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Circostanziata denuncia di un potere - quello del direttore dei Musei Vaticani - tanto inaffondabile, quanto scientificamente inconsistente. In gioco, il patrimonio culturale delle nostre città. Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2013, con postilla (m.p.g.)

Cosa c’è di meglio, per rilanciare il Monte dei Paschi, di mettere nella sua nuova Deputazione la zavorra di uno dei più chiacchierati e intoccabili residui del vecchio potere democristiano come Antonio Paolucci?

Nato nel 1939 a Rimini in una famiglia di mercanti d’arte molto intraprendenti, Paolucci è uno storico dell’arte la cui importanza scientifica (prossima allo zero) è inversamente proporzionale all’immensa influenza che ha esercitato nel suo governo del patrimonio artistico fiorentino, durato per quasi vent’anni: dal 1988 al 2006.

Un regno lunghissimo – interrotto solo dalla (dimenticabile) esperienza come ministro per i Beni Culturali nel governo del fiorentino Lamberto Dini (1995-96) – che gli ha permesso di creare un sistema di potere ancora intatto (il figlio Fabrizio è l’attuale responsabile delle antichità agli Uffizi).

Il capolavoro di Paolucci fu l’acquisto della Collezione Martelli. Questa importantissima collezione d’arte fiorentina era stata lasciata al Seminario della Curia di Firenze, ma un onere testamentario disponeva che dovesse essere aperta al pubblico: dunque si trattava di una raccolta già, di fatto, della città. Ma il fratello dell’allora arcivescovo, Silvano Piovanelli, si appropriò di decine di opere d’arte immettendole sul mercato antiquario: nel luglio del 1996, Paolo Piovanelli patteggiò la pena di un anno e mezzo di reclusione per furto continuato e aggravato. Paolucci pensò di risolvere l’imbarazzante situazione attraverso un accordo in forza del quale, se lo Stato avesse acquistato il donatelliano Stemma Martelli, la Curia avrebbe donato allo Stato il palazzo e quanto vi era conservato. Così fu: nel novembre 1996 l’arcivescovato incassò ben diciassette miliardi e mezzo di lire per la scultura, e nel maggio del 1998 venne firmata la donazione. Così Paolucci premiò una clamorosa infedeltà con una regalìa colossale: non stupirà che nel 2007 Paolucci divenga direttore dei Musei Vaticani.

È nel passaggio tra Firenze e Vaticano che Paolucci organizza l’“operazione Michelangelo”.
Nel 2004 egli espone a Firenze un piccolo crocifisso ligneo di proprietà di Giancarlo Gallino (antiquario torinese con cui Paolucci aveva già trattato l’acquisto per gli Uffizi di una rovinatissima e strapagata opera di Antonello da Messina), avallandone l’attribuzione a Michelangelo. Nell’estate del 2007, Paolucci si guarda bene dal comperare il “Michelangelo” per i Musei Vaticani, ma scrive al “caro Francesco ” Rutelli, allora ministro per i Beni culturali, consigliandogli caldamente di comprare l’opera per lo Stato. Cosa che avviene, sotto Sandro Bondi, per 3.250.000 euro. Ma visto che la scultura non è di Michelangelo e vale (secondo una stima di Christie’s) 85.000 euro, oggi la Corte dei Conti processa per danno erariale la successora di Paolucci a Firenze, che concluse l’acquisto.

Paolucci stesso, invece, è inaffondabile. L’anno scorso l’allora ministro per i Beni Culturali Lorenzo Ornaghi pensò bene di confermarlo (sebbene dipendente ormai di un altro Stato, il Vaticano) nel massimo organo consultivo del Mibac, il Consiglio Superiore dei Beni culturali, del quale divenne anzi vicepresidente. Ed è da qui che il sempre agile Paolucci spicca il salto verso il Monte dei Paschi. A giugno, a Siena decidono di chiedere due nomi ad “alti organismi scientifici” come il CNR e, appunto, il Consiglio Superiore del Mibac. Quest’ultimo, contro ogni decenza, indica nella terna un proprio membro, anzi il suo vicepresidente: e il gioco è fatto.

Ma l'atterraggio a Siena di Paolucci è tutto tranne che pacifico. Non solo egli guida la commissione scientifica delle Scuderie del Quirinale (un mostrificio con mille cointeressenze col mondo delle banche), ma soprattutto è il capo del comitato scientifico dell’Associazione Civita, cui fa capo la potente società di servizi Civita, presieduta da Gianni Letta. Proprio una controllata di Civita, Opera Laboratori Fiorentini, sta prendendo il controllo di tutto il patrimonio artistico pubblico senese: prima di un “ramo d’azienda” dell’Opera del Duomo (cessione su cui ora indaga la Procura di Siena), poi del Santa Maria della Scala e ora anche dei Musei Civici e addirittura della Torre del Mangia, simbolo della città. Insomma, con Paolucci non arriva al Monte dei Paschi un tranquillo pensionato, ma uno dei nuovi padroni di Siena.
Non c'è più nemmeno bisogno dell’ipocrisia gattopardesca: ormai, per non cambiare nulla, non si cambia direttamente nulla. Meglio non rischiare.

postilla
La gravità della denuncia di Montanari non sta solo nella constatazione dell'inamovibilità della nostra classe dirigente. Un gruppo di potere responsabile in prima persona, per avidità personale e incapacità intellettuale, del disastro in cui ci troviamo e che, lungi dal ritirarsi, anche solo per questioni anagrafiche, cerca di perpetuare con ogni mezzo la propria influenza: in prima persona e con l'immortale pratica del nepotismo clientelare.
Gravissimo è l'intreccio di ruoli, cariche, interessi che la vicenda denuncia: un conflitto di interessi esponenziale che avrà pesanti ricadute sia sulla gestione del patrimonio culturale di Siena, ma anche sull'intera vita della comunità cittadina. Concentrare nelle mani di pochi - nominati con criteri opachi e con forti interessi personali - i destini di buona parte dei preziosissimi spazi pubblici della città, quali sono - almeno fino ad ora - monumenti e luoghi culturali, significa stravolgere assetti urbani e sociali sulla base di procedure nè democratiche, nè trasparenti.
Eppure il disagio con cui si confrontano quotidianamente i cittadini di Firenze, con un centro storico e i servizi stravolti dalla "valorizzazione" e dal turismo "culturale" e di cui è corresponsabile, almeno culturalmente, il neo membro della Deputazione MPS, avrebbe dovuto indurre a maggiore riflessione chi sta cercando di uscire dalla melma dello scandalo Monte Paschi.

Ma memoria storica e lungimiranza intellettuale sono merci rare, di questi tempi. (m.p.g.)

Corriere della Sera Lombardia, 12 agosto 2013, postilla (f.b.)

PAVIA — Arriva la green economy e il valore dei terreni agricoli schizza alle stelle. Raddoppia, triplica mettendo in difficoltà produzioni e aziende che in questo modo rischiano di essere sfrattate dalla loro sede tradizionale. Sono gli effetti collaterali di una attività economica considerata in forte espansione (anche grazie all'apporto di incentivi statali) e di importanza strategica. La storia è contenuta in un verbale di gara della fondazione Policlinico San Matteo che, come periodicamente avviene, ha messo all'asta l'affitto di suoli agricoli di sua proprietà, frutto il più delle volte del lascito di benefattori.

Questi terreni si trovano nei comuni delle campagne attorno a Pavia e sono prevalentemente coltivati a mais, utilizzato poi come mangime per l'allevamento; l'assegnazione dei fondi è in genere un'operazione di routine: c'è una base d'asta e la famiglia o l'azienda che l'ha in uso presenta un'offerta di poco superiore alla cifra di partenza. Quest'anno (il verbale di gara è del 22 luglio scorso) è accaduto però qualcosa che ha scombinato le carte in tavole. Alcune delle offerte messe sul tavolo moltiplicavano la base d'asta. E' il caso del Podere Vignazza di Gambolò per il quale sono stati messi sul tavolo 51.500 euro contro un dato di partenza di 26.375; o per un altro appezzamento nello stesso comune valutato 34.400 euro e salito addirittura a 124.000.

Chi ha fatto saltare il banco? L'offerta parte quasi sempre da società con il nome simile e registrate a Torino e Aosta, riconducibili tra l'altro ai medesimi amministratori. La visura camerale rivela che tra le ragioni sociali di queste aziende, oltre a quelle tradizionali agricole compare anche «la produzione e cessione di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali o fotovoltaiche». Società dunque che appartengono alla crescente schiera degli «energy farmers», contadini che dalla produzione di cibo si convertono a quella di kilowatt: produzioni non più finalizzate alle eccellenze agricole regionali (carni e latticini in primis) ma convinte dagli incentivi statali a installare impianti per la produzione di biogas (alimentato sempre a mais) o distese di pannelli fotovoltaici.

L'esito a sorpresa della gara ha lasciato strascichi. «Il San Matteo ha scelto il criterio del massimo profitto - dichiara Giuseppe Ghezzi, presidente di Coldiretti Pavia - e dal loro punto di vista tutto è corretto. Ma ora si apre uno scenario insostenibile per gli agricoltori tradizionali edf è tutto sommato una forma di concorrenza sleale: solo chi si dedica al business del biogas è in grado di far fronte a quei costi. La nostra organizzazione bloccherà contratti che superino valori di 40 - 50 euro a pertica, altrettanto mi auguro facciano altre rappresentanze della nostra categoria». I terreni non sono ancora stati assegnati, la procedura prevede ancora un mese di tempo almeno per effettuare tutte le valutazioni del caso. Ma nei campi lombardi si è aperta una nuova era.

postilla
Salta agli occhi come la questione economica, pur grave con questo impennarsi dei prezzi, sia solo la punta di un iceberg: lo sfruttamento delle superfici agricole per qualunque attività diversa dalla produzione di alimenti (e dalla manutenzione del territorio) deve iniziare ad essere regolamentato come se tutte queste funzioni fossero assimilabili a quelle urbane, ovvero edilizia, infrastrutture, parcheggi, industria ecc. Perché è ovvio, con queste premesse, che la tendenza a concentrazioni, eventuali abusi (nel senso di illegalità) e comunque sviluppi che con l'equilibrio ambientale e socioeconomico fanno a cazzotti, vede spalancarsi territori di conquista infiniti. Anche solo restando agli aspetti socio-economici evocati dall'articolo, esclusione di operatori tradizionali vuol dire quasi sempre concentrazione nelle mani di pochi potenti soggetti, in grado di controllare così vaste porzioni di territorio con propri criteri, ad esempio di sfruttamento, ma anche sotto il profilo ambientale, degli impatti, e del rapporto con gli enti di regolamentazione e controllo, analogamente alla pratica globale del Land Grabbing ripetutamente denunciata e documentata in questo sito, Certo se si dedicasse a queste cose un decimo dell'attenzione di quella riservata ai potenziali danni delle sigarette elettroniche, avremmo fatto un bel passo avanti (f.b.)

Nell’intervista, il nuovo sindaco di Roma pronuncia parole chiare e nella direzione giusta sul destino dell’area archeologica centrale. Il progetto Fori sembra davvero più vicino. L'Huffington post, 11 agosto 2013 (m.p.g.)

All’inizio di questa storia non c’è, come tutti abbiamo immaginato, un grande intellettuale quale Giulio Carlo Argan. Non c’è una dotta discussione sul rapporto fra Antichità e Modernità. C’è più banalmente (ma quanto più felicemente) un ricordo giovanile, una passeggiata con una ragazza americana, di origini caraibiche, in visita estiva a Roma, un giro nei Fori (per farla meravigliare, per farla innamorare?), che finisce con una osservazione di lei, pratica come pratico è spesso lo spirito americano: “Ma che vi è venuto in mente di fare una strada proprio sul Foro?”

Decenni dopo Ignazio Marino, divenuto Sindaco, prova a rispondere a quel rimprovero. Se siete stati irritati o compiaciuti dalla scelta di bloccare al traffico l’area intorno al Colosseo, tenetevi pronti ad altre emozioni forti. La pedonalizzazione è infatti solo l’inizio di un progetto che “nel corso di questo mandato” avvierà nuovi scavi che porteranno alla luce i Fori più antichi che giacciono coperti dal grande viale che va dal Colosseo a Piazza Venezia. Il risultato finale sarà non solo l’ampliamento dell’area archeologica, ma uno stravolgimento totale dell’attuale volto della Capitale: come conseguenza di questi scavi, infatti, via del Fori Imperiali, la strada così fortemente voluta da Mussolini, e oggi così fortemente parte della identità della città, scomparirà, verrà smantellata. “Forse ne resterà una sezione, magari per pedoni e biciclette”, dice serafico senza giri di parole il neo-sindaco di Roma in questa intervista.

Sindaco Marino, cosa risponde a chi le rimprovera che Roma ha altre priorità di quelle da lei scelte, che le periferie sono più importanti della pedonalizzazione dei Fori?
Ho fatto in realtà molti giri di periferie. Dedico a queste visite un giorno alla settimana. Sono stato ad Ostia a San Basilio…

Sempre in bicicletta?
La bicicletta piace molto, ho scoperto. Perché la gente può fermarti facilmente, mette le mani sul manubrio e ti tiene bloccato fino a che non ha finito di parlare… In ogni caso, I primi 50 nuovi mezzi di trasporto pubblico li abbiamo tutti dati alle periferie.

Come le è venuta l’idea di pedonalizzare i Fori? È stato un progetto accarezzato a lungo o una decisione presa all’improvviso, in fretta, come un po’ è apparso?
La vera storia in realtà non ha nulla a che fare con l’essere sindaco. Nel 1988, avevo appena finito I miei studi a Pittsburgh, venni a Roma come ogni anno, per l’estate. In America avevo conosciuto un medico, Velma Skandersberg , una afroamericana di origini caraibiche, e la invitai a venire in Italia. La portai ai Fori, ricordo. La portai in giro, per farle sentire tutta la magia di essere in questi luoghi , “Ecco qui ha camminato Giulio Cesare, e Cicerone parlò in questo esatto posto”. Poi usciamo dagli scavi, arriviamo sulla strada e lei esclama: “Ma come vi è venuto in mente di costruire una strada proprio fuori da qui”. Fu lei a farmi scoprire per prima l’incongruenza di questa situazione….

Insomma, dobbiamo le sue decisioni a Velma e non, come si pensa, ad Argan.
Beh, in quegli anni ero più familiare con i libri di chirurgia che con il dibattito storico politico. La discussione sui Fori in effetti è antica, viene impostata nel 1887 da Guido Baccelli, che fu il primo a imporre il problema del parco archeologico…. Da adulto ne ho letto poi molto. Ma lei mi ha chiesto cosa c’è all’origine delle mie idee.

Altri ricordi di gioventù che dobbiamo conoscere per capire il futuro della città?
Ce n’è di sicuro un altro, che mi ha sostenuto nel prendere le mie decisioni attuali da sindaco. Ricordo che nel 1973, cito un anno a caso, io come tutti i romani andavo a Piazza del Popolo e parcheggiavo la macchina. Quella Piazza meravigliosa era una enorme distesa di vetture, e a nessuno sembrava strano. Oggi è zona pedonale. Come è avvenuto il passaggio, con quali disaccordi? Sono certo che c’è stata una discussione, che qualcuno ha preso la decisione di cambiare la destinazione d’uso della Piazza, che i commercianti avranno protestato. Ma se oggi io come sindaco volessi proporre il contrario, cioè di riaprire il parcheggio a piazza del Popolo, sono sicuro che sarei inseguito con i bastoni! È mia convinzione che tra venti anni sarà avvenuto lo stesso cambio culturale nei cittadini in merito ai Fori.

La prima settimana è passata alla fine senza grandi tensioni. Ma certo non finisce qui. Lei infatti fin dall’inizio ha fatto riferimento a un progetto più grande. In risposta, il sindaco, come pare faccia spesso, si alza e ci invita a uscire con lui sull’"affaccio”. L’affaccio è un esile balconcino aggrappato a una parete laterale a caduta libera dell’edificio del Campidoglio. La base del balcone è strettissima, non più di tre persone vi stanno dritte e affiancate, e la combinazione di strapiombo e monumenti romani, archi, colonne, Via Sacra e Senato, provoca uno smarrimento fra panico e bellezza. Tutti i sindaci che hanno guidato il Campidoglio hanno amato questo affaccio. L’accesso al modesto balcone senza nessuna pretesa artistica sul più imponente memoriale della Storia è infatti forse il vero simbolo del potere che deve gestire chi guida la città di Roma. Tutti i sindaci, dunque, usano la cortesia di offrire questa vista almeno una volta agli ospiti. Ma Ignazio Marino invece di guardare in basso ai celebri monumenti, è rivolto a sinistra, verso la strada dei Fori Imperiali, che limita e divide le antichità. Punta con il braccio verso la base del viale.
“Guardi lì sotto, vede, vede? Lì sotto ci sono altri reperti, i fori più antichi… anzi, vede? Lì sotto c’è la maggior parte del Foro”.
Guarda, insiste, e sorride. Secondo statistiche storiche, gli scavi del periodo mussoliniano vennero in gran parte ricoperti per costruire proprio la nuova strada imperiale fra Colosseo e Piazza Venezia. Dal punto di vista archeologico, le cifre sono paradossali. Nota l’urbanista Italo Insolera che “la banchina di calcestruzzo seppellì nuovamente, e sotto ben più dura scorza, parte di quanto era stato scavato”. I Fori infatti coprivano 80 mila metri quadri. Ne furono scavati 76 mila e riseppelliti 64 mila, circa l’84 per cento. “I ruderi lasciati in mostra sono indubbiamente importanti, ma rappresentano solo il 15 per cento di quanto gli imperatori costruirono”.
L’altro risultato controverso è di tipo percettivo. Osserva Antonio Cederna: “Oltre ad aver spaccato in due l’unità della zona archeologica (…) i Fori imperiali sulla sinistra di chi va verso il Colosseo sono stati sprofondati in catini (…) mentre i monumenti sulla destra presentano tutti al passeggero il didietro”.Le conseguenze della osservazione del Sindaco sono dunque piuttosto chiare.

Il suo prossimo passo è dunque liberare questa parte del Foro dalla “copertura” della strada?
Sì. Intendiamo farlo.
Come lo faremo è da vedere. Ci sono varie metodologie possibili. Per questo il primo passo da fare è organizzare un grande confronto internazionale sulle metodologie di scavo. Io certo non sono un esperto. C’è chi dice che il modo migliore è “sbancare” tutto e riportare alla luce i vecchi Fori, e chi dice che invece va scavato ma valorizzando tutte le stratificazioni. Un metodo che nel mio linguaggio da chirurgo descriverei simile a una tac.

Ripetiamo, tanto per essere certi di quello che lei vuole fare: la pedonalizzazione dell’area dei Fori imperiali è l’inizio di un progetto che porterà, in ogni caso, qualunque sarà la metodologia scelta, a nuovi scavi?
Sì, e tra 25 o 30 anni, grazie a questi scavi ci sarà al centro di Roma una situazione urbanistica completamente nuova.

Possiamo dire dunque che secondo questo progetto Via dei Fori Imperiali scomparirà? Che sarà diciamo “espiantata”?
Si alla fine scomparirà. Immagino che ne rimarrà solo una parte, una sezione centrale, magari per biciclette e pedoni, magari per un tram… magari terremo le mappe dell’Impero. Questo risultato finale lo vedremo. Senza volerle sembrare un folle, mi immagino un’unica area che unisca i Fori Traiani ai Fori Imperiali…

...e che continui fino all’Appia?
Certamente. Riunificando un’area archeologica che ora è divisa.

Lei capisce che cancellare via dei Fori Imperiali, per non parlare poi delle altre strade, le porterà fino a sotto questo balcone manifestazioni furibonde. Non ultime quelle di quel nutrito gruppo di nostalgici fascisti per cui quella via è un simbolo importantissimo?
Capisco che questo nuovo schema possa far paura. Ma pensiamo ad altri esempi nel mondo. A Williamsburg, la capitale coloniale della Virginia, è stata mantenuta l’intera città, anche se gli edifici nella maggioranza dei casi erano fatti solo di legno. E a Londra a Parigi ci sono monumenti forse del valore del Colosseo che sarebbero ridotti a fare da rotonda spartitraffico?

