Prosegue imperterrito, nel sostanziale silenzio della politica di quasi tutti gli schieramenti, il modello di sviluppo che ha al centro indiscusso l'edilizia speculativa coi suoi “valori” del tutto artificiosi. Articoli di Paolo Berdini e Enzo Scandurra, il manifesto 6 marzo 2013
L'ultimo regalo alla speculazione
di Paolo Berdini
L'amministrazione Alemanno sta cercando disperatamente di far approvare dal consiglio comunale di Roma 62 deliberazioni in materia urbanistica. Decine di milioni di metri cubi di cemento che sfigureranno - se approvate - per sempre la città. Contro queste approvazioni è nato un forte movimento di opposizioni da parte di molte associazioni e comitati di quartiere che presiedono da molte settimane il consiglio comunale per scongiurare il disastro. Il clima contrario alle deliberazioni sta crescendo e quanto contenuto in una delle proposte che si vorrebbe imporre alla città ha la possibilità di creare un salutare scandalo, perché dimostra il verminaio che si nasconde dietro allo "sviluppo" di nuovi quartieri e - nel caso particolare - dimostra anche che la popolazione di Roma rischia di pagare a caro prezzo (250 mila metri cubi di cemento, Antonio Cederna avrebbe detto 2 hotel Hilton e mezzo) la crisi che attraversa il Monte dei Paschi di Siena.
La prima pietra
Iniziamo con ordine perché la vicenda inizia alla fine degli anni '80. Il piano regolatore di Roma destinava un'area di 14 ettari localizzata a nord, in via di casal Boccone a servizi privati: i proprietari potevano costruirci uffici privati. Il 4 dicembre 1993 il commissario governativo Aldo Camporota che guidava la città dopo l'azzeramento dovuto a Tangentopoli, autorizza la stipula della convenzione urbanistica. Il giorno successivo sarebbe entrato nei pieni poteri Francesco Rutelli. Non c'era gran fretta e sarebbe stato più giusto lasciare alla nuova amministrazione la decisione sul futuro della città, ma il Commissario straordinario decide diversamente. Il progetto sembra così entrare nella sua fase conclusiva. Nel 2005 viene sottoscritta la convenzione per costruire 220 mila metri cubi: 80 mila per uffici; 90 mila per commercio; 50 mila per un non meglio precisate "case albergo". Il promotore del progetto era la Imco, società che faceva parte attraverso Sinergia del gruppo Ligresti.
Anche il nuovo piano regolatore di Valter Veltroni approvato nel 2008 conferma le cubature previste dalla convenzione del 2005, ma la proprietà non si mette ancora in moto. È una questione decisiva ad impedire l'attuazione: l'area permette infatti di costruire uffici privati e la crisi immobiliare inizia a mietere vittime anche nella pregiata offerta di uffici nel centro di Roma, figuriamoci in quel lembo di estrema periferia circondato da campagna e con un'unica stradina di accesso.
E poi c'è la crisi del gruppo Ligresti che ha forti indebitamenti con il sistema creditizio italiano e in particolare con il Monte dei Paschi di Siena. Nel 2008 subentra nell'operazione immobiliare la Sansedoni srl (67% Fondazione, 21,8% MPS, 11,2% Unieco) che mette in piedi una nuova società e acquista tutto per 110 milioni più il debito pregresso al fine di recuperare il gigantesco credito con Ligresti. Ma la società controllata dal Monte dei Paschi comprende immediatamente che costruire uffici in periferia è un pessimo affare e bisogna ottenere a tutti i costi una variante urbanistica più favorevole alla proprietà. Elaborano un nuovo progetto e iniziano l'assedio al Campidoglio. E, miracolo, il sindaco Alemanno va in soccorso del Monte dei Paschi. Il 9 marzo del 2012 la Giunta comunale da lui presieduta approva la deliberazione n. 33 denominata «Approvazione del Programma di intervento urbanistico residenziale denominato casal Boccone».
Gli uffici scomparsi per incanto
Avete letto bene, si parla di intervento urbanistico residenziale. Gli uffici sono scomparsi come per incanto. La deliberazione di giunta è molto pudica nel merito: afferma soltanto che «la (nuova) proposta progettuale trae origine da un lato dalla diminuzione della domanda riferita all'edilizia privata non residenziale, dall'altro dalla necessità di una sempre più crescente domanda di abitazioni facenti parte di una cosiddetta "edilizia sociale"» L'amministrazione pubblica afferma senza pudore che visto che è diminuita la domanda di uffici privati, si straccia la precedente convenzione del 2005 e se ne stipula un'altra per la felicità della proprietà fondiaria. Le volumetrie ad uffici valevano poco, quasi nulla, quelle residenziali configurano un volume di vendita potenziale vicina ai 400 milioni di euro. Un bel regalo e l'ennesima gigantesca colata di cemento. L'urbanistica non esiste più: è la valorizzazione immobiliare a farla da padrona.
Subito dopo, la deliberazione di giunta n. 33 fa un ulteriore piccolo regalo alla proprietà, così da non fare la parte degli avari. Il regalo, per la verità, non è proprio di Alemanno, ma proviene dal piano regolatore di Veltroni che in un articolo finale delle norme stabilisce che tutte le cubature del vecchio piano si trasformano in superficie edificabile dividendole per un'altezza di 3, 20 metri, e cioè l'altezza di un'abitazione. Ma, come si ricorderà, nella convenzione del 2005 si potevano costruire 90 mila metri cubi di attività commerciali la cui altezza media, si pensi ad un supermercato, è molto di più di 3,20 metri. Insomma, l'articolo 108 delle norme è un meraviglioso regalo fatto ai tanti proprietari di volumetrie non residenziali del vecchio piano regolatore. Così la giunta Alemanno approva la costruzione di circa 69 mila metri cubi di edilizia residenziale. Si costruiranno - se non ci sarà un sussulto di sdegno- circa 250 mila metri cubi di residenze per una popolazione di 2.000 abitanti. Come se non bastassero i 140 mila alloggi vuoti oggi esistenti si da il via ad un altro scempio in aree paesaggisticamente pregiate. Monte dei Paschi diventerà felice: con i mattoni e con il cemento si ripiana il debito. E si può cambiare nome in Monte dei Pascoli di cemento.
Il volo del gabbiano sulla città corrotta
di Enzo Scandurra
Non so quand'è che a Roma, improvvisamente, sono arrivati i gabbiani. Nessuno se lo ricorda più nella città smemorata. Un turista di passaggio per la prima volta in questa città potrebbe, al ritorno nel suo paese, raccontare che a Roma gli uccelli più comuni e frequenti sono proprio loro: i gabbiani. In compenso questi grandi uccelli marini che ormai marcano i territori aerei che sovrastano le discariche, hanno sostituito una ben più nota specie di volatili che annunciavano l'arrivo della primavera romana: le rondini.
Rondini e storni hanno per anni sorvolato incontrastati i cieli romani; le prime sfrecciando ad alta velocità sui cieli della capitale e appollaiandosi nei sottotetti dei palazzi da dove spiccare nuovamente il loro temerario e gioioso volo; i secondi tracciando nel cielo fantastici e geometrici arabeschi alla luce del tramonto, lasciando senza fiato non solo i turisti, ma anche i pigri romani che pure da sempre praticano poco il sentimento dello stupore (anvedi 'oh). Le rondini sono ormai uno spettacolo raro. Come le lucciole di Pierpaolo Pasolini morte con l'avvento della modernità, esse sono diventate una specie in via di estinzione. Non perché minacciate da altre e più aggressive specie di uccelli, piuttosto per i cambiamenti dovuti all'intensificazione dell'attività agricola che ha fatto scomparire siepi, fossi, prati e canneti, luoghi a loro cari dove vivono insetti e altri piccoli animali di cui le rondini si cibavano. Colpa anche dei cambiamenti climatici che hanno modificato le loro traversate, fatto perdere loro l'antico orientamento, e perfino della ristrutturazione di casali agricoli nei cui vecchi tetti le rondini facevano nidi.
Uscito dal portone di casa molto presto una mattina, vidi uno spettacolo impressionante: in mezzo alla strada (una strada poco frequentata da auto) c'era un gabbiano che dritto sulle sue gambe mi guardava fisso. Ai suoi piedi giaceva un piccione morto. Mi sono allora ricordato di una ricerca fatta sul perché malgrado i piccioni siano così numerosi, mai se ne vedono esemplari morti in città. I risultati di quella ricerca sostenevano che i piccioni, quando giunge la loro ora, si sottraggono alla vista cercando luoghi nascosti per non essere attaccati dai predatori. Quel piccione, dunque, steso morto nel bel mezzo della strada, doveva essere stato assalito dal gabbiano che sovrastava sopra di lui con piglio spavaldo, perfino sprezzante della presenza degli umani. Ricordava, quella scena, il celebre film di Hitchcock quando uomini, donne e bambini diventano oggetto di aggressione e vittime innocenti degli uccelli urlanti impazziti. Perché ora i gabbiani non si limitano più a sorvolare i cieli della capitale; sostano nel prato nel bel mezzo di Piazza Venezia, si ergono a sentinelle nei punti più alti dei monumentali ruderi romani, si accampano sull'altare della Patria come in attesa di una loro rivincita, incattiviti dai cambiamenti climatici provocati dalla specie umana.
A me è sembrato un triste presagio: come se questa disgraziata città non fosse solo oggetto di scempio da parte di una amministrazione cialtrona, arrogante e incapace, come se non bastassero le sciagurate avventure urbanistiche che succhiano sangue dal suo corpo già ferito, come se non bastassero i regolari allagamenti di strade e reti fognanti ogni volta che piove, il livello assordante dei rumori del traffico impazzito a tutte le ore, lo sfrecciare pericoloso delle macchine blu sulle corsie riservate ai tram e ai taxi, le deroghe edilizie, i condoni, le compensazioni, le perequazioni, lo sfratto agli immigrati, il riconoscimento di cittadinanza negato ai gay, ai barboni, ai diversi di tutti i generi. Ora alle truppe di occupazione dei professionisti della politica che questa città nemmeno conoscono, vengono in soccorso quelli che un tempo erano nobili pennuti che, bianchi d'innocenza, sorvolavano i mari, come nella poesia di Vincenzo Cardarelli: «Non so dove i gabbiani abbiano il nido/ ove trovino pace./ Io son come loro/ in perpetuo volo./ La vita la sfioro/ com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo/». Anche i nobili gabbiani si sono imbarbariti al contatto con questa città corrotta da una classe dirigente che non si merita; anziché sfiorare l'acqua ora i gabbiani sorvolano discariche in attesa che tutta la città vada in putrefazione.
Nota: visibile sul sito della RAI l'interessante documentario Roma Città Infinita propone un punto di vista se possibile ancora più inquietante
La protagonista delle iniziative di "perUnaltracittà – lista di cittadinanza" ci invia il suo intervento all'assemblea di ReTe (Rete dei Comitati per la difesa del territorio del 3 febbraio a Firenze. Una utile ed essenziale analisi di una città mal governata
Molte sono le vertenze nate negli ultimi tempi a Firenze in difesa del territorio, inteso come bene collettivo e non come proprietà su cui ha voce in capitolo solo il governo di turno e i grandi portatori di interessi che a lui fanno riferimento. Si tratta di realtà di base che contrastano per lo più progetti di trasformazione calati dall'alto e non rispondenti ai bisogni della popolazione, e che quasi sempre propongono alternative nate dalle esigenze - e perché no dai desideri - di chi quel territorio lo abita. Tutte queste vertenze nascono all'interno di un quadro generale che corrisponde a una modalità di governo del territorio. E ci sono precisi passaggi anche procedurali che rivelano più di altri questa impostazione.
Uno è
Il Piano strutturale, approvato in grande fretta nel giugno del 2011, poi sbandierato in tutta Italia nella campagna elettorale per le primarie come l'unico “a volumi zero”. Su questo il gruppo urbanistica di perUnaltracittà ha animato un dibattito cittadino e prodotto anche un opuscolo (qualche copia ancora la abbiamo) e qui non mi addentro nei rilievi specifici. Basti dire che il caposaldo della narrazione ufficiale del PS fiorentino si svuota di significato quando vediamo che i famosi volumi zero si devono intendere rispetto al residuo del vecchio P.R.G. e anche alle aree già convenzionate e non ancora costruite, come Castello e Novoli, per un totale di circa 2 milioni di metri cubi. Che non è zero.
Ma, si aggiunga, se anche fosse rispettato questo lodevole principio, coi volumi zero non si fa pianificazione urbanistica. Ci vuole un'idea di città le cui trasformazioni devono partire dai bisogni e fors'anche dalla vocazione di un territorio. Il che è esattamente quello che manca.
Il Piano eredita le carentissime indagini conoscitive dal vecchio Piano di Domenici mai approvato e le cui insufficienze erano state sottolineate dalla stessa RT; su questa base deficitaria si fonda, per poi non assolvere al suo principale compito: non esprime un'idea di città, non indica una direzione in cui la Firenze di domani debba muoversi. Rinuncia a dare indicazioni per la localizzazione delle funzioni da insediare, non tratta nodi essenziali come il centro storico o le colline, glissa su definizioni che sarebbero essenziali come quelle di invarianti e statuto del territorio, rimandando le decisioni al Regolamento Urbanistico. E invece di nuovo c'è molto bisogno, in una città in cui si è costruito tanto e male e che ha sacrificato altre funzioni al solo turismo e alla moda.
Il Regolamento Urbanistico, a cui quasi tutto è demandato, lo attendiamo ancora dalla fine del 2010. Proprio in questi giorni l'argomento è balzato all'attenzione delle cronache cittadine con anticipazioni fatte alla stampa dall'assessore all'urbanistica. Quel che abbiamo letto ci lascia esterrefatti. L'assessorato ha intenzione di chiedere ai privati che possiedono superfici di 2000 o più mq di fare proposte per una nuova destinazione. Da notare che esistono altre modalità - messe a punto dalla Regione – per "rigenerare" il tessuto urbano degradato, che garantiscono trasparenza, qualità ed efficacia (a LR 40/2011)
Invece si arriva al paradosso che per i volumi privati si chiedono suggerimenti ai proprietari, mentre per i volumi pubblici non c'è neanche uno staccio di proposta. Nessun progetto per il recupero di quel milione di mq dei famosi contenitori dismessi o in dismissione, cioè edifici da recuperare come il vecchio Tribunale, il Panificio militare, l'area ex Gover alle Piagge, le varie caserme dismesse per i quali sarebbe stato invece essenziale capire l'uso e la destinazione, perché il riuso ci piace molto, ma si dovrebbe partire dall'analisi dei bisogni di una città, e non dalle proposte di riutilizzo di contenitori prestigiosi per collocare funzioni remunerative, ma di cui la città non ha alcuna necessità, come le due torri di 14 piani adibite a appartamenti previste alla ex manifattura Tabacchi.
3. Caratteristica del governo di questo territorio è l'assenza di Piani piani di settore e particolareggiati entro cui inserire scelte specifiche. Manca un Piano del Centro storico, un Piano generale del traffico urbano, un Piano della sosta, un Piano turistico aggiornato della città dove ancora vige quello del 1999, tanto per fare qualche esempio.
Così è possibile in piena zona storica concedere all'Hotel Baglioni una deroga e far aggiungere una parte che supera di 6 metri il limite dell' altezza massima prescritta (20 metri). E anche una sistemazione delle piazze che non tiene presente l'assetto storico culturale e ripete tristi moduli ripetuti da S.M. Novella a piazza Annigoni.
E' possibile procede a pedonalizzare zone specifiche senza studiare gli effetti che queste scelte avranno sulla mobilità pubblica e privata. E' possibile progettare parcheggi magari interrati e non destinati ai residenti a macchia di leopardo senza un'analisi complessiva della funzionalità della mobilità complessiva. E' possibile permettere, come è avvenuto nel giugno 2012, l'allargamento degli alberghi anche a locali ad uso residenziale, cacciando sempre di più la residenza originaria dal centro storico di una città pervicacemente votata al solo turismo. Una città frammentata.
