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I promotori e i firmatari del presente appello chiedono a chi si candida a governare l’Italia impegni programmatici per il rilancio della cultura intesa come promozione della produzione creativa e della fruizione culturale, tutela e valorizzazione del patrimonio, sostegno all’istruzione, all’educazione permanente, alla ricerca scientifica, centralità della conoscenza, valorizzazione delle capacità e delle competenze.
La crisi economica e la conseguente riduzione dei finanziamenti stanno mettendo a dura prova l’esistenza di molte istituzioni culturali, con gravi conseguenze sui servizi resi ai cittadini, sulle condizioni di lavoro e sul futuro di molti giovani specificamente preparati ma senza possibilità di riconoscimento professionale. Questa situazione congiunturale è aggravata dalla crisi di consenso che colpisce la cultura, che una parte notevole della classe dirigente – pur dichiarando il contrario – di fatto considera un orpello inattuale, non elemento essenziale di una coscienza civica fondata sui valori della partecipazione informata, dell’approfondimento, del pensiero critico.
Noi rifiutiamo l’idea che la cultura sia un costo improduttivo da tagliare in nome di un malinteso concetto di risparmio. Al contrario, crediamo fermamente che il futuro dell’Italia dipenda dalla centralità accordata all’investimento culturale, da concretizzare attraverso strategie di ampio respiro accompagnate da interventi di modernizzazione e semplificazione burocratica. La nostra identità nazionale si fonda indissolubilmente su un’eredità culturale unica al mondo, che non appartiene a un passato da celebrare ma è un elemento essenziale per vivere il presente e preparare un futuro di prosperità economica e sociale, fondato sulla capacità di produrre nuova conoscenza e innovazione più che sullo sfruttamento del turismo culturale.
Ripartire dalla cultura significa creare le condizioni per una reale sussidiarietà fra stato e autonomie locali, fra settore pubblico e terzo settore, fra investimento pubblico e intervento privato. Guardare al futuro significa credere nel valore pubblico della cultura, nella sua capacità di produrre senso e comprensione del presente per l’avvio di un radicale disegno di modernizzazione del nostro Paese.

Per queste ragioni chiediamo che l’azione del Governo e del Parlamento nella prossima legislatura, quale che sia la maggioranza decisa dagli elettori, si orienti all’attuazione delle seguenti priorità.
Puntare sulla centralità delle competenze
Promuovere e riconoscere il lavoro giovanile nella cultura
Investire sugli istituti culturali, sulla creatività e sull’innovazione
Modernizzare la gestione dei beni culturali
Avviare politiche fiscali a sostegno dell’attività culturale

I promotori e i firmatari del presente appello chiedono di accogliere nei programmi elettorali queste priorità e di sottoscrivere i dieci obiettivi seguenti, che dovranno caratterizzare il lavoro del prossimo Parlamento e l’azione del prossimo Governo. Il nostro sostegno, durante e dopo la campagna elettorale, dipenderà dall’adesione ad essi e dalla loro realizzazione.
1) Riportare i finanziamenti per le attività e per gli istituti culturali, per il sistema dell’educazione e della ricerca ai livelli della media comunitaria in rapporto al PIL.
2) Dare vita a una strategia nazionale per la lettura che valorizzi il ruolo della produzione editoriale di qualità, della scuola, delle biblioteche, delle librerie indipendenti, sviluppando azioni specifiche per ridurre il divario fra nord e sud d’Italia.
3) Incrementare i processi di valutazione della qualità della ricerca e della didattica in ogni ordine scolastico, riconoscendo il merito e sanzionando l’incompetenza, l’inefficienza e le pratiche clientelari.
4) Promuovere sgravi fiscali per le assunzioni di giovani laureati in ambito culturale e creare un sistema di accreditamento e di qualificazione professionale che eviti l’immissione nei ruoli di personale non in possesso di specifici requisiti di competenza. Salvaguardare la competenza scientifica nei diversi ambiti di intervento, garantendo organici adeguati allo svolgimento delle attività delle istituzioni culturali, come nei paesi europei più avanzati.
5) Promuovere la creazione di istituzioni culturali permanenti anche nelle aree del paese che ne sono prive – in particolare nelle regioni meridionali, dove permane un grave svantaggio di opportunità – attraverso programmi strutturali di finanziamento che mettano pienamente a frutto le risorse comunitarie; incentivare formule innovative per la loro gestione attraverso il sostegno all’imprenditoria giovanile.
6) Realizzare la cooperazione, favorire il coordinamento funzionale e la progettualità integrata fra livelli istituzionali che hanno giurisdizione sui beni culturali, riportando le attività culturali fra le funzioni fondamentali dei Comuni e inserendo fra le funzioni proprie delle Province la competenza sulle reti culturali di area vasta.
7) Ripensare le funzioni del MiBAC individuando quelle realmente “nazionali”, cioè indispensabili al funzionamento del complesso sistema della produzione, della tutela e della valorizzazione dei beni culturali, per concentrare su di esse le risorse disponibili. Riorganizzare e snellire la struttura burocratica del ministero, rafforzando le funzioni di indirizzo scientifico-metodologico e gli organi di tutela e conservazione, garantendone l’efficienza, l’efficacia e una più razionale distribuzione territoriale.
8) Inserire la digitalizzazione del patrimonio culturale fra gli obiettivi dell’agenda digitale italiana e promuovere la diffusione del patrimonio culturale in rete e l’accesso libero dei risultati della ricerca finanziata con risorse pubbliche.
9) Potenziare l’insegnamento delle discipline artistiche e musicali nei programmi di studio della scuola primaria e secondaria e sviluppare un sistema nazionale di orchestre giovanili.
10) Prevedere una fiscalità di vantaggio, compreso forme di tax credit, per l’investimento privato e per l’attività del volontariato organizzato e del settore non profit a sostegno della cultura, con norme di particolare favore per il sostegno al funzionamento ordinario degli istituti culturali. Sostenere la fruizione culturale attraverso la detraibilità delle spese per alcuni consumi (acquisto di libri, visite a musei e partecipazione a concerti, corsi di avviamento alla pratica artistica); uniformare l’aliquota IVA sui libri elettronici a quella per l’editoria libraria (4%); prevedere forme di tutela e di sostegno per le librerie indipendenti.

Promotori:MAB Musei Archivi Biblioteche
AIB – Associazione Italiana Biblioteche
ANAI – Associazione Nazionale Archivistica Italiana
ICOM Italia- International Council of Museums
Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli
Federculture
Italia Nostra
Legambiente
Comitato per la bellezza

Un decalogo sul destino del nostro patrimonio culturale proposto ai futuri parlamentari. 15 gennaio 2013 (m.p.g.)
Caro Candidato, Caro Leader, Signor Partito ecco 10 domande “brutte” sulla bellezza.co 10 domande “brutte” sulla bellezza.
Noi del Comitato per la Bellezza, nato nel 1998 sul nome e sul lavoro di Antonio Cederna, vi chiediamo:

1) Può la Bellezza essere uno dei temi centrali, unitamente alla cultura e, in particolare, alla cultura della tutela, della vostra campagna elettorale, uno dei punti-cardine del vostro impegno politico?

2) La Bellezza è anche per voi un bene sociale, un diritto di tutti, uno dei pilastri di una nuova politica per la società italiana, partendo dal patrimonio storico-artistico, dal paesaggio, dai siti archeologici, dai centri storici?

3) La Bellezza è stata sfregiata, mortificata e profondamente intaccata, dalle coste alla montagna, dalla campagna alla città, nel patrimonio storico-artistico-archeologico e in quello di biblioteche, archivi e fondi musicali, a causa della latitanza di una politica per la cultura, a causa dell’imperversare di condoni, di abusi e di inquinamenti d’ogni genere. Siete d’accordo?

4) Concordate sul fatto che il lassismo di Comuni e Regioni verso una edilizia di mercato utilizzata come fonte di entrata corrente per Enti locali vicini al collasso si è trasferita sul paesaggio imbruttendolo, mentre mezza Italia crolla o smotta e che c’è un restauro colossale del territorio e del patrimonio edilizio vecchio e antico da promuovere, anche a fini sociali?

5) Ha senso una diffusione sfrenata di pale eoliche (che richiedono strade e sbancamenti di terreni collinari e montani già fragili anche laddove non c’è vento sufficiente, persino in zone di alto pregio paesaggistico e archeologico), di pannelli solari senza limiti di sorta, spesso su terreni coltivati, oppure la creazione di maxi-impianti fotovoltaici?

6) E per la pianificazione urbanistica e paesaggistica, oggi negletta, siete pronti a riportarla in onore attuando anzitutto il Codice per i Beni culturali e per il Paesaggio, la co-pianificazione Ministero-Regioni, contro un consumo di suolo e un dissesto spaventosi che esigono un piano pluriennale per “rifare l’Italia”, mettendola in sicurezza? Vi impegnate a votare, al più presto, una legge che riduca nel modo più drastico il consumo di suolo?

7) Siete disposti ad appoggiare una autentica “ricostruzione” del Ministero come quello dell’Ambiente e ancor più di quello per i Beni e le Attività Culturali, indebolito, snervato, semidistrutto dalle ultime gestioni, da Bondi a Ornaghi?

8) L’Italia era riuscita negli anni Ottanta e Novanta a recuperare sull’Europa “verde” più avanzata creando una ventina di Parchi Nazionali (da quattro che erano, da decenni) e coprendo con la tutela il 10 per cento del territorio nazionale. Ma da anni ormai i Parchi di ogni livello mancano di fondi persino per la sopravvivenza. Vi impegnate affinché la politica dei parchi venga ripresa e potenziata ad ogni livello?

9) Musica lirica, sinfonica, popolare, dal vivo, tutte le forme di teatro, di spettacolo, di cinema sono forse state degnate in Italia della giusta attenzione dagli ultimi governi? O non vi sono sembrate al contrario condannate alla più stentata e mortificata sopravvivenza, e magari ad una fine prematura? Vi impegnate a finanziarle in modo selettivo ma adeguato premiando le produzioni di qualità, i talenti meritevoli, le compagnie di giovani, le iniziative di ricerca e di riscoperta?

10) Arte, cultura, musica, paesaggio continuano ad essere trattati in due modi sbagliati: a) come materie da privilegiare soltanto a chiacchiere continuando in realtà a speculare sulle aree, sui centri storici, sulle coste e sulle montagne,ecc. b) come “il nostro petrolio”, come “una macchina da soldi”, cioè come una serie di giacimenti da “sfruttare” cavandone profitti laddove essere sono possibili, abbandonando il resto a se stesso. Non credete invece, con noi, che sia giunto il momento di considerarle un tutt’uno inscindibile, un valore strategico “in sé e per sé” (e non per i profitti che può dare), il “motore” reale di tante attività indotte, come il turismo culturale e naturalistico?

Voi candidati, voi leader dei partiti, siete pertanto disposti a condividere questa battaglia politica e culturale di civiltà per la Bellezza come bene di tutti e come diritto sociale nei termini che abbiamo qui esposto? E a verificare con noi periodicamente il vostro reale impegno su questi temi cruciali una volta eletti?

Un titolo che pare uno scherzo, o un'esagerazione, e invece fotografa perfettamente una miserabile - e non dal punto di vista contabile - realtà. Il Fatto quotidiano Emilia Romagna, 12 gennaio 2013, postilla

Portare i bimbi al parco, tra qualche anno a Bologna, potrà diventare un ulteriore esborso di euro. Questo il possibile scenario che tra i tagli della spending review e la ricerca spasmodica di vendita del patrimonio pubblico si presenterà ai cittadini che si recheranno in qualche parco giochi per far usare ai bimbi altalene e giostre.
“Intendiamoci, il Comune in generale ha sempre meno risorse e deve risparmiare”, spiega l’assessore all’urbanistica e agli spazi verdi Patrizia Gabellini al fattoquotidiano.it, “partendo da questo presupposto vogliamo prima di tutto seguire la strada della sussidiarietà. Poi c’è il capitolo privatizzazione di alcuni parchi pubblici che è ancora un’ipotesi”.

E vista la scarsità di risorse, come del resto il settore scelto per i tagli, sarà inevitabile cedere a quegli imprenditori che hanno già visto di buon occhio l’affare: “Sono proposte organiche che alcuni produttori di giochi, non so se bolognesi o meno, hanno avanzato al Comune. Le richieste le abbiamo ricevute, le ho in ufficio, ma sono ancora da valutare”. Intanto si parte dai 1300 giochi dei parchi cittadini, che in media costano all’amministrazione di Palazzo d’Accursio 800 mila euro l’anno, per i quali avanza la cosiddetta sussidiarietà, ovvero l’idea di sponsorizzare o donare singoli giochi da parte di privati: “Questa cifra incide sul 10% del costo complessivo della manutenzione ordinaria e straordinaria degli spazi all’aperto della città affidata alla ditta Global Service. Spesa che non riusciamo più a permetterci. Giocoforza sarà non il sostituire altalene, cavallucci e giostre ma farli gestire direttamente da fondazioni bancarie, sponsor privati e persino gruppi di genitori che sappiano pronti a farlo perché ce n’è pervenuta richiesta”.

Al primo passo della sussidiarietà seguirà il passo successivo, che sarà la graduale apertura di aree gioco con ingresso a pagamento di alcuni euro in luoghi come Caserme rosse o nelle aree verdi di fronte all’area della Manifattura, la cosiddetta esternalizzazione che si effettuerà ritagliando alcune aree negli spazi verdi, recintandole e poi mettendo un prezzo in entrata: “Ci tengo a precisare che questi soggetti privati che vogliono rilevare e diventare proprietari delle aree non li abbiamo cercati noi come amministrazione”.
La possibilità che molti parchi giochi della città diventino a pagamento nel giro di 3-4 anni è sorta durante un’audizione richiesta dall’opposizione di centrodestra a Palazzo d’Accursio: “Intanto vediamo se la fase della sussidiarietà andrà a buon fine come credo. Sono risorse private per aiutare un patrimonio che rimane pubblico. Il passaggio successivo è un’ipotesi che si concentrerà su alcune macroaree. Capisco che il settore in cui si interviene è delicato, ma oggi il Comune di Bologna deve essere capace di razionalizzare il proprio patrimonio perché in cassa non abbiamo più soldi”.
postilla
Come si suol dire, apprendiamo dalla stampa che "il capitolo privatizzazione di alcuni parchi pubblici è ancora un'ipotesi", ma ci accorgiamo anche di una cosa: 1) che l'articolo in questione non è un ritaglio di qualche gazzettiere ottocentesco, dove si racconta di cancelli di ex tenute nobiliari che crollano idealmente davanti alla trionfante idea di spazio pubblico urbano; 2) che il percorso logico non si sta allontanando, dalla privatizzazione del verde pubblico, ma che anzi l'ipotesi appare ovvia quando "in cassa non abbiamo più soldi".
Un capolavoro di politica contabile, probabilmente non ancora portata alle estreme conseguenze. La pubblica amministrazione che tranquillamente per bocca di un suo alto rappresentante politico dichiara di svolgere un altro ruolo, di aver tranquillamente imboccato la strada opposta, rispetto a quella intrapresa, in pratica, da quando la città moderna è uscita dalle nebbie dell'ancien regime. Complimenti, restiamo in attesa della prossima genialata, naturalmente per "motivi di bilancio"

La Repubblica Milano, 12 gennaio 2013 (f.b.)

OGNI inverno sciare a Caspoggio aveva del miracoloso. Tutti sapevano che l'apertura della stagione sciistica era a rischio. Poi però la nevicata buona arrivava, la manutenzione alla seggiovia rimetteva tutto a posto, e la mitica pista Vanoni riusciva a mantenere il suo appeal. Ma la stazione pioniera dello sci in Valmalenco era ormai troppo acciaccata. È bastata una crisi (finanziaria) un po' più forte, per accorciarne l'agonia. Caspoggio era da secoli terra di arrotini, una tradizione che finì di colpo nel 1959 quando una seggiovia trasformò gli affilatori di lame e forbici in albergatori, battipista e noleggiatori di attrezzatura per il nuovo sport del momento, lo sci. Il benessere viaggiava sulle piste disegnate da Zeno Colò, i residenti da 900 passarono rapidamente a 1500 e i nuovi alloggi per i milanesi andavano via come il pane.

Ora Caspoggio ha chiuso, per sempre. Non sarà più una stazione sciistica, seggiovie e skilift diventeranno archeologia turistica. Peccato che non lo sapesse nessuno la settimana di Natale, quando centinaia di famiglie milanesi armate di sci e scarponi si sono affacciate alle biglietterie della seggiovia Piazzo Cavalli. Un fulmine a ciel sereno per chi aveva prenotato nei cinque alberghi o nelle case-vacanza. «Eravamo in tanti, imbufaliti, siamo corsi dal sindaco - dice Sergio Molino, milanese, amante di quelle piste da oltre trent'anni - ma ci ha detto che gli impianti sono privati e lui non può mettere becco». Tant'è, gli affari sono affari e per il patron della seggiovia, Franco Vismara, erede della stirpe di salumai di Casatenovo, Caspoggio era da tempo un peso: troppi investimenti, pochi introiti.

Ci mancava poi un temporaneo intoppo nell'innevamento artificiale causa lavori dell'Enel; e così la Caspoggio dello sci ha finito bruscamente di esistere. Chiuse le sue belle piste, la Avanzi-Motta, le due "nere" Vanoni e Costera, che tanto piacevano ai più esperti, la Dosso dei Galli e la Sole, chiamata così mica per niente, ma perché Caspoggio ha la fortuna di essere assolata, contro la più buia dirimpettaia Chiesa. Eppure Chiesa è cresciuta negli anni: la sua Snow Eagle, enorme funivia, trasporta masse verso il Palù. Gli impianti di Chiesa sono sempre della Fab Srl di Vismara: Caspoggio la bad company, Chiesa il core business si direbbe in termini economici.

Caspoggio, immagine estiva della (preponderante) parte nuova, foto F. Bottini
Ma lassù, sotto il Bernina che osserva, più che di finanza si discorre di tempi andati, ricordando come sfrecciava sulla Vanoni la Valanga azzurra, quella di Thoeni, Gros ma soprattutto del campione caspoggino Ilario Pegorari. Li allenava Mario Cotelli, che a Caspoggio ha fatto il maestro di sci dal 1962 al 1968, insegnando lo slalom a tanti rampolli della borghesia meneghina: «Il boom - spiega Cotelli, oggi presidente del Consorzio turistico Valtellina - risale all'incontro con Rolly Marchi che creò il Trofeo Topolino: noi allenavamo qui i ragazzini gratis, lui li portava in giro per l'Italia a far le gare. I "topolini" di città venivano con le famiglie, creando un grande indotto. Ma le cose cambiano, il turismo anche». I villeggianti fanno la voce grossa sui forum in rete, «Siamo diventati il dormitorio di Chiesa», e invocano rispetto per quelle piste meravigliose. Certo, l'alternativa c'è: dedicarsi allo sci alpinismo. Proprio a Caspoggio si è appena svolta una gara del campionato italiano: pelli di foca, niente bisogno di impianti, tanto fiato e via, d'ora in poi qui si scia solo in salita.
Un’analisi critica dell’elenco predisposto dal Fai: mentre la presidentessa Borletti Buitoni si accoda a Monti. Il Fatto Quotidiano on-line, 8 gennaio 2013 (m.p.g.)
C’è una sola cosa peggiore delle politiche culturali italiane: e sono i paragrafi dedicati alla cultura nei programmi dei partiti. Il che dimostra che non è un problema di mancanza di soldi: ma di tragica mancanza di idee. Vedremo se ora Bersani tirerà fuori qualcosa di più consistente del vaghissimo paragrafo che esibiva alle primarie. Quanto al rinascente zombie Berlusconi-Lega, il programma lo conosciamo fin troppo bene: metter mano alla pistola ogni volta che qualcuno pronuncia la parola «cultura».

È stata, invece, l’Agenda di Monti a sorprendere: nel senso che molti pensavano che la destinazione del peggior ministro del suo governo proprio ai Beni culturali fosse stata un incidente. E invece no: la deprimente e imbarazzante paginetta che l’Agenda Monti riserva all’«Italia della bellezza, dell’arte e del turismo» certifica che non c’è differenza tra il professore e i politicanti che ha commissariato. Certo, direte, non è una gran notizia dopo l’incredibile disinvoltura con cui il castigamatti si è trasformato nell’ennesimo matto: un Monti che, incurante del laticlavio da senatore a vita, ha presentato l’ennesima lista personale (vero abominio democratico), si è alleato nientemeno che con Fini e Casini, e si è financo messo a fare del sarcasmo sulla statura di Brunetta.

Se questa era la caratura culturale dell’uomo, non si può certo stupirsi se sulla cultura ha le idee più dozzinali che si possano immaginare. Nemmeno una parola di quella pagina è dedicata al valore civile del patrimonio storico e artistico, mentre l’idea chiave è che «investire nella cultura significa anche lavorare per rafforzare il potenziale del nostro turismo, poiché già oggi cultura, bellezze naturali ed enogastronomia sono i pilastri della nostra attrattiva». Sai che novità: su questo dogma craxiano si fonda l’industria culturale che sta trasformando il patrimonio in una Disneyland che forma non cittadini consapevoli, ma spettatori passivi e clienti fedeli. È a questo dogma che dobbiamo la privatizzazione progressiva delle città storiche (Venezia su tutte), e un’economia dei beni culturali che si riduce al parassitario drenaggio di risorse pubbliche in tasche private, socializzando le perdite (l’usura materiale e morale dei pochi ‘capolavori’ redditizi) e privatizzando gli utili, senza creare posti di lavoro, ma sfruttando selvaggiamente un vasto precariato intellettuale. È grazie a questo dogma che prosperano le strapotenti società di servizi museali, che lavorano grazie a un opaco sistema di concessioni, e che stanno fagocitando antiche istituzioni culturali e cambiando in senso commerciale la stessa politica del Ministero per i Beni culturali. Appare, insomma, realizzata la profezia di Bernard Berenson, che già nel 1941 intravide un mondo «retto da biologi ed economisti dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico»; un mondo in cui ci sarebbe stato spazio per «ricreazione fisiologica sotto varie forme, ma di certo non per le arti umanistiche».

In tutto questo, può essere di qualche conforto che il Fondo per l’Ambiente Italiano lanci le Primarie della cultura, una consultazione online che sottopone al vaglio dei cittadini temi forti da presentare poi ai vari candidati. Benissimo: anche se non tutti i temi proposti sono condivisibili, e anche se la trovata di Giotto, Dante, Leonardo, Verdi e Fellini candidati e comizianti è abbastanza imbarazzante.

Ma il punto non è quello. Il punto è che questa lodevole iniziativa rischia di rafforzare l’idea che la cultura sia materia per ricche signore in vena di beneficenza. E che poi, quando qualcuno di quella eletta cerchia ‘sale’ in politica, allora deve fare sul serio, e dunque deve dimenticarsi di queste ciance da salotto, e trattare la cultura come merita: cioè rigorosamente a calci nel sedere.Proprio come ha fatto un certo Mario Monti, il cui governo ha tagliato ancora su scuola, università e patrimonio culturale, e che – per citare un solo episodio – è stato a un passo dal sigillare Villa Adriana in una discarica.
Un certo Mario Monti, che è membro del consiglio di amministrazione del Fai.

l testo integrale dell’intervento svolto dal presidente della Sardegna, Ugo Cappellacci al convegno "Finestra sul paesaggio" il 2 dicembre 2011. Lo regalo ai lettori di eddyburg nella calza della Befana. Benché vecchiotto è troppo bello per essere lasciato nei miei disordinati archivi. Ed è soprattutto istruttivo per l’uso palesemente stravolto che fa delle parole, dei concetti, delle idee, sue e soprattutto altrui, che allinea in un lungo serpentone accattivante e minaccioso. Sbobinato per eddyburg , gennaio 2013

Intervento svolto al convegno "Finestra sul paesaggio"sulla tutela e valorizzazione del Paesaggio, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, Formazione decentrata di Cagliari; Cagliari 2-3 dicembre 2011, Aula Magna del Palazzo di giustizia.Cagliari, 2-3 dicembre 2011 Qui il programma del convegno e alcune delle relazioni presentate.

