terremoto, in particolare per quanto riguarda i centri storici e il patrimonio culturale.Organizzata da Italia Nostra Emilia Romagna assieme a Tomaso Montanari, Com'era, dov'era si pone in ideale continuità con L'Aquila 5 maggio che un anno fa richiamò nel capoluogo abruzzese uno straordinario pellegrinaggio laico di storici dell'arte, restauratori, archeologi chiamati a dare la sveglia per la ricostruzione del centro storico rimasto, dopo il sisma, per anni congelato in uno stato di abbandono quasi totale.

Le due aeree colpite presentano fra di loro molte differenze: nei centri emiliani si sono per fortuna evitati molti degli errori derivati dalla gestione commissariale della Protezione Civile che in Abruzzo condusse manu militari le operazioni di soccorso e tutta la prima fase della ricostruzione, fino allo scoppio degli scandali che travolsero la gestione Bertolaso.Pur se le lentezze burocratiche e i ritardi non sono mancati neanche in Emilia, qui il tessuto civile e amministrativo ha reagito con maggiore prontezza e le strutture economiche sono state ricostruite abbastanza in fretta.
Non altrettanto è successo, invece, per quanto riguarda il ricco e diffuso patrimonio culturale, costituito da decine e decine di rocche e castelli, torri, ville signorili, palazzi storici e da circa 400 edifici religiosi sparsi sul territorio.In questo caso, la mancanza ormai strutturale di risorse del Ministero dei Beni culturali si è unita, nelle prime fasi della messa in sicurezza, ad una gestione caratterizzata da incertezze, lentezze ed errori, come è accaduto, ad esempio, nel caso di molte demolizioni di strutture storiche.

Poi, a pochi mesi dal sisma, nel dicembre 2012, una legge (16/2012) sulla ricostruzione della regione Emilia Romagna, ha aperto un varco pericoloso in quel sistema di tutela dei centri storici che costituiva, dagli anni '70, uno dei vanti dell'amministrazione emiliana. Gli elementi sono quelli, consolidati, dell'urbanistica contrattata di queste ultime tristi stagioni di cementificazione: deroga dagli strumenti ordinari di pianificazione, possibilità di annullamento dei vincoli, incentivo alle delocalizzazioni.
Questo allentamento vistoso delle regole si salda ben presto con l'aporia culturale dimostrata da taluni settori del Mibact che finiscono sedotti dal nuovo mantra propugnato, non per caso, dagli ambienti accademici: dov'era, ma non com'era. La formuletta sembra la soluzione, rapida, semplificatoria, per risolvere i problemi connessi alla ricostruzione: da quelli economici a quelli tecnici.
Perchè affannarsi a restaurare, quando è più semplice, più economico anche ai fini dell'efficientamento energetico, demolire e ricostruire anche con materiali e forme in tutto o in parte profondamente diversi dagli originali? In questo modo si aprono per schiere di architetti, praterie sterminate per sperimentare il progetto del "nuovo", in quanto tale ontologicamente migliore del "vecchio" e precedente.

I progetti di cui abbiamo preso visione in questi mesi ci restituiscono una ridicola galleria di esercitazioni architettoniche quasi sempre del tutto slegate dal contesto urbano e paesaggistico, dalle consuetudini tipologiche che caratterizzano le nostre zone (penso ad esempio a quel prezioso spazio pubblico rappresentato dai portici) o anche solo, molto più semplicemente, alle condizioni meteorologiche: complicato soggiornare in ambienti completamente vetrati nell'afa canicolare delle estati padane...
Per molto tempo, solo poche voci, su tutte quella di Italia Nostra, hanno proposto ragioni diverse: quelle di un restauro consapevole, innovativo nelle metodologie al punto da saper coniugare il "com'era, dov'era" alle esigenze antisismiche e di risparmio energetico. È proprio in questo, cioè nella capacità di innovare le pratiche del restauro in modo da renderle più sicure e adatte al recupero di interi brani di tessuto edilizio storico che occorre sperimentare, non nello stravolgimento delle forme.
Il problema non è economico: restaurare non costa più che costruire ex novo, ma è più complesso e richiede competenze tecniche di alto livello e assieme una conoscenza del territorio, in tutti i suoi aspetti, profonda: gli unici strumenti veramente efficaci perchè questo paese - l'Emilia, l'Italia - possa ripartire.