Quanto riflesso antifascista c’è in questa sua idea di cancellare via dei Fori Imperiali, simbolo del potere Mussoliniano?
Io sono un antifascista. Ma al di là delle mie convinzioni personali non c’è nulla di antifascista in questa decisione. Tant’è che sarà un comitato internazionale a decidere, come dicevo, se e come fare gli scavi sotto quella strada.

E quanto c’è invece di odio anti-automobile?
Io non lo chiamo odio, preferisco parlare di intolleranza. Ma sicuramente c’è. Cosa pensare del fatto che a Roma ogni 1000 abitanti ci sono 980 auto, che a Roma si muovono ogni giorno si muovono 600mila persone, di cui il 60 per cento fa meno di 5 chilometri? È un assurdo. Il traffico deve essere diminuito. È una priorità anche medica.

Lei sostiene che tutto questo progetto porterà a Roma un numero maggiore di turisti. Ma perché i turisti dovrebbero essere più attratti da un Foro senza il Viale? Che differenza fa per loro?
Perché l’area sarà bellissima. Io penso che porteremo il doppio di turisti che vengono oggi . Puntiamo a superare i 20 milioni annui.

Può darci un calendario per l’attuazione di questo progetto? Tanto per poter misurare in futuro il suo impegno?
Vedrete. Avverrà tutto nel corso di questo mandato.

Vedremo, Sindaco.

Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2013, postilla (f.b.)

Le casse dei comuni languono e il sindaco di Somma Lombardo (provincia di Varese), per rimpinguare le finanze lancia l’idea di trasformare la frazione di Case Nuove in un quartiere a luci rosse. Si tratta ovviamente di una provocazione, lanciata per riaccendere i riflettori sulla difficile situazione in cui versa la frazione che sorge a due passi dalle piste dell’aeroporto di Malpensa dove, dal varo dell’ampliamento dello scalo in poi, i residenti se ne sono andati quasi tutti, lasciando le abitazioni di Case Nuove in uno stato di abbandono pressoché totale. Negli anni gli amministratori del territorio hanno chiesto interventi per utilizzare gli immobili lasciati vuoti per effetto della delocalizzazione, ma mai nessuno ha preso seriamente in considerazione il problema.

In questi giorni è dunque arrivata la boutade che Guido Colombo (a capo di una giunta di centrodestra) ha affidato al quotidiano locale La Provincia di Varese: “Esiste un mercato parallelo davvero importante che muove grosse cifre in maniera sotterranea: perché non regolamentarlo e regolarizzarlo qui?”.

Del resto basta sfogliare un qualsiasi giornale di annunci o visitare le pagine di siti dedicati per capire quanto la prostituzione sia diffusa attorno al grande scalo aeroportuale. “C’è chi ha scelto questo “mestiere” – spiega ancora Colombo – anche se facciamo finta di non vedere o di non sapere il problema esiste nell’intorno aeroportuale”. Dunque regolamentare il fenomeno e circoscriverlo in una zona ben definita, per giunta lontana dal centro del paese, potrebbe essere una soluzione anche alla massiccia seppur discreta presenza delle prostitute nei comuni attorno a Malpensa? “Si darebbe dignità al lavoro più vecchio del mondo e si ridarebbe vita alla frazione dove ancora oggi la maggior parte delle case sono murate”, senza contare ovviamente che il comune di Somma Lombardo, accendendo le luci rosse a Malpensa, potrebbe incassare i quattrini che mancano per far quadrare i conti.

Il sindaco di Somma Lombardo non è l’unico a pensare di poter fare cassa tramite l’emersione del mercato nero della prostituzione. Prima di lui l’idea l’ha lanciata anche il primo cittadino di Mogliano Veneto, che ha proposto una raccolta firme a sostegno di un referendum che porti all’abrogazione della Legge Merlin. Evidentemente in tempi di vacche magre, con i comuni in mutande, certe idee vengono formulate più facilmente.

postilla
Premessa: ho un paio di conflitti di interesse. Il primo è che a Case Nuove, quando Malpensa era solo un piccolo scalo militare perso nei boschi, una sessantina d'anni fa ci sono nato. Il secondo è che il geometra Guido Colombo una quarantina d'anni fa, prima di portarsi a casa non so come una laurea in architettura, mi ha aiutato a trovare un posto dove dormire a Venezia, quando ero matricola. Chiariti questi conflitti di interesse, riassumo che per assecondare altri interessi un po' meno dichiarabili, prima si è sviluppata la strampalata e fallimentare idea dell'hub intercontinentale, sfondando un parco, un territorio, e tante comunità locali, senza alcun risultato. E poi, davanti all'evidente fallimento di qualsiasi, e ripeto qualsiasi, strategia di “sviluppo del territorio”, si sono continuate a partorire micidiali stupidaggini, dal centro di espulsione rapida per immigrati ventilato da Maroni (a occupare con una specie di Alcatraz razzista altri ettari di ottimo bosco dando lavoro a qualche sbirro di area politica), e adesso la puttanopoli del geometra Colombo. Che, questo l'articolo non lo dice, potrebbe accelerare la deportazione in corso delle residue famiglie e attività che nonostante tutto resistono, da anni, ai tentativi di fare dell'ex villaggio, e in genere del territorio circostante l'aeroporto, un luogo compiutamente ballardiano. Un posto dove casi come l'assassinio della sindaca di Cardano (giusto dall'altra parte delle piste farlocche) potrebbero verificarsi senza far tanto notizia, magari con un distretto speciale a denominazione anglofona, dove vige qualche legge speciale, il codice Colombo-Maroni, chissà. Mandiamoli a lavorare, togliamoceli di torno, per favore! (f.b.)

Le reazioni parlamentari al tentativo di smantellare le tutele con il nuovo pianopaesaggistico. La giunta taglia i beni protetti. In provincia di Sassari da 500 a 80. Il compito affidato a 24 tecnici esterni.Interrogazione firmata, per ora, da esponenti di SEL e M5S. La Nuova Sardegna, 8 agosto 2013

CAGLIARI. Sassari e lasua provincia hanno cinquecento beni paesaggistici tutelati dal Ppr.L’intervento di revisione che la giunta Cappellacci presenterà a metà settembreprevede un taglio drastico: ne resteranno ottanta. È solo un esempio, perché latask force di ingegneri precari del progetto Scus voluta dall’amministrazionedi centrodestra lavora su una parola d’ordine perentoria: sclassificare. Comedire togliere ai diecimila tra siti storici e archeologici, luoghi di valoreidentitario e tratti di costa sarda la tutela finora garantita dallo strumentodi pianificazione approvato nel 2004 per considerarli semplicemente «componentidi paesaggio» e abbandonarli di conseguenza alla speculazione.

I ventiquattrotecnici ingaggiati con un costo di 634 mila euro in due anni e mezzodall’assessorato all’Urbanistica guidato da Nicola Rassu hanno ricevutodisposizioni precise: un Ppr più leggero, con meno vincoli e più spazio per leattività immobiliari. Quanto finora è vietato potrebbe diventare possibile,senza che i dirigenti e funzionari regionali a suo tempo impegnatinell’elaborazione del Ppr possano mettersi di traverso: costituiti formalmentei gruppi di lavoro con una determinazione firmata il 15 giugno scorso, ildirettore generale dell’urbanistica Marco Melis ha di fatto mandato in panchinai titolari degli uffici regionali per affidare la partita del cemento a unastruttura parallela, di sua stretta fiducia e sotto il pressante controllodella politica.

Gli effetti si possono valutare fin d’ora, malgrado il nuovoPpr sia annunciato per l’inizio dell’autunno: sono a rischio aree costiere diimportanza straordinaria come quella di Bosa, dove la Condotte srl prepara indiverse versioni un’abbondante colata di cemento, possibile solo se la leggesul golf supererà le barriere normative del «vecchio» Ppr. E potrebbero tornarea correre pericoli reali luoghi finora salvati miracolosamente da progetti giàdefiniti, come il colle archeologico di Tuvixeddu a Cagliari e l’area di CalaGiunco a Villasimius. D’altronde l’obbiettivo è chiarissimo e viene messo inevidenza nell’interrogazione al governo presentata dai parlamentari MichelePiras (Sel), Gennaro Migliore (Sel) ed Emanuela Corda (M5s) dopo uno studioaccurato dei carteggi regionali compiuto in questi mesi da Maria Paola Morittudi Italia Nostra.

Il giudizio di Piras è categorico: «La giunta Cappellacci siè distinta in questi anni per la volontà ostinata di scardinare, aggirare,eludere il Ppr, collocandosi come riferimento del partito trasversale delmattone. Piani casa, legge sul golf, usi civici, il progetto Qatar,costituiscono un manifesto programmatico ed ideologico. Noi – scrive ildeputato – continuiamo a pensare che l’isola non possa trarre alcun giovamentodal consumo indiscriminato del territorio e sui beni comuni daremo battagliaperché il futuro possa essere uno sviluppo di nuova generazione, rispettosodell’ambiente, della salute delle persone, dei diritti». Fin qui il giudiziopolitico, condiviso dalle associazioni ecologiste e dal M5s. Ma le domanderivolte ai ministri dell’Ambiente e dei Beni culturali sono innumerevoli, tutteriferite a norme. Emerge, secondo il fronte dell’opposizione, l’idea diintegrare un Ppr riveduto sulla base di regole più permissive con le due leggivarate nella legislatura Cappellacci: quella sul golf, che minaccia Tentizzos,e quella sulla revisione degli usi civici, da affidare ai Comuni. Chiedono itre parlamentari: come si potrà far passare all’interno dello strumento cardinedella pianificazione regionale norme che sono state già impugnate comeanticostituzionali, in palese contrasto col Ppr attuale e quindi con il Codicedel paesaggio, quando i 102 Comuni costieri hanno già a lavorato per adeguare ipropri piani urbanistici alle indicazioni regionali?

Ancora: «Come si intendeagire – è scritto nell’interrogazione – per la tutela delle aree gravate da usicivici, dichiarate beni paesaggistici ai sensi del Codice Urbani, consideratala proposta di legge 357 che la Regione ha appena approvato e qualiprovvedimenti si intende adottare per impedire l’applicazione della leggeincostituzionale e la violazione degli accordi sottoscritti il 16 maggio 2012con la Regione?». Eppure il progetto è manifesto: rimettere in discussione letutele per rivolgere un invito sorridente all’impresa immobiliare azzoppata dalPpr di Renato Soru. Con un’idea di Sardegna del tutto diversa, forse opposta,rispetto al modello ancorato alle sensibilità che lo strumento attuale,ispirato dal pianificatore Edoardo Salzano, ha cercato di alimentare.

Progettonon facile da realizzarsi, quello della giunta Cappellacci. Perché i marginilegali per opporsi sembrano ampi: «I signori della politica sappiano che cibatteremo metro su metro – annuncia Stefano Deliperi, del Gruppo diintervento giuridico – e che utilizzeremo con impegno ogni strumentoche la legge ci offre per fermare questa devastante revisione del Ppr».

La Nuova Sardegna, 7 agosto 2013

Il Piano paesaggistico regionale (Ppr) è diventato lo strumento ufficiale della pianificazione del territorio sardo il 25 novembre del 2004 e rappresenta ancor’oggi un esempio di tutela avanzatissimo. Preceduto dalla legge salvacoste, che congelò i progetti edificatori in corso all’epoca, venne elaborato dall’Ufficio del piano, coordinato dalla dirigente regionale Paola Cannas, su «ispirazione» di un gruppo di lavoro guidato da Edoardo Salzano, che stabilì un quadro di regole perfettamente ancorato alle disposizioni del Codice del Paesaggio o Codice Urbani, la legge nazionale che disciplina gli interventi sul paesaggio e la sua difesa secondo i dettami costituzionali. Sostenuto dagli ecologisti e contestato da diverse aree politiche e dalla grande impresa immobiliare, il Ppr ha retto a tutte le prove giudiziarie, uscendo rafforzato da sentenze del Consiglio di Stato che ne hanno confermato la legittimità. Le norme del Ppr servono a tutelare i beni culturali, identitari e paesaggistici della Sardegna in nome dell’interesse generale alla loro conservazione come patrimonio collettivo.

Fin dalla campagna elettorale, il governatore Ugo Cappellacci ha annunciato che la sua giunta avrebbe lavorato alla modifica di queste norme, considerandole troppo restrittive, per favorire la ripresa dell’attività edilizia anche sulle coste. Ad oggi il Ppr in vigore è quello approvato nel corso del governo Soru, ma le recenti leggi su golf e usi civici annunciano una revisione profonda delle tutele che potrebbe cambiare il futuro della Sardegna.

E’ una corsa contro il tempo:meno di un mese e mezzo per modificare il piano paesaggistico regionale e renderlo compatibile con la legge sul golf, la famigerata legge che minaccia il paradiso naturale di Tentizzos, e con la versione riveduta e corretta degli usi civici. Appena rientrato da un incontro romano col ministero dei Beni culturali, Ugo Cappellacci promette di raggiungere l’obbiettivo annunciato («percorso avviato, andremo avanti») e l’assessore all’urbanistica Nicolò Rassu gli fa eco: «I tempi stabiliti a marzo saranno rispettati». Metà settembre dunque, massimo l’inizio dell’autunno e gli uffici di viale Trento consegneranno alla giunta lo strumento destinato a migliorare - così sostengono - il Ppr di Renato Soru, quello ispirato alle idee del grande pianificatore Edoardo Salzano. Il primo di ottobre, stando sempre alle previsioni, si dovrà firmare il protocollo d’intesa col Mibac che spianerebbe la strada all’adozione del nuovo Ppr.

Qualcosa però non torna: se per la ricognizione degli oltre diecimila beni tutelati dal Ppr nell’isola e le prescrizioni d’uso erano stati previsti almeno 210 giorni di attività, i gruppi di lavoro chiamati a operare per la revisione del piano sono stati costituiti meno di due mesi fa, la determinazione firmata dal direttore generale dell’urbanistica Marco Melis è datata 10 giugno. Da allora ad oggi i funzionari chiamati a collaborare non hanno messo mano ad alcuna pratica legata al Ppr, non uno studio, una cartografia, niente di niente. Quindi a meno che Cappellacci e Rassu non intendano precettare gli uffici, bloccare i piani ferie e imporre in pieno agosto ai funzionari ritmi di lavoro forsennati, è impossibile che un intervento delicatissimo e complesso come quello annunciato possa essere realizzato alla scadenza confermata ancora ieri. L’altra volta, quando la Regione mise in moto la macchina del nuovo Ppr, l’assessorato aveva dato agli uffici dodici mesi di tempo: era il 2010 e fu la Procura della Repubblica - ricordiamo quei fatti in un servizio a parte - ad accertare come al 28 dicembre 2011 il lavoro di revisione non fosse neppure cominciato. Esattamente la stessa situazione di oggi, a sentire i funzionari che sulla carta dovrebbero essere impegnati alacremente nell’esame analitico di vincoli e tutele territoriali. Allora com’è che i vertici regionali si dichiarano certi di farcela?

Escluso che si tratti di un bluff, una risposta ci sarebbe: si chiama progetto Scus - Schema per il corretto uso del suolo - finanziato con la legge 14 del 14 luglio 2012. In pillole: un folto e articolato gruppo di lavoro esterno, chiamato a collaborare con i comuni per adeguare i piani urbanistici al Ppr. La Regione ha messo in conto 635 mila euro da spendere in due anni e mezzo per pagare 24 tecnici reclutati al di fuori dai ruoli pubblici, che da mesi operano sotto la vigilanza del comitato tecnico e del direttore generale Melis, occupandosi del nuovo Ppr, formalmente all’insaputa dei funzionari dipendenti dall’amministrazione regionale ma negli stessi uffici. A coordinarli è un ingegnere, Stefania Zedda, anche lei chiamata dall’esterno e considerata vicina al direttore generale Marco Melis. Come dire che cancellato l’ufficio del piano - allestito da Soru e dall’allora assessore all’urbanistica Gianvalerio Sanna, ingegneri e altre forze interne alla Regione messe insieme per elaborare il materiale tecnico alla base del Ppr - Cappellacci sembra aver affidato l’intervento di revisione del piano paesaggistico a un gruppo parallelo di strettissima fiducia, selezionato con criteri non dichiarati e pagato in base a contratti co.co.pro sconosciuti anche ai sindacati. Chiamato dalla Nuova Sardegna a chiarire se è così che il lavoro sta andando avanti e il perché di questa scelta, l’assessore Rassu ha risposto attraverso il suo addetto stampa di essere impegnato in attività istituzionali. Neppure cinque minuti per spiegare come siano stati reclutati i componenti del gruppo di lavoro per il progetto Scus, perché al 6 agosto 2013 i gruppi di tecnici interni siano ancora con le mani in mano e per quale motivo funzionari regionali di grande esperienza, che conoscono il Ppr per averci lavorato due anni sotto la giunta Soru, siano stati in parte inseriti nei gruppi ma finora esclusi dall’attività. In attesa delle risposte, alcuni funzionari regionali si preparano a ostacolare la fase conclusiva del lavoro di revisione: alla fine potrebbe mancare qualche firma fondamentale.

In ballo c’è l’ok delle sovrintendenze: senza quello il nuovo piano finirebbe nel nulla.
Nell’ampia intervista al neo Assessore all’Urbanistica di Roma, Giovanni Caudo, ritorna finalmente una visione della città governata da una regia pubblica, sulla base di obiettivi chiari e trasparenti. Il Sole 24Ore, Edilizia e Territorio, 5 agosto 2013 (m.p.g.)

La stagione degli accordi di programma progettati dai privati e dove l'amministrazione mette un "timbro" è chiusa. Sugli accordi con i privati ci sarà una regia forte dell'amministrazione capitolina e una tutela altrettanto forte dell'interesse pubblico. Per l'urbanistica romana si apre una nuova stagione all'insegna della "qualità" a tutto campo: qualità architettonica, cioè sul singolo manufatto, qualità urbanistica, che armonizzi gli interventi a livello di quartiere, qualità di gestione amministrativa dell'intero processo, per monitorare l'intervento dopo la convenzione in modo da prevenire contenziosi. Inoltre i privati possono dire addio agli ambiti di riserva: le aree verdi dell'agro romano non si toccano, saranno cancellate.

In compenso il Comune troverà le aree - ma anche i fabbricati da trasformare - per realizzare le case che servono. A partire dalle fasce più basse della popolazione. La Capitale ha bisogno subito di almeno 3mila alloggi per altrettante famiglie povere. Lo strumento principe della trasformazione urbana sarà il Print, cioè lo strumento previsto dal piano regolatore, ma rimasto sostanzialmente inutilizzato. Basti pensare che su 162 programmi integrati, solo uno, quello di Pietralata, è arrivato a maturazione. Le regole saranno riviste. Ci sarà anche una "manovrina" urbanistica, necessaria per risolvere la questione delle cosiddette "aree bianche", cioè le perimetrazioni che sono sfuggite, per errori o imprecisioni, alla zonizzazione di dettaglio del Prg. Non si tratta di poca cosa: sono state censite 228 di queste "aree bianche", di ampiezza variabile tra i 2.000 mq (per l'80%) fino ad arrivare a 5.000 mq. In definitiva si tratta di riassegnare funzioni a un'estensione di circa 480mila metri quadrati di territorio. Contestualmente, la manovrina urbanistica servirà anche a riaggiornare le funzioni dei servizi, dopo la scadenza dei vincoli fissati dal Prg. Ma oltre a governare l'urbanistica della Capitale, la sfida che il nuovo assessore ha preso di petto fin dal primo giorno di insediamento è quella di saltare sul treno dei fondi europei. Non è un caso che appena insediato come assessore all'Urbanistica, Giovanni Caudo, ha dedicato il primo atto amministrativo a spronare i suoi uffici a lavorare sulle proposte sulle quali chiedere le risorse 2014-2020 a valere sui fondi Fesr. L'altro obiettivo è quello di strappare risorse per la rigenerazione urbana anche dal Pon, dove Roma è in competizione con altre 12 città metropolitane (Torino, Milano, Genova, Bologna, Venezia, Firenze, Napoli, Bari, Messina-Reggio Calabria, Catania, Palermo, Cagliari).