5. Nel frattempo, l'Amministrazione ha continuato, come la precedente, a procedere a colpi di varianti urbanistiche al vecchio Piano Regolatore Generale.
E sono addirittura 13 le varianti che la Giunta ha proposto al Consiglio di approvare con un unico atto deliberativo nel maggio del 2012, molte delle quali di grande rilievo urbanistico e sociale.
Con tanti saluti al concetto stesso di pianificazione. Inserire immobili di proprietà comunale in bilancio, con contestuale cambio di destinazione d'uso grazie a varianti urbanistiche che sono una pronta applicazione del decreto "Salva Italia", sottrae a qualsiasi valutazione complessiva una parte importante di pianificazione del territorio. Ogni operazione viene considerata a sé, senza che si tenga conto di equilibri urbani e distribuzione complessiva di funzioni, attivando scorciatoie che rappresentano la negazione del concetto stesso di urbanistica.
Invece di affannarsi a svendere immobili per far cassa, si dovrebbe completare l'analisi di quello che c'è e di quello di cui c'è bisogno, approfittare per correggere e mettere meglio a fuoco molte scelte, come legittimamente richiesto da molteplici componenti della città. E soprattutto non si dovrebbe depauperare il patrimonio della collettività per un presunto guadagno effimero, riducendo gli spazi a uso pubblico e impoverendo il tessuto cittadino di valori ambientali e sociali.
A nulla sono valse le proteste di cittadini, comitati e realtà sociali perché si stralciasse dalla delibera collegata al bilancio la villa di Rusciano, l'ex scuola via Villamagna, il Meccanotessile, la Mercafir, Villa Demidoff e Sant'Agnese.
6. Sulla mobilità brilla l'affaire tramvia: dopo le promesse di cambiamento dei tracciati tramviari rilasciate in campagna elettorale dal candidato Renzi e dopo due anni e mezzo trascorsi inutilmente, vengono oggi riesumati gli stessi tracciati tramviari con gli stessi errori del progetto iniziale degli anni '90.
Eppure i cittadini si sono fatti molto sentire anche su questo e i punti critici delle linee 2 e 3 della tramvia sono ammessi anche dall'amministrazione comunale. Le alternative per una mobilità pubblica sempre su ferro sono state indicate: la tramvia 2 è sostituibile con la linea di metrotreno da Porta a Prato/Leopolda-Puccini-Cascine fino alle Piagge. La linea 3 è evitabile, con grande risparmio di risorse e di consumo di suolo, progettando il metrotreno con le fermate Rifredi-Dalmazia-Macelli-Santa Maria Novella sull'attuale sede ferroviaria. Ma nessun ascolto è stato dato.
7. Del resto, va sottolineato l'uso che viene fatto del concetto di partecipazione. A partire dal presunto percorso partecipativo sul Piano strutturale, ai focus group su interventi specifici (si veda piazza del Carmine e piazza Brunelleschi) che non hanno prodotto modifiche al progetto originario dell'Amministrazione.
Da processi partecipativi, veri o presunti, sono comunque stati esclusi tutti temi più caldi e le decisioni di fondo per il futuro ambientale della città. Si è forse potuto avere un confronto sull'apertura di un inceneritore a San Donnino? O sul famigerato tunnel Tav sotto Firenze? Sulla ripubblicizzazione del servizio idrico? Sulla vendita di Ataf ? Sul futuro di San Salvi? Sull'emergenza abitativa che riguarda fasce deboli di cittadini che non potranno certo comprarsi gli appartamenti di pregio che si ipotizzano alla Manifattura Tabacchi? E il futuro di Castello e della Piana chi lo decide e come?
Insomma i nodi cruciali della città o sono già stati decisi e non messi in discussione anche se c'è un forte dissenso, o sono rimasti nel vago.
8. E invece cosa succede realmente in questa città? Oltre i tecnicismi e al di là delle retoriche renziane, quale impronta si sta lasciando nella storia di Firenze? Succede che le logiche liberiste ne disegnano giorno per giorno contorni e prospettive.
Da una parte c'è la negazione della città pubblica, luogo delle dinamiche sociali della cittadinanza, delle relazioni, dei sogni e dei bisogni di fiorentini, visitatori, migranti, di nuove/i e vecchi/e cittadine/i Dall'altra l'enfasi (e l'investimento) sulla città vetrina, cartolina patinata di un prodotto da offrire sul mercato del turismo ricco. Ecco allora la selvaggia privatizzazione del servizio di trasporto pubblico con 200 "esuberi", la conferma acritica della gestione dell'acqua con ACEA ecc.e del progetto di tunnel dell'AV. Ecco la svendita del patrimonio pubblico, in nome della ricerca di liquidità, ma anche dell'assunto ormai clamorosamente smentito che privato è bello, e così parallelamente si sgomberano le esperienze dal basso più interessanti e innovative come i Conciatori. O si ignorano le problematiche delle periferie, le emergenze della casa o dei richiedenti asilo, mentre si aumenta l'indebitamento per un'urbanistica di lusso (come per via Tornabuoni). E si riduce la scena culturale a un affare per fondazioni e consigli di amministrazione.
Mentre le esperienze più vive delle città contemporanee europee, pur non senza difficoltà e contraddizioni, vanno nella direzione della valorizzazione delle diversità e delle esperienze, della vivacità culturale e del protagonismo sociale, la città del sindaco giovane e brillante si sta incamminando nella sterile direzione della città-prodotto, omologata a standard che stanno alla modernità come McDonald sta al cibo, una città che si troverà domani impoverita delle sue risorse più vitali.
L'hanno capito bene le realtà sociali che si stanno impegnando per una città diversa e che hanno cominciato a connettersi in battaglie comuni a dispetto della diversa origine e natura. Ben 17 di queste realtà attive in città e nella Piana Firenze-Prato-Pistoia si sono collegate in un laboratorio territoriale che abbiamo chiamato “Spazi liberati”. La proposta di Spazi liberati si fonda sulla pratica diretta sul territorio, ovvero sulle lotte e sulle campagne che negli ultimi anni hanno visto “fare politica” dal basso milioni di persone stanche di un sistema politico forte con i deboli e debole con i forti: dalle campagne referendarie per l’acqua pubblica e contro il nucleare a quelle sui rifiuti zero; dalla finanza al servizio della persona, al contrasto alla privatizzazione di sanità, trasporto pubblico locale e servizi pubblici; dal rispetto dei diritti dei lavoratori, dei detenuti, dei migranti; dalla manutenzione del territorio contro la cementificazione e il contrasto alle grandi opere; le occupazioni di case e palazzi abbandonati in mano alla speculazione; la denuncia degli sprechi, del clientelismo e della corruzione. Tutte campagne che hanno come orizzonte comune, in una pratica militante, la costruzione di un' alternativa alla città liberista, e i cui protagonisti ci paice qui riportare: Abitanti a piede libero (PT), Associazione Pantagruel (FI), Comitato No Tunnel Tav (FI), Comitato contro la terza corsia Firenze-Mare, Comitato contro la privatizzazione di Ataf (FI), Comitato San Salvi chi può (FI), Comunità delle Piagge (FI), Coordinamento comitati Ato Toscana centro, Fondo etico e sociale delle Piagge (FI), Forum toscano dei movimenti dell’acqua, Fuori binario (FI), l’Altracittà – giornale della periferia (FI), Lo Sbertoliano (PT), Mag Firenze, Medicina democratica (FI), Movimento lotta per la casa (FI), perUnaltracittà – lista di cittadinanza (FI).
In pieno centro storico, tra Piazza Farnese e le sponde del Tevere un nuovo grande albergo con parcheggio e altre utilities, naturalmente con il passepartout del project financing all’italiana. La Repubblica, ed. Roma, 17 febbraio 2013
PER qualcuno erano solo voci che si rincorrevano tra i vicoli di via Giulia. «Ne avevamo sentito parlare. Non credevano fosse vero. Siamo senza parole: avevamo sostenuto l’idea di realizzare dei parcheggi interrati anche per ridare lustro alla strada e farla tornare vivibile. Non vogliamo creare difficoltà a chi dà lavoro in un momento storico come questo, ci mancherebbe, ma non possiamo neanche accettare l’idea che la zona venga stravolta da un progetto simile. Piani del genere vanno indetti attraverso concorsi internazionali perché si tratta di una zona dove è stato fatto un importante ritrovamento grande archeologico», commenta Viviana Di Capua, presidente dell’associazione Abitanti del centro storico. L’idea che sul lungotevere dei Tebaldi, tra via Giulia, largo Perosi e via Bravaria, nel cuore di Roma, potrebbero esser realizzati un albergo di lusso con annesso ristorante, parcheggio, appartamenti e posti auto, scatena polemiche non solo degli abitanti della zona ma anche di urbanisti, Legambiente e politici. Una rivoluzione nel cuore della città, così come prevede il nuovo project financing dalla società Cam, sbarcato venerdì in conferenza dei servizi: un piano di recupero, in sostituzione di quello per i parcheggi interrati ormai archiviato dopo il ritrovamento di alcuni importanti reperti storici, ovvero le scuderie dell’antica Roma.
Ma a smorzare le polemiche non ci riesce neppure la prevista musealizzazione dei reperti venuti alla luce durante i sondaggi archeologici. «Gli unici lavori ammissibili per me restano quelli di restauro. Del resto il centro è unaporzione minima del territorio urbanistico della città: solo il 5 per cento. Credo fermamente che ci sia bisogno di innovazione e creazione, di qualità architettonica, ma ci sono talmente tanti spazi disponibili fuori dal perimetro storico che non capisco che senso abbia questo progetto», fa notare l’urbanista Vezio De Lucia.
E un “no” «al palazzone di Via Giulia», arriva anche da Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio. «La procedura va fermata subito — aggiunge — è impensabile proporre uno scambio tra la musealizzazione degli importanti reperti rinvenuti e una mega costruzione con funzioni commerciali in un’area così pregiata della città. E poi siamo alle solite: il Comune non impara mai, nonostante le proteste dei cittadini anche stavolta comitati e associazioni si ritrovano il progetto bello e fatto», conclude. Anche per Umberto Croppi, candidato alla poltrona di primo cittadino, «l’idea di realizzare una struttura alberghiera nel varco di via Giulia, senza peraltro aver coinvolto la città e gli addetti ai lavori nel processo di valutazione, è l’ennesimo segnale di decadimento in cui versano le istituzioni. Peraltro di tratta di luogo caratterizzato da due elementi straordinari: la più elegante strada della Roma papale e un ritrovamento archeologico di eccezionale interesse. L’attuale configurazione dell’area non può subire interventi che ne stravolgano le caratteristiche architettoniche. Speriamo ci siano margini per un radicale ravvedimento da parte del Comune e delle soprintendenze».
E un appello al sindaco di «bloccare ‘l'opera monster’ che si vuole realizzare a via Giulia. Il centro va tutelato», arriva anche da Massimiliano Valeriani, consigliere comunale del Pd. Così come fa il suo collega Paolo Masini che aggiunge: «Speriamo che Alemanno intervenga immediatamente per fermare questo scandaloso scempio lottizzatorio».
In dirittura d'arrivo la battaglia legale sulla realizzazione del ‘mostro’ paragonato dagli ambientalisti a Punta Perotti. Le perplessità del tecnico del Genio Civile in 122 pagine di relazione
Il Fatto quotidiano online, 13 febbraio 2013
In dirittura d'arrivo la battaglia legale sulla realizzazione del ‘mostro’ paragonato dagli ambientalisti a Punta Perotti. Le perplessità del tecnico del Genio Civile in 122 pagine di relA proposito del rispetto delle norme sismiche, il progetto del Crescent di Salerno fa emergere “alcune carenze”. Carenze che però “è bene precisare, non denotano una manifesta deficienza delle opere, sia sotto il profilo della sicurezza che delle prestazioni, in quanto alcuna deficienza emerge dai risultati delle verifiche strutturali e geotecniche, come documentate nel progetto. Tuttavia, tali carenze – si afferma nel documento – non consentono un accertamento pieno di rispondenza del progetto alla normativa sismica vigente”.
Il Fatto Quotidiano, 9 febbraio 2013
Costruttori vicini a Comunione e liberazione e cooperative rosse. Ma sopratutto le banche, con Intesa Sanpaolo in prima fila. Sono i beneficiari di uno degli ultimi provvedimenti di Roberto Formigoni. Un colpo di coda che per l’istituto che per anni è stato nelle mani di Corrado Passera vale almeno 300 milioni di euro. Il regalo si nasconde dietro alla Città della salute, il mega ospedale che verrà costruito sull’ex area Falck di Sesto San Giovanni. La struttura riunirà due istituti pubblici di ricerca e cura, il neurologico Besta e l’Istituto nazionale dei tumori, in un progetto che mette la sanità lombarda al servizio di banche e mattone.
Nel 2011 sull’area di Sesto, la stessa al centro dell’inchiesta sull’ex campione del Pd Filippo Penati, è stato approvato un piano di intervento faraonico, che prevede un milione di metri quadrati di nuovi edifici, tra residenze, alberghi, uffici, servizi e un grande centro commerciale. Una nuova città da 20mila abitanti dentro a quello che è già uno dei comuni più densamente abitati d’Italia e che “con il nuovo insediamento salirà al quarto posto dopo tre comuni della cintura vesuviana”, accusa Orazio La Corte, ex consigliere comunale di Sesto San Giovanni e membro del direttivo lombardo di Legambiente. Valore di mercato stimato: 4 miliardi di euro. Ma il rischio è grosso: nei tempi di magra del settore immobiliare gran parte di quel cemento potrebbe rimanere invenduto. E allora il nuovo ospedale è l’elemento che mancava, il volano per tutta l’operazione: perché i suoi 660 posti letto si portano dietro il fabbisogno di alloggi per il personale e l’offerta di spazi ricettivi per i parenti dei pazienti.
E fa niente se tra gli addetti alla sanità qualcuno considera insensata la costruzione di un ospedale che costa 450 milioni. O se la nuova struttura si mangerà ben 205 metri quadri di quel parco da 450 che il piano originario aveva già promesso ai cittadini per il riequilibrio delle zone verdi di Sesto. Non sono certo un po’ di alberi in meno a preoccupare la Sesto Immobiliare di Davide Bizzi, la società che nel 2010 ha rilevato l’area dall’indebitatissima Risanamento che fu di Luigi Zunino. Fanno parte della cordata guidata da Bizzi anche le cooperative rosse del Ccc, il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna finito nelle carte di un’indagine della procura di Monza parallela a quella su Penati. Loro non si fanno toccare da questioni di verde o di efficienza sanitaria. E nemmeno le banche, che così avranno ottime probabilità di recuperare parte di vecchi crediti rimasti bloccati per anni. Intesa, Unicredit e Popolare di Milano, infatti, negli anni d’oro avevano finanziato Zunino a piene mani, salvo poi diventare azioniste di Risanamento per evitarne il fallimento. E’ stato quindi sotto la loro regia che si è conclusa la vendita a Bizzi dell’area, operazione che vide le banche investire complessivamente più di mezzo miliardo contro i 16,6 milioni di Bizzi e prendersi in pegno tutte le azioni della Sesto Immobiliare a fronte di crediti che a fine 2011 superavano i 400 milioni (oltre 300 quelli in capo a Intesa) senza contare i prestiti diretti ai soci di Sesto. Unico l’obiettivo: che il progetto vada in porto, le case si vendano e i crediti divengano solvibili.
Allora ben venga “l’ospedale modello”, come lo definisce l’archistar che firmerà il progetto, Renzo Piano, mentre nei piani alti di Palazzo Lombardia lo slogan recita: “Prende forma la sanità del futuro”. Un futuro fondato su un binomio piuttosto vecchio, quello di mattone e finanza, che fa felice anche la giunta di centrosinistra alla guida di Sesto San Giovanni che si è aggiudicata il progetto dopo un derby con il Comune di Milano. Il sì definitivo è arrivato in fretta e furia in autunno, prima della fine anticipata della legislatura, mentre il progetto è stato presentato in pompa magna sotto Natale. Un’accelerazione del processo burocratico che come effetto collaterale, tra l’altro, potrebbe evitare indagini della Corte dei Conti sui 3,2 milioni già spesi per la Città della Salute, quando ancora si pensava di farla nella zona di Vialba, a nord di Milano.