Per raccontare queste ragioni, domenica 4 maggio, invitiamo a Mirandola tutti i cittadini delle zone terremotate e tutti coloro che credono che la difesa del nostro patrimonio culturale e dei nostri centri storici sia problema collettivo di primaria importanza, che riguarda la qualità della nostra vita e il senso del futuro che vogliamo trasmettere a chi verrà dopo di noi.
Vi aspettiamo.

Il programma e le informazioni logistiche sull'iniziativa "Mirandola, 4 maggio, dov'era, com'era"

L'articolo è pubblicato, contemporaneamente, su L'unità on-line, "nessundorma"

Su questo blog sono state scritte spesso parole di critica non indulgente >>>

Su questo blog sono state scritte spesso parole di critica non indulgente nei confronti di chi, soprattutto nei posti chiave del ministero dei beni culturali, non sa interpretare la propria funzione con sufficiente capacità di visione e, con una suicida rincorsa al compromesso, condanna il nostro patrimonio culturale ad un ruolo di subalternità politica e sociale.

Ciò che rimproveriamo all'apparato dello Stato, in questo ambito, è di derogare con troppa facilità e in troppe occasioni ai propri compiti costituzionali, quelli stabiliti dall'art. 9, soprattutto ai vertici, abbandonando per di più chi, nello stesso Ministero, presidia il territorio, alle pressioni e agli attacchi di coloro che su questo territorio hanno robusti interessi privati, talora pure illegittimi, da difendere.

Eppure, anche di fronte all'evidenza del massacro delle nostre coste, allo sprawl urbano che deforma campagne e periferie, ai nostri centri storici trasformati in centri commerciali all'aperto invivibili per i cittadini, ai monumenti che crollano e ai musei che chiudono, ciò che sempre più spesso negli ultimi mesi e settimane, con toni crescenti e da sedi diverse, si rimprovera al sistema della nostra tutela e alle Soprintendenze è l'esatto contrario, ovvero di incarnare quella "burocrazia" responsabile di "congelare la modernizzazione e paralizzare l'aspetto urbanistico delle città" (G. Valentini, La Repubblica, 9 marzo 2014).L'attacco alla "burocrazia", sono le recentissime parole del premier, dovrà pertanto essere "violento", perchè solo sconfiggendola, è il mantra ripetuto da fonti sempre più numerose, si rimuoverà uno degli intralci più gravi allo sviluppo del paese.

Quando, nel 2008, si aprì, con lo scoppio della crisi finanziaria a livello globale, l'attuale fase economico-politica, solo pochissimi riuscirono a intravedere la stretta connessione con il contemporaneo (e anzi, seppur di poco, precedente) fenomeno della riforma della pubblica amministrazione che interessò molti paesi dell'area euro e fra questi l'Italia. Con il pretesto di un roosveltiano piano di grandi opere che avrebbero dovuto rilanciare l'economia, si cominciò a smontare programmaticamente il complesso sistema di controlli che, nel nostro paese come altrove, presiedono al governo del territorio: la parola d'ordine di quest'ultimo lustro è quindi stata "semplificazione".
A distanza di 6 anni, nella completa assenza di qualsiasi effetto keynesiano di tale politica, questa "riforma" strisciante, effettuata a colpi di tagli lineari, ha prodotto una confusione normativa che ha moltiplicato esponenzialmente le difficoltà dell'azione amministrativa, ma ha sicuramente raggiunto lo scopo di indebolire, fin quasi alla paralisi, uno dei principali organismi di controllo, il Ministero dei beni culturali.

Ciò nonostante, il processo, invece di essere sottoposto almeno ad una verifica, sta subendo, come detto, un'accelerazione che si nutre di nuovi supporters.

Quando, per invocare la necessità della riforma del Mibact (sacrosanta, ma in direzione diametralmente opposta), alcuni organi di stampa, in una cupidigia di servilismo, come la chiamava Ernesto Rossi, scavalcano il limite della deontologia professionale, si oltrepassa un confine pericoloso.
In questa direzione ogni mezzo diviene lecito, anche il "metodo Boffo": è accaduto per Andrea Emiliani, già mitico Sovrintendente bolognese e fondatore dell'Istituto Beni Culturali dell'Emilia Romagna, vittima di un attacco di Valentini che all'uopo ha riciclato vecchie polemiche e false notizie.