(...) Voglio prendere spunto da alcune osservazioni che sono state fatte, in particolare dal professor Salzano, e che trovo particolarmente interessanti per poter avviare un confronto che deve essere, credo, quello sui principi ma in particolare sulla sensibilità che sottende al tema di cui stiamo parlando. E voglio, non per dare un contributo tecnico, anche in questo caso perché ovviamente non sarei in grado di farlo, e neanche per confutare le tesi del professore perché da un lato non sarei in grado, dall'altro non ne sento il bisogno perché sento di condividere e sottoscrivere tutto quello che ha detto. O meglio, diciamo, quasi tutto.

Voglio partire proprio da un aspetto che tengo a sottolineare e credo sia molto utile portare da subito all'esame di questo consesso e poterne discutere immediatamente: è quello relativo al processo in corso del ppr sul quale ho colto la sottolineatura del professore delle possibili preoccupazioni legate al possibile tentativo di smantellamento. Allora, io credo che il tema del paesaggio sia un tema - così come quello dell'ambiente, del cosiddetto sviluppo sostenibile - sia un tema chiave per il futuro dei territori in questa epoca moderna che stiamo vivendo. E' un tema che è oggetto non solo di dibattito locale ma è un tema che è oggetto di un dibattito più ampio sul livello internazionale, sul livello europeo, in particolare il tema dello sviluppo sostenibile e della tutela dell'ambiente è un tema che è particolarmente dibattuto, sul quale ci sono differenti posizioni e confronti che sono in atto, e anche talvolta in modo molto vivace. La Regione, peraltro, partecipa a pieno titolo in questo confronto, anche quello che va oltre i confini del nostro territorio perché partecipa all'interno della commissione Empf del comitato delle Regioni, che è una commissione che si occupa di ambiente ed energia ed è una commissione che ha il compito di dare un supporto alla commissione europea e al parlamento europeo, supporto che poi è utilizzato ovviamente e che diventa base per le decisioni che questi organismi devono assumere.

E peraltro la Regione Sardegna avrà - a partire dal 2012 - l'importante responsabilità della presidenza di questa commissione. Questo lo dico a dimostrazione del fatto che la Regione è presente e vuole essere presente nel dibattito, vuole intervenire a pieno titolo nelle dinamiche che sottendono alle scelte che sono scelte che riguardano certamente il presente, che riguardano il destino del nostro ambiente e del nostro territorio ma in modo ancor più importante e significativo riguardano quello delle future generazioni.

Allora si è parlato e il professore mi ha parlato in termini a tratti anche veramente interessanti e affascinanti, direi, di quella che è la nuova sensibilità che peraltro è in qualche modo confermata nella Convenzione europea sul paesaggio ma che per quanto ci riguarda ha origini storiche ancora più lontane perché risale a quei passaggi che sono stati richiamati di Benedetto Croce, ovverosia quella sensibilità per l'ambiente che diventa un valore, un valore che addirittura va a coincidere con quello che è l'aspetto identitario delle popolazioni che nel paesaggio vivono e che il paesaggio devono percepire e che quindi in qualche modo devono tutelare, salvaguardare, valorizzare. Sono stati richiamati termini come valorizzazione, patrimonio, risorse e c'è stata anche spiegata quale può essere la differenza, quali possono essere le notazioni negative rispetto alle quali prestare particolare attenzione. Ecco, io allora credo che si debba uscire una volta per tutte da un equivoco, un equivoco che spesso è frutto di strumentalizzazioni perché comunque la vita è fatta anche di questo e in particolare l'agone della contrapposizione politica soprattutto in questi tempi, ahimè diventa spesso contrapposizione violenta, diventa spesso anche urlo, tentativo di prevaricare le ragioni, le argomentazioni altrui cercando di far valere la propria tesi o meglio talvolta non solo di far prevalere la propria tesi ma semplicemente di distruggere la tesi dell'avversario. Allora, se è vero come è vero, e credo che di questo non si possa non essere tutti convinti, che il tema del paesaggio è un tema che è un valore universale e come tale è riconosciuto, come tale è percepito da tutti, non è possibile, non è ammissibile, in termini di principio, che ci sia una contrapposizione così netta, così forte su un tema universale. Perché, se partiamo dal presupposto che esiste una contrapposizione, io credo che qualunque tipo di ragionamento, qualunque tipo di confronto sarebbe viziato alla base. Perché se il valore universale -io sono profondamente convinto di questo - è un valore che deve essere percepito nel modo corretto da tutti, che deve essere sentito nel modo corretto da tutti, deve essere interpretato nel modo corretto da tutti. E credo che la prima cellula, il primo momento di tutela del paesaggio e del riconoscimento di questo valore anche identitario del paesaggio sia quello che esercita il singolo individuo, che nel suo modo, con la sua sensibilità, nel suo modo di percepirlo, con le sue decisioni, con le sue azioni, è il primo elemento, il più importante che poi deve andare a declinare questo valore mettendolo appunto nella scala dei propri valori e quindi dando a questa accezione un significato importante. Se lo prendiamo, come lo prendiamo, come valore universale allora significa che deve essere sovraordinato rispetto a tutta una serie di questioni. Peraltro, mi sentirei anche di dire: è vero, sono comprensibili quei dubbi che nascono dalla diversa interpretazione che può essere data al termine valorizzazione. E in particolare, particolarmente interessante è la distinzione tra i termini patrimonio e risorsa, che sottende in qualche modo la conservazione, il tentativo di perpetrare primo il patrimonio invece una naturale destinazione al consumo delle risorse. E' anche vero che il mondo cambia i sistemi economici, la realtà dei mercati che stiamo vivendo interviene in questo tipo di classificazioni e di logiche e le cambia. E probabilmente qualche cosa è cambiato anche rispetto a quello che succedeva molti anni fa. E allora ci sono almeno due ragioni per cui non è assolutamente possibile arrivare a queste divisioni su questi temi. La prima è che stiamo parlando, come dicevo prima, di un valore universale, di un qualche cosa che è percepito ormai da tutti come un bene importante da tutelare e da difendere di cui bisogna usufruire in modo consapevole ed essere capace di trasmetterlo responsabilmente alle generazioni che verranno.

L'altro è anche l'aspetto direttamente commesso alla sostenibilità ambientale, direttamente connessa alle esigenze di sviluppo di un territorio, alle esigenze di un territorio di fare economia, che non sono oggi, non possono essere oggi, e tanto meno in una realtà quale è quella sarda, in contrasto con la tutela e la valorizzazione in senso positivo, in senso più virtuoso possibile del termine del paesaggio. E perché dico questo: perché assistiamo oggi in Europa a una discussione che cerca di orientare le comunità, le nostre comunità, gli enti locali, verso un uso cosiddetto efficiente delle risorse. La strategia europea - cosiddetta Europa 20 20 - è fondata su tre principi di base che sono quelli della crescita sostenibile, della crescita intelligente, della crescita inclusiva. La crescita sostenibile non è altro che una gestione efficiente delle risorse e un tentativo di modificare il sistema in un sistema cosiddetto verde - la green economy, più competitiva. Allora, se questo è vero, bisogna anche partire dal presupposto che ci sono delle risorse strategiche sulle quali dobbiamo ragionare perché non è possibile più consumarle. Perché queste risorse non sono illimitate, perché queste risorse sono limitate. E se questo è vero con le risorse di tipo energetico - è stato fatto riferimento al petrolio - e quindi si cerca di immaginare a delle forme di utilizzo delle energie rinnovabili, che si rinnovano, che non costituiscono un consumo definitivo, è a maggior ragione altrettanto vero, forse ancora più vero, per la risorsa ambiente e paesaggio. Noi in Sardegna viviamo, e non solo in Sardegna, ma certamente i territori deboli pagano un prezzo molto alto nei momenti di crisi e noi stiamo pagando un prezzo altissimo per la crisi generale che il mondo vive, che l'Europa, i paesi dell'Eurozona stanno vivendo. In Sardegna in particolare assistiamo a un fenomeno di cui leggiamo tutti i giorni sui giornali e talvolta molti di noi anche ne subiscono le conseguenze dirette perché sono drammi che riguardano le comunità alle quali apparteniamo, talvolta ci toccano anche direttamente, toccano la famiglia di un parente, di un amico, di un vicino. Ovverosia, il progressivo smantellamento dell'apparato industriale - faccio riferimento alla situazione di Porto Torres piuttosto che alla situazione di Porto Vesme - e non voglio citare questi casi per sottolineare la differente sensibilità anche ai temi paesaggistici perché probabilmente oggi, nella realtà che viviamo mai e poi mai potremmo anche solo concepire di realizzare strutture di quel tipo, così fortemente impattanti, non solo sul piano ambientale e paesaggistico, ma anche sul piano ambientale più riferito a quello dell'inquinamento e della salvaguardia dell'ambiente. Mi voglio riferire alle strutture che sono basate su un sistema ormai antico, desueto, che è quello di industrie energivore, talvolta anche inquinanti dicevo, che non hanno più la possibilità di stare sul mercato perché uno degli effetti della globalizzazione è quello che le multinazionali a distanza di migliaia di chilometri dal nostro territorio assumono delle decisioni, e le assumono come: le assumono andando a localizzare i propri impianti produttivi laddove i fattori della produzione si possono acquisire nei modi più convenienti, la logica del bilancio, la logica del conto economico. E allora questa delocalizzazione dei fattori della produzione comporta la delocalizzazione degli impianti e la Sardegna si trova a competere su territori nei quali è difficilissimo competere perché è difficile competere con paesi dove ci sono altre regole per quanto riguarda i meccanismi del mercato del lavoro, e quindi quella risorsa si acquisisce a costi ben più bassi, è difficile competere laddove il costo dell'energia ha valori molto più bassi. E allora qual è il primo ragionamento da fare, e mi riallaccio al tema iniziale che è quello della risorsa ambiente paesaggio e territorio. Che noi dobbiamo puntare sulla valorizzazione delle risorse, sui fattori della produzione che non sono facilmente de-localizzabili. E allora il paesaggio, il territorio, quel valore straordinario non è facilmente de-localizzabile. Lo dobbiamo valorizzare, ma valorizzare non nel senso di mercificare per cui va utilizzato perché va lottizzato, e va messo sul mercato, ma perché è un valore positivo che ci può ben far competere, diventa un fattore della produzione per tutta una serie di attività che ci può fare competere sul mercato internazionale, ci può dare una speranza di puntare su determinate iniziative che abbiano una prospettiva, una continuità, in termini temporali, capace di superare questo momento di crisi, capace di mantenere quelle realtà ancora sul territorio.

E allora lo voglio dire in modo chiaro - mi fa piacere che sia presente il presidente Soru, che sia arrivato l'onorevole Soru in questa sala, perché bisogna che si esca immediatamente da un equivoco: io credo che la Sardegna possa essere fiera di avere uno strumento che è il piano paesaggistico regionale, che è uno strumento moderno, che in termini anche di... anticipando quello che è il resto del territorio nazionale ma molto anche del territorio europeo, si è dotata di un quadro di regole che doveva servire a tutelare e salvaguardare il paesaggio, in particolare gli ambiti costieri. Io questo lo voglio dire, lo dico senza nessuna difficoltà, perché anche, ripeto, è ora, veramente, se vogliamo fare un dibattito, un discorso, un ragionamento serio sul tema, di uscire dall'equivoco, di uscire dai luoghi comuni. Quindi non è in discussione la valenza e io ne faccio di questo documento, di questo atto ne faccio un motivo di orgoglio come rappresentante di una Regione che ha dimostrato di essere all'avanguardia. Allora non c'è, partendo da questo presupposto, un interesse o un'intenzione di arrivare a una operazione di smantellamento. C'è un processo di revisione, peraltro che è obbligatorio, che è previsto dalla stessa norma di legge e che si vuole portare avanti sulla base comunque del rispetto dei principi che hanno originato il documento originario. Però, non possiamo non partire dal presupposto che se è vero - voglio citare passaggi che sono contenuti in quei documenti ai quali faccio riferimento - se è vero che quelle regole che sono state...- il piano paesaggistico in qualche modo rappresenta un quadro di regole - devono essere un paradigma per la tutela e la salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio, questo doveva avvenire attraverso l'assimilazione, la traduzione in principi dell'essenza e dell'identità del popolo sardo. Ma se questo è vero, allora come è possibile che quel documento, quel momento così alto di pianificazione abbia prodotto delle divisioni feroci, violente, fortissime nella nostra comunità; ha creato un momento di divisione quasi a metà, e ha creato una serie di problemi che nascono da dubbi interpretativi che ci sono, che ci sono stati, e che comunque le sentenze dimostrano che esistono. Ha creato problemi legati al non allineamento tra le norme del piano paesaggistico e la cartografia, problemi giganteschi, che hanno reso spesso impossibile per i comuni fare la pianificazione subordinata, tanto è vero che in cinque anni di vigenza del piano, solo meno di dieci comuni hanno potuto approvare il piano urbanistico.

E allora credo che il dovere del pianificatore regionale e del legislatore regionale sia quello di porsi il problema di verificare se ci sono delle criticità, sulle quali dobbiamo intervenire. E come abbiamo pensato di intervenire: abbiamo dato corso a quel meccanismo - mutuo un termine non riferito a questa fattispecie ma mi sembra che renda bene la situazione - della “dialettica cooperativa”. Abbiamo avviato un processo che dura da due anni, è un processo che ha coinvolto le amministrazioni locali, che ha coinvolto gli ordini professionali, che ha coinvolto le associazioni di ambientalisti, che ha coinvolto l'universo mondo, con il quale ci si è confrontati su quelle che erano le criticità, su quelle che erano le istanze di modifica, e siamo arrivati ad avere un quadro - che peraltro è una attività questa che è tutta pubblicata, è tutta presente, sulle risultanze di questa attività, anche in modo analitico, sono presenti nel sito della Regione, quindi chiunque cittadino può andare a vedere quale è stato il lavoro e quali sono stati i contributi alle criticità sollevate. Siamo partiti da quello per procedere verso questo lavoro di revisione del piano paesaggistico.

Adesso i prossimi passi quali sono: il primo è quello della approvazione, ci accingiamo ad approvare in giunta e quindi a portare in consiglio le «Linee guida» per la modifica, la revisione e la redazione. Perché abbiamo da modificare e revisionare il piano paesaggistico relativo agli ambiti costieri, ma dobbiamo predisporre, perché ancora non esiste, il piano paesaggistico delle zone interne.

Una prima riflessione vorrei fare: Le «Linee guida» sono già pronte, sono già all'esame della giunta e verranno licenziate a breve; le «Linee guida» che noi presentiamo e che presenteremo al consiglio, nella parte generale e nei principi generali sono esattamente le stesse che hanno guidato, che erano state predisposte per la realizzazione del primo piano paesaggistico regionale, a dimostrazione ulteriore che non c'è nessuna volontà demolitrice, che non c'è nessuna volontà di smantellare alcunché. C'è la volontà di confrontarsi. E di cercare di tener conto delle esigenze che sono emerse nel dibattito.

Ovviamente, ovviamente - e poi torno su questo aspetto - con una necessità, che è quella della responsabilità di chi governa, che è quella di arrivare a fare una sintesi del tutto.

Dicevo, e arrivo velocemente alla conclusione perché non voglio abusare del vostro tempo e della vostra cortesia, il processo prevede quindi l'approvazione delle «Linee guida», la prima approvazione in Giunta della revisione del piano paesaggistico, la pubblicazione perché chiunque possa avere interesse possa fare le sue osservazioni, la valutazione, l'approvazione, l'adozione in seno alla commissione consigliare competente, e quindi la pubblicazione e l'adozione in via definitiva. Questa, non prima di aver concluso il processo che è in corso con la Direzione regionale del Ministero per i beni culturali - ne approfitto anzi per ringraziare il direttore regionale, la dottoressa Lorrai per il lavoro di grande collaborazione che hanno dato rispetto a questo processo e naturalmente all'intera struttura. E poi la conclusione della valutazione ambientale strategica che è stata avviata ad aprile e che si concluderà a breve. E quindi arriveremo a quel punto.

E dicevo, quel documento sarà la sintesi. La sintesi di che cosa? Quali sono i principi che sottendono a una necessità di sintesi? Chi ha il governo regionale non ha la responsabilità di essere portatore - perché purtroppo spesso anche questo è uno degli equivoci che nascono - portatore di interessi. Che possono anche essere interessi generali, anche legittimi, di parti della società. Ha un dovere diverso, ha quello sui capisaldi, sui valori, e stiamo parlando di un valore universale, che è riconosciuto come tale da tutti, ha il dovere della sintesi che sia capace di affermare il bene comune, l'interesse comune. E allora, il bene comune non può mai comunque essere messo in dubbio rispetto a quelli che sono interessi di parte. E questo credo si vedrà, verrà dimostrato nella pratica. E stato richiamato in principio che io uso spesso richiamare - e concludo veramente - che è quello che nella cultura degli indiani d'America che riguarda l'approccio rispetto al territorio, che può essere facilmente parafrasato e riportato sull'ambiente e sul paesaggio, che è quello secondo il quale il territorio, l'ambiente, il paesaggio che viviamo e che percepiamo non è un qualche cosa che ci è stato trasferito in eredità, in proprietà dai nostri padri, ma bensì è un prestito che abbiamo avuto dai nostri figli e che dobbiamo restituire possibilmente valorizzandolo. Quel valorizzandolo, ovviamente, non potrà mai essere mercificandolo. Grazie.

Corriere della Sera Milano, 7 gennaio 2013, postilla

La storia dei trasporti è una storia di rivoluzioni, caratterizzate prima dalla ricerca di maggiore rapidità negli spostamenti, in un secondo momento dai diversi tipi di carburanti disponibili e, negli ultimi anni, dai problemi ambientali che molte tipologie di trasporti generano. Si pensi che, quando venne introdotta l'automobile, i gas di scarico erano considerati meno inquinanti dei residui solidi e liquidi prodotti dai cavalli, che nell'Inghilterra urbana del diciannovesimo secolo furono stimati in circa 6 milioni di tonnellate all'anno. Oggi quando incontriamo un cavallo lo guardiamo felici e lo associamo a un ambiente sano e naturale.

Tutto cambia quindi, anche il concetto di tempo e spazio, i due fattori chiave legati alla mobilità. Oggi, soprattutto in città come Milano, non si misurano più le distanze in chilometri, ma in tempo necessario per percorrerle; e allora entrano in scena le opzioni. Spesso escludiamo a priori il mezzo primario per muoverci in città, e cioè le nostre gambe, camminare è una di quelle attività che in città sembra essere stata dimenticata. Ci sembra di camminare molto ogni volta che il nostro appuntamento è a 300 metri dall'uscita della metropolitana; si gira in continuazione cercando un impossibile parcheggio pur di non dover fare qualche metro a piedi. Ma se camminare nelle nostre realtà metropolitane è considerato ormai solo una perdita di tempo, per centinaia di milioni di persone nel mondo continua a essere l'elemento caratterizzante delle loro giornate. Escludendo, per le distanze più lunghe il sistema più antico, il più delle volte la macchina è l'opzione peggiore, in termini di tempo, in termini economici, in termini di stress e di inquinamento atmosferico.

Quest'ultimo aspetto è tuttavia un aspetto legato a un cosiddetto bene comune e, come tale, non sempre e non da tutti percepito come critico, nonostante la cultura politically correct ci dipinga una opinione pubblica disponibile a qualunque tipo di sacrificio per il supremo bene della collettività; purtroppo non è così. Ma quando il beneficio pubblico e il beneficio individuale coincidono si è forse trovata la strada più idonea per la ricerca di un sistema di mobilità urbana più sostenibile.

Da anni utilizzo il bike sharing del Comune di Milano, un sistema che elimina lo stress da furto di bicicletta, tristemente cosi diffuso a Milano, elimina il problema del parcheggio, spesso paradossalmente difficile da trovare nel centro di città, dove ogni palo a cui legare la bicicletta è ricercato come in una caccia al tesoro; è inoltre un sistema sostanzialmente economico e che introduce la condivisione, presupposto fondamentale per creare davvero un' attenzione generale verso i beni comuni. Sta faticosamente partendo anche il car-sharing, molto più diffuso in molte altre città europee, dove la rinuncia alla macchina di proprietà è una scelta sempre più diffusa, con ricadute positive per l'intero territorio. È la strada giusta, percorriamola con decisione.

Postilla
Pare quasi naturale tornare alle varie critiche pubblicate su questo sito al nuovo piano urbanistico di Milano, sia sui due aspetti di merito esplicitamente sottolineati negli interventi (la mancata scala metropolitana e la rete della mobilità), sia sul metodo, che parrebbe non garantire una minima qualità spaziale, se è vero come sostenuto che si affida sostanzialmente ai medesimi soggetti e alla loro discrezionalità il processo di trasformazione. E allora si comprende che l’auspicio di una mobilità più sostenibile, costruita su diversi stili di vita, potrebbe a breve termine cominciare a scontrarsi con l’insufficienza sia della buona volontà dei singoli, sia del sistema entro cui devono svilupparsi questi auspicati stili di vita. Basta scorrere di nuovo l’articolo, ad esempio, per capire a quale tipo di utenza media si sta pensando: uno spostamento urbano semplice, diciamo casa lavoro, andata e ritorno. Che percentuale coprono, nella loro forma pura, questi spostamenti? Sono davvero così preponderanti nel degrado ambientale complessivo a cui si vorrebbe rimediare? Non ci si rivolge, come spesso accade affrontando le questioni con questa prospettiva un po’ elitaria, ai soli vicini di casa o colleghi di chi sta scrivendo l’articolo, escludendo allegramente il famoso 99% del problema? Ecco, forse qualche riflessioni in più sulle decine di migliaia di poveracci che sono materialmente costretti a usare l’auto per pura mancanza di alternative decenti (che non sono solo linee di mezzi pubblici) non guasterebbe, se si vuole andare oltre le buone intenzioni e le mode di quartiere bene (f.b.)

Nota: per chi volesse leggere direttamente a proposito della faccenda della cacca di cavallo che inquinava più degli scarichi delle auto, consiglio il bell'intervento all'alba del '900 a un convegno europeo di una vera e propria leggenda dell'urbanistica moderna, l'autore del Piano di Chicago Daniel Burnham, che ho tradotto su Mall col titolo La Città del Futuro governata democraticamente (Londra 1910)

Il manifesto, “alias”, 6 gennaio 2013
«Sarebbe assurdo che una generazione precedente potesse limitare l’uso che (della terra, n.d.r.) faranno le generazioni successive, poiché la terra appartiene ad esse proprio come appartenne ai loro predecessori, al loro tempo». Sono parole che potrebbero provenire da uno dei tanti benemeriti difensori dell’ambiente, parole che figurerebbero benissimo anche in un editoriale del nostro manifesto. Sono invece tratte dalle Lezioni di Glasgow di Adam Smith, i corsi accademici che il maggior fondatore della moderna teoria economica tenne nell’università scozzese tra il 1762 e il 1764 (tradotte in italiano da Giuffré nel fatidico 1989). Già, proprio quello Smith di cui il neoliberismo, fuori e dentro d’Italia, si è – indebitamente – appropriato come padre nobile al fine di legittimare la propria ideologia imperniata sull’homo œconomicus, egoista e dedito solo al profitto immediato, tale quindi da giustificare anche lo sfruttamento senza tregua di quei beni comuni apparentemente gratuiti (perché senza cartellino di prezzo), che chiamiamo ambiente o territorio o, semplicemente, natura.