Il derby tra Sesto e Milano – Il progetto della Città della salute parte da lontano. Se ne fa carico lo stesso Formigoni, che nell’aprile 2009 arriva alla firma di un accordo di programma per realizzare una struttura che dovrebbe riunire il Besta, l’Istituto dei tumori e il Sacco. Viene costituito, sotto la guida di Luigi Roth, un consorzio che riunisce i tre enti e che avvia uno studio di fattibilità. Il nuovo ospedale dovrebbe sorgere accanto al Sacco, nella zona di Vialba. A favore del consorzio viene impegnata sul bilancio regionale del 2010 una somma di 28 milioni di euro, con due decreti del direttore generale della Sanità Carlo Lucchina. Ma a fine 2011 il progetto salta per problemi di tipo logistico e per la presenza di un corso d’acqua, che sino a quel momento nessuno ha preso in considerazione. Il consorzio viene sciolto, ma intanto sono già stati bruciati almeno 3,2 milioni di euro. Serve un nuovo spazio e Giorgio Oldrini, il sindaco del Pd successore di Penati a Sesto San Giovanni, candida l’ex area Falck. Si fa avanti anche Giuliano Pisapia, che per mantenere le strutture sanitarie sul territorio milanese propone l’area della caserma Perrucchetti. Ma il Celeste sin da subito sembra non voler concedere a Palazzo Marino il tempo necessario per arrivare a un accordo con il ministero della Difesa, proprietario della Perrucchetti. Così a fine maggio 2012 Milano esce di scena e lo studio di fattibilità pensato per Vialba viene preso per buono anche per l’area di Sesto. Un esito scontato, dopo un balletto di scadenze, rinvii sulla decisione e divergenze tra il Pd milanese che sostiene Pisapia e i democratici di Sesto San Giovanni e consiglio regionale, favorevoli all’operazione sull’ex area Falck.
Interessi ‘rossi’ (e non solo) – La decisione della giunta formigoniana, infatti, piace anche ai consiglieri regionali del Pd. Del resto sull’area di Sesto sono forti gli interessi delle cooperative rosse del Ccc, già in prima fila per aggiudicarsi i lavori di bonifica, i cui costi sono a carico della Sesto Immobiliare. Il progetto della bonifica è stato firmato dallo studio di Claudio Tedesi, ingegnere vicino al ras della sanità pavese Giancarlo Abelli. Tedesi ha già lavorato con il defunto Giuseppe Grossi a progetti controversi, come quello del quartiere Santa Giulia anch’esso della galassia che fu di Zunino e finito al centro di un’inchiesta della Procura di Milano per lavori di bonifica mai eseguiti.
Nella partita giocherà da protagonista anche la Compagnia delle opere, il braccio economico di Cl che, oltre a Formigoni, in Lombardia ha tra i suoi maggiori esponenti politici Maurizio Lupi, vicino a Bizzi.
I costi di un progetto “monco” – L’unione di Besta e Istituto dei tumori, però, non piace a tutti. Il progetto è troppo costoso e, dopo l’esclusione del Sacco, è diventato pure monco, sostiene Alberto Maspero, ex direttore medico del Besta: “Manca un ospedale generalista con la possibilità di avere un pronto soccorso e reparti adatti a gestire patologie concomitanti che possono colpire un malato neurologico”. Paolo Crosignani, primario dell’unità Registro tumori ed Epidemiologia ambientale dell’Istituto dei timori, non vede alcuna sinergia tra il suo ospedale e il Besta: “Che hanno in comune oncologia e neurologia? L’una cerca di distruggere cellule tumorali, l’altra di fare sopravvivere cellule deteriorate. Forse in comune ci sono solo la caldaia e la farmacia”. Ma il progetto si farà. In Regione sono tutti d’accordo: il Besta deve traslocare dalla propria sede, ormai troppo obsoleta, e la Città della salute consentirà di integrare ricerca e nuovi strumenti di cura. Dei 450 milioni che verranno spesi, il Pirellone ne mette 330, lo Stato 40, gli altri 80 dovrebbero arrivare dai privati. Il finanziamento regionale, però, non è a fondo perduto, ma proviene da un fondo di rotazione, cioè un prestito che nei prossimi anni peserà sui due istituti pubblici come un debito. “Avremo meno risorse per comprare tecnologie, strumentazioni, per assumere un buon chirurgo e investire nel personale”, aggiunge Crosignani. Il tutto a scapito dell’offerta sanitaria, visto che le risorse vengono investite in un intervento di edilizia.
La Salute con il cemento attorno – Il super ospedale sorgerà al centro di una nuova città con 607mila metri quadri di nuovi alloggi. A cui si aggiungono 100mila metri quadri di centro commerciale e negozi, 147mila di terziario, 27mila di strutture ricettive, 81mila di strutture produttive e 49mila di servizi. Oltre a 60mila metri quadri di edilizia sociale, benedetta dall’ex assessore regionale alla Casa Domenico Zambetti appena qualche mese prima di finire in carcere con l’accusa di aver comprato voti dalla ‘ndrangheta. Il suo arresto ha dato il colpo di grazia alla giunta, ultima mazzata dopo gli scandali della sanità lombarda. E, ora, proprio alla sanità è dedicata la riga più importante del testamento di Formigoni. Prossimo passo, la pubblicazione ad aprile del bando di gara per i lavori dell’ospedale. Fine prevista nel 2017, collaudo e trasloco nel 2018. Celeste eredità.
Corriere della Sera Milano, 7 febbraio 2013, postilla (f.b.)
L'inaugurazione della prima tratta e il completamento dell'intera linea 5 permetteranno a Milano di fare un enorme passo avanti in termini di estensione di rete metropolitana. Oggi si aggiungono 4,1 km agli attuali 83,5 km di rete complessiva di metropolitana e in futuro altri 8,5 km. Si arriverà a un totale di oltre 96 km di rete. Milano ha quindi raggiunto, anche se faticosamente e lentamente, reti metropolitane presenti in città europee quali Monaco di Baviera (95 km) e Barcellona (102 km). La crescente capillarità del servizio collettivo di Milano è dimostrata anche dal fatto che la neonata linea lilla interscambierà, quando sarà ultimata, con tutte le linee di metropolitana, il passante ferroviario e numerose linee suburbane su ferro. La completa automazione (sistema driverless) della marcia garantisce elevati livelli di innovazione tecnologica e permette di offrire un servizio più sicuro impedendo gli investimenti di persone e, al gestore, una maggiore economia e un aumento del numero dei treni in servizio. Questa elevata automazione deve però essere affiancata da un elemento fondamentale quale la percezione di sicurezza delle stazioni.
Oltre a questi aspetti positivi è necessario riflettere e cercare soluzioni sul perché a Milano e in Italia i poli attrattori e generatori di spostamenti si costruiscano senza pensare alle dovute infrastrutture di trasporto, se non anni dopo. Infatti solo ultimamente è stato collegato il forum di Assago alla rete metropolitana; da ora la linea 5 servirà l'università Bicocca, l'ospedale Niguarda e il Cto e in futuro lo stadio di San Siro, non certo costruito recentemente, mentre le linee di metropolitana progettate (si veda la linea 4) raggiungeranno l'aeroporto di Linate unendolo finalmente alla città con una linea di forza, come succede in tutte le maggiori città europee. Ora, e sempre di più, esiste un'alternativa al trasporto privato e di conseguenza si rende necessario convincere in tutti i modi, Area C inclusa, i cittadini ad usare meno l'auto e più i trasporti collettivi.
Un incentivo sarebbe l'esistenza di una rete metropolitana che si estendesse maggiormente verso l'hinterland, permettendo di svolgere lo spostamento integralmente su mezzo collettivo. È però doveroso sottolineare che la linea lilla manca di parcheggi di interscambio per invogliare gli utenti ad abbandonare l'auto ed utilizzare la metropolitana. Parcheggi che potrebbero, in maniera innovativa, prevedere una condivisione degli spazi destinati alla sosta di interscambio con funzioni tipicamente di natura commerciale, con una condivisione della spesa tra pubblico e privato.
Infine dopo aver raggiunto standard europei in termini di estensione di rete metropolitana, è ora necessario potenziare e sfruttare al meglio la rete di superficie composta da tram e autobus, la cui estensione è superiore a tantissime città europee. Per avere servizi affidabili e di elevata qualità si deve proteggere e dare priorità al trasporto collettivo.
Postilla
Figuriamoci se è possibile non essere d'accordo con questo articolo: che però si limita a sfiorare quello che, in buona parte, è il vero problema, ovvero la dimensione extraurbana. Ulteriormente sottolineata dal fatto che tutti i nodi di prossima realizzazione citati si trovano ancora, rigorosamente, nel comune di Milano, nel microscopico comune di Milano, per chi non lo conoscesse direttamente. Mentre gli spostamenti col mezzo privato, lei mi insegna, hanno quasi sempre origine (a volte anche destinazione) suburbana. Certo non è cosa che si possa risolvere dall'oggi al domani, ma dare le giuste proporzioni a queste poche centinaia di metri di percorso in sotterranea della nuova Linea 5 aiuta a capire l'entità della sfida. Per ora rinviata (f.b.)
La Repubblica Milano, 5 febbraio 2013 (f.b.)
C’È IL progetto dell’Arci, che sogna la cascina Cotica a Lampugnano per la sua nuova sede aperta alla città. Ma c’è anche un’associazione di cittadini che vorrebbe trasformare la Sella Nuova, in zona Bisceglie, in una sorta di “università delle buone pratiche”. In tutto, sono 79 i progetti presentati a Palazzo Marino da associazioni e privati, che coinvolgono tutte e 16 le cascine comunali alle quali si vuol dare una seconda vita. È il risultato dell’indagine pubblica preliminare che l’amministrazione ha svolto per salvare il patrimonio, spesso storico, di immobili in condizioni disastrate.
Tecnicamente, le proposte pervenute si chiamano manifestazioni d’interesse, risultato di un’iniziativa del Comune per testare la disponibilità dei cittadini a rilanciare questi edifici. Ed è sulla base proprio di queste indicazioni che l’amministrazione modellerà i bandi da lanciare entro l’estate, in modo graduale. La città ha risposto con progetti di attività sociale, agricola, di accoglienza, ma anche con proposte per realizzare incubatori d’impresa e centri di co-working. Pensati per tutte e 16 le cascine da recuperare. Casanova, Taverna, una parte di Monluè, Colombè, Vaiano Valle, San Bernardo, Campazzino, Monterobbio, Carliona, Case Nuove, Lampugnano, Torchiera (dove oggi c’è un centro sociale), nessuna esclusa. Per la Sella Nuova il progetto presentato dall’omonima associazione punta a trasformare la cascina in un centro didattico con cantierescuola sul restauro, una scuola di cucina biologica e orti urbani.
Un centro dedicato all’agricoltura è l’idea per la cascina Brusada, in via Caprilli, e un’intenzione simile c’è anche sulla Sant’Ambrogio, in zona Forlanini. Alla Cotica l’Arci vorrebbe traslocare la sua sede provinciale, oggi in zona Porta Romana. «È un progetto aperto alla città che vorremmo realizzare a impatto zero — spiega Emanuele Patti, presidente di Arci Milano — . Una nuova sede ma anche uno spazio di aggregazione, orti didattici. Un luogo aperto alla cittadinanza attiva, polifunzionale ».
C’è, però, un problema risorse. Il progetto della giunta è di dare le cascine a chi si impegna a recuperarle in concessione fino a 90 anni e ad affitti calmierati, a fronte della garanzia che i progetti abbiano una funzione pubblica e siano sostenibili dal punto di vista finanziario. Ma in media, ogni piano di riqualificazione costa dai tre ai quattro milioni. E chi si è fatto avanti con i progetti è anche lo stesso che fa notare che servirà qualche agevolazione per recuperare tutti i fondi, da banche e investitori privati. «Abbiamo chiesto per esempio che oltre al comodato d’uso della cascina ci venga ceduto anche il diritto di superficie in modo da poter chiedere un mutuo — aggiunge Patti — qualche garanzia per il credito per darci una mano».
Il Comune esulta: «Siamo molto soddisfatti — dichiara l’assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris — per la qualità delle proposte. Molti progetti provengono da organizzazioni che operano sul territorio che, spesso, hanno anche un rapporto diretto, oltre che affettivo, con questi luoghi. Questo significa che i milanesi hanno colto lo spirito con il quale desideriamo avviare la riqualificazione delle cascine: sono spazi storici, belli e preziosi che dobbiamo cercare di rendere il più possibile aperti attraverso attività di tipo sociale, culturale, ma anche imprenditoriale ».
Il Fatto quotidiano, 5 febbraio 2013, postilla (f.b.)
Milano. Costruttori vicini a Comunione e liberazione e cooperative rosse. Ma soprattutto le banche, con Intesa in prima fila. Sono i beneficiari di uno degli ultimi provvedimenti di Roberto Formigoni. Un colpo di coda che per la banca che per anni è stata nelle mani di Corrado Passera vale almeno 300 milioni. Il regalo si nasconde dietro alla Città della Salute, il mega ospedale che verrà costruito sull’ex area Falck di Sesto San Giovanni. La struttura riunirà due istituti pubblici di ricerca e cura, il neurologico Besta e l’Istituto nazionale dei tumori, in un progetto che mette la sanità lombarda al servizio di banche e mattone.
Nel 2011 sull'area di Sesto, la stessa al centro dell’inchiesta sull’ex campione del Pd, Filippo Penati, è stato approvato un piano di intervento faraonico, che prevede un milione di metri quadrati di nuovi edifici, tra residenze, alberghi, uffici, servizi e un grande centro commerciale. Una nuova città da 20 mila abitanti dentro a quello che è già uno dei comuni più densamente abitati d’Italia. Valore di mercato stimato: 4 miliardi. Ma il rischio è grosso: nei tempi di magra del settore immobiliare gran parte di quel cemento potrebbe rimanere invenduto. Il nuovo ospedale è l’elemento che mancava, il volano per tutta l’operazione. E fa niente se tra gli addetti alla sanità qualcuno considera insensata la costruzione di un ospedale che costa 450 milioni. O se la nuova struttura si mangerà 205 metri quadri del parco da 450 che il piano originario aveva già promesso ai cittadini per il riequilibrio delle zone verdi
Non sono certo un po’ di alberi in meno a preoccupare la Sesto Immobiliare di Davide Bizzi, la società che nel 2010 ha rilevato l’area dall’indebitatissima Risanamento che fu di Luigi Zunino. Fanno parte della cordata guidata da Bizzi anche le cooperative rosse del Ccc, il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna finito nelle carte di un’indagine della Procura di Monza parallela a quella su Penati. Loro non si fanno toccare da questioni di verde o di efficienza sanitaria. E nemmeno le banche che avranno ottime probabilità di recuperare parte di vecchi crediti rimasti bloccati per anni. Intesa, Unicredit e Popolare di Milano, infatti, negli anni d’oro avevano finanziato Zunino a piene mani, salvo poi diventare azioniste di Risanamento per evitarne il fallimento.
È stato sotto la loro regia che si è conclusa la vendita a Bizzi dell’area, operazione che vide le banche stesse investire complessivamente più di mezzo miliardo nel progetto contro i 16,6 milioni di Bizzi e prendersi in pegno tutte le azioni della Sesto Immobiliare a fronte di crediti che a fine 2011 superavano i 400 milioni (oltre 300 quelli in capo a Intesa) senza contare i prestiti diretti ai soci di Sesto. Ben venga, quindi, “l’ospedale modello”, come lo definisce l’archistar che firma il progetto, Renzo Piano, mentre nei piani alti di Palazzo Lombardia lo slogan recita: “Prende forma la sanità del futuro”. Un futuro che fa felice anche la giunta di centrosinistra alla guida di Sesto che si è aggiudicata il progetto dopo un derby con il Comune di Milano. Il sì definitivo è arrivato in autunno, prima della fine anticipata della legislatura, mentre il progetto è stato presentato sotto Natale. Una decisione che come effetto collaterale potrebbe evitare indagini della Corte dei Conti sui 3,2 milioni già spesi per la Città della Salute, quando ancora si pensava di farla a nord di Milano.