Nel 1974 - quarant'anni fa - ne Una politica dei beni culturali, Andrea Emiliani stilava quella che rimane una delle più lucide analisi delle criticità nella gestione del patrimonio culturale, ancora in gran parte attuale (tanto che il mio Istituto, IBC, la sta ripubblicando).

In quel prezioso PBE Einaudi, in cui per la prima volta con tanta chiarezza si sottolineava il nesso inscindibile fra territorio-paesaggio e patrimonio culturale, sostenendo la necessità di un più aggiornato ed efficace sistema di tutela, Emiliani scrive: "Si risponderà che soltanto una società diversa e una diversa cultura possono garantire al bene culturale quel privilegio superiore che andiamo cercando. Opporremo che sì, soltanto una società e una cultura realmente democratiche possono liberare la tutela dagli impedimenti di forze avverse".

Oggi ancor più che allora, le ragioni di chi tutela il patrimonio si rivelano strettamente collegate a quelle della democrazia e, proprio per questo, ci chiamano tutti, indistintamente, a raccolta.

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, l’impostazione, e, se non fosse ormai un termine quasi pornografico, l’ideologia, di un testo come Istruzioni per l’uso del futuro di Tomaso Montanari (minimum fax, 2014). Il sottotitolo, Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà, chiarisce l’ambito di applicazione di questo manuale sui generis, ma non lo restringe, anzi: per l'autore il patrimonio culturale altro non è che uno degli strumenti principali per costruire il futuro della nostra democrazia. Il volume è strutturato come un alfabeto i cui lemmi sono però profondamente interconnessi tanto da restituire, nel loro insieme, un quadro del tutto organico. Fin dal titolo, su cui si può provare a mimare questa struttura:

Istruzioni. Intenzione dichiarata dell’autore è affrontare il problema della pars construens della gestione del nostro patrimonio. Accanto, dopo e oltre la denuncia, che peraltro nessuno come Montanari ha saputo esprimere in questi anni, è arrivato il tempo di cominciare a pensare come ricostruire un sistema, quello della tutela e fruizione del patrimonio culturale, ormai al collasso. Proprio per questo ogni capitolo contiene, accanto all’analisi, proposte o esempi di esperienze positive, che tutte si riconnettono alle idee forti su cui si incardina la trama del discorso.

A partire dall'affermazione che lo Stato, non come entità astratta, ma come espressione di una comunità allargata, è l'unica difesa possibile perchè i beni di tutti, non siano sottratti, in tempi di arrembanti economie di rapina, al godimento collettivo a vantaggio e uso esclusivo di pochi. Ma neppure uno Stato al massimo dell'efficienza e dotato di ampie risorse potrà mai garantire la tutela di un patrimonio al quale la collettività che dovrebbe difenderlo non sa più attribuire una funzione se non ornamentale. Il degrado cui è abbandonato il nostro patrimonio è figlio di molte cause, ma soprattutto dalla perdita di senso civile che ha subito. Solo un'azione educativa la più ampia e urgente possibile, potrà arginare alla radice questo degrado. Educazione è quindi, non per caso, uno dei termini ricorrenti del volume, in senso biunivoco. Perchè se è vero che dobbiamo, ad ogni livello, essere educati a comprendere le funzioni del nostro patrimonio culturale, quest'ultimo potrà così diventare finalmente un fondamentale strumento di interpretazione della storia e quindi educarci a sua volta alla complessità del presente.

Uso: perché il futuro dobbiamo costruircelo, non solo attenderlo passivamente, ma divenirne attori consapevoli utilizzando, per questo fine, appunto, la cultura. E il patrimonio culturale assume pienamente il suo valore di bene comune solo quando, appunto, viene usato. Non la conservazione statica, ma la conoscenza e quindi lo sviluppo della persona ne sono il fine. Usiamolo quindi, senza abusarne, come è accaduto soprattutto negli ultimi anni attraverso una distorta applicazione del termine di valorizzazione, intesa come creazione di valore economico, e non sociale.