Per dedicarsi interamente al governo dell'urbanistica romana, Giovanni Caudo ha pensato bene di sospendere la sua attività di docente interrompendo per ora i suoi corsi di Urbanistica alla Terza università di Roma. In questa articolata intervista "programmatica" rilasciata a «Edilizia e Territorio», Giovanni Caudo, tratteggia le linee guida del suo mandato nella nuova giunta guidata da Ignazio Marino. E comunica subito quali saranno i grandi progetti simbolo sui quali si misurerà la capacità del nuovo sindaco di Roma di migliorare la Capitale. I cinque macro-obiettivi che entrano nelle priorità dell'agenzia urbanistica sono l'asse Tiburtina-Pietralata; l'asse Roma-Fiumicino; gli ambiti del Tevere e dell'Aniene a Nordest; lo sviluppo urbano tra Roma e il mare; la valorizzazione delle aree archeologiche dell'Appia Antica e dei Fori. Questi nuovi "landmark" urbanistici della giunta Marino, sui quali cercherà di catalizzare i fondi europei per le politiche urbane, prendono il posto degli obiettivi della scorsa amministrazione Alemanno, tra cui la maxi demolizione di Tor Bella Monaca o la riqualificazione del waterfront di Ostia o la trasformazione della vecchia Fiera di Roma. II messaggio forte che Caudo vuole lanciare è che il prodotto finale sul territorio, sia esso il singolo edificio, sia esso l'assetto urbano a dimensione di quartiere, risponderà sempre a principi di qualità, architettonica e urbana. Per questo, quando possibile, si utilizzerà lo strumento del concorso di progettazione. Il sigillo di "qualità" di questo processo sta in una "certificazione" che sarà anche la garanzia che consentirà l'utilizzo delle risorse comunitarie. La struttura interna chiamata a governare questo processo sarà potenziata, con la creazione di unità operative, che Caudo sta selezionando, «a partire dalle risorse interne», sia pescando tra i 459 dipendenti dell'assessorato all'Urbanistica, sia tra i 676 impiegati della Spa capitolina Risorse per Roma.

Assessore, nel suo ruolo di docente universitario ha dedicato una particolare attenzione ad approfondire il tema casa. Secondo lei, esiste un'emergenza casa nella Capitale?
Certo che c'è un'emergenza. La casa è un'emergenza reale. In cima alla lista di chi chiede un alloggio popolare ci sono 3mila richieste di altrettante famiglie che hanno raggiunto il massimo del punteggio. Serve una risposta immediata, serve un piano straordinario di 3mila alloggi di edilizia sovvenzionata per dare una casa a queste famiglie. Sicuramente va affrontato anche il tema del disagio abitativo per quanti non riescono ad avere accesso né alla casa economica e nemmeno a quella del mercato libero.
Per rispondere a questa esigenza era stato varato il fondo dei fondi finalizzato all'housing sociale gestito dalla Sgr della Cassa depositi e prestiti. È un modello che funziona secondo lei?
A distanza di qualche anno dall'avvio dell'iniziativa i risultati sono deludenti, se confrontati con le aspettative. Ma la strada non può che essere un incontro tra privati e un investitore "paziente", di lungo periodo. Al modello del fondo dei fondi però manca qualcosa. Non è stato messo bene a punto.
Cosa manca?
Non abbiamo sviluppato la figura del gestore sociale, che in Italia manca e che invece nelle esperienze positive di altri Paesi assicura l'utilità sociale. La cosa che più si avvicina in Italia a una figura di questo genere è la cooperativa a proprietà indivisa.
Come si può garantire la qualità progettuale degli interventi di social housing?
Bisogna verificare tre condizioni: il suolo si deve comprare a basso costo, le risorse economiche non devono avere carattere speculativo e la gestione non deve gravare sul canone, altrimenti si rischia di non conseguire l'obiettivo. Per questo ultimo punto fondamentale è la qualità del progetto. Sempre all'estero, i piani di manutenzione ordinaria e straordinaria vengono fissati a monte, solo a quel punto la qualità del progetto è più garantita.
A Roma le aree ci sono? Non serve attingere alle aree di riserva?
Gli ambiti di riserva saranno cancellati. Le aree pubbliche esistono. E un patrimonio enorme. Immobili pubblici, aree ed edifici, localizzati spesso nelle aree già urbanizzate e dotate di infrastrutture di trasporto possono costituire un importante fattore in mano al soggetto pubblico per governare i processi di trasformazione urbana e per coinvolgere in questi processi i privati. All'interno di questa strategia si possono reperire le aree per l'edilizia sociale.
Quale ruolo deve avere il pubblico nella trasformazione della città? Azioni concrete da cui partire?
Per anni il rapporto pubblico-privato ha scontato una carenza della regia pubblica. Ci sono centinaia di contenziosi aperti tra il Comune e i privati che scaturiscono da un mancato controllo qualitativo della convenzione e della sua attuazione. Il nostro dipartimento ha un grande potenziale. La riorganizzazione della struttura a cui sto lavorando punta ad assicurare la qualità di questa fase del processo amministrativo. Anche perché da questi processi dipendono risorse importanti per l'economia della Capitale. Questo dipartimento immette nel sistema economico 420 milioni di euro, 200 milioni in moneta e 220 milioni di opere, cui si aggiungono 320 milioni di euro di opere a scomputo. Da permessi di costruire il Comune ricava 60 milioni di euro. E un importante ingranaggio per l'economia locale, anche se nell'ultimo anno i valori si sono dimezzati, e sono anzi aumentati i casi di imprese che restituiscono i permessi.
E secondo lei quale deve essere il rapporto del pubblico con i privati?
Abbiamo visto interventi scritti dai privati e accettati dall'amministrazione senza pensarci più di tanto. E sono fallite, vedi le ex Torri delle Finanze all'Eur (che dovevano lasciare il posto a un complesso residenziale di lusso promosso da Fintecna, ndf). Abbiamo davanti i ruderi della finanza ad alta intensità speculativa - come l'edificio tra Viale Giustiniano Imperatore e viale Cristoforo Colombo oppure il complesso per uffici a piazza dei Navigatori (entrambi promossi da Acqua Marcia, ndf) - che la città non può permettersi. Vogliamo invertire questa tendenza e dare certezza sia alle imprese, sia all'amministrazione. L'80% delle trasformazioni urbane lo realizziamo già oggi insieme ai privati, questo rapporto non può essere gestito in modo così approssimato come negli anni passati. Vogliamo dare certezze alle piccole e medie imprese che ci sarà una Pa che controllerà il rapporto pubblico-privato, che vigileremo sui tempi e le procedure. E questo approccio cercheremo di farlo permeare in tutte le iniziative, grandi e piccole.
Servirà una riorganizzazione interna?
Assolutamente sì. E una priorità. Risorse per Roma oggi conta 676 dipendenti (mentre nel 2008 erano 198) e le risorse interne all'assessorato sono 459. Riorganizzare il dipartimento non è mai stato oggetto di investimento, aree operative non sono strutturate secondo precisi obiettivi. La struttura che ho trovato riflette una pianificazione di vecchia maniera. Sto formando un unità operativa che verifichi il controllo della qualità, una che si preoccupi di farla permeare in tutte le iniziative, individuando di volta in volta gli strumenti più adatti. Una mia priorità è la certificazione, non solo degli edifici ma dei quartieri, con l'obiettivo di intercettare i finanziamenti europei per la rigenerazione urbana.
Cosa intende per certificazione?
Dobbiamo alzare l'asticella delle aspettative. Deve essere un obiettivo condiviso dalla Pa, costruttori, progettisti. Una mission del pubblico e del privato. In questo contesto promuoveremo anche dei concorsi di architettura e per temi urbanistici. In particolare ai giovani, forse ai giovani architetti romani potremo chiedere idee sperimentali per una nuova idea di trasformazione urbana.
Concorsi. Ha già qualche idea per qualche tema?
Nel Progetto Urbano Flaminio che intendiamo riprendere, dove si colloca anche l'intervento sulle Caserme di via Guido Reni, e dove il sindaco Ignazio Marino vuole realizzare il Museo della Scienza a pochi passi dal Maxxi, in quel caso lo strumento giusto è quello del concorso di progettazione internazionale.
E per i giovani?
Se immaginiamo un nuovo modello di Print, potremo costruire tanti spazi pubblici dove oggi manca un disegno urbano. Paesi come Olanda e Spagna fanno lavorare anche i loro giovani professionisti in questi contesti. Perché non possiamo fare altrettanto?
La precedente giunta ha lavorato per far decollare progetti ambiziosi, annunci che per ora non hanno avuto fortuna. Secondo lei, quali grandi progetti prioritari per Roma?
Non credo che Roma oggi abbia bisogno di progetti che lasciano il segno, dovremo governare bene le aree in cui è già in atto una trasformazione. Penso al quadrante Est dove c'è la nuova stazione Tiburtina che oggettivamente oggi non funziona, dove salirà la nuova sede di Bnp Paribas e si sta costruendo un nuovo insediamento in via della Lega Lombarda.
Si riferisce all'area di Pietralata?
Insieme 1 comprensorio di Pietralata e all'adiacente Print, si configura uno dei più grandi interventi di trasformazione urbana in Europa. Sarà interessante monitorare il processo di valorizzazione anche del tessuto minuto. Ci sono ampi lotti ancora disponibili. Il tutto collocandoci anche in un contesto di città metropolitana.
Come contate di affrontare l'operazione dell'ex Fiera di Roma, uno dei progetti che Alemanno ha ereditato dalla giunta precedente?
A breve incontrerò gli uffici della Fiera che si occupano del progetto per discuterne. Ma la vera questione non è tanto la vecchia fiera da trasformare, bensì il piano industriale della nuova Fiera. Cioè capire come vuole crescere e posizionarsi in un circuito internazionale e di come vuole aumentare la sua capacità attrattiva, valorizzando l'asse Roma-Fiumicino. Se invece la valorizzazione immobiliare è solo vista in funzione di ripianare i debiti della nuova Fiera, la questione è malposta.
Che ne pensa della trasformazione di Tor Bella Monaca?
Sono sempre stato contrario alla soluzione Alemanno. A Roma ci sono altri 113 quartieri come Tor Bella Monaca dove vivono 500mila abitanti, servono azioni meno eclatanti ma che siano più utili alla città, a tutta la città. Intendiamo tenere insieme la città, lavorare su più fronti, creando occasioni anche per chi vuole fare impresa.
Avete già incontrato i rappresentanti dei costruttori?
Sì. I costruttori dell'Acer hanno capito e condiviso il messaggio della nuova amministrazione. L'impresa potrà svolgere la propria azione e all'amministrazione spetta una regia pubblica della trasformazione urbana per affermare il principio che la città è pubblica.
Ha ancora senso parlare di centralità, il simbolo della città policentrica?
Buona parte delle centralità è stata pianificata. Ci sono alcune grandi aree di privati da pianificare.
Le principali sono Romanina e Acilia Madonnetta.
Su Acilia Madonnetta abbiamo attivato un'unità operativa che si occupa dell'area tra Ostia e il mare, che è una sorta di "città che non c'è". Una città che oggi non ha una maglia strutturale ma che potenzialmente vale molto anche per la presenza della pineta, di Ostia Antica, della rete dell'abitato: si tratta di un'area con 220mila abitanti. Va pensata in questo contesto complessivo.
E Romanina? Il proprietario Scarpellini ha proposto una versione molto densificata per sostenere i costi delle opere pubbliche.
Per noi la memoria di giunta sulla base della quale è stato modificato il dimensionamento non ha rilevanza. Ripartiremo da quanto prevede il piano vigente.
Intendete riaprire il cantiere urbanistico rimettendo in discussione le scelte del Piano regolatore?
Il Prg va attuato e chiuso. C'è nel frattempo una serie di pronunciamenti sulle compensazioni che stiamo valutando e che vanno governati.
In passato è stato fatto largo ricorso allo strumento dell'accordo di programma. Continuerete a fare accordi di programma per iniziative private?
Ci aggiungeremo una "U". La "U" di utilità sociale.
Il suo primo atto è stata una memoria di giunta sull'Agenda urbana nazionale, per intercettare i fondi europei.
Il tema è fondamentale e urgente. E per questo che ho subito dato impulso agli uffici per lavorare su cinque aree strategiche di riferimento per la città, in modo da definire piani di fattibilità e progetti da inserire nei piano operativo nazionale - lavorando con il ministro Trigilia - e nel piano operativo regionale del Lazio 2014-2020. Il tutto per arrivare all'Agenda urbana che permetta alle città di essere coinvolte nelle strategie di sviluppo finanziate con i fondi Fesr. Per l'Italia significa attingere a circa due miliardi di risorse complessive per lo sviluppo urbano sostenibile, e di cui Roma può legittimamente aspirare a conquistare una parte consistente.
È difficile progettare la qualità?
Non è difficile ma bisogna superare abitudini consolidate. Ci vuole veramente poco per includere nei progetti elementi innovativi tesi al risparmio energetico, all'efficienza, alla qualità architettonica. E non ci vuole molto, basta un 2% in più per fare di una cosa tradizionale una cosa migliore in grado di essere finanziabile con risorse Ue.
Più in generale, come vi muoverete per completare l'attuazione del Prg?
A ottobre promuoveremo una Conferenza urbanistica per recuperare la tradizione romana ma anche con l'obiettivo di avvicinare le esigenze della città alle azioni dell'urbanistica. Per noi sarà un'occasione di ascolto. Il Comune sarà promotore. Abbiamo incaricato l'Inarch di fare da regista. Ragioneremo su parole chiave, parte da qui la nostra sfida.
Continuerà a insegnare?
No, ho deciso di prendere un periodo di aspettativa. Ma per non perdere il contatto con gli studenti cercherò di fare un corso opzionale, ritagliando uno spazio nella giornata di sabato.
Roma non ha un Urban Center. Lei pensa che questo spazio serva alla città? Lo realizzerete?
La Conferenza urbanistica potrebbe essere il primo passo ma io non credo che per comunicare l'urbanistica alla città serva solo l'Urban Center. Ci sono tanti modi possibili per interloquire con la città. Comincerò inserendo sul sito dell'assessorato uno spazio per contattare l'assessore, la cosa più banale ma che oggi non c'è.
Il progetto Campidoglio2 andrà avanti?
Premetto che non rientra fra le mie competenze. Detto questo, credo che vadano valutati costi e convenienza. Dal mio punto di vista posso dire che il nostro dipartimento si organizza in cinque sedi distinte, per tre di queste paghiamo un affitto a Eur Spa di oltre quattro milioni. Manteniamo Eur Spa.

Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2013 (m.p.g.)

Diego Della Valle va annoverato tra i padri della Patria o è un furbetto che vuole fare le scarpe al Colosseo? La risposta è nel contratto di sponsorizzazione firmato nel gennaio 2011 tra il padrone delle Tod's e l'allora commissario dell'archeologia di Roma, Roberto Cecchi. Come è noto, in quell'occasione Della Valle si impegnò a donare 25 milioni di euro (deducibili fiscalmente) per finanziare il restauro dell'Anfiteatro.

In cambio di cosa? La Tod's dichiara che costituirà l'Associazione Amici del Colosseo: non, come il nome indicherebbe, una libera riunione di cittadini capace di autodeterminarsi attraverso il voto, ma una fondazione controllata da Della Valle. E quasi tutti i benefici riservati allo sponsor vengono girati da Tod's a questa fondazione.

E i benefici non sono da poco: «realizzare in esclusiva un logo raffigurante il Colosseo»; «gestire in esclusiva l'attività di comunicazione relativa agli interventi di restauro e pubblicizzare l'attività di restauro del Colosseo»; «realizzare, direttamente o tramite Tod's, un "Centro" nelle vicinanze del Colosseo per l'accoglienza dei sostenitori dell'Associazione». Tutto questo, per quindici anni dalla costituzione della fondazione stessa. Non è finita: per due anni dalla fine dei lavori la Tod's potrà utilizzare il logo con il Colosseo abbinato al proprio; stampare il proprio marchio sul retro dei biglietti d'ingresso e sulla recinzione del cantiere; «pubblicizzare in abbinamento a propri prodotti e/o marchi l'erogazione del proprio contributo».

Non c'è bisogno di spiegare perché tutto questo metta in allarme chi ancora crede nella funzione costituzionale del patrimonio artistico: cioè nella sua alterità rispetto al mercato, nel suo legame con la conoscenza, nella sua dimensione egualitaria. In nessun paese occidentale si potrebbe trasformare in un logo l'immagine di uno dei monumenti simbolo del paese stesso (per secoli il Colosseo è stato al posto della corona civica sulla testa delle allegorie dell'Italia), né concedere un monopolio pluriennale sulla comunicazione di una ricerca scientifica (qual è, comunque lo si paghi, il restauro del Colosseo). E costruire ex novo un edificio, per quanto provvisorio, nell'area vincolatissima dei Fori è una bestemmia inaudita.

Ma Diego Della Valle appare in perfetta buona fede. Quando mi ha chiamato per protestare contro le mie critiche, ho capito che davvero non si capacita che qualcuno storca la bocca di fronte a tutto ciò. E la buona fede emerge anche dal contratto stesso. Se quelli che avete appena letto sono i diritti che gli sono stati offerti, Della Valle ha infatti voluto scrivere che non ne approfitterà appieno: per esempio «Tod's non abbinerà l'immagine del Colosseo ai suoi prodotti», e cederà il retro dei biglietti ad associazioni umanitarie.

In qualche modo, Della Valle si rende dunque conto che sarebbe sbagliato usare commercialmente un simbolo dell'identità culturale italiana, ciò che pure uno Stato alla frutta gli ha consentito di fare: non è Della Valle ad essere invadente, è lo Stato che non esiste più. Non c'è molto da stupirsi, perché la controparte pubblica del contratto fu Roberto Cecchi (già direttore generale dei Beni artistici, e poi sottosegretario ai Beni culturali di Monti): che è sotto processo alla Corte dei Conti per il danno erariale causato dall'acquisto del crocifisso implausibilmente attribuito a Michelangelo. E il pdl Francesco Giro (ex sottosegretario ai Beni culturali della brillante fase Bondi-Galan) vorrebbe che l'Associazione Amici del Colosseo fosse presieduta da Andrea Carandini: il noto archeologo che, dopo aver restaurato il castello di famiglia con 288.973 euro pubblici, lo apre ai cittadini per ben due ore al mese (comodamente: il primo lunedì, dalle 9 alle 11). Insomma, non proprio una costellazione di strenui difensori dell'interesse pubblico.

Ma il problema è generale. Per dirla con le parole di Don Raffaé di Fabrizio De André: «Lo Stato che fa? / Si costerna, si indigna, si impegna / e poi getta la spugna / con gran dignità». Anche il seguito è illuminante, e ben si applica al Ministero per i Beni culturali: «mi scervello, e mi asciugo la fronte / per fortuna c’è chi mi risponde». Ecco, è opinione diffusa che all'abdicazione dello Stato non ci sia rimedio se non la taumaturgica apertura a «chi risponde» (naturalmente per interesse), cioè i privati: oggi tocca ai beni culturali, domani sarà la volta di sanità e scuola.
Anche all'interno del governo Letta la partita è proprio questa. La sottosegretaria ai Beni culturali Ilaria Borletti Buitoni ha dichiarato che trova esemplare l'operazione Tod's-Colosseo, e sta cercando di imporre in ogni modo l'ingresso dei privati nella gestione del patrimonio. E siccome il ministro Massimo Bray prova invece a tener fede alla Costituzione su cui ha giurato, il conflitto è feroce. Nell'ultimo Consiglio dei ministri è stato il ministro della Difesa Mario Mauro a cercare di far passare la privatizzazione del patrimonio artistico, dicendo che questa è la linea del suo partito, Scelta Civica (nelle cui liste è stata eletta la Borletti Buitoni, dopo un'oblazione di ben 710.000 euro).