La scelta della giunta formigoniana, poi, piace anche ai consiglieri regionali del Pd, mentre il Ccc è già in prima fila per aggiudicarsi i lavori di bonifica, il cui progetto è stato firmato dallo studio di Claudio Tedesi, ingegnere vicino al ras della sanità pavese Giancarlo Abelli. Tedesi ha già lavorato con il defunto Giuseppe Grossi a progetti controversi, come quello del quartiere Santa Giulia anch’esso della galassia che fu di Zunino e finito al centro di un’inchiesta della Procura di Milano per lavori di bonifica mai eseguiti. Nella partita giocherà da protagonista anche la Compagnia delle opere, il braccio economico di Cl che, oltre a Formigoni, in Lombardia ha tra i suoi maggiori esponenti politici Maurizio Lupi, vicino a Bizzi. Il super ospedale, però, non piace a tutti. Il progetto è troppo costoso e monco, visto che manca un polo generalista (inizialmente doveva essere il Sacco). Paolo Crosignani, primario dell’unità Registro tumori ed Epidemiologia ambientale all’Istituto dei tumori, si chiede: “Che hanno in comune oncologia e neurologia? Forse solo la caldaia e la farmacia”. Ma il progetto si farà: la Regione ci mette 330 milioni, lo Stato 40, gli altri 80 dovrebbero arrivare dai privati. Il finanziamento regionale, però, nei prossimi anni peserà sui due istituti pubblici come un debito. Celeste eredità.
Postilla
Ecco, forse sono le ultimissime battute dell'articolo, ben oltre i classici - giustificati - toni un po' complottardi tipici del Fatto quotidiano, a dare il senso agli esiti di tutta l'operazione: investimenti immobiliari anziché in qualità dei servizi sanitari, come si sarebbe potuto fare anche senza alcuna cittadella ospedaliera. Si spera se non altro che coi nuovi equilibri politici auspicabili dopo le elezioni si cominci a riflettere in questo senso. Per i retroscena degli interessi economici in gioco, ovviamente, gli appassionati possono stare tranquilli: cambio di nomi a parte, lo spettacolo è destinato a proseguire. Solo, si spera, più lontano dalle aule dei tribunali (f.b.)
La Nuova Sardegna, 4 febbraio 2013
Quatar Quatar , la Costa Smeralda, ilnuovo mini master plan. Sarebbe utile un riassunto delle puntate precedenticome per i lunghi sceneggiati televisivi. Ma qui, per comodità di sintesi, basta ricordare i vecchi famigerati master plan di taglia larghissima,spazzati via con ignominia (nonostante le regole permissive e scombinate, aloro volta cassate dai giudici).Non sono neppure rimasti negliarchivi ma hanno monopolizzato a lungo il dibattito, eccitato dai tentativi diprodurre consenso per le mirabolanti prospettive del ciclo edilizio. Del qualeoggi, nonostante la crisi senza tregua, è difficile nascondere i guasti.Bastano le immagini di Avenida de la Ilusion – le migliaia di case vuote schierate attorno algolf di Benalmádena nella Costa del Sol –, per spiegare ildissesto economico in Spagna e i rischi della bolla globale.
Per questo fa impressione lafiducia verso il mini master plan confezionato per i sindaci di Arzachena eOlbia. Ancora incoerente con le disposizioni del piano paesaggisticocorroborato da una lunga serie di sentenze che hanno dato torto ad agguerritiricorrenti.
Non si può fare quasi nulla diquello che nei disegni colorati simula il futuro radioso di quei lidi. Neppureaggiungendo “un tocco d'Oriente in quel tratto della costa orientale sarda” –com'è nelle espressioni più temerariesuggerite dagli addetti stampa della Costa Smeralda2, sempre rassicuranti suimpatto dolcissimo e rispetto della tradizione non si sa quale.
Evidente l'obiettivo dialimentare il solito groviglio di speranze con il noto programma nebuloso:il miliardo che sarà investito (chi ecome certificherà i flussi di spesa ?), gli alberghi, le villone e le villette“spalmate”, “nascoste nel verde”, senzaspiegare la suddivisone dei 500/600mila mc. (e infatti i conti non tornano). Epoi i soliti investimenti aggiuntivi a soccorso (università, trasporti,ospedali), le ricadute dappertutto, fino ai ritocchi da luna park (kartodromo eacquafan) che fanno rimpiangere le terrazze di Marta Marzotto.
Ma finalmente, tra le notiziesulle fantastiche intenzioni della holding con il cuore d'oro, si ammette che, insomma, senza un dietrofront delle disposizioni invigore il progetto della banca d'affari araba sarebbe respinto perché lesivodel paesaggio.
Ma com'è che un imprenditoreavanza proposte in contrasto con le leggi della Regione? La risposta è nel vento cagliaritano: neipalazzi della Regione dove si cerca affannosamente il modo per domare il pianopaesaggistico in funzione delle attese del Qatar. E' assurdo che le rigorose certificazionisulla bellezza di un luogo possano essere contraddette per compiacere interessisoggettivi. Ma siamo talmente abituati all'idea di leggi fatte su misura chenessuno chiede al sindaco di Arzachena di spiegare cos'è “la sinergia per superare i vincoli del Ppr” evocata nella intervista a «La NuovaSardegna» del 31 gennaio scorso. “Unapossibilità di cui parlammo già a novembre con il presidente Monti” – aggiunge, lasciando intendere incautamente che lo Stato sarebbe pronto a ricredersi su Monti Zoppu o Razza diJuncu che sarebbero indegni di tutela perché lo chiedono a Doha.
Colpisce questa propensioneall'inchino: una postura che diventerà definitiva “naturalmente” (“s'arvure torta nons'adderectat prusu” “l'albero storto non si raddrizza più” ) se la Sardegnacontinuerà a subire i disegni altrui. Occorre invece allacciarsi alle più moderne e evolute strategie di governo del territorio. Anche perinnovare la ricettività alberghiera in Costa Smeralda. Ma non con visioni e strumenti novecenteschi.Com'è paradossalmente il decaduto programma di fabbricazione (?) di Arzachena– degli anni Settanta! – renitente ad adeguarsi alle leggi dellaRegione Autonoma ma pronto ad accogliere, tempestivamente e docilmente, iprogrammi di un emirato.
Corriere della Sera, 4 febbraio 2013 (f.b.)
LONDRA — L'asfalto di un parcheggio aveva inghiottito l'ultimo Plantageneto. Quel re usurpatore e sanguinario era lì sotto, a Leicester, dimenticato da oltre cinque secoli. Le ossa ancora intatte, con i segni sul cranio dell'ultima battaglia, la spina dorsale incurvata. Shakespeare a Riccardo III aveva dedicato un capolavoro teatrale: «Ho tramato complotti di ogni genere / ho iniettato negli animi il veleno con profezie, calunnie, fantasie / per seminare mortale inimicizia». E con poche parole all'inizio del primo atto, recitate dallo stesso monarca-protagonista, ne aveva dato una magistrale descrizione. Qual è stata la sua sorte?
Riccardo III entrato nella storia inglese con una pessima fama. Sparito. Ritrovato per caso. L'università di Leicester ormai è certa, il margine di errore è ridotto al lumicino. Oggi diranno pubblicamente e definitivamente che lo scheletro scoperto all'inizio dello scorso settembre è proprio di Riccardo III, undicesimo figlio del duca di York, capitolo finale della casata sconfitta dai Tudor. Gli esami del Dna hanno dato il loro responso. La scienza ha consentito di prelevare un campione genetico dai resti e di metterlo a confronto con il profilo di un mobiliere canadese residente a Londra, Michael Ibsen, diretto discendente di Anna di York, sorella di Riccardo III. «Ormai, lo possiamo dire, al 99,9 per cento, è proprio lui», ha confidato al Sunday Times Philippa Langley, membro della «Richard III Society».
Quando, nel 2012, gli archeologi chiesero il permesso di scavare nel centro di Leicester, città che è nel cuore dell'Inghilterra, pensavano ad altro. Non al Plantageneto cresciuto nello Yorkshire, divenuto duca di Gloucester, incoronato il 6 luglio 1483 a Westminster. Pensavano piuttosto di andare alla ricerca di un antico convento distrutto nel Cinquecento, volevano e ne erano sicuri che saltassero fuori le fondamenta della chiesa francescana. Ma è accaduto il più classico degli imprevisti. Buttando all'aria la colata di cemento e scavando un po' hanno visto quello scheletro con i segni evidenti di una sofferenza spinale, con i segni di una lama conficcata in un gamba e con il cranio che mostrava l'affossamento per un colpo ricevuto.
Era morto in battaglia Riccardo III, la battaglia di Bosworth Field il 22 agosto 1485 contro l'esercito dei Lancaster guidato da Enrico Tudor. Il futuro Enrico VII. Che fossero proprio di Riccardo III le ossa intrappolate nella terra per cinque e più secoli sotto il parcheggio? Da almeno tre anni gli archeologi dell'università di Leicester sostenevano che sarebbe stato possibile rinvenire le testimonianze dello scontro armato fra l'ultimo degli York e il primo dei Tudor. E che forse anche i resti di Riccardo III erano lì, nonostante dalle tradizioni arrivasse il racconto delle spoglie fatte bruciare da Enrico VII. Avevano ragione?
Gli esami del Dna, pur lasciando una lievissima porta aperta al dubbio, sciolgono il giallo: lo scheletro è di Riccardo III. Non che tutti siano d'accordo. Ad esempio il professor Mark Horton dell'università di Bristol è scettico: «Il Dna non è la panacea che risolve i misteri storici». E non si fida. Più sicuro Mike Pitts del «Council for British Archeology» che al Guardian dichiara: «I test scientifici aggiunti alle evidenze storiche offrono risposte attendibili». Il dibattito è aperto.
Poi, c'è chi già invoca solenni funerali di Stato per quelle ossa. Li chiede il parlamentare conservatore Chris Skidmore. Forse troppo entusiasta della scoperta. Ma è certo che, una volta superate le diatribe accademiche, Riccardo III troverà degna tumulazione: sarà nella cattedrale di Leicester, proprio di fronte al parcheggio che lo ha tenuto sepolto dal 1485.
A venti giorni da un voto nazionale e regionale importantissimo che può chiudere un ventennio di berlusconismo distruttivo per la cultura e per l’identità nazionale, un ventennio di inquinamento profondo dei pozzi dei saperi fondamentali e di esaltazione provinciale dell’individualismo più becero, bisogna con maggior forza far entrare nel dibattito politico la “ricostruzione” della cultura italiana in ogni ambito. Essa è la leva forte per uscire dall’orrendo pantano in cui il Paese è stato cacciato, per una sua effettiva, durevole rinascita internazionale. Su questo punto altamente strategico il governo Monti purtroppo non è servito ad invertire la spinta berlusconiana verso un degradante declino. Anzi, il ministro Lorenzo Ornaghi è stato, per negatività, pari se non peggiore dei predecessori Galan e Bondi. Il budget del Ministero, già modesto rispetto ai Paesi sviluppati, è stato ancora tagliato con l’accetta: del 40 % nell’ultimo decennio. Per la parte riguardante la cultura la stessa Agenda Monti si è rivelata di una pochezza, di una banalità disarmanti confondendo cultura e turismo.
Il compito strategico di risollevare la cultura in generale e di farne, con la ricerca, la leva essenziale della rinascita generale del Paese spetta dunque al centrosinistra, alla sinistra, spetta al Partito Democratico anzitutto e al suo alleato Sel, a quanti sostengono questo blocco riformatore. Ma nel dibattito elettorale ciò si avverte ancora troppo poco rispetto al disastro in cui siamo precipitati: con archivi e biblioteche (eccezionali per storia e dotazione) ridotti a luoghi spenti e disertati, oggetto di autentiche ruberie come la vicenda dei Girolamini documenta, con grandi musei, alcuni da poco finiti di restaurare splendidamente, che lottano per rimanere aperti come devono, con la rete essenziale dei musei civici che rischia di sfibrarsi, con la didattica in generale, a partire da quella museale, azzerata, con Soprintendenze che non hanno mezzi né personale tecnico per garantire una vera tutela del patrimonio aggredito da ogni parte, specie nel paesaggio sfigurato e nei centri storici oggetto di nuovi insidiosi assalti. Mentre il Paese frana e smotta ad ogni pioggia appena battente, avendo anche in questo caso disossato le Autorità pubbliche, mentre la Lega Nord proponeva di gestire tragicomicamente regione per regione persino il Po e il centrodestra non istituiva le Autorità di Distretto votate in Europa. O si faceva avanzare lo smembramento, allo stesso barbaro modo, di Parchi Nazionali come Stelvio e Gran Paradiso, e si lasciavano gli altri Parchi in una condizione di indigenza che vuol dire impotenza contro speculatori edilizi, bracconieri, cacciatori, disboscatori, ecc.
Il Malpaese rischia dunque di sopraffare il Belpaese e anche gli appelli – come quello recentissimo per l’alluvione di Sibari (e parlo di Sibari, tesoro archeologico) – rischiano ormai di cadere nel vuoto, di non venire raccolti da una stampa sorda e dalla stessa Rai che ha cancellato le trasmissioni culturali o le ha relegate a notte fonda oppure all’ora dei pasti, se va bene. A Appiattita dunque sui peggiori modelli della tv commerciale.
Nell’era berlusconiana, proseguita, come una inarrestabile “onda nera”, anche col governo dei tecnici, si sono tagliati i viveri di sopravvivenza al cinema, pericolante e però sempre creativo, al teatro, che pure continuava a conquistare spettatori, alla musica di ogni genere, dal gregoriano al jazz, alle avanguardie. Certo che in passato vi sono stati, specie negli ex Enti lirici, sprechi, rendite parassitarie e ve ne sono ancora. Ma non è così che si interviene su un corpo malato se lo si vuole, se lo si deve curare. E lo si deve perché cinema, teatro, musica, balletto, arte, paesaggio sono o erano la nostra grande forza. Coi tagli lineari alla Tremonti si sono letteralmente amputate parti del corpo vivo della cultura. Il taglio dei trasferimenti erariali ha spinto i Comuni da un lato a schiacciare l’acceleratore dell’edilizia speculativa pur di fare cassa (senza curarsi dell’impatto orrendo sui paesaggi), dall’altro a ridurre l’attività culturale decentrata, a spegnere le luci di teatri storici restaurati e di moderne sale da musica e da prosa, con effetti a cascata di incalcolabile gravità.
Mille altre cose vi sarebbero da denunciare e quindi da proporre. Ma qui mi fermo, sottolineando soltanto come la formidabile “rete” dei nostri parchi e paesaggi, dei nostri quattromila musei, delle duemila aree archeologiche, delle centomila chiese, dei quarantamila castelli e torri, dei ventimila centri storici, di migliaia di biblioteche antiche e di decine di migliaia di archivi ecclesiastici e civili, degli ottocento teatri storici e di tanto altro ancora sia la nostra identità storica e sia anche, se tutelata adeguatamente, se fatta vivere decorosamente, gran parte dell’attrattiva turistica. Di oggi e ancor più di domani.
Eppure si calcola che il sistema produttivo della cultura occupi quasi 1 milione e mezzo di addetti. Perché il centrosinistra, la sinistra, il Pd non rilancia – a partire dall’”Unità” - una grande, generosa, illuminata battaglia per la Cultura come la madre di tutte le battaglie, anche del lavoro e dell’occupazione qualificata?