Futuro: il patrimonio culturale è una leva potente di reinvenzione del futuro. Non discorso sul passato come celebrazione acritica e parassitaria di glorie passate quindi, ma strumento di costruzione del nuovo perchè capace di insegnarci quello spirito critico che è il primo indispensabile strumento attraverso cui riusciamo a mettere in discussione il presente per creare un futuro diverso e migliore.

Patrimonio culturale: Montanari fa ricorso, programmaticamente, al termine patrimonio e non alla locuzione beni culturali, per sottolinearne quel carattere sistemico che assume nella nostra realtà, ben più complesso di quell'elenco di singole eccellenze, cui, per molti aspetti è tuttora ancorato l'attuale sistema della tutela. Patrimonio, poi, come eredità di cui siamo corresponsabili, tutti, come cittadini, nei confronti delle generazioni future e che, per questo, abbiamo il dovere di usare secondo principi di sostenibilità, reversibilità, gradualità.

Democrazia: è questo un punctum del discorso di Montanari. Sulla nostra capacità di investire risorse sul patrimonio culturale ci giochiamo non solo la possibilità di continuare a vivere in un contesto di armonia inarrivabile, ma quel "progresso spirituale della società" di cui parla la nostra Costituzione (art.5). L'articolo 9, quello che sancisce il dovere della Repubblica a tutelare il patrimonio storico artistico e il paesaggio, viene collocato al centro di quella rete sapiente - dall'art. 3 al 5, al 21, al 30, al 33 - che nella nostra carta fondativa disegna il perimetro della democrazia, come comunità di eguali, tollerante e inclusiva. E quindi aperta a nuovi cittadini che possono fondare i loro diritti di cittadinanza su uno ius soli interpretato come lo spazio comune della cultura.

Verrà: un tempo futuro, il nesso “la democrazia che verrà” è quindi un auspicio, a ribadire, come il lettore comprende bene fin dalle prime lettere di questo sillabario di civiltà, che quella attuale è per lo meno una democrazia incompiuta.
Ad una prima lettura quel tempo tradisce un velo di pessimismo. O forse lo tradisce nel lector in fabula che sta scrivendo queste note e che, per certi versi, questo pessimismo lo declina in modo ancora più ampio. La crisi che attanaglia il sistema che riguarda il patrimonio culturale non è circoscritta: se il Mibact va ripensato e rilanciato, ugualmente urgente sarebbe la riforma dell’Università ed è da dubitare profondamente che la soluzione possa miracolosamente derivare dalla giustapposizione di due crisi convergenti e che da queste strutture possano scaturire in tempi brevi quell’energia e quell’innovazione che sarebbero necessarie a costruire un programma di rilancio del senso e della funzione del nostro patrimonio culturale.

Il quadro non migliora se lo allarghiamo all’insieme degli enti locali: la declinazione del federalismo in ambito culturale ha avuto esiti complessivamente insufficienti e del tutto sproporzionati, in negativo, rispetto alle ingentissime risorse utilizzate (sperperate). Ma se questo è il bilancio, non esaltante, per quanto riguarda gli attori istituzionali, il panorama, se possibile, peggiora, se pensiamo all’intervento dei privati, dai concessionari dei servizi museali alle Fondazioni: non potrebbe essere diversamente, in fondo, visto che classe dirigente, classe intellettuale e classe imprenditoriale condividono da troppi anni il medesimo brodo di coltura attraverso prassi incestuose con le quali hanno stroncato, in radice, ogni tentativo di rinnovamento.

Lo stesso Montanari, per trovare esempi positivi, deve ricorrere a quella zona promiscua fra il volontariato di cittadinanza e l’eroismo delle seconde file che, nonostante tutto, non solo non ha deposto le armi, ma riesce perfino a costruire innovazione.
Basteranno queste forze, minoritarie nel numero e nelle risorse, ad innescare quella vera e propria rivoluzione di cui ci sarebbe bisogno? Il pessimismo della ragione, in tempi in cui velocità e semplificazione sembrano smantellare una dopo l'altra le conquiste della riflessione e della complessità, indurrebbe a dubitarne. Però leggendo alle lettere “s” (spazio pubblico) e “u” (uguaglianza) del parroco del rione Sanità o dei cittadini di Matera e di quanto hanno saputo inventarsi per riconquistare il loro patrimonio culturale e farlo diventare uno strumento per un presente e un futuro diverso, la voglia di crederci ritorna prepotente.
E l'obiettivo più profondo del libro, è raggiunto.