Ma siamo proprio sicuri che la scelta sia tra la Tod's e la rovina del nostro patrimonio? Non è così. Innanzitutto è prioritario incrementare il bilancio dei Beni culturali (siamo ormai a un miserrimo miliardo l'anno: contro i 26 di spese militari, cui si aggiungono i 13 per i bombardieri F35). Infine, anche volendo far partecipare i privati, c'è modo e modo di farlo. Sul web è facile scaricare un altro contratto di sponsorizzazione, quello che dal 2004 regola le donazioni ad Ercolano del miliardario americano David W. Packard. Se si vuol spiegare la differenza tra sponsor e mecenate, basta confrontare articolo per articolo questo contratto con quello Tod's. Packard chiede solo che il logo della sua fondazione benefica compaia nelle pubblicazioni scientifiche della Soprintendenza, e che a Ercolano venga apposta una targa di «dimensioni concordate con la Soprintendenza». Una bella differenza, no? Ma Packard è americano, e chi legga anche solo qualche pagina – per dire – di Tony Judt o di Joseph Stiglitz sa che in America si è superata da qualche decennio l'ideologia privatistica reaganiana cui sono fermi gli apostoli italiani della religione del privato.

In conclusione, Della Valle non è un furbetto, ma neanche un padre della Patria. Perché la Patria si è suicidata.

Un intervento sul “progetto Fori che leggiamo come una sollecitazione al Sindaco Marino ad andare avanti sulla strada iniziata, e non come una critica al primo passo nella direzione giusta (dopo gli anni di Rutelli, Veltroni e Alemanno).

Da sabato 3 agosto, nella capitale prende il via il "Progetto Fori" in salsa Marino. Niente più che una banale soluzione “viabilistica” che toglie al traffico, ma non pedonalizza, una manciata di metri di strada. Come se bastasse evocare il ricordo di un’idea di città per realizzarla. Da segno del fascismo che non si è voluto cancellare, il Progetto Fori sarebbe invece tutto da ripensare, a partire dall'unica misura possibile per realizzarlo: cancellare il debito che stritola Roma.

In alcune capitali europee, quando si è messo mano a grandi trasformazioni urbanistiche si è fatto riferimento alla “scienza urbana”, a come intervenire su quelle specifiche parti che, trasformandosi, avrebbero modificato l’intera città. Non come quando si è intervenuto con edifici spettacolo per creare “città evento”; quelle dove l’architettura è “il prodotto dell'incontro tra la scala mobile e l'aria condizionata, concepito in un’incubatrice di cartongesso” (Koolhaas), ma con progetti a larga scala in aree centrali. Solo qualche esempio nella seconda metà del novecento: Les Halles di Parigi, la terza sistemazione del centro di Mosca, la Berlino ovest riprogrammata “centralmente” prima dell’unificazione. Luoghi che, pur facendo oggi parte dell’immaginario complessivo di quelle città, non reggono il confronto con il “Progetto Fori”. A Parigi l’area non è estesa, a Mosca non ci sono reperti archeologici, a Berlino il programma della trasformazione faceva riferimento, sostanzialmente, all’espansione ottocentesca della città.

Il “Progetto Fori” parla con due parole precise: area archeologica e disegno urbano. Viene da lontano, visto che i primi a scavare nell’area dei Fori furono gli archeologi di Pio VII e che i lavori proseguirono sia sotto l’amministrazione napoleonica che con il nuovo governo italiano. Fu solo però nel 1978 - quando la via dell’Impero (oggi Fori imperiali) era stata tracciata da tempo (1932) e sembrava non dispiacere neppure troppo alla Repubblica che l’usava (usa) come location per la propria esibizione muscolare in occasione del 2 giugno e collettore del sempre crescente traffico automobilistico - che l’allora Soprintendente archeologico Adriano La Regina pose in modo esatto i termini della questione urbana. “Nel giro di pochi decenni perderemo tutta la documentazione della storia dell’arte romana”, scrisse. Presentando una serie di rilevamenti e studi che dimostravano come, proprio in quell’area, si concentrasse un’altissima concentrazione di smog tale da determinare la corrosione dei marmi, lanciò così il progetto in tutto il suo significato complessivo: “Il problema fondamentale non è tanto quello dei fondi per il restauro dei monumenti, perché ciò che costerà enormemente sono gli interventi di riorganizzazione della città”.

Da allora non è vero che, come dice il neo sindaco Marino, in 36 anni non si è fatto nulla. Si è fatto, invece, troppo e troppo poco. Troppo perché si è redatto un Piano regolatore di “offerta” verso il mercato, invasivo e sovradimensionato; troppo poco perché, così facendo, si è sancita la rinuncia definitiva alla pianificazione, saldando di fatto anche questo ultimo strumento a quanto si era andato facendo per tutto il novecento. È il Piano Regolatore di Veltroni ad aver condannato il Progetto Fori. Non perché non lo comprenda, ma perché ha scelto di non intervenire su quella che, scritta da Adriano La Regina come “riorganizzazione della città”, andava letta come “idea di città”.

Il Progetto Fori metteva in discussione su scala urbana, con l’assetto viario della città, il muoversi e l’abitare. Raccogliendo l’invito del Sindaco Argan, «o i monumenti o l’automobile», non lanciava anatemi o crociate ideologiche contro le macchine, ma proponeva di allontanare da questo “tesoro”, non scoperto, ma ritrovato, le funzioni che, svolgendosi all’intorno, le attirano.

Non dovette sembrare troppo poco ai molti che iniziarono a lavorare intorno questo tema per almeno un decennio (Cederna, Benevolo, Nicolini, la medesima Soprintendenza Archeologica) per lo smantellamento graduale dell’ex via dell’Impero e l’esplorazione archeologica, per riportare in luce le antiche piazze imperiali, creare il parco unitario Fori Imperiali-Foro Romano. Non solo una straordinaria campagna di scavo, ma la convinzione progettuale di ridefinire ampliandolo il centro storico con la conseguente mission di «arricchire Roma e i romani di un incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo, per tacere del contributo che lo scavo stratigrafico darà alla conoscenza della storia della città; e con il riassetto ambientale della zona tra il Colosseo e le mura aureliane”e giungere alla “creazione del gran parco dell’Appia Antica, prosecuzione extra - moenia del parco archeologico centrale» (A. Cederna e altri: Interventi per la riqualificazione di Roma Capitale della Repubblica.Camera dei Deputati. X legislatura aprile 1989).

Non mettendo mai in cantiere questo progetto, Roma non si è costruita come metropoli. Rinunciando a far coincidere l’idea di metropoli con la realizzazione di un grande progetto identitario, all’interno del quale ripensare le forme stesse della metropoli, non ha fatto da argine proprio alle più devastanti forme metropolitane che, da allora, hanno iniziato a propagarsi nella città. Ad iniziare dall’arrendersi, senza alcuna condizione, a quei fenomeni della rendita immobiliare che il piano regolatore non sa contenere, che anzi a volte incoraggia, e che hanno trasformato l’intero territorio comunale in merce, ingoiato come è da una strategia di comando che taglia servizi, ogni assistenza, nega diritti, interviene direttamente sulla vita di ognuno di noi dragando denaro (facendo cassa) dall’annientamento della città pubblica.

Oggi quel progetto si riduce ad una soluzione “viabilistica” che toglie al traffico, ma non pedonalizza, una manciata di metri di strada. Come se bastasse evocare il ricordo di un’idea di città per realizzarla.

Intorno alla chiusura odierna si sono scatenate già molte polemiche. Ma chi si lamenta prevedendo assalti automobilistici all’intorno e chi chiede radicalità nell’intervento, pensando che il neo sindaco in realtà abbia solo dato un segnale mediatico, sembra non comprendere che riparlare del Progetto Fori nei termini (e con le medesime polemiche) di come si è iniziato a fare oltre tre decenni fa significa non chiedersi come rendere attuale l’idea del parco archeologico al tempo della crisi, in una città che ha attentato a tutte le scelte che avrebbero dovuto accompagnare questo progetto.

Lo SDO, il sistema che avrebbe dovuto liberare il centro dal peso delle funzioni pesanti, è diventato poca cosa: striminziti scampoli di funzioni pesanti; le centralità veltroniane che avrebbero dovuto fare altrettanto sono diventate (e diventeranno) ricettacolo dell’invenduto residenziale; altre funzioni continuano a sommarsi in centro senza alcun controllo o dove meglio gli aggrada (Porte di Roma, Eur Castellaccio…). Si può ancora parlare di un progetto possibile?

Si potrà farlo, abbandonando i tatticismi e le furbizie (questo mezzo può passare, questo no…) e le dichiarazioni ad effetto del tipo di quelle che hanno costruito la festa/evento della notte tra sabato 3 e domenica 4 agosto (ora troviamo i fondi, serve intercettare un grande manager, siamo solo all’inizio, per ora iniziamo con “la banda dei vigili che accompagnerà le autorità”….). Si potrà farlo considerando questo progetto come un restauro a scala urbana.

Come ogni restauro, anche il Progetto Fori deve avere delle ragioni “certe"" da cui iniziare. In questo caso la ragione non può essere che l’obbligo di farlo. Nell’inventare questo ritorno al futuro non c’è solo il “liberare” un suolo. È l’occasione per ricostruire le condizioni originarie del paesaggio. Nel rendere leggibili le relazioni tra i manufatti, si costruisce la nuova topografia. Nel continuare lo scavo del Foro della Pace, nel tirar via da sotto la strada il tempio, si fa dell’aggregazione dei Fori il cardine della trasformazione urbana, la grande piazza “riconoscibile” del mondo. Non si parla dell’eliminazione di una strada; né del risarcimento al piccone demolitore di Mussolini. È il tentativo di resistere al declino delle città imposte dal liberismo. Si crea uno straordinario spazio pubblico.

È un progetto a riconoscere che non è solo un decreto ministeriale, una delibera comunale, una categoria urbanistica, una consuetudine a definire i confini del centro. È un progetto a definire che di questo dovrà far parte come un’area viva lo spazio sistema che da piazza Venezia si spinge verso il Colosseo, il Circo Massimo, si attacca alle mura per spingersi verso il cuneo verde dell’Appia; luoghi tutti, oggi, isolati nella loro splendida solitudine. Che scavare vuol dire conquistare e raccordare tra loro la quota archeologica del Foro della Pace ( +17mt), attraverso la creazione di un museo, con quella del Colosseo (+23mt). Che conoscere la stratificazione storica è capire la modalità che la città si è data per costruirsi nel tempo, che non ci sono classifiche di importanza; che intrecciando tra loro il Foro della Pace e quello di Traiano si libera un grande quadrato a ridosso del tessuto rinascimentale che ancora esiste. Ritrovare quello che è esistito e quello che si è costruito sul costruito. Scoprire, come è accaduto in questi giorni, che insieme al ritrovamento di un gigantesca colonna di 15 metri in granito si è rinvenuto anche un cantiere di spoliazione dei marmi del secolo XII e, scendendo con lo scavo, un impianto di produzione di metalli del secolo IX.

Serve denaro e servono finanziamenti appropriati, certo. Bisognerà programmarli e i soldi non ci sono, e allora? Allora si potrà fare, facendo una scelta mai fatta a Roma: legare tra loro gli interessi scientifici, quelli urbani e quelli sociali. Si potrà fare pensando proprio alla realizzazione, da subito, del Progetto Fori come alla risposta dei cittadini al processo di espropriazione da parte del mondo economico finanziario che, operando offshore anche rispetto alle forme di rappresentanza, vogliono continuare a strangolare Roma. Si potrà fare con un atto d’indirizzo preciso: non riconoscere il debito immane di Roma Capitale, che si frappone alla realizzazione di questo progetto.

È nel debito che s’annida il nostro impoverimento, la precarizzazione del lavoro, è il debito a non farci vedere vie d’uscita, a legarci al quotidiano, a dire che dobbiamo guardare ai soldi dei privati e assistere impotenti al fatto che in cambio dobbiamo cedergli pezzi, sempre più pregiati, del patrimonio pubblico.

Non riconoscere il debito prodotto dalle banche del mondo e dai loro titoli, e destinare piuttosto al Progetto Fori quella massa monetaria, avrà anche il significato di coinvolgere il mondo in un progetto che non potrà vedere impegnati soltanto noi. La vasta opera di restauro a scala urbana vorrà dire operare sulle singole aree per giungere alla definizione del dettaglio e permettere di “vedere” i manufatti riportati alla luce. Un lavoro lungo, imponente, un progetto in continua evoluzione che non va avanti in base ai flussi di finanziamento, ma con l’intelligenza di inventare, scavo dopo scavo e con la partecipazione di tutti, l’idea di città dove vogliamo vivere.

Corriere della Sera Lombardia, 4 agosto 2013, postilla (f.b.)

MORBEGNO (Sondrio) — «Maledetto caldo, chi lo sopporta più. E' colpa di Stige se scappiamo». Alle 8.50 il sole già brucia l'asfalto. L'afa fa boccheggiare i milanesi Alberto e Franca Bonfanti, marito e moglie, due figli. Sono nel parcheggio del centro commerciale che si affaccia sul chilometro zero della statale 36 a Cinisello Balsamo. Fatta la spesa, stanno partendo: «Andiamo in Valtellina. Lì abbiamo riscoperto la seconda casa: per la crisi e perché adesso i tempi di percorrenza si sono accorciati di quasi un'ora». S'infilano in macchina, l'aria condizionata al massimo, il bagagliaio che scoppia. Come la famiglia Bonfanti, sono migliaia i lombardi fuggiti dalle città. Un viaggio anche solo per un weekend, come vuole il nuovo turismo mordi-e-fuggi: invitati anche dalle nuove infrastrutture (la galleria di Monza, aperta lo scorso 3 aprile, e il nuovo tratto della statale 38 in provincia di Sondrio, inaugurata lo scorso mercoledì) che promettono di avvicinare la Valtellina al resto della Lombardia.
Ore 9. Partenza da Cinisello Balsamo. In un paio di minuti ci si infila nei 1.800 metri del tunnel di Monza, nuova «porta della Brianza». Limite di velocità a 90 all'ora. In 80 secondi, Monza è già alle spalle: prima servivano da 30 a 45 minuti. La galleria è costata 75 milioni di euro, che salgono a 330 milioni se si contano i lavori della connessione della Statale 36 con la rete autostradale. Lecco dista 49,9 km, la circolazione è intensa, ma fluida. Oltre ai vacanzieri, in strada c'è il popolo dello shopping, perché su entrambi i fianchi la Nuova Valassina è una giungla di vetrine. Il termometro segna 33,5 gradi. Lissone, Desio, Seregno, Carate e Giussano. Poi segue un saliscendi fra le colline. Ore 9.40. Ecco Lecco e lo snodo per la Valsassina, che calamita una scia di auto, moto e camper. Ma per Sondrio si prosegue dritto, nel tunnel del San Martino. All'uscita, ecco il ramo lecchese del lago di Como, con scorci da cartolina. Ore 10. Area di servizio di Mandello Est. C'è l'assalto a caffè, brioches e panini: processione alla cassa, giornate da triplo incasso rispetto al solito, dicono gli addetti.
Dopo 15 minuti di sosta, si riparte lungo la statale 36: unica nota dolente, un ingorgo fra Bellano e Dervio, che sull'orologio mangia 20 minuti, per la chiusura della galleria Monte Piazzo e annessa deviazione dalla corsia nord alla sud. Ore 11. Eccoci allo svincolo del Trivio di Fuentes. A sinistra Colico, a destra una cattedrale dello shopping da 60 negozi. Qui c'è il bivio: la Ss 36 prosegue per il Passo dello Spluga, mentre per la Valtellina bisogna immettersi sulla fiammante statale 38: sono 9,3 km fino a Cosio, costati 240 milioni di euro. L'asfalto è come un tappeto da biliardo. Tempo di percorrenza? Dieci minuti, mentre prima erano almeno 30. Poi le due corsie si restringono nell'imbuto di Morbegno: 5 km in 20 minuti. «Speriamo che facciano presto la nuova tangenziale, così libereremo il centro», sospira il sindaco Alba Rapella. Le fa eco Agostino Pozzi di Confartigianato di Sondrio e titolare di un'azienda di autotrasporto: «Ci auguriamo che questo nuovo tratto sia l'inizio di un progetto di rapida realizzazione e più ampio».
Ore 11.30. A due ore e mezza dalla partenza, a Morbegno, percorsi 115,7 km, eccoci alla meta del nostro viaggio. Ma per chi invece è diretto a Tirano, Bormio, Livigno, la statale 38 è ancora lunghissima.
postilla
Naturalmente nessuno ci parlava di questi problemi, quando poche settimane fa in pompa magna autorità e stampa marciavano trionfali sul megatunnel di Monza, diaframma caduto fra la regione produttiva e il suo cuore nevralgico nel capoluogo. Eppure basta poco (basta appunto l'esperienza di una Famiglia Bonfanti in Vacanza, ce ne sono milioni) a intuire che tutto si tiene, e se lascio andare un grosso fiotto di qualcosa da un buco, finirà per intasare un buco successivo in assenza di altri sbocchi. Esiste un piano? Certo, ma non riguarda la mobilità e il suo rapporto con gli insediamenti, lo sviluppo socioeconomico, la sostenibilità ambientale. Riguarda solo gli interessi di chi di fatto crea ad arte il diaframma successivo (ce n'è sempre uno in attesa) per poi farlo crollare a spese del territorio e del contribuente. Perché nessuno apriva bocca quando tutte le possibili vie di circonvallazione degli abitati venivano puntualmente ostruite da nuove lottizzazioni? O qualunque idea di mobilità alternativa su ferro si rinviava sine die? Ed eccoci qui, con le famiglie già preparate a infuriarsi per il prossimo tappo, e a votare per il politico che promette di farlo saltare … ad libitum (f.b.)

Non è solo una novità commerciale o tecnologica, l'arrivo del mercato nel settore dell'auto urbana condivisa, vuol davvero dire potenzialmente molto per la città. La Repubblica Milano, 4 agosto 2013, postilla (f.b.)

Si apre la concorrenza per il car sharing. Il Comune ha esaminato e accolto il piano con cui i tedeschi di Car2go sbarcheranno in città con una flotta di Smart per usi brevi e parcheggi in libertà sulle strisce blu. Autorizzazione accordata. E così il debutto delle nuove auto in affitto è previsto probabilmente già giovedì prossimo, al più tardi dopo Ferragosto. Le macchine sono già pronte.

I tedeschi di Car2go (gruppo Daimler-Mercedes) sono stati i primi (e anche gli unici, per ora) a rispondere all’avviso pubblico con cui Palazzo Marino da un mese sta aprendo il mercato dell’auto in affitto anche ad operatori privati, portando così un po’ di concorrenza in casa Atm che finora ha avuto il monopolio del servizio con 135 vetture e circa 5.400 abbonati a GuidaMi. I tedeschi già presenti in 12 città europee, l’ultima Vienna, e nove tra Canada e Stati Uniti, hanno presentato la manifestazione di interesse che il Comune, venerdì, ha accolto. Quindi, solo il tempo dei passaggi burocratici e si parte.

Se si riuscirà già da giovedì prossimo: è su questa data che l’azienda sta ragionando. E solo se il completamento dell’iter burocratico rallenterà i tempi, si lascerà passare la metà del mese per il debutto. Le miniauto benzina Euro 5 sono già parcheggiate nei depositi della Mercedes in città. Immatricolate, targate e pronte. Saranno disponibili su strada e non nelle aree sosta. Si inizierà con 150, per la prima fase del debutto, ma a regime si salirà a 450, alcune già attrezzate per i disabili. Iscriversi costerà 19 euro (online ma anche in alcuni concessionari Mercedes in città), mentre la tariffa di noleggio al minuto sarà di 29 centesimi, inclusa di assicurazione, sosta, Iva e ticket di Area C. Si prenoterà soprattutto via cellulare. L’applicazione sarà operativa sugli smartphone: visualizzerà l’auto disponibile più vicina.