Il nesso tra neoliberismo e distruzione dei beni comuni è diretto e profondo, e il riconoscerlo è merito non piccolo di quest’ultimo libro di Salvatore Settis – Azione popolare Cittadini per il bene comune (Einaudi «Passaggi», pp. 240, € 18,00) –, l’archeologo che da anni si è trasformato in intellettuale militante per la tutela non solo del patrimonio storico-artistico, come pure ci si potrebbe attendere da un esperto del settore, ma di quel bene molto più fragile – perché perlopiù intangibile e quindi meno o per nulla difeso – che è il paesaggio italiano. Questo era appunto il tema di Paesaggio costituzione cemento (Einaudi 2010), che ricostruiva il dibattito secolare sulla difesa del territorio, partito addirittura prima dell’unità d’Italia, all’epoca degli stati italiani pre-risorgimentali, e che trovò una sintesi felice nell’articolo 9 della Costituzione, che considera i beni culturali e il paesaggio come un unico patrimonio culturale da salvaguardare. A quel libro e alle sue ultime pagine, che esortavano a resistere alla crescente devastazione attraverso forme di azione popolare da intraprendere per una più piena attuazione della condizione di cittadinanza, si riallaccia il titolo di questo nuovo testo, che fonde assieme una vasta serie di analisi che si nutre di apporti provenienti dalle più diverse discipline: storia, economia, sociologia, diritto, filosofia e persino biologia evolutiva.

Pur in tanta ricchezza e complessità, l’obiettivo è sempre chiaro e mai perso di vista: la rivalutazione del bene comune, al di là di ogni uso retorico o strumentale, e dei beni comuni, senza cui il primo diventa solo un slogan vuoto, da stiracchiare per l’ennesima campagna elettorale. Di beni comuni oggi si parla molto, e anche confusamente, finendo per comprendervi tante cose diverse, a volte troppe. Al primo posto non possono che esservi i «beni comuni materiali naturali», come li chiama Giovanna Ricoveri ispirandosi a Empedocle: terra, acqua, aria, energia (in Beni comuni vs merci, Jaca Book 2010, di cui è imminente l’uscita in inglese con il titolo Commons vs commodities, con prefazione di Vandana Shiva). Ma se questo può bastare per i cosiddetti paesi in via di sviluppo, non è così per un paese come l’Italia, la cui identità storica è fatta anche di luoghi, di paesaggi, di monumenti che fino a poco tempo fa erano parte del demanio pubblico e che lo sciagurato federalismo demaniale rischia di smantellare una volta per sempre, all’insegna di quello slogan «padroni a casa nostra» che riflette, come forse nessun altro, lo sgretolamento dell'idea stessa di una cittadinanza italiana.

La riflessione di Settis oscilla costantemente tra memoria storica, battaglia politica e legale in nome disamina del presente e tensione verso il futuro, tenacemente sorretta dalla convinzione che se non si sa guardare indietro, non si può sperare di saper guardare avanti. Di qui l’ampia ricognizione di carattere giuridico sull’antica sull’antica nozione di usi civici o beni colletti vi, «un altro modo di possedere» (la definizione è del giurista Paolo Grossi) oggetto di una secolare battaglia politica e legale in nome dell’egemonia della proprietà privata che ha sempre cercato di ridurla ai minimi termini in quanto ostacolo al profitto dei ceti dominanti. Ma la proprietà collettiva, forma spontanea di auto organizzazione socio-economica pervasa da spirito comunitario, ha ricevuto anche di recente critiche drastiche da parte di scienziati sociali sulla base della teoria detta «tragedia dei beni comuni», secondo cui essi sarebbero inevitabilmente destinati a perire per l’eccesso di consumo collettivo. Una teoria che il lungo lavoro empirico di Elinor Ostrom, l’economista scomparsa da pochi mesi, ha rivelato privo di fondamenta, un puro asserto ideologico. È anche a lei che Settis guarda per rivalutare il principio di cooperazione che il neoliberismo ha sempre vilipeso in favore della competizione ossia del mercato, trattato come una sorta di entità metafisica, di nuova religione secolare, che l’autore smaschera come un falso mito. Così come smaschera come vera ed estrema antipolitica il tentativo di screditare come antipolitici tutti quei fermenti spontanei di protesta contro la politica ufficiale che esclude la voce dei cittadini proprio quando si tratta di decisioni vitali per la salute e il benessere della comunità (gli esempi al riguardo si sprecano, ma per chi scrive da Vicenza, già città del Palladio e ora di basi militari, il riferimento è immediato).

Quello di Settis è ancora una volta un appassionato richiamoal diritto di resistenza sulla scia di una proposta che risale a Dossetti e LaPira, pur senza entrare nella discussione di forme specifiche ma fornendo unapoderosa legittimazione storica e culturale.Diceva Andrea Zanzotto che siamopassati dai campi di sterminio allo sterminio dei campi, «fatti apparentementedistanti ma che dipendono dalla stessa mentalità». Questo libro ci aiuta acapirlo
Link utili
vedi anche nell'archivio di eddyburg la lezione di Giovanna Ricoveri alla Scuola di eddyburg 2011, uno scritto di Elinor Olstrom, nonchè, sempre rovistando nell'archivio di eddyburg, numerosi scritti di Ugo Mattei e Stefano Rodotà, Paolo Cacciari ed Edoardo Salzano.

La Repubblica, e Corriere della Sera 6 gennaio 2013, postilla (f.b.)

la Repubblica
"Neve finta e boschi violati così le mie montagne sono diventate un luna park"
Intervista a Mauro Corona, di Caterina Pasolini

ROMA - «Hanno ucciso la montagna per quattro schei, hanno svenduto la sua innocenza per soddisfare chi ha la frenesia della vita breve, chi vuole neve firmata e vive cercando di sfuggire la noia usando, consumando tutto e gettandolo via velocemente. Tra piste illuminate di notte dai fari invece che dalla luna, elicotteri che rompono il silenzio e motoslitte che vanno come razzi e coprono le impronte delle volpi. E cosi, tra superficialità e improvvisazione, accadono le tragedie».

Mauro Corona, scultore, alpinista, scrittore innamorato della montagna, «che credo abbia voce e ci parli, solo che molti non la vogliono sentire perché ci mette a nudo», il giorno dopo la sciagura del Cermis se ne sta nella sua baita di Erto. Pochi metri quadri affollati da duemila libri e riscaldati dalla stufa vecchia trecento anni ereditata dai bisavoli. Pronto ad uscire con le ciaspole per andare in alto, nel silenzio che «rigenera, dà energia mentre i tuoi passi fanno scricchiolare la neve».

Chi ha violato la montagna? «I più grandi distruttori sono stati gli stessi montanari che hanno fiutato la ricchezza nel soddisfare i ricchi che non vogliono faticare, che vogliono tutto e subito e sempre. E così neve anche a bassa quota e piste sempre più in alto perché a furia di distruggere la natura non nevica più, e impianti di risalita invece delle ciaspole, motoslitte a velocità pazzesche in cerca di emozioni».

Perché tutta questa frenesia? «La gente ha capito che la vita è sofferenza, è breve e quindi molti sono diventati dei nuovi nichilisti in cerca del piacere immediato e forte. E le montagne sono diventate solo un oggetto da consumare come al luna park, qualcosa da vendere o comprare, non da capire o amare».

E la montagna si vendica? «No, è che non la conosciamo, non la rispettiamo e così accadono gli incidenti. Non abbiamo il senso della misura, della sua forza, della nostra piccolezza. Non abbiamo più un vero contatto con gli elementi, non vogliamo il freddo, non sopportiamo il silenzio: persino nei rifugi e sulle piste c´è musica, frastuono, nessuno ascolta più la musica degli vento tra gli alberi».

Valli e vette sfregiate? «Non solo, è tutta la montagna ad essere violata: ci sono le concessioni del taglio dei boschi che cosi vengono distrutti dai boscaioli per amore di denaro. E io li ho visti: ora al posto delle mucche nella stalla hanno la Ferrari. E poi le centraline elettriche che bloccano i torrenti, la ghiaia portata via con la scusa delle esondazioni. Senza dimenticare i servizi ai piccoli comuni montani cancellati: i negozi chiudono, dimezzano treni e bus e i ragazzi per andare a scuola devono fare dei viaggi. Così si uccide la montagna: spingendo, costringendo la gente a scendere a valle per sopravvivere».

Cosa fare per salvarla? «Riscoprire la lentezza, ora non si ha neppure il tempo di guardare quello che ci circonda tra motoslitte, skilift e macchine, e poi puntare sui bambini. Se i genitori sono teorici dell´usa e getta forse bisognerebbe mandare guide alpine nelle scuole ad insegnare ai ragazzini cos´è la vera montagna, ad avere rispetto e la giusta cautela. È tempo per tornare a insegnare ai bambini che l´alta quota non può essere solo divertimento. Non va bene. Se non nevica non si va a sciare, punto. Ma fortunatamente è arrivata la crisi».

La crisi è positiva? «Sì, la crisi economica aiuterà a riscoprire le cose vere, per quello che sono, senza macchine e tecnologia».
Corriere della Sera
La montagna degli eccessi che diventa pericolosa
di Isabella Bossi Fedrigotti

Sei turisti sono morti ieri notte in val di Fiemme e altri due sono feriti gravi; sono morti in vacanza, nel corso di un'escursione che doveva essere spensierata e, perciò, ogni parola rischia di essere eccessiva, fuori luogo, forse anche per qualcuno inaccettabile. E tuttavia, purtroppo, il concetto va suggerito e pronunciata la parola. Si chiama riminizzazione della montagna, ed è stata inventata da un albergatore della vicina val Badia che la montagna la ama moltissimo e da molti anni combatte per difenderla e per trovare adepti della sua difficile battaglia.

Definisce — la riminizzazione — quel fenomeno per cui la Disneyland nella quale si sono trasformate ormai da tempo le nostre principali spiagge è stata trasferita anche nelle più belle, più incontaminate valli alpine. Ciò vuol dire baite in quota praticamente trasformate in pub, dove, al suono frastornante di musiche da discoteca, si festeggiano interminabili happy hour, dalle dieci di mattina fino al tramonto, e dove lo sci si riduce spesso a un pretesto per sfoggiare magnifici, strabilianti completini sportivi.

Queste location — in che altro modo chiamare rifugi alpini svuotati della loro vera funzione? — sono circondate da tutti quegli orpelli che conosciamo dalle spiagge alla moda, e cioè bandiere, striscioni, palloncini colorati, video che mostrano se stessi in piena attività: giusto per il caso che qualcuno, forse sordo, non le avesse sufficientemente notate.

Nulla di male si è costretti a dire, tranne che per quanti ricordano i paesaggi incontaminati e le baite di un tempo, l'incanto silenzioso dei boschi e delle malghe, il calore protettivo dentro i rifugi dopo la fatica e il gelo delle piste, forzati — dall'avanzare della riminizzazione — a cercare tutto questo in luoghi sempre più lontani e più inaccessibili. Tuttavia le conseguenze che il fenomeno porta con sé non sono soltanto di natura estetica, non offendono solo occhi e orecchie: infatti, alla conclusione delle happy hour in quota, sfrecciano poi disordinatamente in pista sciatori e snowbordisti che spesso e volentieri hanno troppo alzato il gomito, e gli incidenti, anche mortali, purtroppo non sono più una rarità.

Ma la riminizzazione non termina con il tramonto, continua anche nella notte, forse ancora più pericolosa. E perciò piste illuminate, impianti che funzionano fino ad ora tarda, discese alla luce della luna dopo polente bene annaffiate nei rifugi, corse in slitta o in motoslitta. Nulla di più divertente, di più eccitante per chi ama il genere, facilmente portato a credere che la montagna sia davvero una specie di parco dei divertimenti, controllabile a piacere, versione più emozionante — perché più vera — della più emozionane delle giostre, dove basta pagare il biglietto per accedere allo spasso e, quando si è stufi o stanchi, basta fare un cenno per poter scendere. La montagna — e questi terribili, crudeli incidenti vengono periodicamente a ricordacelo — pur addomesticata, pur resa accessibile a chiunque, pur truccata da allegra e benevola Gardaland è, però, tutt'altro e chi la frequenta davvero lo sa bene: soprattutto di notte non vi si può mai essere al cento per cento sicuri.

Postilla
Premetto che una prospettiva come quella di Mauro Corona, allineata almeno nel linguaggio alla gran moda dell’ambientalismo nostalgico, non interesserebbe molto di per sé il sottoscritto. Ce ne sono fin troppi di nostalgici che guardano, spesso in modo abbastanza acritico, a una specie di passato mitico, di presunto equilibrio fra uomo e natura, e li lascerei volentieri alle loro dissertazioni davanti al fuoco: avranno pure qualche ragione.
Se non fosse che la questione della montagna, in sostanza l’unico vero e proprio brandello di territorio naturale italiano, pare del tutto assente dal dibattito sulle trasformazioni in senso urbano, mentre invece ne stanno avanzando a bizzeffe, con opposizioni anche aspre ma esclusivamente locali. Come implicitamente riconosce anche Isabella Bossi Fedrigotti nel suo lucido intervento sulla "riminizzazione". Nella mia purtroppo breve esperienza di titolare di un corso di Riqualificazione Urbana al Politecnico di Milano ho avuto quasi per caso, alcuni anni fa, spalancata una piccola prospettiva di progetti di trasformazione, alberghi, quartieri di seconde case, piani di iniziativa privata per valorizzazioni e rilanci vari.
Vere e proprie astronavi scaraventate in qualche valle, la cui (a volte) apparente relativa esiguità in termini di metri cubi nascondeva impatti immensi in termini di uso materiale del territorio, fatto di impianti di risalita, gente che va e viene su e giù dalla montagna come se fosse un supermercato, e praticamente paga alla cassa nella strettoia di valle prima di tornarsene a casa. Di queste cose non si parla mai, salvo quando succede qualcosa di tragico come l’allegra comitiva un po’ alticcia con la motoslitta scivolata nel burrone. Qualcuno ci fa caso, al copione esattamente identico a una strage del sabato sera contro un pilone di superstrada sotto l’insegna di una discoteca?
Copione identico perché identico è lo scenario, di fatto:
sprawl a bassa densità, le piste invece degli svincoli, le pendenze invece della solita pianura, ma tutto deve rientrare nel modello cash & carry, che non ammette deviazioni. Le montagne stanno lì a fare da sfondo, come grosse grotticelle da madonnina in giardino.
Forse guardarlo in questo modo, quel territorio, esattamente come guardiamo al suo cugino
sprawl di pianura, aiuta a capire meglio, lasciando il club dei gentlemen di campagna a rimpiangere i bei tempi, e poi a votare gli stessi amministratori che chiamano qualche improvvisato guru sociologico sviluppista a tenere una conferenza sul rilancio economico della valle, magari con lo slogan della Montagna Infinita (f.b.)

Il testo che pubblichiamo di seguito è stato scritto in occasione di un interessante dossier costruito dal sito Ecopolis Newsletter, di Legambiente - Padova, e ivi pubblicato in sintesi.


Dopo più di vent’anni d’ improduttivi dibattiti, leggi e delibere, Venezia - con il territorio della sua provincia contestualmente soppressa - si ritrova finalmente “Città Metropolitana” in attuazione della Costituzione. Ma nel modo peggiore. Non come progetto condiviso e partecipato ma come esito residuale di un decreto sulla spending review, ora congelato, che prende di mira l’istituzione Provincia con accorpamenti forzati che non rispettano le identità storiche e culturali, le vocazioni socio economiche dei territori e con norme che cancellano livelli democratici elettivi. Un primo passo, forse, per abolire definitivamente un ente previsto dalla costituzione sull’onda di una campagna contro i costi della politica che finisce per colpire i costi della democrazia. Mai era accaduto nella storia repubblicana che le istituzioni fossero trattate con tanta disinvoltura!

E’ accaduto così che vi siano comuni contermini, strettamente legati a Venezia, che rifiutano di aderire ad una città metropolitana dai poteri indefiniti e comuni capoluogo di altre province, come Padova, che chiedono improvvisamente di aderirvi forse per sfuggire a province indebolite e dai confini disegnati da ragionieri privi di cultura.

C’è chi scappa in una direzione, chi nell’altra, chi non sa che strada prendere come se si trattasse di sfuggire a un pericolo. In questo caos proviamo, dal mio punto di vista, a riprendere il bandolo della matassa. Solo all’ultimo momento Venezia è stata inclusa tra le “città metropolitane” previste dalla legge 142 del 1990. Tra le motivazioni che avevano indotto un gruppo di parlamentari veneziani a sostenerne l’inclusione, prevalevano problemi molto specifici interni al comune di Venezia. Si trattava della mal sopportata convivenza tra la Venezia storica e Mestre in un unico comune e dell’aspirazione della porzione orientale della provincia attuale a costituirsi in Provincia del Veneto Orientale. La previsione della costituzione della “città metropolitana” costituì infatti un argomento forte per sconfiggere le crescenti spinte separatiste che si manifestarono in ripetuti referendum in quanto prefiguravano un comune veneziano articolato in sei municipalità, ma non sufficiente ad impedire la secessione del Cavallino.

Nel 93 l’area metropolitana di Venezia viene delimitata dalla Regione prevedendo l’inclusione di soli quattro comuni contermini (Marcon, Mira, Spinea, Quarto d’Altino) in spregio del “Piano Comprensoriale” che, fin dal 1979 individuava due criteri cardine: l’unitarietà della laguna e il ripristino della continuità laguna-terraferma comprendendo in tale ambito l’area centrale della provincia, più Mogliano Veneto e Codevigo. Questa delimitazione era coerente con l’ ordinamento legislativo varato successivamente.

Nel testo unico sull’ordinamento degli Enti Locali, infatti, si stabilisce che nelle aree indicate e tra queste Venezia, “il comune capoluogo e gli altri comuni ad esso uniti da contiguità territoriale e da rapporti di stretta integrazione in ordine all'attività economica, ai servizi essenziali, ai caratteri ambientali, alle relazioni sociali e culturali possono costituirsi in città metropolitane ad ordinamento differenziato”. Il comune capoluogo per l’appunto, non due o tre comuni capoluogo! Non sembra dunque corrispondere a questo criterio l’idea di assorbire ben tre province nella città metropolitana di Venezia. Stretta integrazione dei servizi essenziali è scritto: vi rientrano certamente i servizi pubblici locali che gestiscono l’acqua, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti e l’energia come fanno Venezia e i comuni dell’area vasta con Veritas ma non certo Padova con Hera e neppure Treviso co AIM Vicenza.

La successiva riforma costituzionale rafforza tale previsione. Possiamo accettare che a guidare un riassetto istituzionale siano solo ragioni di risparmio economico? Con la dilatazione territoriale a ben tre province non solo si smarrisce l’identità sociale e culturale (non saprei dare un nome agli abitanti della PaTreVe dice giustamente Eddy Salzano) ma, oltre una certa soglia, s’interrompe il rapporto democratico tra i cittadini e le istituzioni. Undici anni fa, di fronte alla stessa proposta, osservava giustamente Flavio Zanonato: “vorrà pur dire qualcosa l’esistenza di tre amministrazioni comunali, di tre diverse diocesi (almeno quattro N.d.R), di associazioni sindacali ed economiche divise per provincia e se gli stessi quotidiani informano.. con edizioni provinciali distinte..” Cos’è cambiato? Basta un pasticciato e improvvisato decreto taglia province per rispondere a queste obiezioni? Potrà il prossimo governo porvi rimedio? Oppure dobbiamo per forza acconciarci alla logica della riduzione del danno di fronte alla logica autoritaria tipica della tecnocrazia?

Ciò non significa negare la negare la necessità di una specifica pianificazione dell’area centrale del Veneto, quanto mai necessaria. Compito questo che spetterebbe alla Regione d’intesa con i Comuni e le Province. E’ forse l’assenza di una enorme città metropolitana che ha impedito la realizzazione del SFMR e l’auspicato collegamento di Padova, Treviso e Mestre con l’aeroporto Marco Polo? Di considerare l’interporto di Padova come il naturale retroterra del porto senza così prevedere il saccheggio di altre aree lagunari? Di realizzare l’idrovia? Di considerare il territorio della Riviera del Brenta con le sue ville un’area da tutelare?

Quello di cui soffre quest’area e l’intero Veneto è l’assenza di una buona pianificazione urbanistica e di una razionale programmazione economica da parte di una Regione impegnata invece a saccheggiare il territorio per favorire la rendita, a volte se non spesso, d’intesa con i Comuni come nel caso del cosiddetto “bilancere veneto”.

Credo allora che sia necessario distinguere tra il bisogno di programmazione dell’area centro-veneta e il governo della città metropolitana. Nel primo caso si tratta di realizzare “integrazioni funzionali” mentre nel secondo si tratta di costruire “un’istituzione forte” dotata di un Sindaco e di un Consiglio della città metropolitana eletto direttamente dai cittadini se non vogliamo svilire ulteriormente la democrazia. Venezia resta fedele alla propria unicità: una città estremamente complessa, segnata da una crisi profonda al cui interno coesistono realtà disparate, e spesso in conflitto, come il centro lagunare e il declinante polo industriale di Porto Marghera, la città vasta di terraferma, la laguna, le isole, i litorali. Città dalla molte identità, tenuta insieme con gran difficoltà. Città bipolare d’acqua e di terra, arcipelago urbano: ecco, qui sta la specificità di Venezia. Basti questa caratteristica per indicare Venezia come la città che, forse più di altre, ha bisogno di un governo metropolitano. Il Comune di Venezia è, infatti, sovradimensionato per l'esercizio delle funzioni ordinarie e di converso è sottodimensionato per governare le dinamiche economiche. E' troppo grande per rispondere efficacemente alla richiesta dei cittadini di partecipare ad una migliore gestione e fruizione dei servizi alla persona. E' troppo piccolo per risolvere gli angosciosi problemi dei trasporti, della mobilità delle merci e delle persone, per una programmazione razionale delle zone industriali, commerciali e della logistica, per una gestione efficace dei servizi pubblici locali che già oggi sono gestiti a livello di area vasta. E' troppo piccolo per governare in modo unitario il sistema lagunare, disinquinare le sue acque che provengono da un ampio bacino scolante fortemente urbanizzato, per riconvertire Porto Marghera e sviluppare la sua portualità: in sostanza per un uso sostenibile del territorio. Di converso molti Comuni della Riviera e del Miranese hanno spesso la dimensione ottimale per gestire i servizi alla persona ma sono anch'essi troppo piccoli per governare un nuovo modello di sviluppo. Per queste ragioni va ripensato anche l'assetto del capoluogo potenziando le municipalità per giungere in un secondo tempo - quando la città metropolitana sarà a tutti gli effetti costituita come istituzione forte perché dotata di poteri e democratica perché eletta a suffragio universale- ad elevare le stesse a veri e propri Comuni metropolitani. In tal modo si rassicurerebbero anche i Comuni minori che temono di essere fagocitati dal Comune capoluogo. Gli stessi potrebbero fin d’ora costituire “unioni comunali” aderendo così all’idea di realizzare la “Città Metropolitana” in modo flessibile, cioè a “ordinamento differenziato” che favorirebbe un percorso processuale. Niente di nuovo se non fosse che dopo il “piccolo è bello” ora va di moda il “grande è bello” che però mal si concilia con l’esigenza di avvicinare i cittadini ai luoghi della decisione politica.