L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma".

Il volume di Tomaso Montanari, Istruzioni per l'uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà, minimum fax, 2014, € 9, verrà presentato a Salerno il 9 aprile 2014, Museo Diocesano, h. 17.30, con la partecipazione dell'autore.

Che l'ennesimo "ultimo" concerto degli archeologici Rolling Stones si svolga o meno all'interno del Circo Massimo >>>

Che l'ennesimo "ultimo" concerto degli archeologici Rolling Stones si svolga o meno all'interno del Circo Massimo, questa vicenda ha già provocato parecchie ferite, istituzionali e culturali.
Alla credibilità dell'amministrazione capitolina e degli organi di tutela, innanzi tutto. Nei giorni scorsi sono difatti state diffuse notizie sull'andamento del tavolo OSP: quell'organismo cui partecipano i rappresentanti delle istituzioni coinvolte per decidere degli usi dello spazio pubblico di Roma. In pratica, di fronte alle obiezioni sul piano della tutela della sola Soprintendenza Archeologica, la Direzione Regionale dei beni culturali e paesaggistici del Lazio ha deciso, stante il nulla osta delle altre Soprintendenze presenti, di accordare il permesso per lo svolgimento del concerto che radunerà, ai margini dell'area archeologica centrale, una folla presumibile di circa 65.000- 70.000 attempati fans.

Il Circo Massimo ospita da anni manifestazioni di tutti i tipi, solo in pochissimi casi etichettabili come eventi culturali. Già in altre occasioni, queste iniziative si sono rivelate lesive dell'integrità delle strutture e l'area nel suo complesso ha mostrato le sue fragilità quanto a carenze infrastrutturali. In altri casi, invece, la cornice del Circo Massimo si è rivelata perfettamente adeguata alle attività ospitate.
Insomma, il caso in questione non si poteva definire certo nuovo e privo di precedenti e quindi di elementi di giudizio circostanziati.

Eppure, gli organismi coinvolti, tutti senza eccezioni, hanno dato prova di un sostanziale dilettantismo istituzionale: perché nel 2014 sia l'amministrazione capitolina e in particolare quell'appendice di dubitabile utilità che ne è la Sovrintendenza ai beni culturali, sia gli organi di tutela statali non possono dimostrare di ignorare gli standards di sicurezza dei singoli monumenti o spazi di così rilevante importanza per la vita della città.
Si tratta di elementi oggettivi (condizione delle strutture e loro resistenza a vulnerabilità di diversa tipologia, criticità infrastrutturali, ecc.) che rappresentano una condicio sine qua non per un uso sostenibile degli spazi pubblici.
Elementi che non sono passibili di contrattazione, tanto meno su base "democratica": per un'incredibile decisione della Direzione Regionale, al tavolo OSP le decisioni vengono prese a maggioranza, dove la maggioranza finisce quasi sempre per coincidere con la convenienza di chi rappresenta il potere politico prevalente in quel momento.
A questo bel risultato si è aggiunta la consueta estraneità ai criteri di trasparenza: l'andamento della discussione è 'filtrato' con ritardo, con successive chiarificazioni, suscitando una discussione forse tardiva e su basi distorte.

In realtà, oltre che su di un piano tecnico e di adeguamento delle conoscenze agli obiettivi pubblici che perseguono, le istituzioni in questione hanno dimostrato un deficit, ancora più grave e profondo, sul piano della politica culturale.
Fatte salve le prescrizioni oggettive di tutela fisica dei monumenti, da monitorare nel tempo, infatti, l'uso di monumenti di simile rilevanza dovrebbe essere inserito in un piano complessivo sugli spazi pubblici che tenga conto delle criticità urbanistiche, ma soprattutto si ponga degli obiettivi di fruizione del patrimonio culturale non dettati dalle esigenze del momento.
A Roma specialmente, dove questo patrimonio è così importante e diffuso, una programmazione di questo genere, del tutto opposta dall'attuale, ma non nuova, gestione estemporanea, irrazionale e contraddittoria e, in ultima analisi, fallimentare non solo sul piano della tutela, non può latitare oltre.