Il Fatto Quotidiano on-line
, 2 febbraio 2013 (m.p.g.)
Qualche giorno fa Ernesto Galli Della Loggia e Roberto Esposito hanno proposto di cambiare il nome e la missione del Ministero dei Beni culturali in quelli di «Ministero della Cultura».
Proprio ciò di cui c’è bisogno, no?
Tra gli entusiasti plaudenti, si segnala il noto archeologo Andrea Carandini, che ha sobriamente dichiarato: «Questa ipotesi è verosimile solo a un patto: che un nuovo governo dimentichi le tristi vicende di un Ministero dei Beni culturali ormai morto, e sposi una concezione della cultura come ingrediente caratterizzante qualsiasi produzione legata al marchio Italia» (Corriere della sera, 26 gennaio 2013).
Il ‘marchio Italia’: ecco un’idea originale. Proprio quello che ci aspettiamo da un intellettuale: asservire la cultura all’onnipotenza del mercato.
Ma da tempo Carandini è un ardente sostenitore della privatizzazione del patrimonio storico e artistico della nazione: perfettamente in sintonia con il programma di Ilaria Borletti Buitoni, l’ex presidente del Fai che Mario Monti ha voluto capolista in Lombardia perché secondo lui rappresenterebbe «un’eccellenza nella conservazione dei Beni Culturali» (Corriere della sera, 1° febbraio 2013). Non uno storico dell’arte, un soprintendente, un archeologo: ma una gentile ed edificante dama della carità. Charity e Brand Italia: un binomio perfetto.
E infatti, notizia del 1° febbraio (sempre il «Corriere»), Andrea Carandini è in pole position per succedere alla signora Borletti Buitoni alla presidenza del Fai.
Un ammirevole caso di ripensamento, visto ciò che, nel 2000, Carandini scriveva della fondatrice del Fai, l’affascinante e carismatica Giulia Maria Crespi: «Giulia Maria Crespi, breve incontro. Ho incontrato a una cena Giulia Crespi. Walter Veltroni l’ha nominata nel Consiglio Nazionale dei Beni Culturali, immagino in quanto presidente del FAI. “Chi è lei? – mi ha chiesto – e io: Andrea Carandini, nipote di Luigi Albertini”. Ha capito subito, avendo contribuito i Crespi a far fuori Albertini da il ‘Corriere della Sera’, che era stato lui a creare come grande giornale nazionale. Ho pensato, quella sera, a quanto aveva sofferto mio nonno per quel nome, che ora davanti a me sentenziava nel suo esponente attuale. A un certo punto ho parlato della legge 1089 e del problema che manca ad esso un regolamento … A quel punto lei mi suggerisce: “Mi scriva, la prego, sull’argomento…” Ho cercato di spiegare alla signora che la cosa era semplice, e non abbisognava di petizione alcuna. Poi lei candidamente: “Mi dica Carandini, cosa è la 1089?”, che è una debolezza per un consigliere nazionale dei beni culturali. … Sì, una patina di borghesia la vedevo depositata sul suo volto stanco, ma continuavo a sentirmi in imbarazzo, per ragioni sociologiche ed emotive». (Giornale di scavo, Torino, Einaudi, 2000, pp. 79-80).
Ora Carandini deve aver superato l’imbarazzo, e Giulia Maria Crespi non deve sembrargli più sentenziante, o debole. Né il suo volto così stanco.
Certo, forse avrebbe preferito essere al posto di Ilaria Borletti Buitoni, candidata di Monti al Ministero dei Beni culturali. Ma anche prenderne il posto alla presidenza del Fai è meglio di nulla.
E il resto è noia. Patinata di borghesia.
La Repubblica Milano, 1 febbraio 2013, postilla (f.b.)
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| (foto Corriere della Sera) |
È PROBABILE che di fronte a una presentazione “alla pari” delle varie ipotesi, quella di tenere viva una parte dell’oasi nella Darsena come isola avrebbe potuto anche prevalere nell’opinione pubblica. Ma non ce n’è stata l’occasione, e in ogni caso sarebbe stata contrastata. È comunque notevole che la controversia abbia appassionato non poche persone, tra gli architetti, gli ambientalisti, nel mondo politico comunale, sui giornali e soprattutto in rete. Anche chi accetta che “dal letame nascono i fiori” e ha continuato a parlare di “erbacce e rospi”, potrà convenire che se le ruspe portano via il verde spontaneo della Darsena, però l’idea della opportunità e possibilità di oasi urbane di biodiversità si è fatta strada a Milano attaverso questa discussione.
Anche perché — particolare da non trascurare — costano molto meno in termini di manutenzione rispetto al tradizionale verde artificiale urbano.
I rappresentanti dell’amministrazione hanno detto che intendono realizzare nella stessa Darsena, nel suo lembo più occidentale, un’analoga vegetazione per 2.500 metri quadrati capace di attirare l’avifauna. Non sarà visibile e centrale come quella che viene soppressa ora, ma a questo punto è importante che ci provino davvero a farla, e da subito: anche per una questione di coerenza. E poco più a Sud, a poche centinaia di metri, tra i due Navigli c’è una fantastica Cascina semidiroccata in mezzo ad aree verdi non curate da anni, con alberi e cespugli, i rovi dell’abbandono, e una roggia che ha sempre acqua. Si chiama Sieroterapico. Si rifugeranno lì anche le gallinelle e gli aironi? Dipende anche dagli umani, da chi vuole avere nella città spicchi di calma e di biodiversità.
Postilla
L'invito è anche a chi non è particolarmente interessato alle cose milanesi, a riflettere davvero su quanto intuito un po' confusamente dai cittadini a proposito di questo specifico progetto: la natura in città, stavolta davvero ragionando in termini “globali” (l'urbanizzazione del pianeta ecc.), deve essere oggetto di profonda riflessione e trasformazione di prospettive. Quindi anche di modus operandi delle pubbliche amministrazioni, magari sostenuto da apposite leggi, norme, politiche di informazione e animazione, sinergia fra i vari settori (f.b.)
La Nuova Sardegna, 31 gennaio 2013 (f.b.)
La matita con cui disegnare la Costa Smeralda di domani, dal Qatar passa nelle mani del Comune. Il piano del petroemirato per cambiare il volto di Porto Cervo, cancellare le rughe della signora del turismo e rinfrescare il suo antico fascino, dovrà essere interpretato come uno schizzo. Una bozza da cui prendere spunto. Un piano non blindato, come sottolinea anche la lettera di accompagnamento al progetto strategico della Costa Smeralda, arrivati dal Qatar nelle mani del sindaco Alberto Ragnedda. Oltre 150 pagine in cui il nuovo proprietario del borgo mette nero su bianco l'idea di Costa Smeralda già illustrata a Doha. Quattro hotel di lusso da 500 posti letto, 70 ville per nababbi, 30 residenze di altissimo pregio, la riqualificazione dell'area di Porto Cervo, una eco-pista di go kart, un parco acquatico. Fra i 7 e i 10 anni i tempi entro cui realizzare l’investimento da un miliardo di euro. Con risposte a partire da quest'anno.
Costa Smeralda Academy. Fra i 500mila metri cubi di mattoni del mini master plan qatarino compare una università. Il sindaco Ragnedda annuncia con orgoglio l’accoglimento della sua personale richiesta. «Tutto il piano è interessante – spiega il primo cittadino –. Ma la parte che riguarda il polo universitario di livello internazionale lo è ancora di più. È un investimento sulla formazione per creare una scuola di alta formazione per manager del turismo. Esiste già un proposta di campus universitario, con discipline ben definite, la collaborazione con le più prestigiose università. Una grande opportunità non solo per i sardi, ma un richiamo per studenti in arrivo da tutto il mondo».
Gli alberghi. Quattro i nuovi hotel pensati per rilanciare il sistema ricettivo Smeraldo e portare i posti letto dagli attuali 400 a 900. Un albergo da 150 stanze a Liscia Ruja con il marchio Harrods; uno al Pevero da 90 chiavi; un family hotel da 200 stanze e uno per clientela giovane da 90 camere nel comune di Olbia, a Razza di Juncu.
Il borgo. Nel piano per completare il borgo vip non ci sono solo nuovi metri cubi da trasformare in edifici, ma anche interventi sulla viabilità, il potenziamento della rete idrica e fognaria, l’ammodernamento delle strade, la realizzazione di piste ciclabili, la costruzione di un parcheggio nel villaggio.
Superabile l'incognita Ppr. Il primo cittadino non nega che con la legge attuale il piano del Qatar rischia di restare solo virtuale. Ma il comune di Arzachena potrebbe aver trovato una strada alternativa alla modifica dello strumento urbanistico. «Non ce lo nascondiamo – commenta Ragnedda –. La normativa attuale non permette di portare avanti il progetto al 100 per cento. La Regione si è detta disposta a modificare il ppr. Ma ci sono procedure alternative che il nostro ufficio tecnico sta valutando. Abbiamo già un parere legale positivo. Esiste la possibilità, su interventi con un elevato interesse pubblico, di creare una sinergia fra Comune, Regione e ministero in grado di superare i vincoli del ppr. Una possibilità di cui parlammo già a novembre con il premier Monti».
Pista di go-kart e parco acquatico. Il Qatar pensa a una eco-pista. 1700 metri di percorso per adulti, più un baby circuito per far correre auto elettriche, capaci di sfrecciare fino a 200 chilometri senza creare inquinamento acustico e ambientale. Confermata la creazione di un parco divertimenti sull'acqua. «Al momento localizzato alle spalle di Liscia Ruja» dice il sindaco, quasi a ribadire che l’acquapark potrebbe traslocare.
Un piano plastico. Il progetto della Costa Smeralda terza edizione è in divenire. Ragnedda lo definisce un progetto plastico. «Come ha precisato lo sceicco nella sua ultima lettera si tratta di un proposta da discutere in un tavolo tecnico, non prendere o lasciare. Uno start per costruire un piano definitivo. Fino a oggi è stato instaurato un dialogo con l'investitore che ha portato all'inserimento della Costa Smeralda academy nello studio di fattibilità della Qatar Holding». Il sindaco risponde indirettamente anche a chi lo accusa di una gestione padronale dell'affaire Qatar. «Vengo accusato di non aver coinvolto il consiglio comunale – dichiara –, ma non so bene cosa avrei potuto portare all'attenzione dell’aula visto che la Qatar Holding ha consegnato il progetto solo ieri. La minoranza verrà coinvolta. Dirò di più. Questo è un piano che siamo pronti a discutere anche con gli ambientalisti».
I tempi. Da investitore a 5 stelle di livello mondiale la Qatar Holdingha le idee chiare anche sui tempi per realizzare la sua Costa Smeralda. Un piano da un miliardo di euro, già deliberato, da spalmare in 7-10 anni. Ma le risposte alla fattibilità del piano dovranno arrivare entro il 2013. L’emirato oggi è lo stato più corteggiato del mondo per la sua disponibilità finanziaria. Senza la certezza del diritto l'amore più volte dichiarato dallo sceicco Al Thani per Porto Cervo potrebbe non bastare.
Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2013, postilla (f.b.)
MILANO - Niente linea 4 della metropolitana milanese, né Pedemontana né Tangenziale Est esterna di Milano (Tem). Queste sono solo alcune delle opere infrastrutturali che non saranno realizzate in tempo per Expo 2015. Lo afferma Assolombarda, l'associazione che riunisce gli imprenditori milanesi, durante la presentazione del rapporto Oti avvenuta, ieri, a Milano. «L'unica infrastruttura autostradale che sarà completata in tempo utile – dice il vicepresidente Giuliano Asperti – è la Brebemi (direttissima Brescia-Milano), per la quale i lavori sono già al 65% e dovrebbero concludersi entro il 2015 senza problemi».
E le altre autostrade? «Di Pedemontana - continua Asperti - sarà nel migliore dei casi completata solo la bretella di collegamento tra le autostrade A8 e A9; per quanto riguarda la Tem si dovrebbe riuscire a ultimare soltanto il cosiddetto arco Tem, cioè quel tratto di tangenziale che unirà la Cassanese alla Rivoltana per smaltire il traffico di Brebemi ed evitare che la nuova autostrada sfoci in aperta campagna». Nubi si addensano sulla continuità finanziaria di Pedemontana e Tangenziale esterna: complessivamente occorre ancora reperire un miliardo di euro di capitale sociale e quasi 4,5 miliardi a debito sui mercati finanziari. Visti i tempi, con la crisi che continua a mordere, non c'è alcuna certezza che l'operazione vada in porto con successo.
Nemmeno la quarta linea della metropolitana milanese (M4) vedrà la luce entro il 30 aprile 2015, vigilia di Expo, mentre sono stati abbandonati i progetti per le vie d'acqua, per le vie di terra, per una sesta linea della metropolitana e per una variante della strada statale Varesina. Questi sono solo alcuni dei progetti che non prenderanno corpo in tempo per Expo 2015, mentre tra quelli a rischio slittamento Asperti individua «le aree a parcheggio, il collegamento tra la statale 11 e la Varesina» e altro ancora.
«Queste infrastrutture - commenta Alberto Meomartini, presidente di Assolombarda - sono opere vitali per la Lombardia e, di conseguenza, per l'Italia, che è collegata all'Europa e al mondo tramite questa regione. Chiunque governerà il territorio lombardo troverà in Assolombarda un alleato critico e autocritico, ma in ogni caso si dovrà insistere, insistere, insistere per adeguare le nostre infrastrutture agli standard mondiali e restare competitivi. Basta con gli escamotage, le merci e i passeggeri in circolazione nel mondo sono in aumento e c'è necessità di servizi adeguati al loro trasporto».
Postilla
Si parla negli ultimi giorni, dietro le quinte ma non troppo, della contraddizione abbastanza evidente fra dichiarate adesioni a un modello di sviluppo “sostenibile” per la ex padania felix, e realtà dei processi in atto, nonché di una consolidata cultura intrecciata con altrettanto consolidati interessi. Basta scorrere le dichiarazioni dei candidati (per esempio quelle riportate ieri anche su questo sito) per capire che spesso ci si arrampica parecchio sui vetri, nel tentativo di far quadrare il cerchio. L'alternativa, forse, potrebbe essere quella di scaricare, aiutati dalla fine della Emergenza Expo, anche il modello territoriale disperso ed energivoro che sinora si è portata appresso. Scaricando in modo esplicito e fermo anche certe culture, ahimè assai ben rappresentate nel sottobosco delle candidature “progressiste” e delle consulenze, elettorali e future. Si è ascoltato ultimamente qualcuno dire che “La Città Infinita è Finita”: non bastano le chiacchiere per gonzi, anche quando le si elargisce coi soliti toni ispirati e lo sguardo sognante (f.b.)
Il modello di sviluppo turistico suburbano costiero tanto amato da generazioni di amministratori sardi, e il suo automatico rovescio della medaglia: il degrado urbano, o peggio sociale
La Costa Smeralda si prepara ad accogliere ruspe e mattoni per il più consistente intervento edilizio dai tempi del Principe Aga Khan. Niente di nuovo sotto il sole: l'obiettivo dichiarato è quello di “svecchiare la clientela abituale” e attirare nuovi frequentatori, più giovani e super ricchi. Questo l'intento della nuova gestione della Costa Smeralda made in Qatar. Il tutto è ancora in fase di definizione e le proposte progettuali dovranno essere valutate dagli uffici, ma niente lascia presagire che gli attuali rendering non vedranno la luce.
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| Rendering di un progetto |
La stampa dedica tutta l’attenzione sui progetti destinati alle coste, senza tuttavia occuparsi né della città di Olbia attorno a cui ruota questo processo, né del chiaro intento di archiviare definitivamente il Piano Paesaggistico Regionale varato dalla giunta regionale di Renato Soru. In questa parte di Sardegna la classica visione dello sviluppo territoriale saldamente legata a grandi flussi di denaro, volumi e aumenti di cubature beneficia, più che altrove, delle concessioni previste dai più recenti strumenti legislativi in materia di (sedicente) rilancio economico, ciclicamente riconfermati. Ora come allora.