Proviamo a ragionare. Da oltre trent'anni è in corso nell'area veneziana un massiccio processo di redistribuzione della popolazione dal capoluogo ai comuni limitrofi. Se, da una parte, Venezia perde popolazione, resta comunque la sede delle principali strutture di servizio, oltre che il luogo in cui si localizza una parte rilevante dei posti di lavoro. Aeroporto, porto, centri decisionali istituzionali e amministrativi, le università e le altre istituzioni culturali fanno della città lagunare un luogo in cui si concentrano servizi rari al servizio di una più ampia area metropolitana. Allo stesso tempo molti comuni minori, sempre più connessi all'economia regionale, aumentano la popolazione e le attività manifatturiere ricorrendo ad un sempre più ampio bacino del mercato del lavoro. Questo processo va governato con un'istituzione forte onde evitare il rischio che l'urbanizzazione generata dalla logica della rendita e dall'impresa postfordista, determini un ambiente urbano a marmellata sempre più privo di forma e memoria dei luoghi . Per invertire le tendenze in atto alla sprawl urbano occorre progettare la metropoli policentrica, cioè con una qualità urbana diffusa, vivibile e bella in ogni sua parte.

Da qui nasce l'esigenza di un governo unitario dell'area metropolitana di Venezia. L'attuale Provincia va quindi sostituita da una Città metropolitana che riassuma in sé funzioni e caratteri oggi variamente distribuiti tra Regione, Provincia, Comune capoluogo, altre amministrazioni. Non, dunque, una Provincia ritoccata, ma un soggetto davvero nuovo. Il suo ambito, a mio parere, deve comprendere i territori del "sistema lagunare" - sotto il profilo geomorfologico – e quelli del "sistema giornaliero", sotto il profilo dell'integrazione socioeconomica. Sbaglieremmo a considerarla riduttiva, una sorta di ripiegamento rispetto alla Patreve, la grande "città centro-veneta", un'area che richiede una specifica pianificazione ed un esercizio coordinato di funzioni, a partire dal trasporto pubblico, obiettivi che possono essere però conseguiti con altri strumenti. D'altra parte l'importanza di una città non è data solamente dal numero dei suoi abitanti. Zurigo, ha 350 mila abitanti, 100 mila persone vivono a Oxford e Cambridge. I punti di eccellenza europei sono rappresentati da città come Strasburgo, Lione, Lille e Francoforte che non superano il milione di abitanti. Secondo tutti gli indicatori internazionali le città sono realmente "grandi" per la maggiore importanza del loro ruolo, per la varietà e complementarietà delle loro funzioni, per l'ampiezza della loro influenza sul territorio. Venezia ha tutte le potenzialità per essere una "grande" città metropolitana.

Perché appassionarsi a questo tema? Il territorio - spiega Focault - prima ancora di essere una nozione geografica, è una nozione giuridico politica e precisamente quel che è controllato da un certo tipo di potere; e se i poteri pubblici sono deboli e frammentati, il territorio è soggetto alle sole regole del mercato e dei poteri forti. Non è quello che noi auspichiamo.

Corriere della Sera Milano, 5 gennaio 2013, postilla (f.b.)

«Prima regola: abbassare la suoneria. Seconda: tutti devono essere a disposizione, anche per fare da segretario o portinaio. Terza: raccolta differenziata obbligatoria». Condividere un luogo di lavoro è un po' come entrare in un club. Non basta iscriversi, bisogna anche rispettarne le leggi. Ilaria Innocenti, 30 anni, viene da Modena, dopo gli studi allo Ied ha unito le forze con quelle di un gruppo di compagni di corso e amici. Coworking puro: un architetto, un fotografo, una designer, una grafica, una stilista che dal 2006 condividono aria, spazi, telefono, Internet, ma anche affari, clienti e conoscenze. Hanno affittato un ufficio da 200 mq in via Sciesa e così è nato lo Studio Morinn.

Come loro, sono ormai sempre di più, sulle tracce di un modello di lavoro importato, manco a dirlo, dai cluster informatici della Silicon Valley. Per esempio, i ragazzi di Meda36.it, società di comunicazione digitale e coworking: spazio asettico da 120 metri quadri, sono in due ma ospitano altre sette persone, scelte soprattutto per le competenze. Per riconoscere una realtà ormai diffusa in tutta Europa, quindi, il Comune di Milano sta procedendo a un censimento. Il passo successivo sarà un bando da 198 mila euro, a fine mese da erogare sotto forma di voucher da 1.500 euro l'uno, poco meno dell'affitto annuale di una postazione. «Una misura sperimentale per ora riservata ai minori di 40 anni e pensata di concerto con gli operatori già attivi sul territorio» spiega l'assessore comunale al Lavoro, Cristina Tajani.

Un intervento pubblico sollecitato dal «pioniere» Massimo Carraro. Lui ha fondato la rete Cowo che conta 15 uffici a Milano e 63 in Italia. Il primo è a Lambrate, in via Ventura, in un trionfo di luce, vetrate e colore bianco. «Abbiamo fatto da modello per altri. La nostra filosofia è quella di uno spazio al servizio delle relazioni». Aprire un'attività in proprio infatti richiede impegni a lungo termine, spesso insostenibili. «Noi offriamo postazioni anche solo per una mezza giornata». «Viviamo di passaparola online» racconta. Tra i più entusiasti ci sono Elisa Mori, 30 anni, architetto, e Michele D'Amore, scrittore e copywriter, 34. Sono loro a spiegare perché scegliere la condivisione allo stare a casa gratis. «Troppo alienante, io sono abituata a lavorare in squadra» dice Elisa, che progetta spa e centri benessere a misura di casa. «Venire qui serve ad autoregolamentarsi» conferma Michele, pronto a lanciare l'agenzia creativa Berlin1948.

Man mano che si esplora il mondo del coworking, inevitabilmente s'incrocia l'universo delle start-up, degli incubatori e degli acceleratori d'imprese. Come Avanzi, spazio da 750 mq in espansione a Città Studi, laboratorio di idee sullo sviluppo sostenibile da 15 aziende e 65 persone: «L'obiettivo è trasformare le idee in impresa, sottraendole a quella "valle della morte" dove finirebbero senza accompagnamento manageriale» spiega l'ad Matteo Bartolomeo. Cita le esperienze di un sistema di bike sharing universale, di una piattaforma per la riattivazione di spazi abbandonati e dell'incubatore organizzato per Expo 2015 insieme con Telecom Italia.

Oppure come The Hub, una rete in grado di mettere in contatto oltre 6.000 persone nel mondo nel campo dell'innovazione sociale: progetti ecologici, tecnologie per disabili, finanza etica, terzo settore. Profit. «Un brodo primordiale di idee — sintetizza Alberto Masetti Zannini — ben più strutturato della sola condivisione dello spazio». Altre iniziative in città sono Piano C, pensato per le donne, e Talent Garden, 3.000 mq in via Merano. Su eventuali altre aree pubbliche da destinare al coworking, l'assessore Tajani infine spazza i dubbi: «Stiamo valutando spazi, sì, ma per incubatori».

Postilla
Visto che il modello è stato citato esplicitamente dall’articolo con riferimento alla Silicon Valley, forse val la pena ricordare subito che quello americano si sviluppa secondo una logica sia imprenditoriale che soprattutto territoriale del tutto diversa, e con effetti potenzialmente nefasti sul consumo di suolo, a differenza dei processi invece virtuosi di riuso efficiente raccontati per Milano. La differenza è sostanziale, e sta fra il refurbishment di spazi esistenti, o eventuale densificazione locale per attività terziarie, e la costruzione di grandi o piccoli office parks suburbani, magari dispersi nell’hinterland remoto a promuovere sia urbanizzazioni superflue che altra mobilità automobilistica di lunga gittata. Ergo va benissimo parlare di incubatori e altre iniziative del genere, ma con la progressiva esponenziale crescita delle attività professionali e di microimpresa la questione territorio deve essere chiarita una volta per tutte. Rispetto ai meccanismi americani e alle relative osservazioni di un osservatore attento come Richard Florida, ho dedicato mesi fa un articolo intitolato Un capannone ci seppellirà (f.b.)

Corriere della Sera 30 dicembre 2012 (f.b.)
«Li nobili et citadini veneti inrichiti volevano trionfare et vivere et atendere a darse piacere et delectatione et verdure in la terraferma et altri spassi, abbandonando la navigatione (…) et facevano palagi et spendevano denari assai». Forse nessuno ha raccontato meglio di Gerolamo Priuli, nei Diarii del 1509, le ragioni che diedero vita alla rete di ville meravigliose sparse per il Veneto.

Un patrimonio straordinario. Unico al mondo. E forse nessuno è riuscito a misurare l'aggressione al territorio intorno a quelle ville quanto una ricerca in via di pubblicazione condotta da un docente del Dipartimento Territorio e Sistemi Agroforestali dell'Università di Padova, Tiziano Tempesta. Che con l'aiuto di un laureando dalla cocciuta e generosa pazienza, Luca Checchin, ha monitorato una ad una le 3.782 ville della regione, per l'86% private, per il 62% costruite tra il Seicento e il Settecento, censite dall'Istituto Regionale Ville Venete nel 92% dei comuni della regione. Andando a controllare che cosa è successo negli immediati dintorni, nel raggio di 250 metri.

Un lavoro capillare. Mosso proprio dalla lettura di come Andrea Palladio, cioè colui che ha dato il nome a quel tipo di residenze, intendeva la villa. Immersa nella campagna. Arricchita dall'«arte dell'agricoltura». Un luogo «dove finalmente l'animo stanco delle agitazioni della Città, prenderà ristauro e consolazione, e quietamente potrà attendere agli studi e alla contemplazione». Cosa resta, di quell'idea palladiana dello spazio? Poco. Sia chiaro, restano le ville. Che negli ultimi decenni, anche grazie all'Istituto già citato, sono state in buona parte salvate dal degrado e restituite all'antica bellezza da centinaia di restauri. Troppo spesso, però, come hanno denunciato mille volte tanti studiosi come Salvatore Settis, «la tutela d'un tesoro monumentale si è fermata un centimetro oltre la recinzione, come se il valore di quel tesoro non fosse anche l'essere inserito in un determinato spazio». Si pensi alle collocazioni all'interno di elegantissime anse del Brenta di villa Foscari, detta la Malcontenta, o di Villa Pisani a Stra. Due capolavori architettonici che, collocati in luoghi diversi e assediati da condomini, ipermercati o capannoni, sarebbero irrimediabilmente diversi.

Bene, la ricerca di Tempesta dimostra una volta per tutte, numeri alla mano, a dispetto di chi per un malinteso amor patrio lo nega, che il prezzo pagato all'ubriacatura industriale del Veneto, negli anni in cui veniva esaltato lo spontaneismo anarchico che non doveva essere intralciato da alcuna regola, è stato spaventoso. Nonostante il 48% delle ville sia tutelato da normative nazionali o regionali, «solo in pochi casi la tutela del fabbricato si è estesa anche al contesto paesaggistico in cui esso si trova». Di più: se già il territorio veneto è per il 14,3% «occupato da superfici artificiali», cioè cementificato (una percentuale stratosferica se pensiamo che la regione per il 43,6% è collinare o montuosa), «la superficie artificializzata attorno alle ville è mediamente notevolmente superiore a quella della regione». Quanto «notevolmente superiore»? «L'incidenza attorno alle ville è mediamente pari a 3,4 volte quella dei comuni della regione». Una pazzia.

Puoi vederlo nelle fotografie di villa Trissino Giustiniani a Montecchio Maggiore, davanti a cui troneggiano enormi silos. Di villa Contarini Crescente alla periferia di Padova, che si staglia su giganteschi capannoni. Di villa Franchini a Villorba, che confina direttamente con una delle 1.077 aree industriali (addirittura 14 in media a Comune) della provincia di Treviso, che ospita un quinto del patrimonio di residenze di cui parliamo. Tutte scelte sventurate di tanti decenni fa come gli stabilimenti chimici della Mira Lanza tirati su in faccia a Villa dei Leoni? Magari. L'occupazione delle aree rimaste miracolosamente integre intorno alle ville va avanti, sia pure in modo meno aggressivo di ieri, un po' ovunque. E solo una durissima battaglia degli ambientalisti e degli abitanti ha bloccato ad esempio una nuova e massiccia cementificazione della campagna adiacente alla stupenda Villa Emo di Vedelago.

Spiega lo studio «Il paesaggio delle ville venete tra tutela e degrado» del professore padovano che certo, «sono le modalità stesse di diffusione delle ville nel territorio che possono aver favorito l'agglomerazione degli insediamenti residenziali nei loro pressi». Fatto sta che «considerando la fascia più prossima», cioè quella nel raggio di 250 metri, solo nel caso del 35,3% delle ville la percentuale di aree occupate da villini o condomini «è minore del 20%. All'opposto, nel 35,9% tale percentuale è superiore al 40%». Né sembra «emergere una sostanziale diversità tra le ville sottoposte a tutela e quelle che non lo sono». Anzi, «tendenzialmente in queste ultime la situazione pare essere sia pure lievemente migliore».

Tre anni fa un'inchiesta de «Il giornale dell'arte» firmata da Edek Osser, intitolata «Così l'Italia ha massacrato Palladio» e rilanciata anche da «The Art Newspaper» nel bel mezzo del cinquecentenario palladiano, sollevò un putiferio. Denunciando «una colata di cemento senza regole e controlli» e riprendendo le parole dello studioso Francesco Vallerani, addolorato nel vedere «da un lato un territorio costellato da straordinarie meraviglie architettoniche e paesaggistiche, dall'altro il disastro urbanistico che ha annullato il paesaggio». Molti, a partire dal governatore Giancarlo Galan, la presero come un'accusa esagerata. Una forzatura. Una specie di congiura mediatica contro il Veneto e i veneti.

Spiega oggi Tempesta che, a proposito di capannoni, «in 111 ville (pari al 2,9%) più del 30% del territorio posto nel raggio di 250 m. è occupato da insediamenti produttivi, e per altre 159 (4,2%) tale percentuale è compresa tra il 20 ed il 30%. Anche in questo caso non emergono differenze sostanziali tra ville tutelate e non». Peggio ancora: «Ad un esame più approfondito si è potuto constatare che non sono poche le ville inserite in zone industriali. Se si considerano le aree urbanizzate nel loro complesso si può constatare che solo il 21,9% delle ville venete si può considerare a pieno titolo inserito in un contesto paesaggistico pienamente agricolo presentando nelle vicinanze una percentuale di superficie edificata minore del 20%. In più delle metà dei casi la percentuale è oramai superiore al 40%». Ecco la sfida di domani: ripulire, risanare, risistemare, recuperare la bellezza. Riportando i capannoni il più possibile lontani da quei tesori che il mondo ci invidia.


Il sistema della mobilità.

Con una scarna relazione (quattro pagine su un documento di circa mille) e sommari elaborati grafici, la parte dedicata al “sistema della mobilità a rete” del Documento di Piano del PGT adottato dalla Giunta Moratti aveva cambiato in modo sostanziale la pianificazione dei trasporti, approvata dal consiglio Comunale con il PUM del 2000 ed il successivo aggiornamento del 2006, strumenti che, per quanto se ne sappia, non sono stati mai revocati. Venivano, infatti, introdotte nuove linee di metropolitana, inserito un nuovo tracciato ferroviario, aboliti il secondo passante, la M6 e la diramazione per via Mecenate della linea M4. Nella successiva fase di osservazioni alcuni chiesero una revisione di queste scelte argomentando sulla base della consolidata tradizione milanese -ma anche provinciale e regionale- di pianificazione dei trasporti.

Queste osservazioni non furono accolte nemmeno nella seconda lettura decisa dalla Giunta Pisapia. L’Amministrazione, in sede di controdeduzioni, affermò di avere in corso di redazione un nuovo Piano della Mobilità che avrebbe fatto definitiva chiarezza sulla rete. I testi dedicati alle infrastrutture furono integrati, tuttavia il PGT oggi definitivamente approvato presenta la stessa rete di trasporto pubblico di quello adottato ed una rete stradale decisamente peggiorata: il che non fa ben sperare. È mia convinzione che la motivazione profonda di questo ribaltamento della politica dei trasporti dipenda da una carente concezione dell’assetto urbanistico di grande scala e del ruolo di Milano nella sua area urbana.

Infatti, le reti di trasporto non sono infrastrutture “neutrali”, necessarie e buone per tutte le città. Al contrario, ogni schema di rete incorpora una precisa strategia di sviluppo della città e, viceversa, non c’è strategia di sviluppo di un’area urbana che non richieda una specifica configurazione di rete. Se consideriamo la configurazione della rete, l’idea di città sottostante il PGT, fin dalla sua prima formulazione, è opposta all’idea di città da sempre presente nella cultura milanese. Da molto tempo, almeno dai dibattiti tra Carlo Cattaneo e Cesare Cantù su Milano, il comune sentire di tutti gli urbanisti milanesi è che Milano non finisca ai suoi confini, ma che la vasta regione urbana insediata al suo intorno sia tutt’uno con essa; e perciò ne condivida - anzi, ne debba condividere - la vita urbana e l’acces­sibilità alle funzioni. Gli urbanisti si sono poi divisi in varie scuole di pensiero, ma le differenze tra di loro (peraltro molto affievolite nel corso del tempo) sono cosa da poco rispetto al concetto fondamentale.

Il comune sentire è che tutti abbiano diritto di essere milanesi (ovvero condividere vantaggi, grandi servizi, opportunità, mercato del lavoro) e che l’obiettivo degli urbanisti sia quello di rendere quest’integrazione sempre più reale, efficace e meno congestiva. Milano ed il suo intorno possono divenire funzionalmente una sola città, per acquisire la massa critica di una città mondiale. La tradizione della pianificazione milanese, non solo comunale ma anche regionale, provinciale, soprattutto nei trasporti, ha sempre traguardato (anche se con modi diversi e talvolta con contraddizioni) l’obiettivo cattaneiano di ‘fare città’ di tutta l’area milanese. Ebbene, nonostante le molte pagine dedicate alla “nuova visione della città”, invero a livello prevalentemente microurbanistico, e quelle dedicate a “Milano metropoli a rete”, e nonostante che si faccia esplicito riferimento all’area urbana di sette milioni d’abitanti, la strategia macrourbanistica nel PGT sembra muoversi in direzione opposta.

Il problema del PGT non è che non s’interessi o che non preveda interventi per il territorio esterno a Milano (ove non ha il potere d’intervenire), ma che non incorpori né un’attiva visione strategica della città nel sistema regionale in cui si colloca, né una visione di Milano inserita in quel sistema. Le diverse strategie macro provocano riflessi ben differenti all’interno della città e le infrastrutture programmate in Milano, ove confluiscono tutte le reti, possono consentire o negare sviluppi a livello di tutta la regione. La rete del PGT piega i tracciati delle metropolitane e delle metrotranvie al servizio prevalente degli spostamenti interni alla città, amputa le linee metropolitane, nega l’estensione dell’accessibilità ferroviaria a tutta la regione (tramite il secondo passante) concentrando l’investimento nel miglioramento dell’interscambio tra le linee regionali (attuali) ed i servizi di lunga distanza e Alta Velocità.

La mancanza di una chiara visione macrourbanistica indebolisce anche il concetto di “densificazione” che è stato assunto come obiettivo strategico in entrambe le formulazioni del PGT. Infatti, se va riconosciuto il merito di aver messo l’accento sulla necessaria densità degli insediamenti ai fini di una politica dei trasporti meno congestiva, questa va applicata ai nodi della grande rete regionale, non alla città di Milano a livello microurbanistico. È ben diversa la strategia di collocare i grandi servizi ed i grandi attrattori di traffico sui nodi della grande rete estesa a tutta la regione Lombardia da quella di prescrivere una volumetria maggiore intorno alle fermate del tram, come nella tavola S.03 del Piano dei Servizi. Altrimenti si finisce per “densificare” le periferie generando domanda di nuove infrastrutture, come traspare dalla previsione delle nuove linee “metropolitane” periferiche. [...]

(per leggere integralmente questa lunga sezione dell’articolo di Giorgio Goggi sulla mobilità, si può scaricare il pdf alla fine degli estratti)

L’edilizia sociale

Anche nel campo dell’edilizia sociale il PGT sembra voler negare la tradizione milanese.

L’edilizia sociale (un tempo assai più opportunamente denominata economica e popolare) è sempre stata un vanto dell’urbanistica del capoluogo lombardo: dai primi del ‘900 - quando i quartieri IACP di Milano erano all’avanguardia dell’abitare civile -, alla storia delle cooperative edilizie, fino alla 167 al Garibaldi. Il PGT, invece, rinuncia ad applicare la legge 167, rinuncia ad individuare in azzonamento nuove aree vincolate all’edilizia sociale, disperde le sue - invero modeste - previsioni di edilizia sociale in un ventaglio di indici di volumetria aggiuntiva (“obbligatoria” ma trasformabile in edilizia convenzionata o monetizzabile) applicati agli Ambiti di Trasformazione e nelle aree d’intervento superiori ai 10.000 mq.

Ai tempi dell’assessore Masseroli, il Comune si difendeva dicendo di volere, in questo modo, evitare la creazione di “ghetti”. Ma non è ineluttabile che un quartiere di edilizia residenziale pubblica diventi un “ghetto”. Al contrario la storia dell’urbanistica milanese è prevalentemente caratterizzata da quartieri di edilizia popolare che non sono affatto diventati ghetti, ma hanno favorito l’integrazione sociale ed il progressivo miglioramento delle condizioni economiche dei loro abitanti. Quartieri che si sono assimilati alla città e che nessuno oggi chiamerebbe di “case popolari”. Vi sono, invece, casi di quartieri privati nei quali sta accadendo proprio ciò che si paventa per i quartieri di edilizia pubblica.

Ora però in Lombardia, ed in particolare a Milano, la carenza di edilizia sociale ha ormai le caratteristiche di un’emergenza: il grado di soddisfacimento della domanda di edilizia residenziale pubblica a Milano risultava essere di circa il 30% nel 2007 (1), il dato del 2012 è sicuramente peggiore. Spetta agli strumenti urbanistici comunali mettere a disposizione le aree necessarie per la realizzazione di questi interventi. Infatti, la legge 167/62, art. 1 e art. 3, obbliga tutti comuni con popolazione superiore ai 50.000 abitanti a determinare il fabbisogno di edilizia “economica e popolare” e a destinare aree sufficienti per soddisfarne almeno il 40%. Legge che non è mai stata abrogata; ma il Comune di Milano ha scelto di considerare la legge come non più in vigore, di non determinare il fabbisogno e di non individuare alcuna area destinata all’edilizia sociale.

Nel PGT la realizzazione dell’edilizia sociale viene, infatti, resa obbligatoria tramite la concessione di un incremento dell’indice di utilizzazione territoriale di 0,35 mq/mq applicato agli ambiti di trasformazione ed alle aree d’intervento superiori ai 10.000 mq. Questo indice è poi articolato in: 0,20 mq/mq di edilizia convenzionata agevolata o in locazione con patto di futura vendita; 0,10 mq/mq per edilizia in locazione a canone moderato, concordato o convenzionato o residenze universitarie; 0,05 mq/mq per edilizia in locazione a canone sociale (sostituibile con convenzionata tramite monetizzazione). E’ poi previsto un indice di 0,15 mq/mq di edilizia sociale nelle aree da “densificare” in quanto vicine a linee di trasporto pubblico, peraltro sostituibile con diritti edificatori “perequati” trasferiti da aree vincolate.