Tra le novità, il fatto che l’auto non dovrà essere riconsegnata nel punto esatto dove la si preleverà — il principale limite contestato dagli utenti a Guida-Mi — ma dove si desidera sulle strisce blu. One way, dicono gli addetti ai lavori: l’operatore paga difatti un forfait al Comune per garantire questa chance all’utente, circa 1.100 euro all’anno per ciascuna Smart. Per queste auto sarà vietato invece il passaggio sulle corsie preferenziali, concesso invece ad Atm. Dalle stime comunali sono circa 15mila i potenziali utilizzatori di car sharing a Milano. Ma Car2go punta in realtà più in alto, almeno al doppio. L’intenzione è di raggiungere i 30mila utenti all’anno registrati a Vienna in pochi mesi. Per il debutto, i tedeschi assicurano una squadra di tutor già istruiti, attivi in giro per la città a dirigere il servizio e dotati di palmari. Per il primissimo periodo sperimentale, potrebbero anche regalare minuti di traffico gratuito ai milanesi per far conoscere il loro servizio.

Si vedrà nei prossimi mesi se, come emerso anche durante il convegno per operatori fatto dal Comune nei mesi scorsi, ci saranno altri operatori interessati a contendersi il mercato milanese. Come i tedeschi di DriveNow, gli americani di Zip Car già sbarcati in Europa e pure i francesi di Autolib’, anche se questi ultimi meno nell’immediato perché si tratta di un servizio solo elettrico e, prima, servirebbero milioni di interventi infrastrutturali per le ricariche delle auto.

postilla
Il primo segnale di rottura è una cosuccia che l'articolo soltanto accenna: il servizio è gentilmente offerto dal signor Mercedes. Non per dire di griffe prestigiosa, ma per sottolineare il passaggio da fabbrica a erogatore di servizi integrati, che finalmente sbarca a anche tangibile da noi: demotorizzazione non significa fatalmente famiglie piangenti perché il papà è stato lasciato a casa dalla catena di montaggio. Mal che vada, lui ha riciclato la sua professionalità nella rete di manutenzione diffusa sul territori, o la mamma sta nell'amministrazione dei servizi informativi locali. Insomma il paese a scimmiottare il peggio di Detroit è solo un incubo, almeno per chi lega comparto auto e sistema della proprietà privata. Poi ci sono gli aspetti urbani e di mercato, con l'innovazione del poter lasciare la macchinina nei parcheggi: vuol dire rivolgersi a una clientela vera, a un'utenza metropolitana concreta e vasta, non al mondo circoscritto e rigido degli spostamenti pendolari regolari (con ritiro e consegna nel medesimo punto). In definitiva, si scarica potenzialmente una grossa pressione sulle arterie cittadine: meno mezzi privati circolanti, meno auto ferme in un parcheggio a far nulla per 23 ore su 24, più possibilità di aree a circolazione mista regolamentata pedonale ciclabile e di veicoli a motore a bassa velocità, ovvero più spinta (e di mercato, non del decisionismo astratto pubblico in fondo poco amato da tutti) per le politiche del Piano per la Mobilità Urbana Sostenibile. Che si attua notoriamente sommando e coordinando progetti, anche privatissimi come questo (f.b.)

«Mai sono apparse così gradualmente trascurate e lasciate a se stesse come da una ventina di anni a questa parte. Bagnoli è solo l'emblema massimo». Corriere del Mezzogiorno, 1 agosto 2013, con postilla

«Ci chiediamo esterrefatti quanto tempo ancora dovrà passare perché Napoli torni a essere una città civile. Perché essa – sia detto a chiare lettere – oggi non lo è». Così inizia una lettera di tale Vittorio Gennarini a La Stampa, apparsa venerdì 26 luglio, che si conclude affermando che «questa è una città per modo di dire, in cui anche i più pazienti non possono continuare a vivere». Il motivo dell'inciviltà napoletana? Le condizioni dei trasporti cittadini, poiché «nelle domeniche d'estate alcuni autobus pubblici scompaiono completamente dalla circolazione, spesso per intere mattinate, ricomparendo poi all'improvviso, quando i passeggeri in attesa alle fermate si sono già sentiti male per l'angoscia e il sole che picchia».

Gennarini (un nome di chiara origine meridionale, se non proprio napoletana) doveva avere un forte mal di pancia quando ha scritto una tale lettera sulla civiltà di Napoli, e stupisce che un giornale di grande tradizione come La Stampa l'abbia pubblicata senza nemmeno una parola di commento. Noi, però, saremmo pronti a scommettere che il Gennarini abbia vissuto le sue avventure estive domenicali aspettando qualche mezzo di trasporto in qualsiasi parte dell'ampio arco periferico napoletano da San Giovanni a Bagnoli. E lo crediamo perché, malgrado i grandi progressi fatti con la metropolitana collinare e urbana, le comunicazioni rimangono in quelle periferie, a dir poco, problematiche.

Con una Cumana, i cui orari sono spesso una scommessa, con una Vesuviana, lontana ormai da quella puntualità e regolarità che una volta ne facevano un modello europeo, con altre carenze a tutti ben note, il trasporto urbano è diventato uno dei tanti settori critici della Napoli odierna, ma ben più che critico proprio per l'arco periferico della città. E magari fossero solo i trasporti a essere critici in questo arco! È vero che per tutta la città l'attuale amministrazione è del tutto al di qua del mostrarsi capace di delineare un progetto o un'idea di città, un disegno urbano da perseguire in tutto o in parte, con un ritmo d'insieme o modulare.

Che cosa intenda dire il sindaco quando dice che sta trasformando la città, nessuno ha finora capito. Trasformando in che cosa? L'impressione non a caso prevalente è che siamo nel pieno di una faticosa marcia verso il nulla in un contesto di inefficienza operativa quotidiana inconsueta anche nella non brillantissima storia amministrativa napoletana. E se questo è vero per la città nel suo insieme, certo molto di più lo è per le periferie.

L'attuale periferia della città si è formata con l'ampliamento della circoscrizione cittadina operata nei primi tempi del fascismo, attuando, male e parzialmente, una delle geniali intuizioni di Nitti all'alba del Novecento. I comuni allora inclusi nel perimetro cittadino rimpiansero a lungo la loro perduta autonomia municipale, che però non molto giovava né ad essi, né a Napoli. Il negativo non era nell'annessione e nella loro perduta personalità municipale. Il negativo è derivato dal modo come è stata effettuata e poi sviluppata l'annessione. Mai, tuttavia, le periferie napoletane sono apparse così gradualmente trascurate e, infine, lasciate a se stesse come da una ventina di anni a questa parte. Bagnoli è solo l'emblema massimo, e forse insuperabile, di questa tristissima verità. Ma se si parla di Napoli Est o della periferia Nord o di quartieri come quelli occidentali, il bilancio non migliora per nulla, ed è così negativo da esimere dal fermarsi sui particolari. Eppure, quelle periferie rimasero per un bel po' un polmone vivo e compartecipe della vita cittadina.

La geografa Anna Maria Frallicciardi, con una lettera inviata a questo giornale, ha ricordato la Bagnoli della sua infanzia. Io ricordo la Bagnoli della mia infanzia, prima della guerra, che era un grande e ameno lido popolare della città, così come lo era, anche se meno ameno, San Giovanni a Teduccio; ricordo che Barra e Ponticelli ospitavano anche villeggianti d'estate con la loro posizione già vesuviana; che Secondigliano e altri rioni erano mete di gite e scampagnate non solo popolari; ricordo il gioiello che era la conca di Agnano. Cose del tempo che fu, dissolte dalla nefanda espansione edilizia che ha rovinato tanta parte della città dal Vomero alto e basso a Posillipo, da Capodimonte a Capodichino, o, in pieno centro, ai Fiorentini. E, tuttavia, pur nel corso di questa dissennata moltiplicazione edilizia, sempre di volta in volta vi fu un disegno di città o almeno l'esigenza di un disegno di città, che salvaguardasse la fisionomia storica alla quale Napoli deve la sua grande ed evidente importanza urbana mediterranea ed europea; e in questo disegno un certo luogo era riservato anche alle periferie, come negli ultimi tempi è accaduto sempre meno, sino all'attuale vuoto, non pneumatico, di ogni progettualità urbana. Ancora trent'anni fa si disegnava con Andrea Geremicca un «piano delle periferie», e poco dopo si disegnavano altri scenari urbani. Ora il nulla è completo sotto questo aspetto, come su questo giornale è stato ricordato con una bella pagina dedicata a Benedetto Gravagnuolo, e, per le periferie, con l'inchiesta qui ad esse dedicata.

Intanto, condizioni materiali della città si sono andate deprimendo oltre ogni possibile previsione, costituendo l'attuale terreno sociale e umano minato, che in molti sempre più indicano nel drammatico rilievo delle sue emergenze il sindaco non ci racconti, perciò, che egli sta trasformando la città, né se la prenda coi poteri forti, la camorra, la magistratura, i giornali e i giornalisti cattivi, e soprattutto non si arrocchi nei trenta mesi che ancora (salvo imprevisti) gli restano del suo mandato. Faccia altri discorsi, e soprattutto faccia qualcosa che non sia la minacciata e minacciosa rimozione dei marciapiedi di via Caracciolo (!). Dopo di essere passato dall'arancione al grigio, non precipiti in un nero profondo, aggravando ancora, come ha aggravato finora, la già così brutta condizione della città. Certo, non è che, andando via lui, si risolvano i problemi napoletani. Ma è convinzione ormai comune a Napoli e fuori che, se egli voleva «scassare tutto», c'è brillantemente riuscito; e che se qualcosa si può fare per la città, ne è un indispensabile preliminare un altro tipo di amministrazione e di attività amministrativa.
Dalla società dell’eguaglianza, che parlava di pieno impiego e di fine delle povertà materiali, si è così passati ad una società della diseguaglianza, dove distanze abissali dividono le persone.

postilla
Lo sguardo degli storici ha una lunga gittata, a volte vede le epoche, non i lustri e gli anni più vicini. E così l'amico Galasso, quando denuncia, giustamente, il degrado cui la giunta De Magistris ha portato Napoli, ricorda, dei decenni a noi più vicin, il "piano delle periferie promosso da Andrea Geremicca ma non ricorda il successivo sviluppo di quella esperienza negli anni della prima giunta Bassolino: fino all'approvazione del PRG del 2004. Se avesse abbassato lo sguardo fino a quegli anni avrebbe forse anche ricordato che il primo atto scriteriato del sindaco De Magistris fu lo scioglimento di quegli uffici comunali che erano riusciti a condurre una delle più interessanti e positive esperienze di pianificazione urbana, nella quale salvaguardia del territorio, soddisfacimento delle esigenze sociali, ampie dotazioni di spazi pubblici ed efficace riorganizzazione del sistema della mobilità trovavano la loro sintesi. Il lettore che voglia documentarsi meglio e che conosca ancora poco eddyburg potrà condividere il nostro giudizio scorrendo i documenti raccolti nella cartella dedicata a Napoli dell'archivio di eddyburg.

Da sabato le superfetazioni stradali ai Fori romani saranno chiusieal traffico Il sindaco: «Passeremo da 1.200 veicoli all’ora a 40». Per festeggiare l’evento una lunga notte di festa tra spettacoli, performance e cultura. La Stampa, 29 luglio 2013, con postilla

Il parco archeologico più grande del pianeta e un Colosseo liberato dalla morsa delle auto. Era il sogno di Antonio Cederna. E non solo. I Fori imperiali pedonalizzati, primo atto del sindaco di Roma Ignazio Marino, li volevano anche due suoi illustri predecessori, Ernesto Nathan e Luigi Petroselli. Dopo decenni e decenni di dibattiti e di tentativi, sabato tre agosto alle 5.30 scatterà la pedonalizzazione: via le auto private e una festa notturna, la Notte dei Fori, per celebrare quella che per romani e non solo sarà una vera rivoluzione. Di viabilità ma anche di prospettiva, di visione della città.

«Mi ritengo fortunato per poter dare avvio a qualcosa sulla quale si riflette da moltissimi anni - sottolinea Marino in una conferenza stampa con l’assessore alla cultura Flavia Barca- a chi protesta chiedo: può il Colosseo essere una rotatoria?». E Marino non vuole fermarsi qui. «Andremo avanti e nei tempi più brevi possibili arriveremo ad una pedonalizzazione completa. Sarà una passeggiata nella storia», spiega. E snocciola i numeri del sondaggio lanciato per capire il gradimento dell’iniziativa senz’altro coraggiosa. «Abbiamo provveduto a chiudere il sondaggio che abbiamo lanciato il 25 luglio. Il 75% si è detto favorevole alla pedonalizzazione – dice - A rispondere in tutto sono state 24 mila persone e di queste la maggior parte è tra i 40 e i 49 anni. Più del 40% ha dichiarato di transitare abitualmente con il proprio mezzo sui Fori e oltre il 50% è consapevole delle conseguenze della pedonalizzazione». Lo stesso Marino su twitter racconta: «Da giovane parcheggiavo anche io a Piazza del Popolo, ora chi si sognerebbe di farlo?».

Insomma, sembra dirci il sindaco, le cattive abitudini, come quella di scorazzare con l’auto sotto il naso del Colosseo, si abbandonano subito. «Vogliamo restituire il Colosseo non solo ai romani ma a tutto il pianeta», chiosa e già sogna non solo la chiusura totale al traffico ma come valorizzare il patrimonio storico-archeologico. La pedonalizzazione, fa notare il sindaco di Roma, «è solo l’inizio di un percorso che dovrà portare a competizioni internazionali per scegliere qual è la strategia migliore per proseguire gli scavi archeologici. Sotto questa striscia di asfalto che divide in due il Foro romano dai Fori imperiali ci sono il Foro di Cesare, di Augusto, di Nerva e Traiano. Credo che abbiamo la responsabilità non di possederli, ma di valorizzarli». «Dobbiamo aprire un dibattito internazionale sulle scelte da compiere - aggiunge Marino - se ad esempio riportare alla luce i resti o utilizzare strategie differenti che mettano in risalto la stratificazione architettonica dei secoli». Per ora tutto è pronto per dire addio al traffico privato. E per festeggiare l’inaugurazione della pedonalizzazione sabato 3 agosto arriva la “Notte dei Fori”, una specie di Notte bianca in miniatura all’ombra del Colosseo, con acrobati, artisti di strada, musica, teatro ma anche danzatori, video e foto proiettati sui monumenti e un funambulo che camminerà su un filo teso sopra le rovine romane. La serata sarà dedicata a Renato Nicolini, l’ideatore dell’Estate Romana scomparso l’anno scorso, e per ricordarlo i lampioni su via dei Fori spegneranno le loro luci e gli spettacoli si fermeranno poco prima della mezzanotte. Poi la festa ricomincerà. E i romani da quella notte inizieranno ad abituarsi a guardare i Fori e il Colosseo da un’altra prospettiva. Che non sarà quella dei finestrini delle loro auto.

postilla

Finalmente si comincia. Eliminare lo smog, il frastuono e l’ingombro del traffico è un primo passo significativo per realizzare «il parco archeologico più grande del pianeta», e per restituire ai cittadini romani la dignità della loro storia e agli abitanti attuali e futuri del pianeta una patrimonio che è di tutti . Ma oltre alla morsa del traffico c’è quella del cemento. Si dovrà affrontareil problema di liberare quello che sarà il parco archelogico dallo stradone militare (non è forse in contrasto, almeno ideale, con l'articolo 11 della Costituzione?) che ne ha interrotto la continuità. Bisognerà allora rivolgersi a tecnici delle demolizioni e per operare una rimozione della superfetazione. Poi, più (e invece) di concorsi internazionali occorrerà costituire un pool di archeologi che esplorino e analizzino i differenti strati della storia del sito e saggiamente suggeriscano al decisore come restituire alla conoscenza e alla meditazione di tutti ciò che la storia ha lì accumulato. E magari includendo nel numero dei decisori anche il sovrano, il popolo. Il quale, come testimoniano i risultati del referendum organizzato dal sindaco, sembra interessato al miglior uso del patrimonio avito.

Mentre nella confusione più totale e con un dibattito al ribasso sta nascendo la nuova entità amministrativa sovracomunale, Arcipelagomilano riprende un chiarissimo testo dello scomparso maestro di discipline territoriali, con riferimento al caso dell'area metropolitana padana (f.b.)

1) Lo dico per onor di firma, anche se so che non si potranno cambiare le cose: il termine di città-metropolitana è l’ennesimo fuorviante ossimoro prodotto dal burocratese. La forma metropolitana è un tipo d’insediamento nuovo e diverso da quello urbano o cittadino.
Come Norman Gras ha scritto una volta, “la grande città, la città eccezionale … si è sviluppata lentamente verso la metropoli economica” (Gras, 1922, p. 181), ma la metropoli economica è appunto un nuovo spazio fisico, non facilmente determinabile e senza particolari segni ai confini: nella città si entra, mentre nella metropoli si arriva. E spesso non riusciamo bene a cogliere la caratteristica della nuova forma urbana. Nel migliore dei casi, quando se ne parla, la s’immagina come un’area del tutto autonoma dalla città, commettendo un grave errore, sottolineato con forza da Deyan Sudjic che critica vivacemente questa immagine errata. “Immaginate – scrive Sudjic – il campo di forza attorno a un cavo dell’alta tensione, scoppiettante di energia e lì lì per scaricare un lampo a 20.000 volts in uno qualsiasi dei punti della sua lunghezza, e avrete un’idea della natura della città contemporanea”. (Sudjic, 1993: p.334). Il richiamo di Sudjic all’energia elettrica offre un felice accostamento per un raccordo con il tema delle nuove tecnologie.

Infatti, di pari passo con la diffusione della motorizzazione privata, lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione ha dato una spinta decisiva alla formazione della nuova città. Da un lato cambiando l’organizzazione del lavoro che si deistituzionalizza e distribuisce nello spazio, secondo un modello, ormai largamente noto, che va sotto il nome di economia post-fordista. Dall’altro per i cambiamenti indotti dalle “macchine per l’abitare”: in parte si è trattato di un processo simile a ciò che è avvenuto in fabbrica, con l’avvento di macchine “time and labour saving“, cioè strumenti che servono a far risparmiare lavoro e tempo, soprattutto alle donne.

Ora però questo tempo viene impiegato da beni “time consuming“, tutte quelle macchine che servono a consumare il tempo liberato e di cui noi ci riempiamo progressivamente la casa. Primo tra tutte il più grande mangiatore di tempo che è la televisione, ma anche l’alta fedeltà, le macchine fotografiche e il calcolatore e così via. Le abitazioni diventano più comode, ma contemporaneamente richiedono più spazio e a parità di reddito lo spazio maggiore si trova più lontano dai centri tradizionali. Così una nuova città, indistinta, confusa, temuta e poco conosciuta, cresce attorno al nucleo tradizionale delle città industriali, s’intrufola negli interstizi lasciati liberi dalla deindustrializzazione, li penetra (Zwischenstadt, la “città nel mezzo”, che io chiamo la “città-oltre”) e li modifica, esattamente come circa mille anni orsono la città medievale è sorta attorno ai castelli feudali in disuso, li ha inglobati e vi si è sostituita dando vita alle città che rappresentano il modello urbano europeo originale, che oggi deve fronteggiare la nuova città diffusa, disordinata e disarmonica ma “scoppiettante di energia”.

Va da sé che questo scoppiettio è costoso, tra l’altro, proprio in termini di consumo energetico. E, ancora una volta, la nuova struttura sociale non è irrilevante per la morfologia fisica: se si guarda l’area di Milano si può vedere che l’area metropolitana non è affatto una “più grande Milano”, ma una nuova struttura urbana in forte interazione funzionale con la tradizionale città comunale.