Il processo di specializzazione turistica e di elitarizzazione della costa nord-orientale sarda sembra, dunque, più vivo che mai e volgendo lo sguardo verso l'entroterra la situazione, per altri versi, non appare meno segregata. Propongo di seguito alcune considerazioni sulla città di Olbia che scaturiscono da una riflessione più ampia maturata nell’ambito di una ricerca nazionale su “Spazi pubblici, popolazioni mobili e processi di riorganizzazione urbana”.
Olbia costituisce la realtà urbana più significativa dell’area nord-orientale della Sardegna per numero di abitanti, concentrazione di attività economiche e servizi e al tempo stesso rappresenta l'emblema della debolezza di un sistema territoriale incapace innanzitutto di individuare una propria vocazione che, da un lato, sia alternativa a quella di incubatore di manodopera estiva per i vari resort limitrofi e, dall'altro lato, si proponga semmai di investire e promuovere le risorse del luogo - e il luogo stesso - in una logica più articolata e di lungo termine.
Già a partire dall'organizzazione della città di Olbia è possibile cogliere una serie di elementi che tradiscono un certo caos di fondo. Attraversare la città è un ottimo esercizio per capire i meccanismi che regolano un sistema urbano e nel caso di Olbia questa pratica consente di mettere insieme vari pezzi di un puzzle che a fatica si incastrano perché l'immagine di città che dovrebbero formare non è affatto definita.
A titolo d'esempio può essere utile adottare come prospettiva di osservazione gli spazi pubblici urbani. In una città cresciuta freneticamente negli ultimi cinquant'anni, sulla scia del boom della Costa Smeralda, l'accumulazione disordinata di manufatti destinata ad accogliere le nuove popolazioni inurbate ha di fatto prevalso su qualsiasi ragionamento attorno alle modalità con cui governare l'espansione in atto. Con i risultati che si possono osservare oggi: una città largamente inclusiva per quanto riguarda la circolazione automobilistica e assai carente su molti altri versanti. Primo fra tutti, gli spazi destinati all'incontro e alla socialità.
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Barriere all'acessibilità del parco
(foto Sara Spanu) |
Basti pensare che è tutto sommato recente la riqualificazione di un'area ex demaniale, il cosiddetto parco urbano “Fausto Noce”, in pieno centro olbiese, forse l'unica area della città abbastanza estesa da consentirne un utilizzo diversificato in termini di attività sportive o più semplicemente per svago e intrattenimento. Seppur isola felice in mezzo al traffico, frequentata da numerosi visitatori, il parco urbano si presenta come un'occasione mancata. Intanto per via del fatto che non si apre per nulla agli spazi adiacenti, mentre risulta fortemente rinchiusa entro confini e recinti, addirittura fiancheggiata dalla presenza di corsi d'acqua invalicabili, quasi fosse una fortezza.
E in effetti l'idea di una realtà un po' segregata la trasmette: non solo per via degli orari e dei punti di accesso, che evidentemente ne regolano la fruizione, ma anche per come lo stesso spazio è organizzato all'interno. Parte del parco è riservata a strutture sportive anche importanti, il cui utilizzo tuttavia è prerogativa di atleti e società sportive, e l'accesso strettamente riservato. Gli spazi di libera fruizione si sviluppano attorno alle strutture presenti, talune persino in grave stato di degrado, e non sembrano rivestire la funzione prioritaria che ci si attenderebbe da un parco pubblico, ossia essere un luogo di identificazione, attrazione e destinato a favorire usi e accessi diversificati da parte di popolazioni eterogenee.
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Gli utenti esclusi dal verde
(foto Sara Spanu) |
Su piccola scala l'organizzazione di questo spazio ricalca ciò che si replica anche appena fuori dai cancelli, ovvero il prevalere di una fruizione della città fortemente individualizzata, a forte orientamento automobilistico sia dal punto di vista della percezione che della fruizione, che scoraggia un uso diffuso degli spazi collettivi: sia perché spesso mancano, sia perché sono colonizzati da altri usi. Anche in questo caso è sufficiente attraversarla a piedi (modo di trasporto evidentemente considerato marginale da chi la città la progetta e organizza e governa) per rendersi conto rapidamente che la mobilità pedonale non sempre è stata contemplata nelle scelte spaziali, stata lasciata più che altro al caso o a soluzioni di tipo fai-da-te. Analogamente, la crescita disordinata e non pianificata della città si intuisce anche dalla scarsità di slarghi e piazze, c'è poco o nulla per favorire le relazioni e il senso di identificazione, come coltura della dimensione pubblica e collettiva della città.
Certo ribaltare una situazione pregressa sarebbe operazione tutt'altro che semplice, ma forse basterebbe cominciare da iniziative che tendano a riqualificare sia gli spazi che gli usi. Molte realtà urbane ci sono riuscite, se si pensa alla riappropriazione del waterfront da parte di città come Barcellona e Genova in epoca recente. Anche a Olbia un po' è percepibile un tentativo del genere, che però non si configura certo come disegno complessivo entro cui gli interventi puntuali indichino una logica, una strategia. Viene da chiedersi: gli sforzi in qualche modo messi in atto, che tipo di effetti intendono produrre e, più in generale, a quale idea di città si ispirano?
Più che rientrare in un progetto di città a lungo termine, orientato ad accrescere la qualità urbana degli spazi, l'idea di Olbia che emerge osservando i suoi spazi e l'uso che i cittadini provano a farne, corrisponde alla logica cumulativa che se ieri è servita nel bene e nel male ad assecondare l'espansione demografica e territoriale, oggi non attribuisce né potrebbe attribuire agli spazi della città un'identità lasciata in sospeso, proprio a causa di una crescita troppo rapida e mal gestita. Per provare a farlo ci si affida ad una prassi consolidata in voga nelle città contemporanee, di ricorrere all'inserimento di manufatti architettonici di richiamo.
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Invece di una piazza, un'architettura
(foto Sara Spanu) |
Ma il dubbio torna: con quale finalità? L'inaugurazione della Piazza Mercato in seguito al restyling di qualche anno fa venne presentata come occasione per rilanciare il centro storico: una maestosa copertura di vetrate ondulate e ferro che sovrasta un parcheggio interrato. Anche non mettendo nel conto il fatto che un errore di progettazione rende ad oggi inutilizzabile quel parcheggio (e in sostanza anche la piazza un luogo malsano se non addirittura pericoloso) è difficile ritenere che il rilancio del centro antico olbiese possa dirsi in qualche modo iniziato: l'operazione, come altre, non sembra rientrare in strategie più complesse di intervento in grado di rispondere in maniera articolata a esigenze differenti. In altre parole, manca un ripensamento complessivo dell'organizzazione della città e dei suoi spazi non in termini di occasioni di rilancio economico o singoli manufatti da ostentare, ma di qualità urbana e quindi di accessibilità, flessibilità, sicurezza.
I centri commerciali di modello extraurbano, qui come altrove e probabilmente a maggior ragione, sopperiscono alla cronica mancanza di qualità urbana che Olbia evidentemente non è in grado di offrire, specie in termini di spazi in cui incontrarsi e stare insieme. E qui persino l'aeroporto si propone a sua volta - in un'accezione provocatoria - come “spazio pubblico” di supplenza, ma di fatto in aperta concorrenza alla città. Alla funzione originaria di scalo e terminale, se ne affiancano altre, localizzate qui e non a Olbia centro, che di fatto sottraggono energie e risorse alla città vera per spostarle altrove e sottoporle a ben altri meccanismi. In tutto questo, spicca l'assenza di una guida politica autorevole capace di porre un freno al progressivo impoverimento urbano, innanzitutto di tipo sociale e culturale, offuscato da investimenti miliardari e sedicenti piani di sviluppo locale.
La Repubblica Milano, 30 gennaio 2013 (f.b.)
LA CRISI ha colpito duro, negli ultimi anni, anche il settore delle costruzioni, con un calo della produzione del 22,1 per cento, che tradotto fa 44.500 occupati in meno nell’edilizia. Per il rilancio, ieri l’associazione dei costruttori, l’Ance, si è rivolta ai candidati presidenti che si sfidano per la Regione. Prima Roberto Maroni, poi Umberto Ambrosoli, infine Gabriele Albertini hanno ascoltato a lungo i delegati di tutta la Lombardia, dibattendo con loro sui singoli programmi e portando via, alla fine, il documento con le 22 richieste che l’associazione fa a chi vincerà. Le principali: con un occhio di riguardo alla green economy applicata all’edilizia, Ance chiede più incentivi per gli operatori virtuosi che utilizzino sistemi di costruzione ecologici e biocompatibili; un intervento sulla disciplina delle opere di urbanizzazione a scomputo; un piano di piccole opere infrastrutturali, con interventi immediatamente cantierabili da parte dei Comuni (questo creerebbe anche un circolo virtuoso sull’occupazione e sulle economie locali), l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti oggi nelle mani solo dei grandi cartelli. A proposito di appalti: visto l’aumento dei casi di infiltrazioni mafiose nell’edilizia lombarda, la richiesta è quella di un albo degli operatori da cui i Comuni e gli enti locali possano prendere nomi sicuri e puliti. E ancora, i costruttori chiedono — non solo loro — uno snellimento della burocrazia e un maggior coinvolgimento nelle scelte della Regione.
Ambrosoli:Stop alla Pedemontana e a tutte le opere inutili
LE INFRASTRUTTURE? Finire quelle già avviate, cancellando invece dal libro dei sogni (o degli incubi) quelle progettate e mai partite per mancanza di fondi. Il programma del candidato del Patto Civico Umberto Ambrosoli affronta ampiamente il tema delle grandi opere viarie, del consumo di suolo, del costruire ecosostenibile. Partendo sempre da un presupposto: vanno rivisti i piani “cesaristici” degli anni passati. Sulle autostrade, quindi, si concluderà la già quasi completa Brebemi e le opere previste nel dossier di presentazione di Expo (come le strade di accesso al sito), mentre è probabile — utilizzando il “metodo Castellano” usato per il piano parcheggi di Milano — l’addio a Pedemontana, Tem, alla Broni Mortara perché «bisogna non solo valutare costi non più sostenibili, ma anche se queste opere servono davvero », spiega Andrea Boitani, esperto di Economia dei trasporti e candidato nella lista Ambrosoli. L’idea è quella, in caso di vittoria, di commissionare una valutazione indipendente di tutte le opere infrastrutturali programmate per decidere quali salvare.
Punto fondamentale del loro programma è, poi, l’obiettivo zero consumo di suolo, attraverso il riuso delle aree urbanizzate e del patrimonio edilizio esistente: «Un progetto non in contrapposizione con le richieste dei costruttori — spiega il candidato presidente — , perché costruire vuol dire anche ri-costruire, utilizzando tutte le forme di risparmio energetico e ambientale, per coniugare lavoro, sviluppo e ecosostenibilità». Per fare tutto questo, però, c’è una precondizione: «Riformare la legge 12 sul governo del territorio», che è quello che chiede anche l’associazione dei costruttori.
Albertini:Ok ai progetti avviati edilizia a impatto zero
GABRIELE Albertini, candidato alla presidenza con la lista Movimento Lombardia civica e sostenuto anche dall’Udc, promette di colmare il “gap” della Lombardia sulle grandi opere autostradali rispetto alle altre reti europee. Al primo posto, «il completamento in tempi più rapidi» di Brebemi e Tem, la nuova tangenziale esterna. Progetti che definisce «nevralgici». Di primaria importanza non solo in vista di Expo Milano 2015, ma per rispondere alle esigenze di chi opera e produce.
Un capitolo a parte del suo programma è dedicato alla tutela del suolo. Albertini propone un piano di edilizia a impatto zero. Attraverso l’attuazione della legge Sviluppo già approvata dalla Regione che anticipa al 2015 gli standard edilizi europei fissati al 2020. Tutti gli edifici di nuova costruzione privati o pubblici dovranno essere ad altissima prestazione energetica con fabbisogno molto basso o quasi nullo e coperto in misura significativa da materiale rinnovabile.
Inoltre, Albertini promette una politica di governo del territorio che imponga a tutti i comuni lombardi criteri più razionali per la costruzione di nuovi edifici ad uso residenziale, produttivo di servizio. Privilegiando le aree già servite da reti di trasporto e di utilità; creando distretti ambientali e produttivi; recuperando aree dismesse; riqualificando il patrimonio edilizio esistente.
Nel programma, una nuova legge sulle cave e il settore estrattivo che favorisca il riutilizzo delle materie prime, impedisca l’abusivismo e obblighi alla bonifica e al recupero delle aree contaminate. Un nuovo piano straordinario per la valutazione dei rischi naturali, idrogeologici, sismici, industriali.
Maroni: Credito in volumetria a chi risparmia terreno
ROBERTO Maroni, candidato di Pdl e Lega alla presidenza nel suo programma punta sulle infrastrutture. Propone in primo luogo una forte accelerazione nella realizzazione di Pedemontana, Tem e Brebemi. Opere che definisce «prioritarie », già avviate dalla Regione con l’amministrazione uscente. «Ogni miliardo di euro destinato allo sviluppo delle infrastrutture — sostiene infatti Maroni — genera 20mila nuovi posti di lavoro». Un capitolo del programma del candidato del centrodestra è dedicato all’urbanistica. Al primo posto, l’attenzione alla qualità delle aree urbane. Tra le priorità: l’uso razionale del suolo; introdurre un credito in volumetria se si evita di consumare nuovo suolo; la definizione di parametri stringenti che permettano lo sviluppo di nuove realizzazioni solo in rapporto con l’aumento demografico; il rafforzamento del riuso dei terreni e degli immobili dismessi e del patrimonio sottoutilizzato; l’introduzione di norme per promuovere e premiare i progetti che riutilizzino il tessuto urbano.
Inoltre, Maroni propone di utilizzare la leva della defiscalizzazione per incentivare l’utilizzo delle aree dismesse. E di premiare i progetti edilizi che puntino al recupero dei centri storici. L’ipotesi è quella di determinare dei coefficienti per definire la superficie utile coperta meritevole di “premio” e favorire così interventi di recupero nei piccoli Comuni. Privilegiando quelli che riguardano edifici a uso residenziale o commerciale «e in misura inferiore i progetti per il recupero di edifici destinati ad attività di artigianato e servizi».
Il Fatto quotidiano, 29 gennaio 2013, postilla (f.b.)
Il destino di una spina di verde selvaggio e planiziale padano – sorta spontaneamente nella porzione della Darsena dei Navigli semi-prosciugata e abbandonata per anni per colpa di un progetto poi abortito di parcheggio sotterraneo – ha agitato le anime del centrosinistra milanese. Quella spina verde ha attirato decine di specie di avifauna e qualche anfibio e su questa esperienza di natura urbana sono sorti il gruppo e le proposte di Darsena Pioniera.
Gli ultimi fatti
Nell’assemblea convocata dal Comune la sera del venerdì 25 gennaio per illustrare il progetto Darsena si è definitivamente consolidata ed esplicitata la posizione della Giunta Comunale di demolire la cosiddetta “oasi naturale” della Darsena. Le ragioni addotte da Confalonieri (responsabile per il Sindaco dei progetti Expo) e dalla De Cesaris (assessore all’Urbanistica) sono state quelle della tempistica tecnico-amministrativa che impedirebbe di mettere in atto la necessaria variante senza perdere il già difficile treno per arrivare a marzo 2013 con la Darsena rifatta. C’erano anche però vari esponenti (per lo più di area Pd e/o Comitato Navigli) apertamente contrari a quello che un oratore ha definito l’insulto che un paio di isole vegetali porterebbero alla monumentalità della Darsena. Hanno definito “saggia” la “decisione” del Comune, lasciando intendere di non credere che solo di valutazioni di tempistica si sia trattato (ma di una scelta di scartare l’Oasi).