Come si vede, alla parte di edilizia sociale assimilabile a quella residenziale pubblica (una volta detta “sovvenzionata”) è destinato solo un indice di 0,05 mq/mq, sempre sostituibile con altre categorie qualora l’operatore accetti l’onere della monetizzazione di una parte del “maggior ricavo” conseguito. Viene spontaneo chiedersi se questa complessa articolazione degli indici obbligatori di edilizia sociale possa giungere al soddisfacimento di una quota consistente del fabbisogno di abitazioni. Occorre dire che l’unica quota di edilizia sociale di cui abbiamo una qualche sicurezza è quella inserita negli Ambiti di Trasformazione Urbana, perché gli altri tipi d’intervento dipendono da scelte private, non sono definiti in azzonamento, e la loro attivazione è meramente eventuale, legata al ciclo economico dell’edilizia.

Il sistema delle quote di edilizia sociale inserite negli Ambiti di Trasformazione o nelle aree d’intervento superiori a 10.000 mq nasconde un’altra insidia, quella di legare l’edilizia sociale al ciclo economico dell’edilizia. Viene così snaturata la funzione dell’edilizia sociale, che è sempre stata eminentemente anticiclica, legandola ai momenti espansivi del mercato. Il meccanismo di legare la realizzazione dell’edilizia sociale a quella dell’edilizia privata è esposto alla variabilità del mercato immobiliare. Non è nemmeno detto che i privati, in periodo di crisi, rinuncino a realizzare i loro interventi per non dover subire il peso economico dell’edilizia sociale. Perciò questo meccanismo non può dare la necessaria sicurezza di risolvere l’attuale emergenza sociale. Il rischio è che si finisca per produrre prevalentemente edilizia convenzionata con prezzi più o meno calmierati, tagliando la fascia di maggior bisogno, ossia quella che è tutelata dall’edilizia pubblica.

Piano dei Servizi

Nel Piano dei Servizi il Comune dichiara di non voler “stabilire in maniera rigida quali saranno i servizi che andranno attivati nel futuro e dove questi servizi saranno localizzati”; e difatti nessuna area per servizi pubblici viene vincolata, ad eccezione di quelle destinate a verde ed infrastrutture. Tutti gli altri servizi saranno direttamente realizzati dagli attuatori degli ambiti di trasformazione e dei piani attuativi o deriveranno comunque dalle cessioni ivi ottenute. Ora, una cosa è la critica alla pianificazione tradizionale, che ha generato l’annoso problema dei vincoli, e tutt’altra cosa è rinunciare del tutto a prevedere nuovi servizi e ad individuarne la localizzazione.

Quest’omissione assume maggiore rilevanza quando, di contro, il piano viene dimensionato per un significativo incremento della popolazione residente (ancorché minore di quello calcolato nelle proiezioni demografiche del PGT adottato, peraltro riportate invariate). I piccoli servizi di quartiere possono essere realizzati dagli operatori nei piani attuativi, ma che fare per le università (2), gli ospedali, i plessi scolastici, gli istituti di ricerca, i centri sportivi, che richiedono grandi superfici? In questo modo il Comune, per tutto quanto non previsto oggi negli ambiti di trasformazione, rinuncia totalmente alla strategia di localizzazione dei servizi, che è parte integrante e fondamentale della strategia di sviluppo urbano. E che è anche il contenuto prevalente della pianificazione urbanistica, se consideriamo le leggi che l’hanno istituita: un obbligo che non potrebbe essere eluso.

Dal momento che il resto del territorio è azzonato senza vincolo di destinazione d’uso, il rischio è che i servizi di cui la città avrà necessità nel futuro saranno localizzati in aree di risulta, o nei parchi di cintura. Di contro, si corre il rischio che le proposte di realizzazione di servizi da parte di privati confluiscano nella realizzazione di quegli interventi che siano maggiormente remunerativi, con il che si assisterebbe allo straordinario proliferare di palestre e centri benessere. Nella storia urbanistica di Milano sono molte le occasioni perse per non aver voluto o potuto apporre tempestivamente un vincolo su aree ritenute strategiche per il futuro della città (dal carcere di S. Vittore, alle aree di P.ta Vittoria che erano state destinate alla nuova sede dell’università Statale). Tutto ciò sembra essere stato dimenticato.

Piano delle Regole

Il Piano delle Regole è incentrato su due concetti: la perequazione e la rinuncia alla pianificazione per zone funzionali. Tralasciando per brevità il tema della perequazione, che è il più critico del PGT, e che merita una trattazione a parte (3), vale la pena di commentare la rinuncia alla pianificazione per zone funzionali. Questa non avrebbe controindicazioni se dalla città fosse totalmente scomparsa la produzione industriale, che non è sempre compatibile con la città residenziale. Fortunatamente non è così e non possiamo certo augurarci che questo avvenga. La cultura di Milano è da sempre quella di una città produttiva. La presenza della produzione industriale a Milano non può essere né negata, né tantomeno trascurata, perché avrà sempre un ruolo strategico, anche se si tratterà di produzione industriale ben diversa da quella del secolo scorso, ed evidentemente minoritaria nei confronti della città dei servizi. Gli eccessi del passato, in termini di vincoli industriali, non possono certo giustificare l’abbandono di qualsiasi prospettiva di produzione.

Visto l’alto valore delle aree a destinazione residenziale, non basta dire che le destinazioni sono libere: le industrie difficilmente potranno permettersi di pagare il costo di aree che possono avere altra, più remunerativa, destinazione. Per la produzione è stato poi inserito un premio di volumetria, anche trasferibile, di 0,2 mq/mq; ma giudico improbabile che questo meccanismo possa superare la differenza di valore tra le aree residenziali e quelle produttive. Anche su questo tema il Comune si è impegnato con il Sindacato a “sostenere le aree con le attività produttive esistenti” e a “incentivare il recupero degli insediamenti produttivi esistenti”. Ma di che cosa vivranno i milanesi nel 2030?

La crisi economica che stiamo vivendo ci ha mostrato come la finanza e le attività terziarie e direzionali non siano sufficienti, da sole, a garantire una solida prosperità. Ma nel PGT manca persino l’indicazione di una qualche direzione di sviluppo produttivo. Sembra insomma che si sia dimenticata la funzione dei piani generali, che è anche quella di costituire una riserva di aree (per l’edilizia sociale, per la produzione, per i servizi) in funzione dello sviluppo futuro. Non a caso il piano delle regole e quello dei servizi non hanno scadenze temporali di validità, come non ne aveva il PRG. Qui si torna, pur in altro contesto, alla carenza di visione già più volte sottolineata.

(1) Dati dell’“Osservatorio regionale sulla condizione abitativa”.
(2) A Milano almeno 20.000 mq di funzioni universitarie sono ospitate in strutture inadeguate, costruite per altri usi.
(3) Si veda G. Goggi “Perequazione sconfinata alla milanese i motivi per rimediare a una situazione incerta e pericolosa” su Edilizia e Territorio on line, 30.8.2012

QUI la versione integrale di questo articolo

Corriere della Sera Milano, 29 dicembre 2012, postilla (f.b.)

Nei numeri su Milano del censimento 2011 pubblicati qualche giorno fa sulla Gazzetta Ufficiale c'è un aspetto che mette a disagio. La città è tornata ad avere lo stesso numero di abitanti del 1951: se avevamo bisogno di un dato simbolico che certificasse quanto siamo fermi nel mondo che corre, eccolo qui. Le cose ovviamente non stanno solo così. I demografi spiegano che tutto, sempre, è in movimento e quindi anche il milione e duecentoquarantamila residenti fotografato dal censimento 2011 è assai diverso dal milione e duecentomila del 1951. Molto è successo, dal baby boom all'arrivo degli immigrati, eppure siamo ancora lì, al «milione e qualcosa» che solo per un periodo, all'inizio degli anni Settanta, Milano si era davvero scrollata di dosso (1.732.000).

Il risultato del 2011 impone agli amministratori una riflessione più vasta dei rari commenti — sarà stato per i giorni di festa — che hanno accompagnato la pubblicazione dei dati statistici. Non è sufficiente la soddisfazione dell'assessore allo Sviluppo economico Cristina Tajani che, tra i numeri, nota il contributo degli immigrati, determinate per arrestare la decrescita verticale dei milanesi. L'assessore tocca un punto centrale, la presenza dei «nuovi cittadini» nella vita della metropoli. Ma ne lascia senza risposta un altro: perché Milano non attragga più italiani, anzi ne abbia fatti «scappare», negli anni, un grande numero (mezzo milione in meno dal 1971 ad oggi). Non è sufficiente nemmeno la preoccupazione dell'ex vicesindaco Riccardo De Corato che vede come sempre nella crescita degli stranieri (oggi sono il 14,2 per cento degli abitanti) una minaccia per la sicurezza e la coesione sociale.

I dati della città, così simbolicamente bloccati, interrogano la politica su campi più vasti e nuovi: nel 2021, quando si svolgerà il prossimo censimento, che città ci proponiamo di essere? Per quei tempi dovremmo aver finalmente finito di «misurare» Milano all'interno dei suoi confini comunali, ormai sempre più angusti. L'imminente città metropolitana, un'area da oltre 4 milioni di abitanti, conferirà ai temi (e alle soluzioni proposte) una dimensione, si spera, più innovativa. Mario Monti ha dedicato una parte del suo discorso di fine mandato al ruolo delle donne («una vera politica di pari opportunità genera un punto di Pil in più») e ai rari bambini («quel deficit di nascite che caratterizza il nostro Paese ha una serie di conseguenze economiche, sociali e psicologiche»). Ora, nelle politiche per la città dei prossimi dieci anni, quale posto troverà il dato del censimento che fa di Milano una metropoli nettamente femminile (quasi centomila donne in più degli uomini)? E quale peso avrà il fatto che la ripresa delle nascite — che la città aveva guidato con un piccolo boom ottimista nel 2007 — si sia ormai drasticamente arrestata sotto i colpi della crisi? Temi impegnativi, insomma, che meritano discussioni e visioni che vadano oltre il day by day che spesso ci prende.

Postilla
Su queste pagine del sito da molto tempo ci si chiede, a proposito di Milano ma ovviamente non solo, sino a che punto la politica riesca a cogliere il respiro di una sfida strategica per il futuro. Si è detto tante volte degli aspetti ambientali, climatici, energetici, di rapporto tra forme insediative e mobilità; tutte cose a cui troppo spesso si risponde a pezzi e bocconi, apparentemente lasciando al caso o a miracolistiche mani invisibili il compito di formulare una sintesi. Questo articolo, scritto da un giornalista attento ma certo non particolarmente specializzato, mette in luce un altro lato della medaglia, quello più squisitamente sociale, e immediatamente dopo economico: che città vogliamo? Quella del centrodestra si era più o meno esplicitata nei lustri, dalle prime sparate degli anni ’90 ai surreali metri cubi salvifici del garrulo assessore Masseroli, ammorbiditi (si fa per dire) dalle promesse di capitalismo compassionevole del social housing. Ad ascoltare le critiche, molto aspre ma a quanto pare assai motivate e documentate, proposte da questo sito a proposito del Piano di governo del territorio, le modifiche tecniche apportate sinora dalla nuova giunta lasciano tutto in sostanza allo stato precedente. E la questione di quale città vogliamo perfettamente inevasa (f.b.)

Un altro commento all’inconsistenza dell’agenda Monti per quanto riguarda la cultura (ma non solo). Esaltata nella retorica, svenduta nelle proposte e nei fatti. L’Unità, 28 dicembre 2012 (m.p.g.)

Dopo un ministro latitante, Lorenzo Ornaghi, il peggiore di una storia quarantennale,un'Agenda che assomiglia a un brodino di dado (vecchio) a fronte di un ministero per i Beni e le attività culturali vicino al collasso, all'immobilità e quindi all'impotenza contro speculatori, tombaroli, privatizzatori sciolti e a pacchetti, lottizzatori legali e abusivi, piazzisti di pale eoliche tanto inutili quanto devastanti (magari su vigneti e oliveti di pregio) e di distese di panelli fotovoltaici messe a tappezzare campi prima coltivati. Con tutto lo spettacolo dal vivo che boccheggia, riduce programmazione e spesso qualità, ricerca e avanguardia. Tutto qui lo sforzo del professor Monti e dei suoi collaboratori per un «motore» strategico come la cultura? Una paginetta palliduccia, con appena 14 righe dedicate ai beni culturali (retoricamente definito patrimonio «che non ha eguali al mondo») e le altre 17 al turismo. Che per l'Agenda sembra davvero l'unica ragione di conservazione di un complesso che vanta oltre 4.000 musei, 95.000 fra chiese e cappelle, 2.000 siti e aree archeologiche, 40.000 fra torri e castelli, migliaia di biblioteche antiche e di archivi plurisecolari, di palazzi civici ed ecclesiastici inseriti in oltre 20.000 centri storici dei quali almeno mille di una bellezza stordente, con 800 teatri storici e tanto altro ancora. Spesso ben restaurato in anni che parevano infelici e che ora ci sembrano persino felici, inserito in paesaggi mirabili, «fatti a mano» per secoli. Quella che Goethe, ammirato, chiamò, riprendendo Averroè, «una seconda natura» (la natura naturata) costruita da artisti, artigiani, artieri geniali e di gusto. Eppure il presidente della Repubblica Napolitano, agli Stati generali della cultura, aveva detto cose ben più forti e profonde esortando a desistere dai tagli e a darsi una politica perla cultura, perla ricerca, secondo l'art. 9 della Costituzione. Nell'Agenda Monti viene vantato l'avvio del progetto Pompei che - come ha giustamente rilevato Maria Pia Guermandi su Eddyburg- è tutto finanziato dalla Ue e dall'aprile scorso non ha mosso ancora un sol passo. Con quella Soprintendenza speciale di fatto commissariata.
Per i grandi musei statali la ricetta-Monti è la «partnership pubblico-privato», con lo Stato esangue che non ha euro da investire e chiede ai privati di sostituirlo cedendo loro, a quanto si può capire, la gestione e la regia tecnico-scientifica. Saremmo l'unico Paese sviluppato in cui i privati entrano nei musei statali non per dare soldi ma soprattutto per prenderne. «I privati dentro la gestione di un museo pubblico?», mi chiese stupito un importante storico dell'arte americano allorché Ornaghi lanciò la Grande Brera privatizzata. «Ma è come mettere la volpe nel pollaio...». E la storica dell'arte Jennifer Montagu, inglese, bollò l'operazione Brera (con l'Accademia di Belle Arti allontanata dal palazzo piermariniano) come «decisione vergognosa e disastrosa». Per contro l'ex ambasciatore Sergio Romano definiva «giacobini» i tanti intellettuali che - a partire da Catherine Loisel conservateur en chef del Louvre - si opponevano a quel progetto. Perché difensori del primato dell'interesse generale su quelli privati?
Cosi va l'Italia e ancor peggio andrebbe se dovesse prevalere l'idea che un patrimonio «che non ha eguali al mondo» (Monti dixit) fosse trattato come un «giacimento», una «macchina da soldi», e non come un valore strategico «in sé e per sé» (sia o no redditizio). Anche per il Pd c'è però un insegnamento. in questo mediocre capitoletto dell'Agenda Monti: ribalti il discorso e sulla cultura imposti un'orgogliosa strategia alternativa, ridia slancio e fiducia ai tanti operatori culturali (pubblici e privati) capaci, meritevoli, coraggiosi e però frustrati, preveda incentivi per i privati che vogliono essere sponsor e mecenati, restituisca entusiasmo ai milioni di italiani (e di stranieri) che amano il Belpaese, la sua arte, la sua musica, il suo teatro, le sue città, i suoi inarrivabili e minacciati paesaggi. Dica forte e chiaro che la Bellezza è un bene sociale che riguarda tutti.

zoning, e dei suoi limiti. Corriere della Sera Milano, 24 dicembre 2012, postilla (f.b.)

Saracinesche chiuse in via Bramante. Proprio qui dove, negli anni Novanta, arrivarono i primi grossisti cinesi, si registra qualche defezione. Chi conosce il quartiere è pronto a scommettere che «i commercianti hanno capito l'antifona». Tra due mesi, a fine febbraio, s'accenderanno le telecamere della «Ztl commerciale». In ritardo sulle tabelle di marcia, ma necessarie per garantire il rispetto degli orari di carico-scarico merci dalle 10 alle 12.30 e bloccare l'accesso all'isola pedonale di via Sarpi dalle laterali Montello, Procaccini, Canonica ed Elvezia.

Sono cambiati i toni, ma non i contenuti del dibattito in corso da anni in via Sarpi tra il nucleo storico di residenti e negozianti al dettaglio, che resiste alla trasformazione della via in una Gerrard Street londinese, e i grossisti anche italiani. «La multiculturalità in un quartiere che rimanga a vocazione residenziale è una ricchezza, non certo che qui rimangano solo i cinesi», dice Pier Franco Lionetto, presidente di ViviSarpi. «Le telecamere sono percepite anche dai nostri clienti come un problema. Non siamo pronti, non abbiamo i parcheggi e i servizi. Invece viviamo di riflesso il disagio del cantiere per il metro, al Monumentale», rimbalza Remo Vaccaro, dell'associazione di via Ales. Sono passati cinque anni dalla rivolta di Chinatown, quando per una multa in via Sarpi si scatenò il caos.

E c'è chi invita a non arrivare ad una nuova «guerra dei carrelli». «L'accensione delle telecamere è inevitabile, perché se ho un'area Ztl non posso scaricare il traffico determinato dalla presenza dei grossisti nelle aree limitrofe — dice il presidente di zona 1, Fabio Arrigoni —. Ma è urgente aprire un tavolo vero con i grossisti, perché bisogna trovare una soluzione e studiare anche se necessario incentivi». Il Pgt dice con chiarezza che l'attività di grossisti è «incompatibile con i nuclei di antica formazione». Ma «chi è già qui non può essere allontanato sventolando il Pgt». Ieri, nella domenica prenatalizia, via Sarpi era affollata: «Che questo quartiere non abbia una vocazione per l'ingrosso lo pensano anche molti cinesi — conclude Francesco Novetti, presidente di Sarpi doc, che raggruppa i dettaglianti —. Nessuno viene deportato, ma è giusto disincentivare i grossisti. Invece di dilazionare sull'accensione delle telecamere, si studi in fretta un piano di delocalizzazione».

Postilla
Forse è un gran bene, che qui ci sia lo zampino benevolo di una comunità economicamente (anche politicamente, si è scoperto) forte come quella dei grossisti di origine cinese, perché almeno si conferisce il giusto rilievo anche mediatico a una questione generale: che vogliamo farne delle nostre città, dal punto di vista del metodo? Il Grosso Guaio a Chinatown insieme a tante altre cose è stato ereditato dall’attuale amministrazione come strascico della trascuratezza precedente del centrodestra cronico milanese-lombardo. Il solito laissez faire che alla fine non lasciava faire nulla a nessuno, perché la pubblica amministrazione sta lì proprio a costruire equilibri, non a fare il sindacato delle cordate via via vincenti. Come accaduto col citato Pgt e la sua revisione, forse c’è o c’è ancora un profilo culturale troppo modesto di fronte a sfide di innovazione invece molto avanzate. C’è un quartiere cosiddetto mixed-use che pare un po’ troppo mixed per i gusti della media di chi ci abita o sta nelle vicinanze. Si tratta della vetusta faccenda che a cavallo fra XIX e XX secolo venne risolta con l’invenzione urbanistica delle zone omogenee, a tutelare qualità della vita e conseguenti valori immobiliari. Si è poi capito col tempo che però quelle zone dovevano essere non troppo omogenee, e mescolarsi armoniosamente nel tessuto urbano e metropolitano. Si è anche capito, col tempo, che l’urbanistica degli indici e norme tecniche doveva affiancarsi ad altre politiche urbane, e a volte (quasi sempre) a un ragionamento a dimensione metropolitana, come nel caso dello stretto intreccio fra questioni insediative e della mobilità. Guarda caso, fra le critiche più feroci alla politica urbanistica della nuova giunta c’è proprio la schizofrenia apparente fra trasporti e città. Speriamo che non debba intervenire ancora il consolato della Repubblica Popolare Cinese, stavolta a chiedere una variante al Pgt favorevole ad alcuni propri concittadini, manco fosse una versione postmoderna e globalizzata di Ligresti (f.b.)

C’è chi ancora lavora sul tema di fondo della questione urbana e scrive:«Bisognerebbe mettere da parte il lessico alla moda, come governance, stakeholder, spin-off, smart city, spending review, e tornare a parole semplici ma più profonde, come rendita, che riemerge dopo un lungo silenzio, ingegno, che è tipicamente italiano, e lavoro». Uno scritto del 15 dicembre 2012. Un regalo per i nostri lettori. In calce alcuni link utili

Relazione al convegno L’ economia delle città, Roma 15 dicembre 2012, organizzato daalla Fondazione Italianieuropei, dal Centro per la riforma dello Stato e dall’associazione Romano Viviani.

Il titolo di questo seminario – L'Economia delle città – non vuole indicare una branca dell’economia, ma allude al significato originario della parola economia. L'etimologia viene da oikonomia, cioè nomos contenuto in oikos, in una dimora, in uno spazio contenuto. Già nel mondo antico, tuttavia, nomos travolse oikos fino a un ribaltamento semantico della parola, che venne ad indicare l'opposto, cioè un ordine illimitato senza un luogo. Con San Paolo si fa un passo avanti del significato, come Piano Divino della Provvidenza, e va avanti fino alla secolarizzazione illuminista, diventando la mano invisibile del mercato. Ma soltanto oggi si compie lo sconfinamento totale con la finanziarizzazione mondiale. Non so se Giavazzi o Alesina sono consapevoli che la loro tecnica discende dalla teologia paolina; tra i tanti difetti del pensiero economico dominante c’è quello di non riflettere sul suo statuto epistemologico, pur pretendendo di dare lezione a tutti gli altri saperi.

Soprattutto noi italiani dovremmo prestare attenzione al significato originario di oikonomia, poiché le cose migliori le abbiamo fatte quando i produttori sono stati legati a un luogo, dai comuni alle signorie, sino ai tempi nostri. Anche il miracolo economico è stato grande crescita urbana, il triangolo industriale prima di tutto e poi l’invenzione dei distretti industriali ammirati nel mondo. Oggi sono insidiati dalla manifattura dei paesi emergenti, ma rimangono pur sempre un'invenzione nel territorio.

Questa peculiare forma di organizzazione produttiva ebbe il merito di trasformare l’antico gusto artigianale e la coesione sociale in fattori propulsivi della produzione industriale. Può dare ancora molto se sapremo difenderla e rinnovarla, ma certo non sarà più l'energia propulsiva dell’innovazione italiana. L’indebolimento di questo modello rende nudo il Paese di fronte alla sfida competitiva. E’ come se in Germania venisse a mancare il sistema renano, in Francia l’interventismo statale, in Gran Bretagna la forza finanziaria.