Solo se torneranno ad essere parte integrante della vita cittadina, pur con modalità diversificate e regole precise e determinate su criteri espliciti, questi monumenti sapranno garantirsi un futuro meno incerto di quello che è loro assicurato da organismi troppo deboli per imporre le sacrosante ragioni della tutela. Ragioni che riusciranno a prevalere in maniera non casuale soltanto quando chi è chiamato a difenderle saprà sostenerle non solo come spazio difensivo, perennemente assediato da irresistibili pulsioni alla mediazione, ma come primo passo, imprescindibile ma non sufficiente, per la costruzione di un progetto di città diverso.

Anche di questo si parlerà nel convegno dell'Associazione Bianchi Bandinelli di domani, 21 marzo 2014 "Archeologia e città: dal Progetto Fori all'Appia antica".

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Se i crolli di Pompei, con la loro inaudita ripetitività, ci consegnano una devastante conferma >>>
Se i crolli di Pompei, con la loro inaudita ripetitività, ci consegnano una devastante conferma dell’impotenza e dell’incapacità degli organi di tutela del nostro patrimonio a garantirne persino la sopravvivenza, altri episodi ormai fin troppo diffusi sottolineano fenomeni di degrado diversi solo all’apparenza.

In questi ultimi giorni si è riaccesa una discussione sull’uso – o meglio abuso – del nostro patrimonio architettonico scatenata dalle notizie relative a Palazzo Spada. L’edificio è una grandiosa costruzione manieristico-barocca nel centro storico di Roma, voluta dal cardinal Girolamo Capodiferro come propria residenza, poi acquistata dal cardinal Spada che la fece modificare dal Borromini il quale creò, nell’androne di accesso al cortile, la famosissima prospettiva trompe-l’oeil.Il Palazzo fu acquisito dallo Stato in epoca fascista e divenne da quel momento sede del Consiglio di Stato: dal 1927, quindi, un capolavoro dell’architettura romana, è inaccessibile al pubblico, tranne che per gli spazi della Galleria d’arte antica che ripropone ciò che è sopravvissuto della collezione di Bernardino Spada.

Non paghi del privilegio, i signori Consiglieri si sono attivati, già da moltissimi anni, per dotare l’edificio di un parcheggio interrato a loro uso e consumo. Agli organi di tutela tale richiesta – ci troviamo nel cuore del centro storico a due passi da Piazza Farnese e via Giulia - è parsa perfettamente plausibile: sono quindi stati eseguiti gli scavi che hanno portato alla luce – ma guarda un po’ – importanti resti di due domus. Nonostante questi ritrovamenti i lavori sono proseguiti e, terminata la sezione archeologica, interessano ora il giardino storico interno che, a quanto appare dalla documentazione, ha nel frattempo subito uno sconvolgimento totale: anche in questo caso gli organi di tutela non hanno sollevato obiezioni di sorta.A questo punto, di fronte allo scandalo provocato dai video che testimoniavano l’impatto delle ruspe nel giardino, i Consiglieri hanno provato a giustificare l’episodio sostenendo che comunque le spese dei lavori e dei restauri dell'edificio erano a carico del Consiglio di Stato e che il giardino sarebbe stato ripristinato nello stato quo antea (risultato peraltro quasi impossibile).In tutto questo non si è comunque sentita l’esigenza da parte di nessuna delle amministrazioni coinvolte, tutte pubbliche, - Consiglio di Stato, Soprintendenza Archeologica, Soprintendenza ai beni architettonici, Direzione Regionale – di un doveroso atto di trasparenza nei confronti dei cittadini che protestavano, ovvero sia la divulgazione sia dei risultati degli scavi che del progetto del parcheggio nel suo insieme (rampe e griglie comprese, ancora da costruire e inevitabilmente di forte impatto sul contesto urbano e architettonico).