2) Pertanto dire “città metropolitana” è analiticamente sbagliato e indica il fatto che chi ha elaborato questo termine non era al corrente della vasta letteratura che a partire dagli anni ’20 del secolo scorso. Il “mentecatto burocrate”, come lo chiama De Finetti, uccide l’elaborazione teorica, anche quella internazionalmente consolidata.

Possiamo naturalmente liberarci del problema con una scrollatina di spalle: al fondo si tratta solo di parole, basta intendersi. Ma le parole hanno un peso che va di là dalle nostre intenzioni, e nell’ArcipelagoMilano di settimana scorsa sollevavo proprio il problema dell’uso smodato delle parole con argomentazioni che non sto a riprender qui, ma che sono molto calzanti per questo tema. In particolare si dovrebbe stare particolarmente attenti per una procedura che anno dopo anno ha accumulato una quasi inaudita mole d’insuccessi (costosi). Alla radice degli insuccessi sta la profonda e colpevole ignoranza dimostrata dalla cultura pubblica italiana in un periodo cruciale delle trasformazioni insediative nel nostro paese.

Negli anni in cui la trasformazione metropolitana si mangiava il territorio di mezzo paese e le città venivano dissolte nelle “terre sconfinate” del periurbano, la cultura pubblica di questo paese si baloccava con l’idea balzana di un ritorno alla campagna. Mentre le grandi trasformazioni urbane investivano la società italiana con diverse successive ondate, nel grande ciclo di espansione capitalistica del secondo dopoguerra, fino alla crisi globale del primo decennio del XXI secolo – i cicli intermedi hanno introdotto pause e distorsioni, ma l’espansione urbana non si è mai arrestata – la cultura pubblica del paese ha interpretato le trasformazioni in corso usando vecchi modelli di origine tardo-romantica sostanzialmente riferibili alla coppia toennesiana di Gemeinschaft (comunità) vs Gesellschaft (società), elaborata per i fenomeni di trasformazione sociale e territoriale di un secolo prima.

3) Considerazioni anche più negative si dovrebbero fare per il termine “provincia metropolitana”.
Nel testo Dimensione metropolitana che ho curato per il CSS, Ettore Rotelli fa un illuminante racconto dei fallimenti della legislazione, ordinaria e costituzionale, sulle aree metropolitane, in un percorso abbastanza lungo che può essere a posteriori datato al Convegno di Limbiate del 1957. Il risultato di ulteriori inani agitazioni è che il fenomeno urbano più nuovo viene incasellato in uno schema amministrativo tanto vecchio da essere anche in via di eliminazione: non sapendo più che pesci pigliare facciamo coincidere la metropoli con la provincia. Mi è stato obiettato che le province possono essere rivedute; ma l’area metropolitana di Milano, che in tutte le elaborazioni dalla metà degli anni ’50 in poi (Kingsley Davis) ricomprende zone come il verbano – cusio – ossola e il novarese, secondo il criterio della provincia-metropoli continuano a far parte di una diversa regione. Che cale al “burocrate istituzionale” il fatto che persino per il dialetto queste aree siano entro la koiné milanese? Le regioni non si toccano e mai la provincia metropolitana ne potrà inglobare, delle porzioni, anche se il loro tubi di scappamento scaricano ogni giorno a Milano.

4) Oggi poi, dopo mezzo secolo d’insuccessi è inevitabile che persino l’oggetto che si vuole pianificare si sia ulteriormente modificato.
Parlare oggi di “area metropolitana” (città o provincia metropolitana) rimanda a un concetto, quello delle DUS (Daily Urban Systems) o FUR (Functional Urban Regions) che viene anch’esso messo in discussione dell’evoluzione, soprattutto dei sistemi di regolazione dei flussi. Non sono le città che fanno le reti, sono le reti che fanno le città, mentre i grandi insediamenti commerciali, che una volta erano alle periferie delle città oggi diventano poli di nuovi insediamenti urbani. L’aspetto più rilevante della realtà urbana contemporanea riguarda i cambiamenti nella morfologia fisica e sociale delle città intervenuti nel corso del XX secolo. Risulta ormai evidente che, in ogni parte del mondo, la città tradizionale e la “metropoli di prima generazione” (i), che hanno caratterizzato la vita urbana nella porzione centrale del secolo scorso, hanno ceduto il passo a un tipo del tutto diverso di morfologia urbana, che sta producendo una serie di quelle che i rapporti ufficiali delle Nazioni Unite chiamano Grandi Regioni Urbane (MUR. Mega Urban Regions) in cui forme diverse d’insediamenti umani si mescolano inestricabilmente, fino a costituire un’entità urbana nuova, ma non ancora ben definita, di cui sono state date numerose definizioni o etichettature che non sto a riprendere per non confondere inutilmente il discorso.

Per ragioni analitiche che accenno qui sotto, ho suggerito di chiamare questa nuova entità la meta-città(ii). Nel triplice senso che questa entità è andata al di là (meta) – e persino ben al di là – della classica morfologia fisica della “metropoli di prima generazione” che ha dominato il XX secolo con il suo core e suoi rings (polo e fasce concentriche); al di là (meta) del controllo amministrativo tradizionale di enti locali sul territorio e al di là (meta) del tradizionale riferimento sociologico agli abitanti, con lo sviluppo delle “metropoli di seconda (e terza) generazione” sempre più dipendenti dalle popolazioni transeunti. (Vedi il mio “Lo que el viento se llevò. Espacios publicos en la metropolis de tercera generaciòn” in Monica Degen, Marisol Garcia (eds) La metaciudad: Barcelona, Transformaciòn de una metròpolis, Anthropos, Editorial, Barcelona 2008; pp. 29-44).

Questo mutamento ha dato luogo a notevoli fraintendimenti, non solo da parte della pubblicistica popolare, sempre pronta a impadronirsi anche del minimo sospetto di un’apocalisse, ma anche della letteratura scientifica che dagli anni ottanta del XX secolo in poi non ha perso occasione per decretare la fine della città (iii). A parte la stridente contraddizione d’ipotesi sulla fine della città nel periodo di massima urbanizzazione della storia dell’umanità, è chiaro che la città non è finita, ma si è trasformata in una nuova forma urbana che oggi sempre più passa dal modello definito dalle varie Central Place Theories del XX secolo a modelli tendenzialmente lineari di Zwischenstadt. Il fenomeno può essere rappresentato con molti esempi ma è particolarmente evidente nel corridoio emiliano dove fino al 1999 si poteva ancora parlare di un arcipelago di aree metropolitane distinte, ma già nel 2001 si era trasformato in corridoio continuo, come è avvenuto in molte altre situazioni, rendendo ancora più problematico il lego della costruzione di una unità governabile (non di governo) partendo dai tasselli delle istituzioni esistenti. Che dire per esempio di un’area metropolitana milanese senza Monza, oppure di Firenze senza Prato? Si rafforza sempre più il dubbio che le componenti elementari del Lego istituzionale non siano più quelle giuste.

5) E ancora, dopo mezzo secolo di insuccessi, è perfettamente legittimo il sospetto che si stiano pestando nel mortaio degli oggetti sbagliati, per esempio pietre invece che mandorle, o aria fritta invece di concetti rigorosi, e che forse occorra ripensare radicalmente questo concetto.
In particolare io mi sono convinto di due fatti, che mi sembra difficile contestare, e che se accertati hanno conseguenze rilevanti sul piano operativo. Intendiamoci bene, io non sono un planner né un esperto di questioni istituzionali e amministrative, non faccio parte di alcuna commissione incaricata di disegnare questa o quell’area metropolitana. Da tempo però mi occupo del fenomeno metropolitano partendo dallo studio del nuovo fenomeno insediativo, della comprensione delle dinamiche sociali (lato sensu) che lo caratterizzano e delle sue tendenze evolutive. Avendo decisamente affermato ormai più di un quarto di secolo addietro che l’identificazione di una “area naturale” (spiegherò più sotto come si debba intendersi questo antico termine) come il nuovo insediamento con un bacino elettorale non avrebbe portato a nulla, penso oggi che le ragioni teoriche su cui si basava questa esatta previsione ne escono rafforzate e possono aver la pretesa di suggerire qualche riflessione a chi invece il compito di disegnare un modello di governo per le nuove forme insediative ce l’ha.

a) La non coincidenza tra definizione di area e la identificazione di un bacino elettorale.
Fin dalle prime vicende PIM (Piano Intercomunale Milanese) questo è stato l’ostacolo insuperabile, e comunque insuperato, per la identificazione di un’area metropolitana. E non deve sorprendere, ogni definizione di un confine, un limite, è al tempo stesso inclusiva ed esclusiva: (Giano) il dio bifronte dei confini è probabilmente la più antica divinità romana, laziale e italica ed è per questo che Ianuarius, Gennaio, è il primo mese dopo il solstizio invernale in un numero elevatissimo di lingue. Si può fare diversamente? Cioè si può scegliere di scindere la definizione di una area di governo (diciamo di competenza amministrativa e istituzionale) dalla individuazione fisica della nuova forma insediativa? Naturalmente sì, è stata la scelta americana, ha funzionato passabilmente bene per più di mezzo secolo e non si vede perché non si debba fare altrettanto.

L’area metropolitana è un’area funzionale, cioè riflette una realtà dinamica, con conseguenze reali, soprattutto in campo ambientale in senso lato, ma ovviamente con tutti i risvolti di finanza pubblica che vi sono connessi. Ma soprattutto un’”area naturale”, non nel senso che può esser definita in base a tratti fisici (mari, laghi, fiumi, rilievi, che pure hanno il loro peso), ma nel senso che si tratta di aree che non necessariamente coincidono con definizioni amministrative, rispetto alle quali hanno minore fissità, anche se tra area amministrativa e area naturale non esiste una contrapposizione assoluta, perché i confini amministrativi producono essi stessi effetti “naturali” ovvero economici, insediativi e sociali di tipo spontaneo.

La dominanza metropolitana, come molti ali fenomeni insediativi è relativamente indipendente dalle gabbie amministrative che disegnano il territorio istituzionale. Il fine da raggiungere non è un più rigido ingabbiamento, ma la possibilità di determinare aree di governo, a ragion veduta delle caratteristiche economiche, funzionali e sociologiche, e delle dinamiche relative. Ciò non è possibile se l’area metropolitana coincide con un bacino elettorale reale o presunto, come il PIM che il Ministro Togni non volle perché avrebbe chiaramente incluso un elettorato a maggioranza di sinistra. Se invece noi avessimo a disposizione uno strumento conoscitivo puntuale, aggiornabile via via senza interferire sui bacini elettorali, poi potremmo molto più liberamente e puntualmente definire delle aree elettorali e di governo con le appropriate (o anche no) negoziazioni ma senza che ci siano ragioni di distorsione delle aree funzionali.

b) La non identificazione della nuova forma con un modello “central place”
Questo aspetto è molto più complesso da risolvere e per questo merita che ci si lavori sopra sia intellettualmente che operativamente: si tratta infatti di una operazione strategica e cruciale, si sbaglia se si continua a ragionare su modelli obsoleti di aggregazione a partire dal comune centrale, anche se il nuovo modello presenta ovvie difficoltà di operazionalizzazione. Detto brutalmente chi governa l’area metropolitana non può essere il Sindaco metropolitano (così come dobbiamo smetterla di blaterare sul Sindaco d’Italia. Il sindaco è un ruolo tipicamente municipale, non regge una scala diversa, come dimostra con assoluta evidenza la lunga storia di sindaci eccellenti falliti alla loro prova in ruoli nazionali): l’autorità metropolitana (iiii) non può sostituire i sindaci ma deve affiancarsi a essi, per questo l’area metropolitana non può essere una “città più grande” non lo è e non può diventarlo, ma deve avere un ruolo complementare e non aggiuntivo o sostitutivo.

Per dare un esempio concreto, se invece di giocare con il Lego dei comuni, delle provincie ed eventualmente delle regioni, destinato a produrre conflitti veti, che finora sono stati paralizzanti, si puntasse a individuare per ogni area metropolitana un’area di governo delle accessibilità, e quindi non solo trasporti e flussi fisici nello spazio, ma anche funzioni coordinate nel tempo (e nei tempi) si sarebbero risolti i due terzi o i quattro quinti del problema della definizione dell’area, senza toccare ambiti elettorali che possono essere collocati dentro il quadro delle accessibilità. Non è facile, ma anche il modello tradizionale di area metropolitana ha richiesto una lunga gestazione teorica prima da dare i suoi frutti, non possiamo pensare di arrivare a una identificazione della nuova forma insediativa al di là della metropoli con strumenti approssimativi, ma neppure possiamo illuderci di risolvere i problemi dell’oggi con le strutture concettuali dell’ieri. In cui, perdipiù, non hanno funzionato.

(i) Per questa terminologia vedi il mio Metropoli, Il Mulino, Bologna 1993, Cap.III, passim.
(ii) Uso il termine con un significato analitico diverso da quello che gli viene dato da F. Ascher cui devo tuttavia riconoscere una primogenitura del termine che mi era sfuggita. Ringrazio Jean Paul Hubert del DRAST per la segnalazione. Una buona approssimazione del concetto che userò qui è il termine di Zwischenstadt la città tra le città (vedi Thomas Sieverts, Cities Without Cities. An Interpretation of the Zwischenstadt, Routledge, London, 2003 (Vieweg, 1997). La commissione europea ha ricostruito questa città tra le città calcolando le aree del pianeta che si trovano in prossimità di centri urbani.
(iii) Per una rassegna delle teorie della de-urbanizzazione vedi il mio già citato Metropoli (1993), Cap.II. Più di recente il tema è stato ripreso anche da un autore solitamente bene informato ed equilibrato come Leonardo Benevolo, La fine della città, Laterza, Roma 2011.
(iiii) Sulla continuità urbana e la discontinuità metropolitana vedi il mio recente “Città. La vendetta del territorio e la modernità sottratta. L’urbanizzazione e l’unità d’Italia” in Il Politico, Numero speciale su “L’Italia che cambia, 1861-2011“, curato da Silvio Beretta e Carla Ge Rondi, 2011, a. LXXXVI, n.3 pp.129-164.

Per quanto possa essere interessante l'offerta di prodotti di discreta qualità a basso costo, l'evoluzione urbanistico-commerciale della Chinatown milanese presenta ben altri spunti, sicuramente utili per tante altre città italiane alle prese coi medesimi problemi

Deve essere venuto un mezzo colpo apoplettico a quelli della Lega Nord qualche anno fa, quando in risposta ad una delle loro mosse sbrigative per affrontare ogni diversità, o che tale sembra, è sceso in campo il Console della Repubblica Popolare Cinese, seguito da una dichiarazione ufficiale del governo di Pechino. Forse i lettori si ricorderanno: c'era un quartiere di Milano con problemi di traffico e convivenza fra attività piuttosto ingombranti, commercio all'ingrosso e al dettaglio, e l'amministrazione di centrodestra era partita col piede sbagliato, usando con la comunità cinese certi metodi che di solito passano purtroppo inosservati quando interessano altre minoranze. Il fatto è che non solo il governo cinese tiene molto ai suoi connazionali all'estero, e li tutela con decisione se necessario, ma quel quartiere, quella comunità, sta lì probabilmente da prima che arrivassero in città dalla pedemontania brianzola o orobica tanti lumbard del giorno d'oggi. Dopo Rossi, il secondo cognome più diffuso di Milano è Hu, tanto per dire. Ergo andateci piano.

Porta Volta (Cesare Beruto 1880)
La stampa è sempre a caccia di curiosità, specie d'estate, e così sono stati in molti sui giornali in questi giorni a raccontare con toni assai esotici dell'iniziativa commerciale dei gemelli bocconiani Hu, l'Oriental Mall in via Paolo Sarpi, ovvero l'asse centrale della zona in cui l'ex amministrazione di centrodestra aveva fatto quella figuraccia. Certo il formato del grande magazzino è abbastanza innovativo da giustificare qualche interesse, ma forse non sufficiente per mettere in ombra l'altra novità: il progetto di costruzione di una galleria a coprire via Paolo Sarpi, il vero passeggio, il vero mall, del quartiere, oggi prevalentemente pedonalizzato. Che in questo modo verrebbe ad assomigliare un pochino di più ai suoi lontani cugini della grande distribuzione suburbana a indirizzo automobilistico, se non altro nelle forme esteriori. Ma non è giusta neppure questa definizione, e vediamo perché.

L'area terziaria di Porta Nuova
Veduta (in giallo via Sarpi)
La galleria coperta è soltanto uno degli aspetti, di un processo abbastanza lungo e per nulla lineare, di trasformazione di un'ampia zona urbana. L'asse di via Sarpi è la spina portante di una zona che collega trasversalmente due direttrici già ben individuate nel piano ottocentesco di Cesare Beruto, il corso Sempione e l'uscita dal centro storico verso il Cimitero Monumentale. In più, come si intuisce osservando una veduta aerea della zona, anche l'asse di via Sarpi non esaurisce la questione, proseguendo idealmente anche oltre il casello di Porta Volta (progettato tra l'altro da Beruto dieci anni prima del piano) lungo la linea degli ex bastioni, fino a raggiungere un altro importante polo commerciale: il grande Eataly che si insedierà in Piazza XXV Aprile. Zona questa ancora a tessuto tradizionale, ma in diretto contatto con le espansioni terziarie dette Quartiere Porta Nuova, ormai note in tutto il paese per via dei voluminosi e pubblicizzati grattacieli, meta di veri e propri pellegrinaggi turistici e di un curioso flusso di movida serale giovanile.

L'ingresso del grande magazzino
Spazi della nuova movida giovanile
Facendo le debite proporzioni, il percorso coperto di via Sarpi, con la sua offerta commerciale mista, etnica e non, con la coesistenza ben governata di mobilità dolce, carico-scarico merci, residenza e servizi, si potrebbe anche configurare come una specie di “Galleria Vittorio Emanuele del Terzo Millennio”. E non sono certo giustificati i timori che dietro la novità del nuovo formato Oriental Mall si possa nascondere quel tipo di colonizzazione urbana intravisto o sospettato con lo sbarco dei grandi marchi nel tessuto tradizionale, standard a parcheggi inclusi. Si tratta, del resto coerentemente col tipo di quartiere e di ragionevole accessibilità, di null'altro che di un grande magazzino, pur oltre la classica offerta di abbigliamento accessori casalinghi. E che quindi si rivolge a un pubblico non auto-munito, magari di tipo turistico, o direttamente agli abitanti del quartiere che apprezzano alcuni prodotti anche di consumo quotidiano.

E del resto la forte reattività sociale alle questioni del traffico, della congestione, del rischio di uno stravolgimento in negativo di questa parte consolidata di città, cuscinetto fra zone di profonda trasformazione, era già emersa nel caso delle attività all'ingrosso. Allora si era iniziato un processo, magari contraddittorio, di trasferimento delle ditte e marchi a maggiore impatto verso aree a destinazione industriale o logistica. Ora, avanzando gradualmente il formato dello urban mall all'aria aperta, rivolto prevalentemente alla mobilità dolce e pubblica, ci sarà probabilmente tempo sia per adattare gli esercizi esistenti al nuovo contesto e tipo di concorrenza, sia per eventuali interventi pubblici di tutela, promozione, controllo. Un processo che val la pena di seguire, e che può servire da modello (o monito, chissà) per tante altre aree semicentrali italiane alle prese con l'annosa questione dell'invadenza automobilistica, e della correlata, nel bene e nel male, vitalità commerciale.