Ecco la svolta da compiere. Quello che siamo riusciti a fare di originale con i distretti industriali, dovremmo realizzarlo con la città come grande fabbrica postmoderna dell’innovazione. La vecchia industria aveva una certa indifferenza per il territorio; oggi invece la qualità dei luoghi diventa fattore decisivo per l’agglomerazione delle competenze. Nel distretto industriale la trasmissione delle competenze si realizzava in virtù dell’identità culturale e di legami sociali forti. Il lavoratore creativo, al contrario, ama le differenze, le relazioni aperte, i legami sociali deboli tipici dell’ambiente urbano.

All’inizio della Seconda Repubblica sembrò possibile questa transizione. Le speranze del dopo Tangentopoli nacquero dal Rinascimento di Napoli, Roma, Palermo, Torino, Genova, poi è calata la notte berlusconiana facendo sparire l’agenda urbana dal governo. Questo abbandono ha certamente aiutato la diminuzione della produttività totale dei fattori, che è il principale problema dell’economia italiana, perché l’innovazione si crea soprattutto nelle città. Sono state chiamate “riforme” tutte le leggi sullo sviluppo locale e sulle città, ma erano retorica federalista e ossessiva produzione normativa giunta ormai alla saturazione. Come si fa a gestire un’azienda di trasporti se per quindici anni in ogni legge finanziaria si fa una nuova norma sui servizi pubblici locali? La stessa cosa si può dire per la gestione dei bilanci o per il fisco locale, per le norme edilizie e gli appalti.

Si è discusso qui della necessità di nuove leggi, però bisognerebbe andarci cauti, perché sono di più quelle che dovremmo cancellare rispetto a quelle da approvare. Invece di emanare norme a raffica, bisognerebbe elaborare politiche nazionali, ovvero programmi complessi per le città, come si fa oggi in diversi paesi europei - in Francia, Germania, Olanda e Gran Bretagna – per raggiungere obiettivi concreti per la casa, i trasporti, l'organizzazione culturale e inclusione sociale. Anche da noi c’è bisogno di un impegno nuovo dello Stato nelle politiche urbane, una strategia per creare i capoluoghi dell'innovazione italiana.

Il riformismo urbano ha esaurito la spinta propulsiva degli anni Novanta. E certi difetti iniziali di quella stagione, ad esempio le politiche urbanistiche, alla lunga si sono aggravati. Oggi, certo, non mancano le iniziative di brillanti amministratori, ma l’agenda è la stessa di venti anni fa, con l’aggiunta delle politiche di sicurezza. Se finisce la Seconda Repubblica anche le sue politiche urbane andrebbero ripensate con un’altra impostazione, con un’altra cultura.

Il nuovo riformismo passa anche da una nuova terapia del linguaggio: bisognerebbe mettere da parte il lessico alla moda, come governance, stakeholder, spin-off, smart city, spending review. Questi termini anglofoni spesso coprono un vuoto di idee, dando l’impressione che si stiano dicendo cose nuove. Dovremmo tornare a parole semplici ma più profonde, come rendita, che riemerge dopo un lungo silenzio, ingegno, che è tipicamente italiano, e lavoro.

La prima di queste tre parole condiziona le altre, perché nei momenti migliori della storia nazionale la rendita ha avuto il significato positivo di patrimonio come bene ricevuto in eredità che ogni generazione deve accrescere per la fortuna delle generazioni successive, proprio tramite l’ingegno e il lavoro. Nei momenti di decadenza, invece, la rendita diventa appropriazione senza crescita che impedisce sia l’ingegno sia il lavoro: questa è la crisi italiana di oggi, la trappola della rendita.

Per uscirne dobbiamo ribaltare il paradosso che tante analisi hanno messo in evidenza. Il valore del capitale fisico delle città non è mai cresciuto così tanto, ma alla fine del ciclo immobiliare le città si ritrovano povere di infrastrutture e con i bilanci disastrati. Dove è andata a finire tutta questa ricchezza? Come si spiega questo paradosso tra ricchezza immobiliare e povertà urbana? I plusvalori sono stati acquisiti in gran parte dai proprietari senza alcun merito, non essendo determinati dai loro investimenti, ma da pure rendite di posizione. Nell’intreccio sempre più perverso di economia di carta e di mattone queste valorizzazioni immobiliari sono state succhiate dal tessuto urbano e collocate nel circuito finanziario globalizzato. Le banche che hanno gonfiato i valori nella fase dell'euforia adesso pagano la crisi come sofferenza nei propri assets e fanno mancare il credito alle imprese. Ieri hanno sostenuto troppo la rendita e di conseguenza oggi soffocano la ripresa produttiva.

I sindaci per sopperire ai deficit di infrastrutture e di bilanci hanno inventato la “zecca immobiliare”, cioè stampano carta moneta assegnando ulteriori diritti edificatori in cambio degli oneri di concessione. Ma lo scambio è ineguale, perché le infrastrutture necessarie per i nuovi quartieri costano molto di più degli oneri ricevuti e quindi aumentano il deficit e richiedono un nuovo intervento della zecca, in una spirale perversa e sempre più dannosa per l’interesse pubblico. Questa creazione di nuovi valori immobiliari prescinde dai criteri di adeguatezza, trasparenza e pianificazione, e viene legittimata solo dall'inconsapevolezza del dibattito pubblico circa le conseguenze fisiche ed economiche di tali decisioni.

La bolla immobiliare ha cambiato la geografia italiana espellendo i redditi bassi nell’hinterland e costruendo un enorme pulviscolo edilizio attorno alle grandi città italiane. Anche in questo caso, è rivelatore il linguaggio: noi le chiamiamo ancora con i nomi storici - Roma, Milano, Palermo, Napoli – ma oggi si riferiscono a oggetti geografici molto diversi, anzi a forme post-urbane. E' un triste primato aver realizzato nell'ultimo ventennio i casi più gravi di sprawl in Europa. Sull’area vasta, inoltre, il deficit strutturale è diventato ormai ancora più pesante a causa delle difficoltà di servire con adeguate opere pubbliche il rapido esodo di popolazione. Anzi la spesa pubblica ha aggravato il fenomeno finanziando soprattutto autostrade che favoriscono la dispersione urbanistica, producendo più traffico. E’ stata ignorata l’unica leva che poteva condensare il pulviscolo edilizio, almeno in parte, ovvero la ristrutturazione delle vecchie ferrovie regionali, come hanno fatto i francesi con la R.E.R. e i tedeschi con la S-Bahn. Per il nuovo governo di centrosinistra questo dovrebbe essere un programma prioritario. La realizzazione di una moderna rete ferroviaria regionale dovrebbe avere la stessa importanza che l’alta velocità ha avuto per trenta anni. Le risorse necessarie si possono trovare dalla rimodulazione dell’elenco delle opere nella Legge Obiettivo, la quale oggi quasi ignora le infrastrutture metropolitane su ferro.

L’insostenibile ascesa della rendita è la responsabile occulta di tanti problemi. Ad esempio, l'impoverimento del ceto medio dipende in gran parte dal boom immobiliare. Chi ha acquistato casa oggi si trova il doppio colpo dell’aumento del mutuo e dell’aumento dell’IMU. Trovare una casa in affitto significa spostarsi sempre più lontano dalla città e ai giovani precari spesso viene negata la casa in affitto perché non danno garanzie di uno stipendio fisso. Abbiamo chiesto ai giovani di adeguarsi alla flessibilità e in cambio hanno trovato un mercato delle locazioni sempre più rigido. Anche negli assetti politici e istituzionali si fanno sentire gli effetti perversi della rendita: la Città Metropolitana non è stata istituita perché avrebbe frenato la distribuzione di rendita che i piccoli comuni si sono trovati a gestire intorno alle grandi città. C’è una ragione strutturale che ha impedito quell’innovazione istituzionale.

Il peso degli interessi immobiliari, superiore rispetto a qualsiasi altro settore pubblico, ha in qualche modo distorto anche la vita dei partiti, assegnando il potere a notabili locali. Perfino i territori con tradizioni di buon governo sono stati influenzati dall’onda speculativa. I militanti di sinistra si sono trovati spesso di fronte al bivio se diventare come gli altri o essere irrilevanti nella scena politica. Ma forse il danno più grave è nel modello di sviluppo parassitario, perché i plusvalori della rendita sono di gran lunga superiori rispetto a quelli dei normali profitti industriali, senza neanche la difficoltà di organizzare un ciclo produttivo. L’acqua va dove trova la strada e le risorse disponibili sono attratte dagli usi speculativi a discapito degli usi produttivi.

Non bisogna, tuttavia, criminalizzare la rendita: è pur sempre l’espressione del valore di una città. A produrre l’effetto negativo è la cattiva ripartizione a favore dei proprietari, fenomeno tipicamente italiano, senza analogie in Europa. Se invece una quota consistente e adeguata tornasse al pubblico come investimento infrastrutturale, secondo la pianificazione comunale, la città diventerebbe più bella e quindi aumenterebbe la sua rendita. Da questo circuito virtuoso verrebbero vantaggi sia per la vita pubblica sia per le opportunità private.

Si tratta quindi di scrivere nuove regole della trasformazione urbana a favore della vita collettiva. In tale contesto si deve spingere l'imprenditoria ad abbandonare le pratiche speculative per dedicarsi solo alle innovazioni produttive. La crisi del ciclo rende necessario il ripensamento del modo di produzione dell’edilizia in Italia e non si può solo attendere, come pensa di fare l'establishment, che la crisi passi per ricominciare come prima.

L’urbanistica contrattata non ce la poteva fare a reggere questa potenza di fuoco dell’immobiliare alleato con la finanza. Non solo per la debolezza della politica, ma anche per la crisi delle strutture pubbliche, sempre più impoverite di risorse e di professionalità. Era come andare in guerra con la pistola ad acqua. Il controllo della qualità tecnica è stato sostituito dalle procedure sempre più pesanti fino alla paralisi burocratica, mentre bisognerebbe fare esattamente l’opposto: alleggerire le procedure e restituire la regolazione a tecno-strutture pubbliche di prestigio e di alta professionalità. La rendita si governa con il sapere della rendita. La conoscenza pubblica del fenomeno è essenziale. Ci vogliono agenzie pubbliche che conoscano il mercato immobiliare meglio dei privati, che sappiano condizionarlo con la leva fiscale, con la programmazione e soprattutto facendo sapere ai cittadini come si alloca la ricchezza. Tra le migliori realizzazioni della Provincia di Roma c’è l’Osservatorio della rendita immobiliare, uno strumento molto efficace che fornisce dati precisi, molto utili per il fisco, per gli oneri concessori, per la pianificazione urbanistica.

Per trasformare la città ci vuole anche l’ingegno sociale, non solo individuale o tecnico, come qualità dell’organizzazione civile. Da quando siamo entrati nella civiltà della conoscenza costruiamo città più brutte di prima. Il paradosso lo vedranno meglio gli storici del futuro che saranno stupiti dalla nostra generazione e diranno: crearono l’intelligenza di internet ma costruirono orribili pulviscoli edilizi intorno alle loro belle città.

La modernità novecentesca ha forse esagerato nella pretesa di razionalità. E’ stata l’età dell’urbanistica razionale. La post-modernità, invece, ha esagerato nel senso opposto con l’apologia della frantumazione, limitandosi a sovrapporre l’eclettismo delle archistar. Guardiamo al nord est, ad esempio, che ha un tessuto produttivo molto legato al territorio, alla sua storia e al suo artigianato, ma dimostra di non curarlo affatto e anzi lo dilapida con un sciaguratissimo sprawl. Quando penso alla periferia romana - a questo territorio strappato dal traino dei due cavalli imbizzarriti, quello dell’edilizia troppo pianificata e quello dell’edilizia troppo abusiva - mi chiedo se in futuro ci serviranno ancora i vecchi arnesi della cassetta degli attrezzi o si dovranno invece inventare nuovi strumenti. La città dovrebbe essere un grande laboratorio di ricerca per sperimentare progetti, regole di qualità, pratiche di condivisione con i cittadini.

Prima il sapere della trasformazione era garantito da intellettuali organici - ce ne sono stati di grande valore tra gli urbanisti - poi sono venuti i tecnici di staff - già un po’ meno liberi - e alla fine tecnica e politica si sono separate nella reciproca indifferenza; l’attuale governo tecnico è l'esito emblematico di questo processo. Invece bisogna ricostruire una relazione profonda tra tecnica e politica. Alcuni elementi aiuterebbero, ad esempio: la qualità ed il prestigio dei tecnici che operano nelle strutture pubbliche, ma anche la libera ricerca universitaria impegnata organicamente sul laboratorio urbano, fuori dalle ristrettezze e dalle angustie dell’incarico professionale. E poi équipes di giovani ricercatori, architetti, economisti, archeologi, sociologi, disseminati nei quartieri a studiare a progettare a comunicare.

L’innovazione è un vettore composto da due direzioni: il salto cognitivo e la qualità della cittadinanza e c’è bisogno soprattutto di questa innovazione sociale quando si trasforma la città esistente. Per l’espansione sarebbe ancora sufficiente la vecchia cultura della pianificazione. Oggi la città va ripensata, si tratta di inventare funzioni nuove e luoghi profondamente segnati dai vecchi usi. E' quasi un gioco gestaltico che ci aiuta a vedere le cose in modo totalmente diverso, come immaginare un giardino pensile su un’autostrada urbana dismessa. Quest’invenzione funzionale, però, oggi è frenata dalla rigidità dell’offerta e procede a ondate, prima tutte case, poi tutti uffici, poi tutti ipermercati, adesso di nuovo case e si ricomincia. Bisognerebbe invece diversificare la domanda di funzioni utilizzando le competenze, la concertazione, i concorsi di idee, la promozione internazionale. La capacità di reinventare i luoghi e la biodiversità delle funzioni sono oggi i caratteri che fanno ricca la città. La vera identità urbana non è mai rivolta al passato, ma consiste proprio nello scoprire questi caratteri latenti della trasformazione urbana.

Infine, l’ingegno deve essere applicato all’organizzazione della vita collettiva. E’ incredibile il ritardo delle nostre città, siamo pieni di diavolerie tecnologiche a casa e in ufficio, ma nello spazio pubblico prevalgono sistemi obsoleti. Continuiamo a muoverci nel traffico come talpe in base a quello che abbiamo di fronte, mentre se conoscessimo in tempo reale che cosa succede in città si abbasserebbero i flussi di traffico. La città è anche un’enorme banca di dati che dovrebbero essere accessibili come i suoi luoghi. Si tratta di una conoscenza non solo utilizzata ma anche alimentata dai cittadini: è bastato che prendesse piede quel gioco in internet sulle vecchie foto di famiglia per ottenere un grande archivio di immagini sulla trasformazione urbana. Nei prossimi anni sarà decisivo questo software urbano - l'insieme di codici, di servizi, di modi d’uso dello spazio - e non è solo una sfida per i governi municipali, ma implica anche un salto cognitivo dell’ingegno sociale. Questo è possibile solo se i giovani entrano nel mondo del lavoro, nell’amministrazione pubblica, nella politica.

L’economia urbana può creare lavoro migliorando l’organizzazione della vita in città. Perché questo non rimanga una pia intenzione occorre una revisione critica delle politiche che abbiamo alle spalle. Ogni sindaco in questi venti anni ha raccontato una propria storia di sviluppo dalla new economy alla classe creativa e al marketing urbano, ma in realtà le città hanno partecipato al declino della produttività del Paese, spesso offrendo un rifugio alle imprese che si ritiravano dalla competizione internazionale non solo attraverso l’immobiliare ma anche con le pessime privatizzazioni nelle utilities che hanno rafforzato i monopoli nei telefoni, nell’energia, negli aeroporti. Sotto la retorica della competizione tra le città si è consumata in realtà una perdita di produttività.

Sul lato del consumo, invece, c’è stata la vera innovazione urbana di questi anni, non solo nella morfologia, con gli ipermercati, ma anche negli stili di vita con la gentrification dei quartieri industriali e soprattutto con le iniziative culturali. Proprio da questa innovazione dei consumi è scaturita quell’immagine suadente di diverse città che è stata poi raccontata dai sindaci come innovazione produttiva, in omaggio alla retorica del tempo.

Ora la crisi svela l’equivoco e da un lato mette a nudo la debolezza dei sistemi produttivi urbani e dall’altro rallenta i consumi. Cade quindi l’illusione di creare ricchezza pattinando sull’onda della globalizzazione e dopo cinque anni di crisi mondiale siamo ormai nella fase della Grande Contrazione. Il circuito produzione-consumo, che prima era fortemente esogeno, oggi deve diventare un po' più endogeno, la “via sussidiaria” di cui parla Giulio Sapelli. Non basta più affidarsi alle reti lunghe, ma occorre creare anche occasioni per una relazione stretta tra produzione e consumo all’interno della città, migliorando i servizi della città. L’agenda delle cose da fare su questo è stata già scritta (la mobilità sostenibile, il recupero urbanistico, la riconversione ecologica degli edifici, il ciclo dei rifiuti, l’agricoltura periurbana di qualità, come anche la comunicazione digitale, la cura della persona, la scuola e l’educazione), e si dovrebbe passare a progetti più operativi.

Se questo non è un libro dei sogni implica un ribaltamento della logica dei beni pubblici seguita nel ventennio, ad esempio, i demani e le utilities. Nel vecchio paradigma esogeno questi beni dovevano essere venduti per rafforzare la concorrenza ed è stato l’obiettivo dominante con risultati modesti o controversi. Gli amministratori per venti anni si sono concentrati sugli assetti proprietari delle aziende e molto poco sulla qualità dei servizi, sui contenuti dei servizi. Nel nuovo paradigma endogeno questi beni dovrebbero essere utilizzati proprio come nuove opportunità sia nella produzione che nel consumo. Invece di svendere una caserma a prezzi stracciati forse sarebbe meglio arricchire la città utilizzandola per case in affitto per i giovani, per atelier delle imprese innovative e per strutture del nuovo welfare. La green economy non è una retorica ma una politica industriale. Bisognerebbe partire dal rafforzamento delle aziende che da sempre si occupano di acqua, energia e trasporti. Di certo andrebbero rivoltate come un guanto, eliminando le inefficienze, ma si dovrebbe partire da quelle strutture per farne dei soggetti promotori di politiche di risparmio energetico e per la mobilità sostenibile.

Anche nel settore privato bisognerebbe aiutare la crescita di nuovi gestori di questi servizi di interesse urbano e infine incentivare tutte quelle imprese che nei vari settori mostrano una nuova sensibilità alla cura del territorio, partendo dalle buone pratiche esposte alla recente biennale di Venezia.

Il balzo in avanti più difficile riguarda certamente la classe politica. Conosco tanti bravissimi amministratori locali e mi aspetto che si affermi una nuova generazione che sappia fare meglio di noi, che sappia correggere i nostri errori, che sappia scrivere una nuova agenda di riformismo urbano per i prossimi anni. Ce lo auguriamo per l’Italia, perché soltanto dalle città può ripartire una nuova fase di prosperità per il Paese, altrimenti non ci rimane altro che la retorica inconcludente della crescita che ci propone l’establishment economico. La crescita dei convegni di Davos che non arriva mai perché vorrebbe uscire dalla crisi applicando con maggiore determinazione proprio le ricette che hanno determinato la crisi.

Lo sviluppo non verrà dai tagli alla cieca, come quelli di prima, solo che adesso li chiamiamo spending rewiew. Da tanti anni si procede a sciabolate sui bilanci regionali e comunali, ma la spesa pubblica non è mai diminuita, si è solo diffuso un disordine nelle amministrazioni locali. C’è pericolo che i tagli diventino mentali, nel senso che a furia di cancellare si perda anche la voglia di immaginare nuove politiche.

Da più parti si invocano decisioni urgenti e severe ma vedo poca riflessione su che cosa significa “decidere”. Si dice anche che dobbiamo fare i compiti a casa e significa sostanzialmente che dobbiamo imparare il tedesco, che è una lingua concettuale. I tedeschi, infatti, per dire “decisione” dispongono di due parole: la prima Entscheidung, nel suono richiama il sibilo di una spada che taglia; la seconda. Entschlossenheit, sia nel significato sia nel tono indica il fruscio di un velo che cade. Quest'ultima è una decisione che fa venire alla luce una risorsa originaria troppo a lungo dimenticata, una decisione generativa di nuova vita a partire da un’eredità ricevuta. E’ la politica della città. La macroeconomia propone ormai solo decisioni che tagliano. L’economia urbana è il campo di questa decisione generativa. Per uscire dalla crisi l’Italia deve giocare la carta nascosta delle sue città.

Il fondamentale saggio di Walter Tocci sulla rendita urbana oggi, dell'agosto 2008, è in archivio.eddyburg.it, e precisamente qui.

». Scritto per eddyburg.it

Il nuovo Piano di governo del territorio di Milano è vigente. Il sindaco Pisapia e la sua giunta l’avevano sottoposto al Consiglio comunale, che l’ha approvato con un solo voto contrario, nel mese di maggio del 2012 ed ora è ufficialmente pubblicato e accessibile sul sito web del Comune. Il piano è il risultato di nuove controdeduzioni alle migliaia di osservazioni presentate dai cittadini al piano adottato nel 2010 dalla giunta Moratti. Il piano adottato era caratterizzato da intenti di estrema concentrazione insediativa e densificazione della città, dalla mancanza di ogni inquadramento territoriale rispetto all’area metropolitana e di qualsiasi indicazione sulle strategie competitive per la città - a parte quelle fondate sullo stimolo allo sviluppo edilizio -, da progetti di notevole intensificazione infrastrutturale sia su ferro che su gomma, strettamente limitati al territorio del capoluogo, dall’introduzione della cosiddetta perequazione urbanistica in forma tale da consentire il trasferimento dei diritti volumetrici generati da qualsiasi terreno verso qualsiasi altro punto della città, e infine dall’azzeramento convenzionale della superficie lorda di pavimento di tutti i servizi pubblici e privati, che sarebbero così tutti diventati generatori di nuovi ingenti diritti volumetrici.

Il Piano è, nel suo impianto sia analitico che progettuale, sostanzialmente sovrapponibile a quello adottato dalla precedente giunta Moratti, salvo alcune modifiche puntuali che possono essere così sintetizzate. Viene ridotto l’indice unico di edificabilità e vengono ridotte le quantità edilizie previste in alcune aree di trasformazione, mentre per altre, come gli scali ferroviari le decisioni vengono rinviate ai futuri accordi di programma. Le aree periurbane del parco sud, che prima generavano diritti volumetrici trasferibili per le porzioni che sarebbero state considerate non agricole, verranno definite nelle loro vocazioni e destinazioni (e dunque anche nella loro capacità di generare diritti edificatori) dai successivi Piani di cintura urbana elaborati su iniziativa del Parco, oggi presieduto dal presidente della Provincia (1). Sono state apportate anche altre modifiche alla normativa, di portata meno generale, che in questa sede, per brevità, si evita di descrivere analiticamente ed è infine stata cancellata qualche previsione viabilistica, come ad esempio il tunnel autostradale per Linate.

Dato il carattere puntuale, benché non irrilevante, delle modifiche apportate, è evidente che il Piano mantiene i difetti di fondo della versione originaria. In primo luogo resta privo sia della individuazione di efficaci strategie competitive per Milano, sia di qualsiasi respiro di dimensione metropolitana. Il piano Masseroli Moratti, come si è già accennato, ignorando completamente il tema delle strategie competitive nel campo dell’efficienza dell’ organizzazione territoriale, delle infrastrutture, dei servizi e della produzione, affidava il futuro di Milano alla espansione edilizia, facilitata con ogni mezzo, e sostenuta da un mirabolante programma di nuove linee di trasporto strettamente urbane. Una scelta dunque di densificazione della città fine a sé stessa, ed inevitabilmente in conflitto con gli interessi dell’hinterland. La strategia sembrava essere dunque quella di cavalcare la crisi, scaricandola da un lato sull’hinterland, e dall’altro sulla qualità della vita urbana.