Nella conferenza stampa tenuta dal Segretario Generale del Consiglio di Stato Forlenza due giorni fa, solo dopo la denuncia di Associazioni (fra le quali eddyburg) e comitati, non è minimamente messa in discussione l’opportunità di un’operazione di questo tipo, pagata con i soldi pubblici (tale è, a tutti gli effetti, il budget del Consiglio di Stato), con l’impiego di risorse pubbliche (tempo e personale delle Soprintendenze, entrambi estremamente scarsi) per soddisfare le esigenze private di pochi, per di più non connesse all’espletamento delle loro funzioni. Caso gemello rispetto a quello del Circolo ufficiali che per decenni ha paralizzato la costruzione di una Galleria d’Arte Antica degna di una capitale a Palazzo Barberini, l’episodio di Palazzo Spada ripropone il tema dell’abuso del nostro patrimonio culturale a vantaggio di pochi privilegiati. Si tratta di un atteggiamento ormai così connaturato da non suscitare più remore nemmeno in rappresentanti della legge, quali i Consiglieri di Stato, del resto ben noti alle cronache per i benefit particolarmente vantaggiosi connessi ai loro incarichi.

Così come per altri beni comuni, dal territorio all’acqua, il patrimonio culturale viene percepito come res nullius di cui può impadronirsi, con piena legittimità, scarsa trasparenza ed evidente danno alla collettività, chi si trova in posizione di potere.
Con arrogante ipocrisia la costruzione del parcheggio è stata definita "restyling sotterraneo" e si cerca di far passare come atto di liberalità il pagamento di alcuni restauri, tacendo che si tratta - comunque, sempre, ad ogni livello - di risorse dello Stato, quindi della collettività: anche in questo caso, alla fine dei conti, paga Pantalone.
Che poi siano uomini di legge a dimostrare questa sprezzante indifferenza nei confronti degli interessi dei cittadini è ulteriore sintomo della spirale di decadenza in cui si è avvitata, forse irrimediabilmente, la classe dirigente di questo paese.

I Comunicati di denuncia di Comitato della Bellezza, Associazione Bianchi Bandinelli, eddyburg:
1 marzo 2014
7 marzo 2014

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Il parallelo mediatico fra il successo de "La Grande Bellezza" e gli ennesimi crolli pompeiani ha incontrato facile successo >>>

Il parallelo mediatico fra il successo de "La Grande Bellezza" e gli ennesimi crolli pompeiani ha incontrato facile successo, veicolato dalla contemporaneità dei due eventi. In effetti gli elementi di assimilazione sono più d'uno.Entrambi - film e sito archeologico - ci mostrano, spietatamente, il degrado di un paese incapace di usare il proprio passato in senso innovativo e proiettato verso il futuro. Bloccati in una paralisi etica e culturale, che impedisce qualsiasi costruzione positiva: Jep Gambardella non riesce più a scrivere nulla da quarant'anni e forse da altrettanto tempo abbiamo smarrito il senso del nostro patrimonio culturale e la capacità di farne uno strumento - forse il più potente - di progresso civile e sociale.

Anche per Pompei, come è stato notato, si usano, da un paio d'anni a questa parte le maiuscole, a nascondere attraverso l'innalzamento del tono verbale, il contemporaneo sfilacciarsi di una visione metodologicamente coerente e di largo respiro.Il Grande Progetto Pompei, lanciato in pompa magna nell'aprile 2012 e attraverso il quale si doveva procedere al restauro complessivo del sito con i soldi della comunità europea dopo i rovinosi crolli avvenuti a partire dal novembre 2010, è ormai entrato in un vicolo cieco. A distanza di 2 anni, dei 105 milioni complessivi, sono state spese poche centinaia di migliaia di euro e risultano banditi meno di 20 milioni complessivi, per di più seguendo un cronoprogramma di cui i fatti di questi mesi, di questi giorni hanno dimostrato la sostanziale irrazionalità: invece che concentrarsi, in prima battuta, su di una ricognizione speditiva ma esaustiva dell'intera area scavata e procedere ad una messa in sicurezza, anche provvisoria, delle situazioni a maggiore rischio per poi affrontare e rimuovere le cause di degrado principali, a partire dal rischio idrogeologico, ci si è dedicati al restauro integrale di pochissime domus. Per di più, a causa di incapacità gestionali oltre che di obiettive difficoltà di contesto, queste operazioni sono state caratterizzate da lentezze e criticità, quali ad esempio gli eccessivi ribassi (oltre il 50%) delle gare d'appalto. Risultato: le cause endemiche di degrado hanno continuato ad agire, provocando danni diffusi (i crolli riguardano tutta l'area del sito) e i primissimi esiti delle operazioni di restauro, inaugurate appena qualche giorno fa per quanto riguarda la casa del Criptoportico, provocano più di un dubbio. Dalla documentazione visionabile sul sito del Mibact la qualità architettonica appare molto bassa e discutibili le tecniche di integrazione del sito e il loro impatto sul contesto.