Nel finale dell’assemblea, l’assessora De Cesaris ha accusato Darsena Pioniera di essersi fatta viva solo tre mesi fa (“ho le mail”). Ma Darsena Pioniera aveva indirizzato le sue prime missive post elezione diPisapia all’assessore Maran, ignorando che la questione fosse di competenza della De Cesaris. Gli assessori non comunicano tra loro? Al di là di questa curiosa diatriba restano due fatti: a) che la Giunta Pisapia e la maggioranza comunale, nonostante alcuni interessamenti episodici, non avevano considerato l’opzione rappresentata dall’oasi e dalla presenza dell’avifauna e b) che una forte battaglia di pressione, con coinvolgimento di stampa e consigli di zona è stata condotta da Darsena Pioniera e dai suoi alleati solo dopo le vacanze estive del 2012, quando già era stato approvato un progetto che non prevedeva l’oasi.
Milano potrebbe amare i suoi spicchi di natura?
L’Amministrazione Comunale e lo stesso consiglio comunale non hanno mostrato complessivamente una particolare sensibilità alle nuove tendenze internazionali sul tema verde urbano, con valorizzazione delle biodiversità e delle forestazioni naturali, e l’esperienza di Bosco in Città è rimasta più che altro fuori città.
Nello specifico dell’Oasi della Darsena c’è da dire però che contro l’ipotesi “pioniera” hanno giocato anche due potenti fattori, (che hanno anche influenzato la Amministrazione Comunale) ovvero: 1) ilmalumore della popolazione verso la situazione di stallo e di abbandono della Darsena, che portava in prima istanza a identificare i difensori dell’oasi come i difensori del degrado (sindrome della “pantegana”) e 2) la presenza di una corrente fondamentalista ‘rivogliamo la Darsena com’era’ che anche di fronte alla illustrazione di un’ipotesi di isolette non era disposta ad accettare alcuna mediazione. Non erano disposti neanche ad entrare nel merito dell’altezza degli alberi o della vastità delle isolette.
E’ probabile che di fronte a una presentazione “alla pari” delle varie ipotesi, quella di tenere viva una parte dell’oasi nella Darsena avrebbe potuto prevalere nell’opinione pubblica, come dimostra il 75% dei voti a un sondaggio aperto da Gazzetta.it. Ma non ce n’è stata la possibilità, e in ogni caso sarebbe stata dura.
E’ comunque notevole che la controversia abbia agitato non poche persone, in Internet, tra gli architetti, tra gli ambientalisti, nel mondo politico comunale e anche sui giornali.
Anche chi non ha capito che “dal letame nascono i fiori” e ha continuato a dileggiare “erbacce e rospi” potrà convenire che se le ruspe porteranno via il verde spontaneo della Darsena, però l’idea della opportunità e possibilità di oasi urbane di biodiversità si è fatta strada a Milano attaverso questa discussione. Anche perché – particolare da non trascurare – costano molto meno in termini di manutenzione rispetto al tradizionale verde artificiale urbano.
I rappresentanti dell’Amministrazione l’altra sera hanno detto che intendono realizzare nella stessa Darsena, o meglio nel suo lembo più occidentale, un’analoga vegetazione per 2.500 metri quadrati capace di attirare l’avifauna. Non sarà visibile come quella che viene soppressa, ma a questo punto è importante che ci provino davvero a farla, e da subito.
E poco più a sud, a poche centinaia di metri, tra i due Navigli c’è una fantastica Cascina mezza diroccata in mezzo a aree verdi non curate da anni, con alberi e cespugli, i rovi dell’abbandono, e una roggia che ha sempre acqua. Si rifugeranno lì anche le gallinelle e gli aironi? Dipende anche dagli umani, da chi vuole avere nella città spicchi di calma e di biodiversità.
Postilla
La questione forse non è tanto se amare o meno la natura, cosa che in un modo o nell'altro facciamo tutti, visto che ne facciamo parte e ci viene spontaneo. Dal punto di vista delle strategie urbane (e metropolitane), come pure ricorda Hutter, è indispensabile inserire coerentemente e gradualmente elementi naturali nella rete sinora artificiale e comunque squilibrata della città. Forse l'agire per progetti simbolo come quello della Darsena non basta e in fondo non serve, almeno finché le scelte puntuali non troveranno il modo per fare sistema, magari individuando priorità e sinergie che per ora appartengono solo alle "infrastrutture grigie" (f.b.)
La Repubblica 28 gennaio 2013, postilla (f.b.)
OLBIA — Cambia volto la nuova Costa Smeralda targata Al Thani. L’emiro del Qatar di recente ha comprato dal tycoon americano Tom Barrack l’impero fondato dall’Aga Khan e vuole evidentemente lasciare la sua impronta. Stile e architettura appaiono orientaleggianti, evocativi di tempi e realtà che richiamano mondi lontani. Lo si capisce dalle simulazioni grafiche della holding che si occupa dei progetti.
Colossale il piano d’investimenti nel Nord Sardegna. Quattro moderni hotel superlusso andranno ad aggiungersi agli altri esclusivi fatti costruire mezzo secolo fa dal principe ismailita. Ci sono poi in previsione 90 ville in posizioni strategiche, con panorami mozzafiato per i magnati che potranno permettersele. E trenta maxi-residenze, in prossima vendita per svariate decine di milioni. Quasi altrettanti gli stazzi galluresi da ristrutturare più nell’entroterra: in passato ospitavano tenute agro-pastorali, adesso sono destinate a qualche miliardario, magari proprio degli emirati arabi. E nella progettazione firmata Al Thani si valuta persino la costruzione di un enorme parco acquatico dietro la spiaggia di Liscia Ruja.
Ora naturalmente i piani dovranno confrontarsi con la legge salvacoste voluta da Renato Soru e con gli altri vincoli paesaggistici fissati da norme nazionali, come la Galasso. Sì, perché nell’isola gli investimenti annunciati dall’emiro stanno provocando reazioni contrapposte. Da un lato, molti politici locali, alla disperata caccia di un lavoro per i loro amministrati, sono schierati con Al Thani. E anzi sono andati con Monti sino in Qatar per assicurargli il loro appoggio i sindaci di Arzachena e Olbia, oltre al governatore Ugo Cappellacci. Dall’altro lato, manifestano dubbi e perplessità sulle mire espansionistiche del nuovo monarca della Costa Smeralda indipendentisti, ambientalisti e molti esponenti delle forze di centrosinistra che in questi ultimi anni si sono battuti contro il cemento selvaggio lungo i litorali.
Al Thani ha comprato per 600 milioni l’impero appartenuto sino ai primi anni Duemila all’Aga Khan e adesso vuole investirci un altro miliardo. Non si sa ancora con esattezza quale sarà l’impatto effettivo del nuovo master plan. Si parla di cubature che oscillano tra i 400mila e i 550mila metri cubi, circa un quinto di quelli previsti nel progetto di ampliamento presentato una quindicina d’anni fa dal principe ismailita e poi ripreso, mutato, da Barrack. Tutto, comunque, su un territorio che si estende per quasi 2.500 ettari in uno dei paradisi naturali più suggestivi di questa terra considerata tra le meraviglie del Mediterraneo. Nei progetti dell’emiro non ci sono sole le residenze ma anche tre parchi giochi, una pista da gokart e una scuola riservata ai manager del nuovo turismo d’élite. L’obiettivo è svecchiare la clientela abituale che ogni estate si dà appuntamento in questi dorati lidi tra Porto Cervo, Pitrizza, Romazzino e puntare sui giovani super ricchi non solo d’Italia ma anche dei paesi emergenti.
Postilla
Si può anche chiedersi poi cosa intendano, con questa “disperata caccia di un lavoro per i loro amministrati”, gli amministratori col cappello in mano. Una risposta la può dare un giretto a Olbia città: distesa di case senza marciapiedi, senza spazi pubblici, con le poche funzioni pregiate risucchiate in un aeroporto privato, manco fosse il più extraterritoriale degli shopping mall. In città le macerie, gente che per socializzare si arrangia come dopo un evento traumatico. Peccato che l'evento traumatico sia quello che è arrivato qui un paio di generazioni fa, col turismo suburbano, lasciando la città un guscio avvizzito. E la domanda si riformula: volete rifarlo, identico, un'altra volta? (f.b.)
La farsa che si svolge attorno all'anfiteatro flavio, usato come gadget elettorale e merce di scambio della politica. Il Fatto Quotidiano
, 23 gennaio 2013 (m.p.g.)
Il Colosseo è una rovina. Non è precisamente una notizia, ma il sindaco di Roma non riesce a farsene una ragione. Due giorni fa Gianni Alemanno ha attaccato frontalmente la soprintendente archeologica della capitale, Mariarosaria Barbera, accusandola di «creare una situazione di elevato allarme». Quest’ultima aveva il torto di essersi preoccupata dei frammenti di pietra che, specie con le piogge forti, si staccano e precipitano al suolo, rischiando di rendere davvero indimenticabile la visita di qualche turista. Da qui l’esigenza di imporre una sorta di ‘zona rossa’ che tenesse i visitatori fuori pericolo: ma siccome per Alemanno il Colosseo è soprattutto un grande spartitraffico (la battuta è di Antonio Cederna), non gli sembrava pensabile spostare nemmeno una fermata dell’autobus: e dunque Comune e Soprintendenza si erano accordati per la soluzione (indecente) di avvolgere il gigante in grandi reti di protezione.
Tuttavia, di fronte alla (comprensibile) gragnuola di critiche ricevuta dalle opposizioni, Alemanno ha rovesciato il tavolo e ha telefonato direttamente al capo dell’odiata soprintendente, il ben più malleabile ministro per i Beni culturali, Lorenzo Ornaghi. E ha fatto bingo: dopo una «chiacchierata cordiale», i due politici hanno deciso di «affidare ad un tavolo tecnico presso il dicastero i temi relativi alla sicurezza delle aree circostanti l’anfiteatro Flavio, presieduto dal segretario generale [del Mibac] Antonia Pasqua Recchia». Tradotto dal burocratese, si tratta di una clamorosa sconfessione della soprintendente, alla quale il suo stesso ministro spara alla schiena, sottraendole di fatto la competenza sul principale monumento archeologico della città.
Questo grottesco teatrino apparirà ancora più sconcertante a chi ricordi il trionfalismo con cui Alemanno aveva annunciato, nel giugno 2011, il salvifico super-restauro del Colosseo sponsorizzato da Diego Della Valle. Ebbene, che fine ha fatto il progetto-pilota della nuova, risolutiva sinergia tra pubblico e privato? È mestamente arenato alla II sezione del Tar del Lazio, dove pende il ricorso delle imprese escluse dal restauro, mentre il Consiglio di Stato dovrà decidere sul ricorso del Codacons contro l’affidamento della sponsorizzazione a Mister Tod’s. Insomma, il Comune e il Ministero avevano concepito un autentico capolavoro amministrativo.
Al di là dell’umiliante cronaca spicciola, questa vicenda è assai interessante perché permette di vedere con estrema chiarezza ciò che condanna il patrimonio storico e artistico italiano ad una fine così ingloriosa.
La prima cosa da dire è che se Roma fosse la capitale di un qualunque altro stato europeo, tutta l’area del Colosseo e dei Fori imperiali sarebbe stata pedonalizzata da decenni. E la riduzione delle vibrazioni e delle emissioni di scarico sarebbe un passo decisivo per la conservazione e la sicurezza dell’anfiteatro: oltre che per la vivibilità e la godibilità di uno dei luoghi più sacri della civiltà occidentale. Ma quest’ultima ovvietà è, d’altra parte, difficilmente comprensibile ad un’amministrazione che tollera il circo equestre dei ‘gladiatori’ che staziona di fronte al Colosseo.
In secondo luogo, il miglior restauro è quello che non si deve fare: quello che viene prevenuto dall’umilissima manutenzione ordinaria. Un’operazione per cui è difficile trovare un paperone in cerca di visibilità globale, e che è invece il precipuo compito delle soprintendenze.
E qua veniamo al punto centrale. Che Ornaghi abbia delegittimato la soprintendente di Roma cedendo alle sguaiate pressioni di Alemanno è gravissimo, ma non è una novità. Il fatto che il Colosseo perda pezzi è, infatti, la diretta, necessaria conseguenza dei micidiali tagli ai fondi e al personale che i governi di ogni colore hanno inferto per decenni al sistema delle soprintendenze, umiliando e svuotando il sistema di tutela migliore del mondo e pensando semmai alla giostra degli eventi.
Ciò che è quasi impossibile far capire alla classe politica italiana, e spesso anche ai giornali e all’intera classe dirigente, è che i danni straordinari del patrimonio si prevengono con la cura ordinaria e con la competenza tecnica degli addetti ai lavori, non con i restauri-evento.
In piena età barocca, il grande scrittore Emanuele Tesauro scriveva che il Colosseo simboleggiava una Roma che «non cessa di ritorcer gli occhi alle deboli vestigia delle sue fuggite potenze, e vi mira sparse per terra le marmoree sue viscere». E che «in quello anfiteatro invece di gladiatori, l’arte con la natura combatte». Oggi, dopo quattrocento anni siamo invece ridotti a guardare sparsi per terra i frammenti di pietra che cadono dal monumento, e a veder combattere l’assenza della politica con l’assenza della tutela.
La Repubblica Milano, 23 gennaio 2013, postilla (f.b.)
I DIRITTI degli animali che lì vivono e hanno fatto il nido sarà preservato. Ma la vegetazione spontanea cresciuta nella Darsena, quell’oasi della biodiversità come la definiscono i suoi difensori, verrà tagliata e tutta l’area sarà ripulita per far partire, quando sarà il momento, i lavori per la riqualificazione promessa da Expo. La decisione del Comune, dopo mesi di braccio di ferro con le associazioni ambientaliste, è nero su bianco in una determinazione dirigenziale firmata dalla direzione centrale Mobilità, trasporti e ambiente che fissa in 589.986,60 euro la spesa per l’intervento affidato direttamente ad Amsa e già iniziato pochi giorni fa.
Si spiega, nell’affidamento dell’incarico, che «le operazioni prevederanno la rimozione della vegetazione spontanea cresciuta in luogo, essendo la stessa non compatibile con le esigenze di navigabilità e di funzionalità portuale della Darsena, e non essendo pervenute da parte del settore tecnico Arredo urbano e verde, interpellato a riguardo, limitazioni alle operazioni di taglio». Via, insomma, a tutte le piante spontanee, anche nella parte di Darsena rimessa a posto dopo la chiusura del contenzioso sul mega-parcheggio ormai stralciato dai progetti del Comune.
Amsa si dovrà occupare, ora, del «taglio, sfalcio e pulizia dell’area » nella prima fase dei lavori, di «caratterizzazione dei rifiuti, movimentazione, trasporto e smaltimento terre, rocce e asfalto giacenti nell’area» nella seconda fase. I quasi 600mila euro necessari all’operazione — compresi 13mila euro per la sicurezza del cantiere — sono quelli che Palazzo Marino ha dai canoni di concessione lungo il canale, visto che la Darsena rientra nel demanio comunale. Il vero lavoro arriverà in seguito, quando partirà la vera riqualificazione della Darsena e dei navigli compresa nel progetto di Expo: l’obiettivo è quello di farla tornare ad essere porto di Milano, con spazi per il tempo libero, per il commercio, per manifestazioni di vario genere.
Ma alcuni comitati di cittadini contestano da tempo che, per realizzare quel progetto, si debba fare piazza pulita dell’oasi spontanea in cui si sono insediati gli esemplari di alcune specie animali. «Non c’è nessun bisogno di eliminare tutta quella terra, quegli alberi e quei nidi, e farli rimuovere come fossero detriti o rifiuti dall’Amsa sarebbe un atto di forzatura e di intolleranza, anche inutilmente costoso rispetto al modesto intervento di ingegneria naturalistica necessario per trasformare l’oasi», è la posizione degli ambientalisti, che nei giorni scorsi hanno scritto anche al sindaco Pisapia e che, attraverso alcuni simpatizzanti — come il candidato di Sel alle Politiche Paolo Oddi — chiedono alle istituzioni di fermarsi e continuare il dialogo, nonostante la partenza dei lavori di Amsa induca a credere che ormai sia impossibile fermarli.