Il piano della nuova giunta non sostituisce questa strategia con una diversa. Nessuna scelta chiara sulle principali grandi infrastrutture, a partire dall’aeroporto, nessuna analisi e nessun progetto specifico sui settori dell’economia, sia nel campo dei servizi che in quello della produzione, capaci di restituire qualche dinamicità all’economia milanese, e conferma, sia pure soggetta a verifica nel piano di settore, dell’ambizioso ed irrealistico piano di nuove linee urbane su ferro. Certo i volumi vengono un po’ ridotti, ma comunque ve ne saranno in abbondanza per decenni, vista la recessione in atto e la massa dell’invenduto e dell’inutilizzato.

Il piano urbanistico di Milano è dunque ridotto ai suoi minimi termini di puro strumento di gestione dei diritti edificatori. Ed è proprio in questo campo che continua a mostrare grandi difetti. In primo luogo quello della generale trasferibilità di tutti i diritti edificatori sull’intero territorio comunale: il che non potrà non determinare processi di notevole densificazione delle più appetibili aree centrali, già oggi molto congestionate e afflitte da cattiva qualità ambientale, dove tutti tenteranno di trasferire e realizzare i propri diritti volumetrici, ovunque originati. In secondo luogo grazie alla bizzarrissima norma che azzera il computo della superficie lorda di pavimento per tutti i nuovi servizi, pubblici e privati, definiti con estrema larghezza (dalla discoteca alla borsa valori, dalle fiere ai centri congressi, dai mercati rionali ai negozi di vicinato, dalle università alle cliniche, eccetera, eccetera) (2). Tali insediamenti, potranno perciò essere localizzati dovunque senza vincoli planivolumetrici e dunque con qualunque densità insediativa, pur essendo, di solito, i più potenti attrattori di traffico che si possano immaginare. Non dovrebbe sfuggire a nessuno, e tanto meno a dei giuristi, la totale illogicità di una simile impostazione. Non dovrebbe nemmeno sfuggire il rischio che tutti i gestori di servizi non strettamente pubblici (dal Policlinico al Politecnico, tanto per esemplificare con due nomi assonanti scelti a caso) siano indotti ad inventarsi necessità di trasferimento, per trasformare le rispettive attuali volumetrie ( anche fisicamente ricostruibili ) in residenza, uffici privati e commercio in modo da sfruttare poi la bizzarra ed inaudita norma sulla illimitata gratuità urbanistica delle nuove slp a servizi. Un piano sensato avrebbe dovuto spingere i gestori di grandi servizi a concentrarsi sulla propria missione, invece di offrire loro la scappatoia drogata del passaggio al mattone.

Il piano continua a distribuire edificabilità sulle grandi aree pubbliche in dismissione in misura rilevante, anche se un po’ ridotta rispetto a quello adottato e facendo slittare la definizione della parte più grossa, quella degli scali ferroviari, alla procedura separata dell’accordo di programma con le Ferrovie. La grande potenziale penetrazione di verde della Piazza d’armi viene così dimezzata, quella ancor più grande di Bovisa Farini Lugano è addirittura ridotta ad un quarto, soprattutto a causa della massiccia edificazione di Bovisa. Lo scalo di porta Romana lascerà al verde solo il 40%, e quello di porta Genova il 30% (3). Milano si gioca così, del tutto inutilmente vista la crisi del mercato immobiliare, la possibilità di usare in futuro le ultimissime aree non edificate per dotarsi di grandi parchi urbani e di penetrazione e connessione con le aree verdi esterne alla città.

La parte di pianificazione relativa ai servizi, benché pomposamente enucleata come un piano a sé, il Piano dei servizi appunto, è priva di ogni contenuto progettuale, che dunque verrà esercitato nelle forme oscure delle decisioni settoriali dei singoli assessorati e di centinaia di soggetti pubblici, semipubblici o privati, liberi ciascuno di muoversi a proprio piacimento, naturalmente anche alla luce dell’illogica normativa che azzera il computo della superficie lorda di pavimento (slp) di qualsiasi nuovo intervento. L’edilizia sociale, oltre ad essere caratterizzata da gradi di socialità indeterminati, è affidata alla buona volontà degli operatori. Sul versante dei parcheggi, la totale libertà di scelta del mix funzionale degli interventi e la “gratuità” della slp a servizi, potrà provocare gravi fenomeni di congestione.

La pianificazione delle tutele del patrimonio storico ed ambientale della città, genericissima ed inefficace nel piano adottato, tale è rimasta nel piano approvato, senza alcuna apprezzabile variazione (4). La parte computazionale del piano è approssimativa, inverificabile e in definitiva viziata d’errore. La relazione dichiara una capacità insediativa aggiuntiva di 182.873 abitanti teorici, senza curarsi di precisare le modalità di calcolo, il che è di per sé insolito. In mancanza di dati dichiarati, e dunque induttivamente, sembra di poter arguire che essa sia stata ottenuta attribuendo ad ogni abitante insediabile un volume pari a circa 300 metri cubi convenzionali (5), corrispondenti di fatto, grazie ai generosissimi sconti applicati alla definizione della Superficie lorda di pavimento, alla bellezza di oltre 700 metri cubi vuoto per pieno a testa (6): più di sette volte tanto rispetto ai parametri della legislazione nazionale, disapplicata in Lombardia grazie alle leggi di Formigoni e Boni.

Presumibilmente il clamoroso sconto nel computo degli abitanti teorici cela l’ipotesi di destinazione di una parte delle volumetrie ad usi terziari, certo più che plausibile, ma non dichiarata nella computazione. Come se non bastasse, nel calcolo vengono dimenticati tutti i cantieri aperti e i volumi esistenti inutilizzati, e soprattutto viene sbadatamente dimenticato il possibile enorme aumento di capacità insediativa dovuto al riuso per funzioni urbane dei servizi esistenti, stimolati al trasferimento dalla già citata norma che azzera il peso insediativo dei nuovi insediamenti. In conclusione non è azzardato affermare che i veri abitanti teorici sono un grande multiplo intero del valore dichiarato: qualcosa come il triplo del dichiarato: non 182.873 ma almeno 500 - 600.000 abitanti (7), il che purtroppo ci riporta assai vicini alle quantità – obbiettivo dichiarate dalla giunta precedente. Sono quantità del tutto incompatibili con la realtà modesta di Milano demograficamente statica da decenni, foriere di un doppio risultato negativo: sviluppo lento ma ciononostante di cattiva qualità. Il cavallo non beve e dunque invece che dieci ci vorranno cinquant’anni e forse più a realizzare il piano, ma grazie alla imputrescibilità dei diritti immobiliari acquisiti Milano per molti decenni si godrà, oltre al piacere della stagnazione, anche quello dello sviluppo edilizio densificato. Un colmo di irrazionalità in cui ci si è volontariamente cacciati.

La parte normativa presenta altrettante criticità. Senza volere entrare in questa sede nell’estremo dettaglio ci si limita ad osservare come alcune delle definizioni più delicate perché foriere di conseguenze radicalmente divergenti in termini di diritti volumetrici come, a titolo di esempi non esaustivi, la definizione e gli ambiti di applicazione degli indici fondiari e di quelli territoriali e le modalità di verifica della saturazione degli indici esistenti (8), o la definizione dei servizi su area pubblica (9), appaiono incertissime e dunque foriere di un enorme lasco interpretativo, lasciato all’umore interpretativo di questa o quella struttura del Comune o, peggio, al contenzioso giudiziario. Non sembra ci fosse bisogno di aggiungere ulteriori incertezze al già confusissimo mondo del diritto urbanistico italiano e soprattutto lombardo.

Il piano è divenuto definitivo attraverso procedure quanto meno discutibili. Non solo i cittadini, ma nemmeno i consiglieri comunali, hanno avuto a disposizione le tavole modificate, che sono state rese note solo dopo l’entrata in vigore del piano; la votazione delle controdeduzioni è avvenuta per grandi gruppi di osservazioni, senza permettere al consiglio una valutazione dei singoli aspetti, inclusi quelli più rilevanti. Nonostante tutto questo, il clima in cui è avvenuta l’approvazione è stato di allineamento di tutte le forze politiche del centro sinistra - ed oltre sul lato cosiddetto sinistro - e di astensione dal voto, parsa più che benevola, da quelle del centro destra. Solo voto contrario quello del rappresentante Cinque stelle. La Facoltà di architettura del Campus Leonardo ha organizzato due incontri a carattere celebrativo.

Tutto questo non cancella la sostanza culturale di ciò che è avvenuto e il contrasto tra il risultato conseguito e le speranze politiche generate dalla campagna elettorale di Pisapia, alla quale chi scrive ha, assieme a tanti altri, partecipato con entusiasmo. Al Sindaco è forse allora lecito chiedere quali prossimi passi vorrà compiere per ridurre i danni prodotti dall’affrettatissima approvazione del piano, decisa per ottemperare puntigliosamente alla scadenza temporale indicata da una delle grida dell’ormai ex presidente della Regione. Il precipitoso sboom immobiliare e la creazione della città metropolitana ci stanno dando l’occasione e in anzi dovrebbero imporci la necessità di rivedere profondamente le scelte del nuovo, vecchio PGT, d’altronde sempre modificabile per legge. Il sistema politico milanese, rinnovato nelle persone ma forse non nella struttura profonda, saprà e soprattutto vorrà finalmente utilizzare questa duplice grande occasione?

Altri articoli sull'argomento sono stati scritti nei giorni scorsi su eddyburg.it nell'articolo di Maria Cristina Gibelli e nell'eddytoriale 155. Altri più antichi sull'urbanistica milanese e sul PGT della giunta Moratti li trovate in archivio.eddyburg.it, e precisamente in questa cartella.

NOTE

(1) Documento di piano, Norme di attuazione, art. 4, comma 3, pag. 309

(2) Norme di attuazione del Piano delle regole, articolo 4, comma 6, lettera m., pag. 12, Norme di attuazione del Piano dei servizi, art. 4, comma 7, pag.10 e Relazione generale e catalogo dell’offerta dei servizi pagg 154-161.

(3) Documento di piano, Allegato 3, Schede di indirizzo per l’assetto del territorio e tabella dati quantitativi.

(4) Il carattere labile delle tutele relative al patrimonio edilizio esistente nei Naf (Nuclei di antica formazione) risulta chiaro dalla lettura dell’art 13 delle Norme di attuazione del Piano delle regole, pag 24.

(5) La valutazione è ricavata dal confronto aritmetico tra i dati esposti nella Relazione del documento di piano, pag. 272 e quelli contenuti nella Tabella dati quantitativi, contenuta nel già citato allegato 3 del Documento di piano.

(6) Il dato è desunto dai dati ufficiali pubblicati dal comune di Milano sul periodico “Milano statistica”, che consente il confronto tra volumi vuoto per pieno e superfici di pavimento nei permessi di costruire rilasciati, divisi per tipologie funzionali.

(7) Poiché il piano non fornisce alcuna quantificazione né dell’inutilizzato, nè dei servizi non pubblici che possono generare ingenti diritti edificatori, chi scrive è stato costretto ad usare propri data base per pervenire ad quantificazione, sia pure di larga massima.

(8) Si veda, come esempio di notevole indefinitezza, quanto prescritto dall’art. 4, comma 16, pag.13 delle Norme di attuazione del Piano delle regole.

(9) Giuristi consultati affermano che poche definizioni sono così scivolose come quella di servizi localizzati su aree “pubbliche” per discernere tra quelle che generano o meno diritti edificatori. L’area di un’azienda ospedaliera è pubblica?

Corriere della Sera, 20 dicembre 2012 (f.b.)

Le banche creditrici del fallimento delle società di Salvatore Ligresti, Im.co e Sinergia, fanno pressing per la realizzazione del Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata che deve sorgere nel Parco Sud. L'opera è in progetto su terreni già di proprietà di Ligresti. Così l'ambizioso progetto della cittadella della scienza, che l'oncologo Umberto Veronesi aveva annunciato nella seconda metà del 2003, diventa uno degli asset strategici più importanti per gli istituti bancari per recuperare i soldi (la ristrutturazione del debito dovrebbe seguire la strada del concordato fallimentare, quindi con il consenso del Tribunale).

È quanto emerge da documenti riservati, inviati di recente al collegio dei curatori fallimentari. «Si invita cortesemente il collegio dei curatori — scrive Unicredit — a volere rappresentare alla prossima riunione l'interesse delle banche creditrici a proseguire l'iniziativa». Complessivamente in gioco ci sono quasi 330 milioni di euro. È la cifra che gli istituti di credito devono riavere in seguito al fallimento di Ligresti: la più esposta è proprio Unicredit (con il 57,5%), le altre sono la Banca Popolare di Milano, il Banco Popolare, la General Electric, il Monte dei Paschi di Siena, la Banca Sai e la Banca Popolare di Sondrio. La questione nasce anche perché Salvatore Ligresti era riuscito ad avere prestiti importanti ipotecando per 120 milioni proprio l'area su cui dovrebbe sorgere il Cerba.

La realizzazione del progetto, però, al momento non è per nulla scontata. Una riunione fondamentale a tal proposito è fissata per domani: parteciperanno Regione Lombardia, Provincia, Comune di Milano, Parco Sud e Fondazione Cerba (i cui soci sono Enpam, Banca Intesa, Unicredit, Banca Popolare di Milano, Allianz, Generali, Unipol-Fonsai, Rcs, Pirelli). Il pallino è in mano al Comune, che deve decidere se bloccare la convenzione (alla luce della scadenza dei termini entro i quali il progetto avrebbe dovuto partire) oppure se concedere altro tempo. È una decisione delicata: da un lato c'è la realizzazione di un progetto scientifico di rilevanza internazionale, dall'altro il timore di possibili speculazioni immobiliari sul Parco Sud. E la preoccupazione di Palazzo Marino appare tutta concentrata proprio su questo secondo aspetto. In caso di un via libera del Comune, l'idea delle banche è di conferire l'area del Cerba a un fondo immobiliare gestito da Hines Italia di Manfredi Catella.

Nota
E' certamente inelegante ricordarlo e ribadirlo, ma sin dal primo momento L'avevamo detto (f.b.)

La sinistra pare proprio aver perso la sua identità quando si tratta di ripensare la città e l’urbanistica.
Fra le tante componenti che la crisi delle ideologie ha ridotto in pezzi che non riescono a ricomporsi, vi è sicuramente l'idea di città, o almeno una sua declinazione davvero progressista, orientata al bene comune.
Da Milano, dal suo ‘nuovo’ Piano di Governo del Territorio, ci aspettavamo una decisa presa di distanza dal modello neoliberista e mercatistico che ha dominato nelle politiche urbanistiche lombarde: un modello che, dall’inizio degli anni ’90 in poi, ha progressivamente smantellato il sistema di pianificazione, nel silenzio, quando non con l’esplicito sostegno, di una parte della cultura tecnica e politica. Ci aspettavamo maggiore creatività e coraggio e, soprattutto, risposte innovative alle speranze e alle attese dei cittadini che avevano votato per il cambiamento.

Così non è stato.
A Milano, con il ‘nuovo’ PGT, si sta toccando con mano questa perdita di identità della sinistra.
Come noto, il PGT, adottato dalla Giunta Moratti nel 2010 ma non ancora divenuto efficace allo scadere del mandato, era un piano meramente al servizio del mattone: prometteva infatti espansioni edilizie tali da poter accogliere in prospettiva 257.946 nuovi abitanti (sugli attuali 1,3 milioni). Ma analisi attente delle previsioni di sviluppo urbanistico-edilizio avevano evidenziato un ben maggiore sovradimensionamento delle opportunità edificatorie: per oltre 600.000 nuovi abitanti!

Fra i primi atti del nuovo governo municipale retto da Pisapia in materia urbanistica vi fu una decisione apparentemente coraggiosa: si decise di revocare la delibera di approvazione del Piano di Governo del Territorio, ripartendo dal riesame delle osservazioni che erano state respinte in blocco dal governo precedente. Un preludio necessario, pensavamo, per ricostituire un sistema di garanzie, trasparenza e pubblicità; preliminare, pensavamo, a una profonda e radicale revisione del Piano. Ma il Piano non è stato cambiato in maniera sostanziale e si è persa una grande occasione: di provare a ripensare alle politiche urbanistiche milanesi in una dimensione davvero metropolitana e con una visione di respiro europeo.
Il riesame delle osservazioni non è infatti servito, come era possibile e legittimo, per riaprire la ‘questione urbana’ milanese, ma per dare un segnale di solo apparente discontinuità e per completare al più presto i lavori garantendosi una ossequienza formale alla tempistica prescritta dalla legge 12/2005; in pratica per non rischiare le procedure commissariali.

Ci chiediamo: perché, di fronte a sfide così rilevanti e troppo a lungo trascurate, si è scelta la strada del minor rischio? Non sarebbe stato più lungimirante, e un vero segnale di cambiamento, cestinare il Piano Moratti/Masseroli e dare forma a una nuova visione strategica per l’intera area metropolitana milanese, anche a costo di incorrere nelle sanzioni di legge per le amministrazioni inadempienti (una situazione in cui si trovano oggi del resto molti altri comuni lombardi)? Oltre tutto, in una fase di crisi manifesta del settore edilizio/immobiliare; con la prospettiva, sia pure incerta, di imminente istituzione delle Città Metropolitane e con l’accumularsi di scandali che hanno totalmente delegittimato il governo regionale?
Si è invece preferito produrre un piano soltanto blandamente modificato del quale non condividiamo né il metodo né il merito.
Approvato il 22 maggio 2012 in tutta fretta dal Consiglio Comunale un documento ancora in bozza, in cui venivano segnalate con i diversi colori le modifiche apportate al Piano Masseroli – peraltro difficilmente comprensibili ai non addetti ai lavori - e senza tavole allegate (!), il Piano è stato pubblicato in versione completa sul BURL il 21 novembre 2012. Ma solo contestualmente alla pubblicazione, il PGT integrale è stato messo in rete, consentendoci finalmente di conoscerne i contenuti, di fatto sottraendo alla civitas il diritto alla informazione e al dibattito critico.

Dunque, è in primo luogo il metodo con cui si è arrivati alla pubblicazione del Piano a suscitare sconcerto: una frettolosa discussione in Consiglio Comunale su Bozze di Piano ‘secretate’(è grazie a Masseroli, proprio lui, che le Bozze sono state inserite in Internet e rese accessibili ai cittadini!) e senza tavole allegate; una approvazione con un solo voto contrario e l’assenza dall’aula dell’opposizione; la pubblicazione del PGT completo sul BURL, giusto in tempo per ottemperare alle scadenze imposte da un governo regionale già in caduta libera.
Strategia davvero discutibile: oltre a qualche evento di presentazione a carattere celebrativo e piuttosto retorico, che ha lasciato gran parte delle possibili questioni inevase, del PGT e dei suoi contenuti poco o nulla si è saputo; e dal recinto chiuso dei decisori e dei loro consulenti nulla è filtrato alla società civile e ai cittadini, salvo ostici e incompleti documenti di dettaglio per soli addetti ai lavori e incontri pubblici pilotati.

Il governo locale milanese ha una volta di più mostrato una modesta propensione all’ascolto e alla costruzione partecipata del piano, in un’epoca in cui tutte le grandi città europee hanno ormai fatto di queste procedure il fondamento della propria legittimazione.
Ma il nuovo Piano di Governo del Territorio ci lascia perplessi anche nel merito, e ci conferma una volta di più dell’intreccio, arduo da districare, fra politica, finanza e mattone che tanto ha nuociuto e continua a nuocere alla vivibilità urbana.
Sono davvero troppo modesti i cambiamenti rispetto alla versione Moratti/Masseroli. Qui segnalerò soltanto le criticità più rilevanti, rinviando agli articoli di approfondimento già pubblicati su eddyburg. E altri ne seguiranno.

Il nuovo PGT ha stabilito che il Parco Sud non potrà generare diritti edificatori trasferibili altrove e ha operato una riduzione dell’indice unico di edificabilità e delle quantità previste in alcune aree di trasformazione.
Ma quest’ultima misura a ben vedere più che un segnale di inversione di rotta (anche se la stampa ne ha enfatizzato la rilevanza) appare poco incisiva, data la drammatica crisi economica e del settore edilizio, e di solo buon senso a fronte di un mercato già carico di tensioni e di quote elevatissime di invenduto o sfitto. Inoltre, la indicazione ufficiale di una capacità insediativa aggiuntiva di 182.873 abitanti teorici appare comunque molto elevata. Si tratta di un incremento del 13% rispetto alla popolazione attuale, in una città dal perimetro angusto e già molto densa. E alcune verifiche puntuali in corso, che pubblicheremo su questo sito, stanno evidenziando dati assai più preoccupanti: gli abitanti teorici potrebbero essere più del doppio. Comunque, una vera assurdità!

Su altri aspetti cruciali il Piano appare molto debole, se non rischiosissimo: è privo di qualsivoglia visione di ampio respiro proiettata sul futuro della regione urbana, chiuso in una dimensione tutta milanocentrica, muto sulla disponibilità di spazi pubblici e nuove funzioni pubbliche di rilievo, evasivo sulla drammatica ‘questione delle abitazioni’ che affligge gli strati più deboli della popolazione.

Sono quattro le domande che vogliamo porre alla amministrazione milanese.

Ha senso continuare a pensare di rilanciare la città pubblica attraverso l’utilizzo estensivo, mai sperimentato altrove al mondo in un contesto urbano denso, di una perequazione urbanistica in cui “l’impiego, anche in forma frazionata, dei diritti edificatori è libero e può essere esercitato su tutto il territorio comunale edificabile” (Piano delle Regole, art. 7, comma 5)? Non solo la città pubblica non ne guadagnerà in qualità, ma si potranno determinare abnormi processi di addensamento centrale e disinteresse per bassa profittabilità di interventi sui tessuti periferici, nonché un indebito vantaggio per i proprietari di aree non centrali ai quali vengono attribuiti diritti edificatori utilizzabili ovunque e quindi anche al centro (si vedano i contributi di Camagni, Gibelli e Roccella in eddyburg).
La Giunta Pisapia si è assunta la responsabilità di avallare la versione più deregolativa possibile della già
controversa perequazione urbanistica: una versione che – ricordiamolo - la legge 12/2005 rende possibile, non certo obbligatoria.
È lungimirante ipotizzare che la qualità di Milano possa essere migliorata con un approccio meramente quantitativo? Se la scelta del mix funzionale nella città consolidata è lasciata libera (come è nel PGT milanese) e se manca una visione di futuro per la metropoli e per il suo territorio, non basterà certo una riduzione degli indici edificatori rispetto alle surreali previsioni insediative del PGT Masseroli a migliorarla. Anche se non sono questi i tempi per prevedere una spesa pubblica rilevante, non era forse possibile pensare, grazie all’ingente quantità di diritti edificatori concessi e attraverso accordi con i grandi proprietari, tra cui le Ferrovie dello Stato, di progettare e finanziare qualche nuova funzione di rilievo per Milano, per la sua area metropolitana, per la immagine internazionale?