Di fronte al fallimento complessivo del Grande Progetto Pompei, ormai evidente, nell'agosto scorso, l'allora ministro Bray aveva cercato di porre un rimedio, evitando contemporaneamente l'ennesimo commissariamento di Protezione Civile auspicato invece dal premier, attraverso la costituzione di un gruppo di intervento articolato: Direttore di Progetto, task force di una ventina di tecnici Mibact e 5 consulenti in materie urbanistiche, economiche, giuridiche. ll tentativo, concretizzatosi, pur con sfilacciature, nel così detto Decreto Valore Cultura è diventato legge dello Stato il 7 ottobre 2013. A distanza di 5 mesi quella struttura non si è ancora insediata pienamente, a causa di conflitti e guerriglie interne al governo e al Mibact che ne hanno ritardato l'operatività oltre ogni limite di buon senso.Anche per questo, del resto, Pompei si riconferma simbolo spietato della profondità della crisi che interessa la gestione del nostro patrimonio culturale.

In tale crisi, l'accademia ha responsabilità non meno gravi: presenti per molti anni e fino a tempi recenti con propri cantieri di ricerca all'interno del sito, le università non hanno mai collaborato ad una strategia complessiva finalizzata al primo degli obiettivi, anche scientifici, ovvero sia la tutela di un'area fragilissima sottoposta a rischi innumerevoli, antropici e non. Ogni ricerca, ogni sforzo, andava indirizzato a costruire un modello innovativo di tutela e fruizione non di un sito qualsiasi, ma di un'intera città, affrontando collegialmente una sfida complessa, ma non impossibile, se iniziata per tempo e con convergenza di intenti. Al contrario, soprintendenza, enti locali, università hanno proceduto come disiecta membra, ciascuno per proprio conto quando addirittura non in contrapposizione. Uno degli effetti di questa suicida incapacità di coordinamento è stato appunto il Grande Progetto Pompei, compromesso incoerente, nato per giustapposizione di differenti tattiche di intervento, esito inevitabile e al ribasso dell'italico "un colpo al cerchio e uno alla botte".

Se quasi impossibile è, ormai, il mantenimento dei tempi richiesti da Bruxelles che prevedevano la fine dei lavori, rendicontazione inclusa, entro il 31 dicembre 2015, la partita di Pompei non può essere abbandonata o gestita per mero "galleggiamento". Occorre, da subito, un cambio di indirizzo radicale e metodologico del "Grande Progetto": moltissimo può essere fatto, anche in poco tempo, a partire da una strategia complessiva di medio- lungo termine che, intervenendo rapidamente a tamponare le emergenze, riesca però ad inserire attività e sforzi in un disegno organico che preveda soluzioni non temporanee, ma sostenibili nel lungo periodo. Occorre reimpiantare una metodologia di conservazione programmata affidandola, nel quotidiano, a quelle competenze e specializzazioni tecniche che almeno fino agli anni '70 operavano a Pompei: così come, del resto, ci avevano suggerito gli esperti -veri- inviati dall'Unesco in ispezione dopo i crolli del novembre 2010, i cui preziosi report, per colpevole arroganza, sono stati sostanzialmente ignorati dai tecnici e dirigenti del Mibact.Pompei può e deve tornare ad essere il laboratorio su cui sperimentare una nuova gestione del nostro patrimonio culturale, ma non c'è più un minuto da perdere.

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