Postilla
Fra le varie riflessioni che stimolava l’auspicio a una ecologia della mente di Gregory Bateson, c’era l’accettazione quasi fatalista di una complessità che a volte riusciamo a intuire solo confusamente. Un approccio difficilmente praticabile a scala individuale, e figuriamoci quando ci sono di mezzo sia la collettività, che la politica, che una lunga e consolidata tradizione culturale e amministrativa ad agire per vasi non comunicanti. La scelta, tutto sommato di compromesso al ribasso, di spazzar via la piccola colonia di natura metropolitana, trasformandola in una variante postmoderna di certe rovine romane ritagliate nel giardino di un condominio, forse era inevitabile dati i tempi e il contesto. Ma vicende del genere non possono non far tornare alla mente altre infinite questioni pressoché identiche in tante altre città e aree metropolitane del mondo, e che certo non si riassumono con il frettoloso assimilare aironi e nutrie a Titti e Silvestro, o certe stravaganti e ingombranti erbacce al geranio sul davanzale: urbanizzazione del pianeta, in una prospettiva ragionevole di sostenibilità, significa anche transustanziare l’idea stessa di urbanizzazione, ad esempio interpretando in modo aperto e processuale il concetto di infrastruttura verde. Che non può essere ridotto, come osservava giustamente George Monbiot, alla funzione ingegneristica e mercificata di servizio all’ecosistema, che poi qualche ragioniere valuta con la sua tabellina costi-benefici. Ma che si deve studiare e calibrare sia negli aspetti urbani classici che in quelli che la natura ci sta suggerendo, con segnali come quello della nicchia ecologica sui Navigli milanesi, ma anche dei cervi e coyote nei parcheggi di qualche centro commerciale degli Usa, fino ai leoni che pare si aggirino molto ammansiti in certe periferie suburbane dell’Africa, frugando nei bidoni della spazzatura, versione terzo millennio extralarge delle ormai integrate volpi europee, o dei procioni. Insomma non si tratta di riflessioni filosofiche sui diritti delle specie, ma di intervenire in modo assai pratico sulla sostenibilità del territorio e dell’equilibrio natura-artificio, all’interno del quale incidentalmente stiamo anche noi (f.b.)
Sievocano atmosfere e terminologie americane per un progettointeressante, ma che rischia di nascere monco proprio di queglielementi di innovazione. La Repubblica Milano, 20 gennaio 2013,postilla (f.b.)
L’ISOLAcerca di ricucire una “ferita” vecchia di 60 anni. È ilcavalcavia “Eugenio Bussa”, lungo 300 metri, sospeso sopra iventi binari della stazione Garibaldi e il super trafficato vialeSturzo. Che fare di questa striscia d’asfalto, così inospitale edegradata ma fondamentale per unire l’Isola all’area di corsoComo? Il modello c’è ed è l’High Line, la vecchia ferrovia diNew York trasformata in un giardino sopraelevato con passeggiatapanoramica.
Conla differenza che qui si manterrebbe la percorribilità in auto, ma abassa velocità. I progetti elaborati all’Isola sono ricchi diproposte, per la prima volta cittadini, tecnici del Comune, designere architetti si sono messi insieme e hanno elaborato otto progetti.Il filo conduttore che li unisce tutti è quello di rendere vivibilee bello il cavalcavia con tanto verde, spazi per i bambini, ilmantenimento della pista ciclabile e un percorso per le auto, più unbar, una piazza attrezzata per incontri e un posto per gli spettacolie speciali strutture per godersi il panorama: da una parte i nuovigrattacieli di Garibaldi e dall’altro le montagne, una vistaspettacolare nei giorni in cui il cielo è limpido.
Negliotto progetti si ridisegna tutto, compresi gli innesti del cavalcaviada via Quadrio e da via Borsieri, in modo tale da ricucire per semprequella ferita, frutto di un “asse attrezzato” di un pianoregolatore del 1953, che intendeva spazzare via un’ampia fetta delquartiere. Il piano per rilanciare il ponte Bussa si chiama “Lacharrette”» ed è un esempio di “progettazione partecipata”che gli assessori Lucia De Cesaris (Urbanistica) e Daniela Benelli(Area metropolitana) intendono utilizzare anche per altre iniziativemilanesi, “in modo da ridisegnare la città insieme ai cittadini”.I progetti elaborati all’Isola sono stati messi in rete (“Garibaldie l’Isola partecipata”) ma il “confronto creativo” continueràa breve con l’esposizione dei rendering e dei modellini di cartoneall’Urban Center in Galleria. Poi la parola passerà al Comune, cheall’Isola, quartiere in grande evoluzione, intende realizzare ancheun Centro Civico, sempre consultando gli abitanti della zona.
Postilla
Esistonodue tipi di sogni: quelli belli dove progettiamo a modo nostro il mondo ideale, e quelli un pochino disturbati e contraddittori. Il secondo è tipico di quando si sonomangiati i peperoni della zia a cena, con quella sua cucina troppograssa e pesante: questo sogno della High Line alla milanese, a unirenon solo idealmente due quartieri separati dalla ferrovia (e cheferrovia) certamente non è un incubo, ma del tormentato su e giùimposto dalla peperonata della zia conserva più di qualcosa. Saràche non siamo abituati alle pietanze americane, ma almeno raccontatacosì la faccenda manca di qualche ingrediente essenziale alla buonadigestione. Che quel ponte a galleggiare da parecchi anni nel nullafosse un'occasione sprecata per la città lo sanno tutti, tranneovviamente le ex amministrazioni di centrodestra, che l'hannolasciato lì, al massimo a fare da sfondo ai videoclip del generealienazione metropolitana de noantri, o alle occasionali sfilate deiguru della moda. A questo si aggiunge lo strampalato (a esseregentili e non pensare proprio male) approccio dei progettoni ditrasformazione privata in corso, attentissimi a guglie vertiginose eindici di metri cubi, ma a dir poco svogliati quando si tratta dicostruire qualità urbana tangibile. Però la High Line originale di New York non è unprogetto principalmente spaziale. Nasce da una lunga riflessione di ordinesocioeconomico, piuttosto partecipata localmente, per il rilanciodelle attività e dei valori immobiliari di un ambito degradato dapolitiche di trasporto e zoning funzionale miopi. Gli architetti, gliagronomi a studiare e sperimentare essenze che crescono anche senzamanutenzione, a studiare il recupero della vecchia infrastruttura apasseggio e parco, sono arrivati dopo. La “charrette” (termineripreso dagli esami finali della parigina Ecole de Beaux Arts, dove icandidati saltavano anche all'ultimo minuto sulla carriola che ritirava i voluminosi rotoli degli elaborati, per ritoccare i disegni) è invece un processopartecipativo sì, ma che di solito è verso il basso, finalizzatosoprattutto a convincere i cittadini, recependone solo spuntisuperficiali e formali. Insomma ottima cosa cercare di allontanarsidall'urbanistica delle densità regalate agli amici e perequate da unangolo all'altro della città, ma perché i cittadini saltino davverosul carro delle politiche urbane bisogna farne ancora, della strada(f.b.) Qui sotto un esempio di uso "scenografico" tamarrissimo della futura High Line alla milanese, nell'epoca trionfante del socialismo craxiano locale

Una sentenza utile per chiunque, in Italia, sappia usare le regole nel modo corretto La Repubblica on-line, 16 gennaio 2013.
IL TAR della Sardegna ha scritto una parola forse definitiva sull'interminabile vicenda della necropoli fenicia di Tuvixeddu, nel cuore di Cagliari. Ed è un no al cemento che da anni minaccia di invadere, e in parte ha già invaso, questi colli dove dal VI secolo avanti Cristo si installò una città funeraria che durò fino all'Alto Medioevo. Un luogo di mirabile fascino, non solo archeologico, ma anche per il paesaggio che si è andato formando. Una vicenda fra le più tormentate della tutela in Italia. Il Tribunale amministrativo ha accolto l'istanza della Regione, della Soprintendenza ai beni paesaggistici e di Italia Nostra e respinto quella di Coimpresa, la società che vorrebbe costruire 270 mila metri cubi di palazzine e di ville affacciate sulle tombe.
La questione è molto tecnica e si inerpica fra ricorsi e controricorsi che vanno avanti da anni e si avvolgono in una spirale avvocatesca senza fine. In sostanza, il Tribunale amministrativo di Cagliari ha stabilito che il vincolo di inedificabilità assoluto posto su cinquanta ettari di Tuvixeddu dal Piano paesaggistico dell'amministrazione regionale di Renato Soru è valido e insormontabile. La prevalenza di quel vincolo era stata già stabilita da una sentenza del Consiglio di Stato del 2011, la quale a sua volta sembrava aver chiuso completamente al mattone. Ma i costruttori sostenevano che il vincolo non annullava un accordo di programma sottoscritto nel 2000 con il Comune (allora retto dal centrodestra), accordo che consentiva di edificare un quartiere di palazzine a ridosso delle migliaia di sepolture antiche. La sentenza emessa ora dal Tar sgombra il campo dagli equivoci: il vincolo annulla l'accordo di programma. Punto e basta. Teoricamente l'impresa costruttrice potrebbe di nuovo ricorrere al Consiglio di Stato, ma sembra inverosimile che il supremo tribunale amministrativo smentisca se stesso.
Dunque per Tuvixeddu si apre un futuro di tutela integrale, non solo nell'immediata vicinanza delle tombe, ma in un'area che raggiunge i cinquanta ettari e che garantisce ai reperti archeologici una zona di protezione sufficiente. I cinquanta ettari, inoltre, sono inclusi in un'area ancor più vasta - centoventi ettari - anch'essa vincolata dal Piano paesaggistico di Soru. Secondo il Consiglio di Stato, che si pronunciò nel 2011, "cura dell'interesse pubblico paesaggistico concerne la forma circostante, non le strette cose infisse o rinvenibili nel terreno con futuri scavi". La questione viene giudicata fondamentale ed estensibile anche oltre la vicenda di Tuvixeddu. Dove, per altro, dopo l'accordo fra Comune e costruttori furono rinvenute diverse centinaia di nuove tombe che resero necessario l'allargamento dell'area da tutelare.
Il colle di Tuvixeddu, insieme al vicino colle di Tuvumannu, sorge nel centro di Cagliari, affacciato sullo stagno di Santa Gilla. Tutt'intorno è cresciuta disordinatamente la città e negli ultimi anni si sono alzati edifici altissimi che oscurano la vista dello stagno dai colli. Inoltre ai piedi di Tuvixeddu, lungo via sant'Avendrace, si è sviluppata nei decenni una cortina di palazzi, alcuni dei quali costruiti proprio sulle tombe. Tutta intera la necropoli è inaccessibile, se non intrufolandosi fra i palazzi e salendo carponi. Molte tombe sono abbandonate al degrado, usate come discariche. E tante altre sorprese potrebbe riservare il colle se solo si potesse avviare una campagna di scavo accurata.
Si svuota della sua funzione e del lavoro che l'ha alimentata per oltre un secolo la cartiera Burgo di Mantova, monumento di architettura moderna. Corriere della Sera Lombardia, 16 gennaio 2013, postilla (f.b.)
MANTOVA — Non è solo una fabbrica, la cartiera Burgo di Mantova, che l'altro giorno ha annunciato la chiusura il 9 febbraio, lasciando a casa 188 dipendenti. Piuttosto, l'altra faccia della città, quella che si specchia sulla sponda opposta dei laghi. Di là il profilo suggestivo disegnato dai palazzi dei Gonzaga. Di qui la cartiera, anch'essa opera d'arte, la «fabbrica sospesa» disegnata nel 1961 da Pier Luigi Nervi, che aveva appeso con tiranti d'acciaio il tetto dell'edificio a due enormi alzate in cemento armato. Non per una ragione estetica, ma per far stare sotto la fabbrica, in un'unica campata, un potente macchinario americano, da 300-400 metri di carta al minuto.
C'era fame di carta da giornale, all'epoca. Non come adesso, che di quotidiani se ne vendono sempre meno. Ma per scriverla tutta, la storia della cartiera, bisogna partire da ancora più indietro. Marzo 1902. La società Binda Lamberti &C. compra 12 ettari di terreno in zona Poggioreale. Un imprenditore inglese, Arturo Burton Buchley, a fine Ottocento ci aveva impiantato una piccola raffineria, che aveva avuto vita breve. Nel 1904 apre il primo impianto di produzione di cellulosa. Dopo una serie di passaggi di proprietà, nel 1931 l'ingegnere genovese Luigi Burgo la compra dai banchieri svizzeri Vonwiller.
La cartiera diventa più grande, risorge anche dalle ceneri di un incendio del 1938 e, durante la guerra, viene militarizzata: la cellulosa serve infatti a produrre esplosivi. Scampato alla guerra e al fascismo, l'ingegner Burgo intuisce che, nella nuova Italia democratica, la carta da giornale può trasformarsi in cartamoneta. Si lancia su quel mercato e ne diventa il leader. A metà anni Sessanta gli operai sono quasi 700. Nel 1974, quando un altro disastroso incendio la devasta, la fabbrica produce quasi la metà di tutta la carta da giornale italiana.
I primi problemi, con vertenze e licenziamenti, si fanno sentire già negli anni Ottanta, ma il declino irreversibile avviene quattro anni fa, con la riduzione della domanda, l'aumento della concorrenza straniera e l'impennata dei costi. Nel frattempo l'azienda cambia ancora proprietà, passando nelle mani delle banche e della famiglia di imprenditori vicentini Marchi. Lunedì pomeriggio, Burgo Group, annuncia la chiusura.
«Dal 2008 — racconta Gian Paolo Franzini, segretario provinciale Slc Cgil — insistiamo per una riconversione o una diversificazione della produzione, che forse avrebbero potuto limare le perdite (un milione al mese nell'ultimo anno) e l'indebitamento (oltre 900 milioni)».
I lavoratori, riuniti ieri in assemblea, continuano a sperare in una rivoluzione produttiva, nell'ingresso di nuovi capitali. Ma da Confindustria dicono: «Per ora non ci sono strade aperte in tal senso».
Postilla
Naturalmente i migliori auguri e auspici perché la questione occupazionale, per i lavoratori e le famiglie che dipendono direttamente e indirettamente dalla cartiera, trovi rapidamente e positivamente sbocco. Il caso del complesso progettato da Pierluigi Nervi, un manufatto che si studia ovunque su tutti i testi di Storia dell'Architettura, com esempio mirabile di “moderno che dialoga alla pari con l'antico”, può però diventare emblematico di un tema urbanistico di grande attualità, nel nostro paese e non solo, proprio per la sua rilevanza, nonché per la collocazione in un territorio come quello mantovano, generalmente piagato dalle classiche distese di capannoni vuoti e inutili, a consumare ex fertili campagne, come la distesa che si può ammirare giusto alle spalle della cartiera, appena oltre la circonvallazione est. Se si vuole davvero dialogare alla pari con l'antico, con la qualità unica paesistica ambientale e culturale rappresentata dal centro storico e dal lago su cui si affaccia l'imponente struttura, è essenziale rivederne il rapporto col suolo, che un'idea di manufatto industriale vetusta ma tecnicamente accettata ha sinora ridotto quasi a nulla. Per diventare parte integrante della città, oltre al suo rapporto sociale ed economico attraverso il lavoro, il monumento deve recuperare continuità territoriale, e non chiudersi nel beato isolamento, magari sfruttando la storia industriale per riciclarsi in una gated community sui generis. Cosa che invece avviene spesso e volentieri con tanti complessi industriali dismessi, come a Londra recentemente con la centrale di Battersea, quella famosa in tutto il mondo per la copertina dell'album Animals, dei Pink Floyd, diventata quello che in gergo viene definito uno “yuppodromo”. Un caso da seguire, quindi, nella sua evoluzione, perché paradigmatico e potenziale modello, in positivo o in negativo (f.b.)