È socialmente accettabile che l’edilizia residenziale sociale, che riceve un incremento dell’indice di utilizzazione territoriale di 0,35 mq/mq, sia obbligatoria soltanto negli Ambiti di Trasformazione Urbana e sulle aree d’intervento superiori ai 10.000 mq.? E che alla ‘vera’ edilizia economico popolare, e cioè in affitto a canone sociale, spetti la modestissima quota di 0,05 mq/mq, peraltro sempre sostituibile con altre categorie qualora l’operatore accetti l’onere della monetizzazione di una parte del “maggior ricavo” conseguito? E’ accettabile che, nel resto del tessuto urbano, la realizzazione di edilizia residenziale sociale sia unicamente affidata alla buona volontà/convenienza dei privati? A puro titolo di esempio di maggior coerenza fra obiettivi e azioni: nell’attuale PLU (Plan Local d’Urbanisme) di Parigi approvato nel 2005, e di cui il sindaco Delanoë ha fatto una bandiera del suo mandato descrivendolo come un piano che persegue la ‘rupture avec le passé’, per tutti gli interventi di nuova edilizia residenziale privata superiori a 800 mq. di superficie netta di pavimento, è obbligatoria una quota di edilizia residenziale sociale (HLM) del 25%: una misura considerata cruciale per garantire vera mixité. E nel Programme Local pour l’Habitat de Paris (2011-2016) questa quota è stata estesa anche alle porzioni più centrali e pregiate della città: il Marais e il Settimo Arrondissement).

E ancora, ha senso, per quanto riguarda il sistema della mobilità, avere ulteriormente rafforzato una progettualità tutta milanocentrica, anziché proiettata sulla regione urbana?

In conclusione

Le grandi promesse contenute nell’iniziale Documento di Indirizzo per il Governo del Territorio dell’ottobre 2011 si sono rivelate ingannevoli: “città come bene comune, concezione attiva della cittadinanza, metodo metropolitano, massimizzazione nell’housing sociale dell’affitto e, in particolare, della quota a canone sociale, mobilità dolce …” ecc. ecc…
Troppo invadente appare ancora oggi l’eredità del passato in cui Milano ha fatto da apripista e da cantiere sperimentale di tutte le controriforme urbanistiche lombarde: dalla radicale deregolamentazione volta a premiare gli interessi del mattone; alla semplificazione delle procedure al fine di sottrarre decisioni rilevanti al dibattito democratico in Consiglio Comunale; agli ampi premi concessi alla rendita fondiaria (volumetrie, monetizzazioni a prezzo di realizzo, oneri irrisori); alla propensione a evitare un diffuso e partecipato confronto con gli interessi deboli e le associazioni di base; alla opacità di procedure di elaborazione e approvazione degli atti di pianificazione sempre tese a sopire e sedare.

Preoccupante è stata la mancanza di informazione e confronto pubblico, come d’abitudine sostituita da retoriche occasioni celebrative piene di promesse anziché di contenuti.
Imbarazzante infine, come da troppi anni avviene, è stato il sostegno di parte della cultura urbanistica, e nel caso particolare del Politecnico di Milano che in passato aveva già avuto modo di distinguersi per autocensure quando non per aperto supporto alle strategie ‘innovative’ dell’urbanistica milanese.
Alla domanda di cambiamento delle regole del gioco, di coinvolgimento civico e di trasparenza, che ha costituito una delle leve potenti del successo elettorale di Pisapia si è risposto, per quanto riguarda la politica urbanistica, scegliendo la strada del minore attrito con gli interessi forti, del restyling, del business as usual.

Davvero, ci aspettavamo un’altra storia. Questo piano, che ha dovuto soggiacere a vincoli istituzionali rilevanti (veri o presunti), dovrà essere subito riconsiderato e rinvigorito per quanto riguarda beni comuni, funzioni pubbliche e apertura a una dimensione davvero metropolitana. D’altra parte, proprio la legge regionale lo consentirebbe, grazie alla sua filosofia di fondo che rende gli atti di pianificazione sempre modificabili: una flessibilità che nel breve periodo potrebbe tornare utile per porre rimedio ai difetti più vistosi di questo Piano.
Non ci resta che sperare infine che un eventuale e auspicabile futuro Presidente di una Giunta progressista al comando della Regione Lombardia si dimostri consapevole della immediata necessità di riscrivere la inaccettabile Legge di Governo del Territorio: che è tale solo nel titolo.
E basta restyling per favore!
La legge 12 ha già fatto troppi danni. Occorrerà mettervi mano e riformarla completamente!

la Repubblica e Corriere della Sera Milano, 19 dicembre 2012, postilla (f.b.)

la Repubblica
Città della salute ecco il progetto di Renzo Piano
di Gabriele Cereda

DALL’AREA dismessa dell’ex Falck di Sesto San Giovanni alla Città della salute. Un polo sanitario d’eccellenza, immerso nel verde, pronto per il 2018. Il progetto è stato presentato ieri con l’architetto Renzo Piano, che firmerà il masterplan: «Sarà — ha detto — uno dei cantieri più belli della mia vita ». Il progetto, che riunisce l’istituto neurologico Besta e l’istituto Tumori di Milano, prevede un investimento di 450 milioni. Nascerà un polo sanitario di alto livello con seicento camere, immerso in un parco di 400mila metri quadrati. Un polo sanitario d’eccellenza, immerso nel verde, pronto per il 2018: è quello che si prospetta dopo che nella notte di domenica è stato raggiunto un accordo tra il Comune dell’hinterland e la proprietaria dell’area, Sesto Immobiliare, per la cessione dei terreni su cui nascerà la cittadella.

«Al centro di tutto c’è l’uomo» ha più volte sottolineato ieri, durante la presentazione in uno dei capannoni dell’ex fabbrica, l’architetto Renzo Piano accompagnato dal governatore Roberto Formigoni. Sua la firma sul masterplan di recupero: «Sarà - ha detto - uno dei cantieri più belli della mia vita». Il progetto che riunisce l’istituto neurologico Besta e l’istituto Tumori prevede un investimento di 450 milioni garantiti da Regione Lombardia (330 milioni), da fondi statali (40) e in parte da risorse esterne (80). Verranno costruiti 850 posti auto per i dipendenti e 650 per gli utenti. Confermati i posti letto attualmente attivati agli Irccs Besta e Tumori, rispettivamente 610 e 660, per un totale di circa seicento camere.

Gli spazi sono pensati per far «dialogare costantemente diagnostica e ricerca» ha spiegato Piano; e nei sotterranei «ci sarà la macchina pulsante, le sale operatorie e i centri diagnostici. Ai piani superiori, invece, il day hospital e la degenza». L’architetto ha voluto presentare il piano di recupero sotto le altissime volte del capannone T3, «la Pagoda» come l’hanno ribattezzato i sestesi, per via di quel profilo dall’aspetto orientale che spunta davanti agli automobilisti sulla tangenziale Nord. Immersi tra i ruderi dell’archeologia industriale, e sferzati da un vento gelido rotto da decine di quelle “stufe fungo” usate per riscaldare i dehors dei locali, gli invitati hanno visto il futuro dell’area immaginato da Piano, che armato di bacchetta e aiutato da disegni proiettati su un megaschermo spiegava l’operazione di recupero.

Nel dettaglio, l’ospedale sarà composto da cinque padiglioni di tre piani, alti solo 18 metri e immersi nel verde: «Tutto attorno si estenderà un parco di 400mila metri quadri, perché un grande ospedale è giusto che stia in mezzo al verde». Nel progetto figurano diecimila alberi: tigli, aceri, querce. Le stanze ospiteranno solo due pazienti e tutte avranno la zona pranzo affacciata direttamente sui giardini. C’è anche l’idea di lasciare spazio per un orto dove produrre ortaggi e frutta. Per il tetto, poi, si sta pensando a diverse soluzioni: una prevede di piantare graminacee in grado di ridurre le radiazioni solari, l’altra invece privilegia l’installazione di pannelli solari per abbassare il consumo energetico.

Accanto alla Città della salute verrà costruita la nuova stazione di Sesto e, sottolinea l’architetto, sarà una stazione a ponte, dove passeranno sia treni che metropolitana ». A unire il tutto, un viale lungo 120 metri. Entro gennaio 2013 è previsto l’avvio delle procedure di gara; a primavera 2014, conclusa la bonifica a carico dell’attuale proprietà, l’avvio del cantiere ed entro la fine del 2017 la conclusione dei lavori. Per arrivare al secondo semestre del 2018, quando il nuovo ospedale accoglierà i primi pazienti.

Corriere della Sera
Un ospedale nel verde Ecco la Città della salute disegnata Renzo Piano
di Simona Ravizza

La Città della salute — in progetto a Sesto San Giovanni per unire l'Istituto dei tumori e il neurologico Besta — sarà realizzata sulla base delle linee guida indicate dall'architetto Renzo Piano. Così su una delle più grandi aree industriali d'Europa, la ex Falck, è destinato a sorgere l'ospedale-modello ideato dall'archistar. Una struttura articolata solo su tre piani (più uno sotterraneo), alta non più di 18 metri, che tiene insieme il meglio degli ospedali dell'Ottocento costruiti a padiglioni e le realizzazioni del Novecento a monoblocchi. Un ruolo fondamentale lo giocheranno gli alberi: «Sono la metafora della guarigione, io ne ho previsti 10 mila — spiega Piano, 75 anni —. Tutto sarà pensato per mettere al centro il malato. Persino il tavolo delle stanze, dove il paziente mangia, non sarà collocato in un angolo contro il muro, ma in una sorta di bovindo affacciato sul verde esterno. E, in generale, l'altezza delle costruzioni non supererà quella degli alberi».

L'area in gioco, per dimensioni, vale 500 campi da calcio. Il progetto dell'ospedale-modello è lo stesso che Piano aveva presentato nel marzo 2001 al Sant'Anna di Roma, insieme con l'allora ministro della salute Umberto Veronesi. Adesso il sogno dell'architetto può diventare realtà. Nella gara d'appalto per la progettazione e la costruzione della Città della salute saranno recepite le indicazioni di Piano. «Sarò il custode e il guardiano della realizzazione dell'opera», sottolinea l'architetto che ieri ha illustrato le sue idee proprio nell'ex area Falck (il cui progetto complessivo di riqualificazione è firmato proprio da lui). «Sarà il cantiere — azzarda Piano — più bello della mia vita».

Presenti all'evento, sotto il suggestivo scheletro d'acciaio del vecchio laminatoio, anche il governatore Roberto Formigoni, il sindaco di Sesto Monica Chittò, i presidenti dei due istituti Alberto Guglielmo (Besta) e Giovanni De Leo (Tumori). È l'occasione per fare il punto sull'avvio dei cantieri che prevedono un investimento da 450 milioni di euro (di cui 330 a carico della Regione Lombardia, 40 dallo Stato e 80 da privati). È imminente — come annuncia il sindaco di Sesto Monica Chittò — la firma della convenzione urbanistica con Sesto Immobiliare per il passaggio di proprietà dell'area, e di conseguenza l'intesa Sesto-Regione per la cessione a quest'ultima dell'area bonificata. L'avvio delle procedure di gara è previsto per gennaio. I tempi tecnici considerati nel cronoprogramma segnano come tappe il 2014 per la fine delle bonifiche ambientali e l'avvio del cantiere, il 2017 per la fine dei cantieri, il 2018 per il collaudo e il trasloco. In mezzo, però, ci sarà il cambio alla guida della Regione Lombardia, travolta dalle inchieste giudiziarie. L'ultima è di ieri.

Postilla

Su eddyburg basta cercare – e neppure senza troppa attenzione - nelle pagine milanesi per trovarne dozzine, di articoli che davano ormai in dirittura d’arrivo la vicenda della cosiddetta Città della Salute. A quest’ultimo riaffiorare della faccenda, guarnita dalla potenza comunicativa del workshop Renzo Piano (a cui la benedizione del discutibile Formigoni non fa proprio benissimo) si possono se non altro porre un paio di questioni, proprio a partire dalle ultime battute: le bonifiche ambientali e il cambio di guida alla Regione. Durante le primarie di quello che presumibilmente sarà lo schieramento al governo nella prossima legislatura, e che dovrebbe gestire la nascita delle cittadella, il fortissimo candidato Andrea Di Stefano ne ha più volte criticato la localizzazione nell’area dismessa industriale proprio per la questione bonifiche: costi spropositati, e incertezza sui risultati, col rischio o di trascinare la faccenda all’infinito, o anche peggio di non garantire affatto un contesto pulito per il cosiddetto fiore all’occhiello della sanità. Meglio, e questa è anche l’opinione di tanti, tantissimi operatori sanitari (ovvero più interessati alla salute che alle cittadelle), riorganizzare le sedi attuali riqualificando e ricostruendo. Il che si mescola anche ad alcune ottime ragioni pure in fase evolutiva, e che riguardano il territorio metropolitano: ha senso ed equilibrio continuare con la concorrenza fra cordate locali, il caso per caso, il vagare continuo, dei grandi poli di servizio, vuoi per la salute, vuoi per la ricerca, l’istruzione ecc. ecc. Proprio la prospettiva di un governo che teorizza meno l promozione degli interessi particolari, dovrebbe far riflettere, nel metodo se non nel merito specifico. Per adesso, dietro la scintillante comunicazione dello studio dell’archistar, c’è solo in trionfo di una serie di soggetti, e la sconfitta sostanziale della città, se non ancora della salute (f.b.)

Non ci raccontano chi ci guadagna e chi ci perde, altezze a parte: né a chi e a che cosa serve aggiungere metri cubi a metri cubi. E che cosa ciò comporta per la città e i suoi abitanti. E la chiamano informazione. La Repubblica, 18 dicembre 2012

Se non fosse un pezzo di storia della classe operaia, un simbolo unico di archeologia industriale, forse tutto sarebbe stato più semplice. L’isola Seguin, a ovest di Parigi, è stata a lungo la fabbrica modello di Renault. Da questo lembo di terra piantato in mezzo alla Senna, con un parco che ha ispirato pittori come Delacroix e Turner, sono incominciate a uscire le prime autovetture del marchio francese già alla fine degli anni Venti. Dopo che l’ultima catena di montaggio è stata chiusa nel 1992, l’isolotto è rimasto abbandonato, al centro di enormi appetiti immobiliari.

Nessuno è riuscito finora a far rinascere l’Ile Seguin, teatro di epiche lotte sindacali del Novecento francese. Gli abitanti di Boulogne-Billancourt, il quartiere di cui fanno parte gli ex stabilimenti ormai distrutti, parlano scherzosamente di una “maledizione” che nel tempo, tra conflitti burocratici e mobilitazioni di ambientalisti, ha fatto naufragare i piani di affaristi svizzeri, americani, e persino dell’imprenditore francese François Pinault che voleva costruire qui la sua fondazione per l’arte contemporanea ma ha poi deciso di ripiegare sulla più ospitale laguna di Venezia.

L’ultimo a farne le spese è stato Jean Nouvel. Incaricato nel 2009 di immaginare l’edificazione della zona, l’archistar francese non ha ricevuto una calorosa accoglienza. Il suo progetto originale è stato sottoposto a una serie di ricorsi amministrativi fino a essere definitivamente bocciato ieri da un referendum popolare. I residenti hanno infatti votato contro la prima ipotesi presentata da Nouvel, che prevedeva di erigere sull’isola prima cinque, poi quattro grattacieli, da lui definiti “castelli”, alti fino a 120 metri. Nella consultazione ha vinto invece una soluzione di compromesso immaginata sempre dall’architetto per cercare di chiudere le polemiche: una sola torre di 110 metri.

Non è una novità. Il dibattito sull’altezza dei palazzi caratterizza da sempre la Ville Lumière che, salvo rare eccezioni, predilige uno sviluppo urbanistico orizzontale. Ma è comunque uno smacco per uno dei più noti architetti francesi, premio Pritzker nel 2008. «L’importante è che sia rimasta una skyline ben definita e la forma a nave dell’isola», ha commentato Nouvel, incassando con eleganza il responso popolare. Circa metà degli abitanti di Boulogne-Billancourt ha partecipato al referendum, considerato un successo dal sindaco di destra, Pierre-Christophe Baguet, mentre gli oppositori sostengono che l’alto astensionismo non conferisce legittimità al risultato.

Questa volta però sembra davvero il momento di posare la prima pietra. «Ora finalmente possiamo costruire» ha detto il primo cittadino che ha indetto un po’ a sorpresa il referendum per mettere a tacere i gruppi di residenti contrari e chi lo accusa di voler «cementificare» i dodici ettari sulla Senna. Oltre a nuovi uffici, commerci, un parco pubblico, il piano urbanistico prevede di trasformare l’isola in una “Valle della Cultura”, con un polo artistico, una città della musica, una multisala di cinema e un’area dedicatalle arti circensi. Un pezzetto di terra è stato lasciato agli ex operai di Renault che, con un po’ di nostalgia, continuano a presidiare i luoghi di quella che un tempo era chiamata “usine-paquebot”, la fabbrica-nave dalla quale negli anni Sessanta uscivano fino a mille nuove automobili al giorno.

Non ci sarà un museo ma si potrà visitare un centro di documentazione con qualche reperto storico. Un piccolo tributo al passato che sopravviverà sotto al “castello” futurista voluto da Nouvel, lontano ricordo dell’isola che non c’è più.



Come eludere i vincoli posti dai piani paesaggistici mediante leggi regionali di settore che, consentendo la realizzazione di opere in contrasto con quei vincoli, siano palesemente illegittime? . Notizie preoccupanti che arrivano da ambienti informati per dovere di ufficio lasciano pensare che soluzione sia stata trovata.

Ci riferiamo a quattro casi specifici che riguardano la regione Lazio e la regione Sardegna. Giacciono davanti alla corte Costituzionale due ricorsi relativi rispettivamente uno al “Piano casa 2” (ricorso n.130 / 2011), uno al “Piano Casa 3 (ricorso n.143 / 2012) della regione Lazio e due ricorsi relativi a due leggi della regione Sardegna riguardanti rispettivamente la realizzazione di campi e attrezzature per il golf e il “Piano casa”. Mentre per il secondo ricorso della regione Lazio la data dell’udienza non era ancora stata fissata, per la seconda legge della regione Lazio il ricorso era stato cancellato dal ruolo di udienza già pubblicato nel sito della Corte senza alcun riferimento al provvedimento che ha operato il rinvio, né è stata fissata una ulteriore udienza. La incostituzionalità delle leggi della regione Sardegna avrebbe dovuto essere discussa il 20 novembre 2012, nel mese di ottobre la data dell’udienza è scomparsa dal registro di ricorsi, senza nessuna ulteriore indicazione né riferimento al provvedimento che ha operato il rinvio.

E' evidente che in sospensione del giudizio di costituzionalità le leggi continuano ad operare. In particolare, in Sardegna continuano la presentazione e l’approvazione di progetti in contrasto con i vincoli del Codice del paesaggio. E’ difficile pensare che il ministro Ornaghi non sia stato informato del ritardo della Consulta e dei suoi effetti, e non abbia provveduto.

Qualcuno ricorderà che le sentenze costituzionali 55 e 56 del 1968, che denunciavano la incostituzionalità dei vincoli urbanistici e di fatto interrompevano l’attuazione della riforma urbanistica del 1967 furono decise prima delle elezioni del 1968 e depositate solo successivamente. Allora la ragione dell’atto della consulta fu attribuito a motivi di opportunità elettorali (conoscere il contenuto della sentenza che bocciava gli standard urbanistici poteva penalizzare il partito di governo, la DC). Oggi il silenzio della Corte non potrebbe non essere considerato un favore a chi per lo “sviluppo” lascia proseguire la devastazione della coste sarde.

Corriere della Sera Milano, 14 dicembre 2012, postilla (f.b.)

Continua e si allunga il viaggio dei ciclisti in metrò. La convivenza con gli altri passeggeri s'è dimostrata pratica e indolore, l'urto è stato assorbito, i treni sopportano il carico delle due ruote, il «traffico» nei vagoni è risultato gestibile e l'Atm non ha ricevuto reclami. In sintesi, lo stress-test è superato: «La sperimentazione del trasporto bici sulle linee 2 e 3 della metropolitana riprenderà il 7 gennaio, dopo la pausa festiva concordata con le associazioni — fa sapere l'Atm —. E dalla primavera estenderemo il servizio sulla M1 e su alcuni tram».

Soddisfatto Eugenio Galli, 46 anni, presidente di Fiab-Ciclobby dal 2004: «È un segnale importante per la città». Il progetto è partito il 25 ottobre. Ed è stato promosso. La dirigenza di Foro Buonaparte ha aperto una «finestra bici» nella fascia oraria centrale di servizio della «verde» e della «gialla»: accesso libero in metrò dalle 10.30 alle 16 (oltre che dall'alba alle 7 e dopo le 8 di sera). L'integrazione al regolamento era stata sollecitata dalla Milano che pedala (categoria in espansione, che reclama più spazio e diritti) per incentivare gli spostamenti e favorire i percorsi misti (su e giù dal sellino con una corsa di passaggio sul mezzo pubblico). La linea «rossa» è stata esclusa, nella prima fase, per consentire ai tecnici Atm di completare il monitoraggio del nuovo sistema di sicurezza che regola il traffico in galleria e mantiene le distanze fra i treni: la M1 sarà aggiunta alla sperimentazione del «trasporto-bici» dopo la Pasqua del 2013, assieme ad alcuni tram (tra le ipotesi: il 4, il 15 e il 31).

Il via libera alla «Fase 2» è arrivato al terzo incontro del Tavolo della ciclabilità istituito dall'azienda con i rappresentanti di Ciclobby e «Salvaiciclisti». I temi: trasporti integrati e raccordo tra i sistemi di care bike sharing. «Abbiamo ricevuto segnali concreti e incoraggianti, dalla nuova dirigenza, dopo troppi anni in cui è stato difficile anche solo abbozzare un confronto — commenta Eugenio Galli —. È interesse di tutti che il servizio possa crescere e migliorare, ma serve la collaborazione e il buon senso da parte di tutti. Del personale Atm, certo, ma anche degli utenti». Tra i «segnali positivi», conclude Galli, ci sono anche le rastrelliere alle stazioni del metrò. Gli ultimi dieci stalli per le bici sono stati posizionati nel parcheggio d'interscambio di San Leonardo, sulla linea «rossa».

Per oggi, intanto, è stato indetto uno sciopero del trasporto locale dalla segreteria nazionale del sindacato Fast-Confsal: a Milano l'agitazione è prevista dalle 8.45 alle 15 e dalle 18 in poi, ma non dovrebbe provocare grossi disagi. Il Comune non spegne Area C: telecamere accese dalle 7.30 alle 19.30 e ticket da 5 euro per l'ingresso delle auto nella cerchia dei Bastioni.

Postilla
Ecco spuntare piccola piccola un’interpretazione progressista del concetto di joint-venture pubblico-privata, ovvero dove entrambe le parti fanno il proprio mestiere, e non (come ci hanno insegnato anni di disastri per tutti, salvo che per le casse di qualcuno) con la collettività che paga e gli interessi particolari che intascano. Per far circolare la linfa umana che trasforma le città da scatole vuote, più o meno eleganti e chiaroscurali, in organismi vivi, ci vuole intelligenza, o per essere alla moda proporre una smart city, dove smart non sta a significare qualche tavoletta elettronica lampeggiante, ma intelligenza diluita anche al di fuori delle teste che la producono, e innaffiata sul territorio urbano. Allora non nuovo cemento (non solo, almeno) per fare piste ciclabili, o corsie riservate, o sovra o sottopassi, ma reti materiali e immateriali lungo cui muovere e muoversi, usando i luoghi anziché produrne doppioni sprecando risorse naturali e intellettuali. Ci voleva tanto? Evidentemente si (f.b.) Sull’idea di smart city contemporanea, si veda anche QUI

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