Alcune descrizioni del piano per la galleria e dell'Oriental Mall qui su Eddyburg

"Ce n'est qu'un debut"... La posta in gioco non è un migliore sistemazione del traffico, né solo la tutela fisica del beni culturali, ma la costruzione di una Roma che abbia nel valore suo immenso patrimonio storico la ragione della sua vita e il criterio ordinatore dei suoi spazi. Il manifesto, 26 luglio 2013

Fra pochi giorni i Fori Imperiali chiuderanno al traffico. Merito del neosindaco Marino e di decenni di battaglie ambientaliste e urbanistiche. Dopo gli sventramenti e le deportazioni mussoliniane, negli ultimi decenni erano diventati una pista automobilistica. Ora si riparte, a patto che non si discuta solo di fermate dei bus o dei taxisti ma di come rendere l'area il baricentro di un rilancio culturale di Roma. Anche estendendo l'area pedonale

È una di quelle circostanze in cui non si riesce a essere del tutto soddisfatti, ma neanche completamente delusi. Tra qualche giorno, a Roma, verrà chiuso al transito automobilistico il tratto finale di Via dei Fori imperiali, quello contiguo al Colosseo. È appena un ritocco, ma finalmente si materializza una trasformazione urbana attesa da decenni, s'infrange un cronico e patetico indugio. Si procede tuttavia al minimo attrito, come fossimo ai preliminari: è un gesto appena accennato e poco più o forse niente più. Un evento comunque rilevante, obbligatoriamente storico (considerando il contesto millenario). Evoca una grande suggestione e agirà sull'immaginario culturale collettivo. Se ne parlerà in tutto il mondo: speriamo più dell'abdicazione di re Alberto del Belgio o della nascita dell'erede al trono d'Inghilterra.

Allora, dopo decenni d'inguardabile ignavia, d'inerzia politica e di miseria culturale, ci si avvia a salvaguardare uno degli ambiti archeologici più importanti nel lungo cammino della storia. Un intervento che un meschino provincialismo aveva a lungo rabbiosamente impedito, ma che finalmente prova a schiudersi nel concreto, sia pure tra rattrappite timidezze. Merito del nuovo sindaco di Roma, Ignazio Marino, ma merito soprattutto di una battaglia urbanistica e ambientale durata mezzo secolo, avviata da intellettuali come Antonio Cederna e Italo Insolera, raccolta da amministratori come Luigi Petroselli e Renato Nicolini e coltivata dai tantissimi che in città hanno continuato a ritenerla cruciale e indispensabile.

Bene, si comincia. Ma si comincia davvero a proiettare questa città ingrigita e impigrita verso una dimensione contemporanea, a darle nuovo slancio e imprimere una spinta vitale? Oppure, alla fine, tutto si ridurrà a un corridoio di quattrocento metri riservato a bus e taxi, con contorno di biciclette e palloncini? Del resto, se ci si limita a interdire l'accesso automobilistico privato, a disegnare le corsie per i mezzi pubblici, a rivedere qualche senso unico, rimodulare qualche semaforo, è difficile pensare che vada diversamente. Dal tono delle polemiche in corso, che tendono a ridurre il tutto a una questione di disciplina del traffico, di vigili urbani da impiegare, di aree e transiti per lo scarico merci, l'impressione è che l'intervento sia non solo esiguo nelle proporzioni, ma anche d'incerta qualità. Un'impressione peraltro confermata dalla preoccupata ritrosia dell'amministrazione comunale, quasi fosse dubbiosa o addirittura ignara del valore e l'entità delle sue stesse scelte politiche.
Per ripristinare quanto meno il senso storico dell'intervento che, seppure in una logica da minimo sindacale, il Campidoglio si accinge a realizzare, proviamo a ricostruire l'impianto generale in cui si colloca e le ragioni politiche che lo rendono necessario.

La Via dei Fori viene inaugurata all'alba degli anni trenta da Mussolini in persona, dopo aver completamente polverizzato i quartieri medievali che sorgevano ai bordi della Suburra (gli stessi già inceneriti da Nerone) e deportato nelle borgate migliaia di persone. Così riassume l'intervento Italo Insolera in Roma moderna: «Il più colossale sventramento nella vecchia Roma è indubbiamente quello attuato per mettere in luce i ruderi dei Fori imperiali demolendo tutte le case (tra cui alcune di valore) tra Piazza Venezia e la Velia, la collina dietro la Basilica di Massenzio che fu tagliata per completare il tracciato rettilineo di Via dell'Impero. I ruderi rimessi in luce - continua Insolera - furono subito seppelliti sotto una soletta di calcestruzzo su cui passano le strade: così si è rotta per sempre e volutamente l'unità della zona archeologica, l'unità cioè dei Fori imperiali che gli imperatori avevano attuato proprio come ampliamento dell'antico Foro repubblicano».

Sventrare nel cuore del centro corrisponde a una malintesa e grossolana esigenza di monumentalizzare e "liberare" gli antichi Fori, eliminando come fossero scorie architettoniche (oltreché sociali) quei tessuti urbani che la storia aveva lasciato crescere intorno a essi. «Quella città - la definisce Ludovico Quaroni nelle sue splendide Lezioni romane - di casette e di ortiche, di ruderi e di miseria polverosa, di luce e di nuvole». L'intento del regime è quello di collegare, in un impeto di idealismo urbanistico, le antiche vestigia imperiali con le velleità imperialiste del fascismo.

Al di là delle riserve ideologiche e di un residuale e stucchevole romanismo, il risultato è sostanzialmente un goffo e ridondante asse urbanistico, che avrebbe dovuto congiungere il moderno (l'Altare della patria) con l'antico (il Colosseo), ma che in pratica diventa uno stradone grigio che né riesce a comporre una prospettiva decente, né a far respirare come meriterebbe il sedime archeologico. Con il tempo (e il traffico) Via dei Fori imperiali ha finito per diventare una pista automobilistica, il Colosseo un ciambellone assediato e Piazza Venezia una rotatoria puzzolente.

C'è da dire che il tentativo mussoliniano, per quanto tardivamente, raccoglie un modello politico autoritario, esplicitamente connotato da un'ideologia aggressiva e persecutoria. Figlio di quell'urbanistica autoritaria e militaresca a cavallo tra l'ottocento e il novecento il cui obiettivo era ripulire le città dai grovigli edilizi disordinati che davano rifugio alle classi povere e spesso ribelli. E infatti lo sventramento dei Fori era stato previsto fin dal piano regolatore del 1883, confermato in quello del 1909 e infine realizzato in conformità con quello del 1931. Insomma, per affermarsi, il nuovo deve divorare il vecchio, costi quel che costi. Un metodo distruttivo e azzerante.

Invece, l'antico non è un peso da eliminare ma un bene da accarezzare e coccolare. E lo si custodisce al meglio non negandolo o nascondendolo, ma esaltandone la qualità formale e la suggestione immateriale. Dunque, per imporsi, il nuovo deve accettare, accogliere il vecchio. Non cannibalizzarlo, semmai strumentalizzarlo, con sensibilità estetica e intelligenza progettuale. In questo quadro, il centro storico di Roma è in sé un magnifico orizzonte, una scintillante stratificazione culturale, che in fondo necessita di sole politiche nutritive: manutentive e valorizzanti. E dunque non solo conservazione e salvaguardia ma anche rinnovamento e sviluppo.

E dove, se non nel comprensorio degli antichi Fori, si può realizzare tutto ciò? La restituzione alla città della funzione baricentrica di quell'area: non più politica ed economica, ma culturale e ambientale. Si tratterebbe dunque di pedonalizzare integralmente la Via dei Fori e la Via dei Cerchi e riconnettere il Colosseo con il Circo Massimo, l'Arco di Costantino e la Via Sacra, i Fori e i Mercati traianei, il Palatino e il Campidoglio. Disselciando l'asfalto e riesumando i tesori sotterranei scampati al piccone fascista, e così riconsegnando l'intero sedime allo sguardo e al transito umani. Ci si troverebbe di fronte a un incanto, in uno dei paesaggi più affascinanti al mondo: quanto e più di Pompei, come nella Valle dei re, nell'Acropoli di Atene, sulle alture di Machu Picchu, sotto la Piramide di Tulum.

Così si può rilanciare Roma, tentando di farle riacquisire quel prestigio di capitale internazionale della cultura. Una città che si è stancata d'indossare quell'invecchiata grisaglia marroncina e affumicata, e che perciò desidera cambiarsi d'abito e infine misurarsi più lieve e convinta con la sua storia millenaria. Una storia che afferma il primato assoluto della cultura e della natura non per una nobile nostalgia ma come impronta contemporanea, restituendo la città al sole e al vento, alle luci e alle ombre, al suono delle parole, al piacere dello sguardo.

Dovrebbe essere questo l'impatto dell'operazione Fori. Ritrovarsi invece a ragionare su dove passano le macchine, se di qua o di là, o dove mettiamo la fermata dell'autobus, o se i noleggiatori sono equiparabili ai tassisti, o se i centurioni possono continuare a lavorare, o dove sistemiamo i camion-bar, se insomma è così che si affronta e si programma questa pedonalizzazione, beh, il timore è che tutto finisca in una spolveratina o poco più.

Non basta aver allontanato Alemanno, né appare particolarmente efficace affidarsi alle tecniche cognitivo-comportamentali in un fine settimana a Tivoli. Roma può tornare a respirare e sorridere solo se si abbandonano le mezze misure e la gestionalità piccola piccola. C'è bisogno di coraggio culturale, di una visione alta, di una strategia finalmente ariosa e slanciata. C'è bisogno di radicalità nelle scelte, quella radicalità che oggi appare come la più ragionevole delle politiche.

La Nuova Sardegna, 23 luglio 2013

E' un ricordo la lunga estate al mare delle canzoni. Le ferie di chi può permettersele sono un magro riassunto, per cui la stagione a fini contabili si riduce a un mese e poco più, pure nei litorali sardi. Qui, in questo tempo, si decide il bilancio di aziende e persone. E in mancanza d'altro su questi 30-40 giorni si fa grande affidamento, e si spera di conservare intatto almeno questo introito. Ma al diavolo il presupposto: la bellezza superstite per cui l'isola è ancora tra le mete ambite (nonostante l' infamia dei trasporti).
Per questo è meglio che ci diciamo le cose come stanno sul turismo; e sul cinismo del mercato che ti premia finché hai carte in mano e ti disprezza appena trova di meglio.

Resisterà, come sanno i turisti smaliziati, l'isola dei paesaggi senza artifici, dei beni culturali, delle cose buone da mangiare fatte qui (con tutto il rispetto per il consumo di caviale e champagne a Porto Cervo che inorgoglisce qualche cronista).
D'altronde la concorrenza è tra luoghi sempre più uguali nella metropoli turistica. Inesorabile l'omologazione delle giostre. Compresa quella sarda (che pure conserva differenze fantastiche). Per cui sembra impossibile impedire che ogni luogo eccitato dalla presenza di forestieri assuma i caratteri dell'ipershop+luna park. E impensabile vietare che nei negozi di artigianato sardo si vendano gli stessi orribili cestini di plastica, e nuraghi e coralli di resina fatti in Cina dalle stesse manifatture che riforniscono -dappertutto- i venditori ambulanti. I quali giurano che le zanzare e le escort di Porto Rotondo sono le stesse di Antigua e Sharm El- Sheikh, ma chissà se è vero.

E' sicuro che i calamari surgelati che trovi nei ristoranti sardi, sono gli stessi che ti danno in Costa del Sol o nelle feste del PD in Emilia Romagna e in Toscana.
Non mi stupisce che molto mirto (liquore) sia di bacche non sarde. O che molto torrone sardo sia di mandorle provenienti da chissà dove. Mi inquieta che il mirto sardo (arbusto) sia tra la macchia che brucia ciclicamente. E che i mandorli siano stati tutti espiantati. E che non ci mancano le maree gialle. Lo stesso giallo segnalato a Rosignano, Vico Equense, Porto Empedocle, che compare, con trascurabili variazioni cromatiche, a Alghero o a Valledoria, sob! Inaccettabile per chi deve difendere la reputazione del suo mare cristallino. Com'è insopportabile che il mito dell'ospitalità sia contrariato dai soliti agguati (aeroporto di Fertilia: 50 cent per un bicchiere d'acqua - in pvc, al banco).

L'impressione è che vi sia un allarme crescente per la compromissione di luoghi prossimi al mare; anche perché alle alterazioni di profili litoranei corrisponde lo spopolamento delle regioni interne che sembra inarrestabile. Per cui sono sempre più rari i convegni sull'esodo dalle montagne più sfigate (mentre i Mamuthones vanno in trasferta nelle marine ad allestire deprimenti show per villeggianti).
Colpisce il silenzio di chi vive di turismo agli annunci di nuove contraffazioni del paesaggio decise in Qatar o a Dubai. Quel declivio costiero sfigurato inutilmente sarà così per sempre - anche quando i Mamuthones rinsaviti saranno tornati alla tradizione - “su connottu”.

“Più case-più turisti-più lavoro per i sardi”: l'imbroglio che resiste. Eppure basta leggere il servizio di Luca Roich su «La Nuova Sardegna» (7 luglio 2013) per sapere che sono sempre meno i sardi impiegati nei villaggi vacanze - come nell'edilizia. Difficile (?) prevedere che sarebbero arrivati da lontano e numerosi a occupare quei posti sottopagati. Ma immaginabili le reazioni: i falchi contro quei disgraziati che “ci rubano il lavoro”, le colombe per “un forte rilancio dell'edilizia costiera”. Banalmente: senza un progetto di tutela dei luoghi e delle comunità la crisi sarà solo subita e lascerà segni indelebili.

Il Fatto Quotidiano on-line, 21 luglio 2013 (m.p.g.)

Gentile signora Ilaria Borletti Buitoni,

in una sua intervista pubblicata sull’ultimo numero dell’«Espresso», lei dichiara che io le avrei rivolto «i più ingiuriosi epiteti». Dalla sua piccatissima risposta a Maurizio Crozza – reo di averla accostata a Moira Orfei a causa della sua imponente acconciatura – è facile capire come lei non gradisca né l’ironia, né le critiche. Ma io non le ho mai rivolto ‘epiteti ingiuriosi’: e la sfido a trovarne anche solo uno negli interventi pubblici in cui ho avuto l’ardire di citarla. Ma, a questo punto, mi permetta di spiegarle perché, a mio giudizio, la sua nomina a sottosegretaria ai Beni culturali rappresenti un sintomo eloquente della regressione politico-culturale del nostro Paese.

Scendendo (o salendo?) in politica lei ha donato ben 710.000 euro a Scelta Civica di Mario Monti (un membro del Consiglio di amministrazione del Fai, che lei presiedeva). Quindi Monti l’ha nominata capolista in Lombardia. E, dopo la sua non sorprendente elezione, Scelta Civica ha chiesto che lei diventasse ministro per i Beni culturali (suo obiettivo dichiarato). Ma alla fine ha dovuto accontentarsi di uno dei due posti di sottosegretario in quel ministero. E, dopo tutti i soldi che ha speso, posso anche capire che nella stessa intervista lamenti che la stanza che le hanno dato al Ministero non venisse pulita da anni: come si è mal serviti, signora mia!
Per prenderla con leggerezza si potrebbe rammentare che nel Secolo di Luigi XIV Voltaire ironizza amaramente sulla vendita delle cariche pubbliche che connotò la fase peggiore del governo del Re Sole, quando «si creavano cariche ridicole, sempre facilmente comperate … essendo gli uomini di loro natura vani …, e così si immaginarono cariche di sottodelegati, ispettori visitatori del burro fresco, assaggiatori del burro salato».
A prenderla seriamente, invece, ci si potrebbe domandare (legittimamente, viste le regole del Porcellum) se lei sarebbe membro del Parlamento e del Governo anche senza quella gigantesca donazione. E ci si potrebbe chiedere se questa concatenazione di eventi non rappresenti una forma estrema di privatizzazione del cuore stesso dello Stato.
Ma anche l’accostamento con le pratiche dell’Antico Regime è istruttivo. Perché lei si chiama Ilaria Carla Anna Borletti Dell’Acqua Buitoni, e deve la sua attuale carica all’aver presieduto un’associazione, il Fai, nel cui consiglio d’amministrazione siedono, tra gli altri, Bruno Ermolli, Gabriele Galateri di Genola, Vannozza Guicciardini Paravicini, Galeazzo Pecori Giraldi. E, a capo della sua segreteria al Mibac, lei ha voluto Biancaneve Codacci Pisanelli.

L’ironia sull’affollarsi di cognomi aristocratici e grandi capitali sarebbe gratuita se tutto ciò non avesse molto a che fare con le sue idee circa la funzione e il governo del patrimonio.
Nella sua prima dichiarazione, in occasione della Notte dei Musei del 18 maggio scorso, lei pensò bene di dire che «è assolutamente impossibile che lo Stato abbia risorse sufficienti per ampliare l’offerta culturale senza ricorrere anche al sostegno dei volontari». Come dire: «Non hanno pane? Che mangino le brioches!».

In ogni sua dichiarazione pubblica, lei ripete che bisogna distruggere il «legame indissolubile» tra lo Stato e il patrimonio storico e artistico. E che questa distruzione sarebbe una ‘modernizzazione’. L’unica salvezza, per lei, sarebbero i privati: il modello da perseguire è quello della cessione del brand del Colosseo a Diego Della Valle, o dell’affitto degli Uffizi per eventi privati. Di più: allo Stato dovrebbe rimanere solo la tutela, mentre la gestione dovrebbe essere affidata ai privati, con o senza fini di lucro.

In tal modo, lei si è ritagliata (non so quanto consapevolmente) la parte di periferica cheerleader di una ideologia attuale trent’anni fa: un reperto dell’epoca di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Oggi, al contrario, il dibattito pubblico americano conta gli incalcolabili danni di decenni di privatizzazioni selvagge, e rilancia il ruolo dello Stato. Come ha scritto nel 2010 Tony Judt – forse il più influente intellettuale americano dei nostri giorni – «l’incapacità del mercato e degli interessi privati di operare a vantaggio della collettività è sotto gli occhi di tutti».

E non so se è informata che, da vent’anni a questa parte, la gestione dei principali musei e siti monumentali italiani è stata proprio affidata a concessionari privati che hanno creato solo reddito privato a spese di un patrimonio pubblico morente, utilizzando come schiavi generazioni di giovani precari e desertificando la politica culturale pubblica, ridotta ad un mostrificio commerciale.

Lei forse preferisce un modello di charity gestito da ricche dame dai molti cognomi: ma io dubito fortemente che un ritorno alla beneficenza dell’Antico Regime permetta al patrimonio di svolgere la sua funzione prevista dalla Costituzione. Che è quella di rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza, e favorire il pieno sviluppo della persona umana attraverso la conoscenza generata dalla ricerca scientifica. Tutte cose che possono essere assicurate solo da una gestione pubblica: né dai concessionari venali, né dalle ronde della carità.
E lei, da sottosegretario di Stato ai Beni culturali, dovrebbe invece pensare solo ad applicare la Costituzione su cui ha giurato: per esempio lottando per riportare a livelli decenti il finanziamento pubblico al patrimonio (sceso di due terzi dai tempi di Bondi ad oggi). Provando, cioè, a rimediare al doloso sottofinanziamento che mirava proprio a rendere inefficiente il sistema che oggi si vuole privatizzare perché – guarda un po’ – divenuto inefficiente.

Il patrimonio artistico dell’Italia dovrebbe e potrebbe servire alla più cruciale sfida per la sopravvivenza della democrazia nel nostro tempo: ridurre la diseguaglianza.
E invece lei lavora perché un’ulteriore privatizzazione aumenti, rappresenti, celebri questa intollerabile diseguaglianza. Edmund Burke ha scritto che una società che distrugge il tessuto del proprio Stato «si sfalderà in una polverosa disgregazione di individualismi». Non mi stupisco che lei lavori in questa direzione: io lotto per un futuro diametralmente opposto.

Cordialmente,Tomaso Montanari

Progetti di riorganizzazione di un quartiere “etnico” milanese, nella prospettiva Expo, propongono idee nuove per il commercio in città. La Repubblica e Corriere della Sera, 23 luglio 2013 (f.b.)

la Repubblica
Un tetto di cristallo su Paolo Sarpi, architetti al lavoro per la “gallery”
di Laura Asnaghi

È il progetto di cui si parla in questi giorni nei negozi lungo la strada, da sempre cuore pulsante della Chinatown di Milano. Il progetto è ambizioso e prevede la creazione di una “gallery” trasparente, con tetto apribile, lungo tutta la via. Il tutto con spese a carico di uno sponsor, per ora “top secret”. Tra i promotori del piano c’è Giovanni Berni, rappresentante dell’associazione “Sarpi Doc”, che gestisce una storica panetteria, all’angolo con via Lomazzo.

«L’obiettivo non è riqualificare solo la strada e darle una veste commerciale più in sintonia con l’Expo — spiega — ma si tratta di rilanciare tutta la zona che diventerà, nel giro di breve tempo, un polo strategico». Berni ricorda che intorno a PaoloSarpi graviteranno, tra gli altri, il nuovo palazzo Feltrinelli, gli atelier della moda di via Ceresio, da Dsquared (già funzionante) a quello di Neil Barrett (in costruzione). E sempre in zona ci saranno tutte le nuove costruzioni a ridosso della fermata del metrò al Monumentale. «Tutto questo è destinato a dare impulso al quartiere, ma per essere un vero polo di attrazione, dobbiamo attrezzarci — spiega Berni — Il progetto preliminare della galleria di vetro è allo studio e a fine agosto, se ne potrà parlarecon le carte alla mano».
Sulla riqualificazione della zona Sarpi è stato creato una tavolo a cui siedono sia i rappresentanti di zona Centro che di zona 8. «Sappiamo di questo progetto e siamo interessati — spiega Fabio Arrigoni, il presidente del Consiglio di zona 1 — È un piano complesso che coinvolge il Comune, commercianti, la comunità cinese e i residenti. Per la prima volta a Milano si parla di una strada che vuole diventare anche galleria. Il piano è ambizioso, lo valuteremo con cura».
Un pool di architetti è all’opera e dovrà tracciare una gallery «che non sia troppo invasiva e armonizzi con l’estetica della strada», una via sulla quale si affacciano 180 negozi, di cui molti cinesi con vendita all’ingrosso, e che, nel giro di poco tempo avrà anche il primo “Oriental mall”, un nuovo shopping center creato con capitale cinese. Dopo le vacanze il progetto preliminare della galleria di cristallo sarà visibile e a settembre si aprirà il confronto tra le parti.

Corriere della Sera

Supermercato e Mall della moda. L'idea cinese nel centro di Milano
di Jacqueline Hu e Maria Silvia Sacchi

I volantini di uno dei due supermercati stanno arrivando nelle case in questi giorni. Ma la pubblicità era iniziata prima: solamente, però, sui giornali cinesi venduti in Italia.
Con un grande investimento nato dall'unione di capitali di alcune famiglie cinesi in Italia unite da legami di parentela o di amicizia di vecchia data (ognuna con esperienza in un settore diverso) sta, infatti, per nascere quello che potrebbe essere il primo vero concorrente cinese della grande distribuzione made in Italy.

Lo spazio è l'ex Ovs di via Paolo Sarpi a Milano dove oggi sarà inaugurata questa nuova formula a metà tra un tradizionale supermercato e un mall della moda. The Oriental Mall sarà composto da cinque piani, di cui tre fuori terra. Due i supermercati presenti al suo interno (il primo sarà un Iper Hu, il secondo un Hu Food). Al piano terra, molti corner diversi con abbigliamento, gioielleria, bigiotteria, con marchi sia cinesi che italiani, accessori e giochi per bambini con logo (stile Disney Store), high-tech, pasticceria, bar. Il secondo piano — la preparazione è ancora in corso — sarà dedicato interamente al wellness, con sala yoga, centro di bellezza con massaggi tradizionali e trattamenti estetici, sala da tè e punto di ristoro con possibilità di pasti veloci sia di cucina cinese che italiana. Trattative, infine, sono in corso con alcuni marchi di lusso made in Italy per i turisti cinesi. Già, perché lo scopo è attirare, appunto, oltre ai consumatori italiani, anche i turisti che dalla Cina arrivano in Italia.

A spingere l'iniziativa soprattutto i giovani rappresentanti delle famiglie cinesi, tutti sui trent'anni, imprenditori e dalle esperienze internazionali. In particolare Cristophe e Stephan Hu, nati in Francia e cresciuti tra Milano e Roma (già importatori all'ingrosso con la World Mart) gestiranno la parte alimentare a piano terra, la Hu Food, supermercato con anche banco di macelleria e pesce freschi. La famiglia Jin e la signora Zheng Wei Yan titolari del marchio Iper Hu con all'attivo 11 mercatoni nel Nord Italia apriranno al primo piano un punto vendita omonimo. Altri investitori sono le famiglie Wu e Jiang Sen che arrivano dalla ristorazione: noto il Dining Wok, raffinato ristorante multietnico nel centro commerciale Bennet di Cantù, e tra poco (con la partecipazione della famiglia Hu) nel centro commerciale Auchan di Rescaldina.

Gli ideatori e i realizzatori a livello pratico di tutto il progetto sono i gemelli Michele e Francesco Hu, laureati all'università Bocconi di Milano, nati come broker assicurativi e mediatori finanziari nel 2003, che hanno iniziato dando credito alla comunità cinese tramite convenzioni nazionali con istituti di credito italiani. Ora si occupano di gestire grandi patrimoni immobiliari, con fondi o acquisto di quote dirette o indirette in investimenti di media e grande struttura. «Crediamo che sarà un successo», dice Michele Hu. Per questo stanno già valutando due nuovi centri a Torino e Firenze.

il manifesto, 12 luglio 2013.

Il "David ai fiorentini", gli Uffizi "macchina da soldi", la facciata simil michelangiolesca per San Lorenzo: Firenze, un luna park messo a reddito Il noleggio di Ponte Vecchio alla Ferrari di Montezemolo per una cena elegante segna l'apice della strumentalizzazione del patrimonio artistico e dello spazio pubblico di Firenze. La vicenda è stata particolarmente imbarazzante per l'arbitrio con cui è stata gestita: il sindaco Renzi ha annunciato che il canone di 120.000 (di cui però nel bilancio comunale non sembra esserci traccia) avrebbe dovuto rimediare ad un analogo taglio alle vacanze dei bambini disabili (ugualmente non documentato). E l'opposizione in consiglio comunale ha svelato che almeno una parte delle autorizzazioni ai ferraristi è stata concessa solo il giorno successivo all'evento. E se questo pasticcio amministrativo conferma il sostanziale disinteresse di Renzi per un governo delle cose che vada oltre l'annuncio mediatico, il cuore ideologico dell'iniziativa merita un'analisi.

Per secoli la forma del discorso pubblico, la forma della vita politica, la forma della civiltà stessa si è definita e si è riconosciuta nella forma dei luoghi pubblici. Le città italiane sono sorte come specchio, e insieme come scuola, per le comunità politiche che le abitavano. Le piazze, le chiese, i palazzi civici italiani sono belli perché sono nati per essere di tutti: la loro funzione era di permettere ai cittadini di incontrarsi su un piano di parità. È per questo che la Repubblica - lo afferma l'articolo 9 della Costituzione - nel momento della sua nascita ha preso sotto la propria tutela il patrimonio storico e artistico nazionale.

Negli ultimi trent'anni, tuttavia, il valore civico dei monumenti è stato negato a favore della loro rendita economica, e cioè del loro potenziale turistico. Lo sviluppo della dottrina del patrimonio storico e artistico come "petrolio d'Italia" (nata negli anni ottanta di Craxi) ha accompagnato la progressiva trasformazione delle nostre città storiche in luna park gestiti da una pletora di avidi usufruttuari. Le attività civiche sono state espulse da chiese, parchi e palazzi storici, in cui ora si entra a pagamento, mentre immobili monumentali vengono incessantemente alienati a privati, che li chiudono o li trasformano in attrazioni turistiche.

Come in un nuovo feudalesimo, le nostre città tornano a manifestare violentemente i rapporti di forza, soprattutto economici: da traduzione visiva del bene comune, a rappresentazione della prepotenza e del disprezzo delle regole democratiche.

Anche da questo punto di vista Matteo Renzi non inventa nulla, e si limita a cavalcare con la massima efficacia mediatica la tendenza, vincente, per cui la città non produce cittadini, ma clienti. Nel famoso pranzo di Arcore, egli ottenne che il 20% degli introiti del David di Michelangelo, massimo feticcio del desertificante turismo fiorentino, andassero al Comune e non allo Stato. Vale la pena di notare che quei proventi venivano indirizzati al bilancio di Capodimonte, a Napoli: che, grazie al leghismo gigliato di Renzi, si trovò da un giorno all'altro senza nemmeno la carta igienica. E "il David ai fiorentini" fu il primo messaggio alla pancia della città. Poco dopo Renzi ha dichiarato che «gli Uffizi sono una macchina da soldi se li facciamo gestire nel modo giusto». E quindi ha trivellato gli affreschi di Vasari in Palazzo Vecchio alla ricerca della Battaglia di Anghiari di Leonardo, spacciando per ricerca scientifica una penosa operazione di marketing delle emozioni che esaltava Dan Brown ai danni della conoscenza scientifica.

Insomma, straparlando continuamente di Brunelleschi, Leonardo e Michelangelo, il sindaco sta usando il patrimonio artistico fiorentino come "arma di distrazione di massa" capace di deviare l'attenzione dell'opinione pubblica dall'esercizio del potere: ha, per esempio, proposto di costruire la facciata che Michelangelo aveva progettato per San Lorenzo (sarebbe come scrivere una canto della Commedia partendo da qualche verso) proprio mentre firmava l'accordo per lo scellerato tunnel Tav che sventrerà una parte di Firenze.

Anche da questo punto di vista, tuttavia, Renzi non è un innovatore, piuttosto un conservatore estremista. Nel senso che estremizza, e vira in salsa mediatica, l'ormai secolare abitudine dei fiorentini di vivere di rendita alle spalle del loro passato. Un passato che non diventa leva di costruzione del futuro, ma una specie di parco giochi da mettere a reddito: come è stato chiaro quando Renzi ha messo il veto alla costruzione della moschea nel centro storico. A Firenze le periferie sono abbandonate a se stesse, ma la cartolina del centro è intoccabile. O meglio: ci si possono fare speculazioni edilizie (come lottizzare il Teatro comunale del Maggio, che Renzi vorrebbe liquidare), si possono espellere le librerie o immaginare facciate pseudo-michelangiolesche: va bene tutto quello che è funzionale alla servitù del turismo e alla rendita del passato. Dunque non la moschea, pericolosamente carica di futuro.

Il noleggio di Ponte Vecchio segna, tuttavia, un punto di non ritorno, perché svela il progetto politico e sociale del futuro leader della Sinistra italiana. Nella costituzione riscritta da Renzi la Repubblica - per ora il Comune di Firenze - favorisce la manifestazione delle diseguaglianze, inibisce il pieno sviluppo della persona umana, sottopone alla ferrea legge del mercato il patrimonio storico e artistico e il paesaggio della nazione.

C'è un'idea, chiamiamola così, per allargare i confini della metropoli edificata fin dove fisicamente possibile. Come spiega meglio nei dettagli il comunicato ufficiale qui di seguito:
Comunicato Stampa
Prolungamento tangenziale Est da Usmate/Velate a Olginate
Consiglio Regionale approva ordine del giorno al Piano regionale di Sviluppo

E' stato oggi approvato nell'aula del Pirellone un ordine del giorno al PRS che invita la Giunta regionale a "valutare il prolungamento della Tangenziale Est da Usmate Velate, dove attualmente inizia l'infrastruttura, fino a Olginate (LC), confrontandosi anche con le istituzioni coinvolte." Firmatario del provvedimento è il consigliere regionale della Lega Nord, Antonello Formenti.
"Il prolungamento della Tangenziale Est fino a Olginate - ha spiegato Formenti - potrebbe risolvere parecchi problemi di viabilità e di sicurezza stradale, nonché ridurre le inevitabili ripercussioni a livello di inquinamento ambientale e acustico per il territorio coinvolto. Si tratta inoltre di un'opera di notevole importanza per una migliore fruizione della futura Pedemontana per quanto riguarda le zone del meratese e del casatese."
"Sottolineo infine - conclude Formenti - che i sindaci del territorio hanno già espresso parere favorevole al prolungamento della Tangenziale Est attraverso i territori da loro amministrati , collaborando anche in maniera attiva con la Provincia di Lecco per la realizzazione di un progetto di massima."

Paiono proprio Qui, Quo, Qua, ma bisogna segnarsi i nomi: Raffaele Straniero (PD), Mauro Piazza (Pdl) e Antonello Formenti (Lega). Tutti convinti che il già demente secondo anello di tangenziali che sta sbancando il territorio attorno a Milano sia solo l'inizio della trionfale futura saturazione a colpi di mattoni di quanto resta fra i margini dell'area metropolitana e le pendici delle Prealpi. Poi forse lasceranno il campo ai paladini dei trafori trans-resegonici, ma per adesso tengono il campo coi loro sedicenti progetti faccia di bronzo. Che ideona, prolungare il braccio di collegamento della Tangenziale Est con la Pedemontana, oggi attestato sulla linea della vecchia SS36 fino allo sbocco dell'Adda dal lago, a Olginate, ovvero già ampiamente in vista delle montagne. Poi si tratterà solo di continuare nella medesima logica, gettando il cuore degli altri oltre l'ostacolo, e via verso l'Europa in un tunnel di sciocchezze alla leggera!

Il Resegone visto da "dietro"

Come se già non bastasse il ramo di tangenziale esistente che si prolunga da Vimercate, ad alimentare la dispersione insediativa, proprio nell'area in cui anni fa si provava ad arginare il consumo di suolo con la cosiddetta Dorsale Verde, riflesso sbiadito della greenbelt metropolitana meridionale milanese. Lì si sono aggrappati tutti i soliti appetiti delle amministrazioni locali per il nuovo complesso chicchessia, che ci porterà prosperità e benessere eccetera. E invece serve solo a soffocare quel po' di respiro momentaneamente arrivato con la nuova arteria. Ma niente paura, ci sono Qui, Quo, Qua a proporre il nuovo ramo dell'autostrada urbana, perché ormai di città compatta e continua si tratta, dal core metropolitano a Lecco, nonostante i palpiti localisti e ruralisti di chi va a caccia di voti a destra, e anche a sinistra a quanto pare.

Ma non c'è un rimedio, magari farmacologico, a questa totale mancanza di buon senso? In fondo, dovrebbe bastare un'occhiata a GoogleEarth dal telefonino, per far desistere dall'idea (chiamiamola così) chiunque. Evidentemente non basta. Di seguito, per crederci, uno scarabocchio del tracciato, sovrapposto al già mastodontico schema autostradale esistente e in progetto nel Nord Milano

Marino: «È il primo atto per realizzare il parco archeologico più grande del mondo». Un Parco che cambia la città e la rende migliore per tutti. Sulle periferie sta intanto già lavorando da un paio di decenni, l'assessore all'urbanistica: forse perciò Marino lo ha scelto, pensando alle periferie prima ancora che al centro. Il manifesto, 9 luglio 2013

Una giornata impegnativa quella di ieri per Ignazio Marino e la sua squadra, iniziata la mattina con la "maxi-giunta" di regione Lazio e Roma Capitale riunite, presieduta dal sindaco e dal governatore Nicola Zingaretti e terminata con una lunga conferenza stampa per illustrare il progetto di pedonalizzazione dei Fori Imperiali.La maxi-giunta ha inaugurato un modello di governo nuovo e integrato degli enti locali, favorito dalla grande sintonia tra la giunta Zingaretti e il nuovo governo di Roma.

Diversi i temi affrontati, in primo piano i debiti della Regione Lazio con Roma Capitale, su cui Zingaretti si è impegnato con cifre chiare, ma anche lo sviluppo economico, i servizi sociali, le discariche e lo sviluppo urbanistico e la casa, tema caldo a cui i movimenti per il diritto all'abitare, da mesi in agitazione con manifestazioni e occupazioni, chiedono agli enti locali di rispondere in maniera concreta coordinando sforzi e competenze. Alla fine dell'incontro la formalizzazione: gli incontri congiunti si ripeteranno e ogni assessore lavorerà con il suo omologo gomito a gomito.

Nel pomeriggio dopo una decisiva conferenza dei servizi, Marino con l'assessore alla Cultura Flavia Barca e l'assessore ai Trasporti Guido Improta, ha presentato il piano per la pedonalizzazione dei Fori Imperiali dopo gli annunci e le polemiche. Un atto fortemente voluto da Marino che assieme ai prevedibili "no", ha incassato appelli entusiasti di molti intellettuali e le reazioni favorevoli dei cittadini del centro storico, delle associazioni ambientaliste e di quelle dei ciclisti.

E' proprio il sindaco ad illustrare l'operazione che prenderà il via alla fine del mese con il divieto di traffico per i Fori ai mezzi privati, una nuova legislazione per i bus turistici e le conseguenti modifiche al trasporto pubblico e al traffico. La secondo fase prenderà il via a fine 2013 con il raddoppio del marciapiede, una pista ciclabile e l'allargamento della Ztl. Tra dieci giorni, poi, «partiranno i lavori per il restauro del Colosseo da parta della Tod's di Della Valle, con la cessione immediata delle aree adiacenti dal comune di Roma alla sovraintendenza», assieme a una «operazione di decoro antiabusivismo nel centro storico» che evidentemente non può mai mancare nell'agenda di ogni sindaco.

Annuncio spot? Operazione d'immagine? Le decisioni presentate potrebbero essere derubricate a semplici interventi sulla viabilità o alla necessità politica e simbolica del nuovo governo della città di lasciare subito il suo segno sul centro storico. Del rischio è consapevole anche Marino che spiega: «E' solo il primo atto per realizzare il vecchio progetto di Cederna: fare a Roma il più grande parco archeologico del mondo, dai Fori Imperiali all'Appia Antica». Una continuità ideale con le giunte rosse degli anni '80 di Argan e Petroselli, la volontà di dare forma a un progetto ambizioso di cui si parla da decenni ma sempre rimasto nel cassetto. Sui tempi di realizzazione il sindaco non si sbilancia: «Non crediamo nella politica degli annunci, procederemo passo passo informando e confrontandoci con la città».

Interpellato dal manifesto il nuovo assessore all'urbanistica Giovanni Caudo spiega la politica di due tempi: «C'è bisogno prima di tutto di dare un segnale di attenzione al centro storico dopo anni di abbandono da parte dell'amministrazione Alemanno. Questo non risolve i problemi di traffico né la debolezza cronica del trasporto pubblico, ma mostra in maniera concreta una volontà a tutti, ai cittadini e al mondo». La speranza di Caudo è che «si proceda realizzando il sogno di Cederna. Ma questo è molto più difficile, serviranno risorse e la collaborazione di competenze e istituzioni diverse».

All'obiezione che si poteva iniziare dalla periferie, queste sì davvero abbandonate dalla passata amministrazione di centrodestra, per dare un segnale alla città, l'urbanista risponde: «Una cosa non esclude l'altra. Ci stiamo impegnando a censire le proprietà comunali e a lanciare progetti di recupero e messa a valore del patrimonio urbanistico già costruito».

La scala sovracomunale è la dimensione adeguata per la soluzione sostenibile di tantissimi problemi di efficienza ed equità, come hanno ben capito i sindaci dell'est milanese nella loro lettera aperta sul rilancio delle iniziative per la Città Metropolitana

il naviglio Martesana a Vimodrone

Qualche volta per fortuna i temi dell’agenda politica intrecciano le istanze dei territori, e in questi casi sono formidabili occasioni per riforme che, partendo dalle reali esigenze degli attori locali, diventano esperienze per ridisegnare i tradizionali percorsi di governance. L'istituzione delle città metropolitane, di cui nei termini attuali si parla dagli anni Novanta, e che salvo colpi di mano dell’ultima ora vedrà finalmente la luce il prossimo gennaio, rappresenta un’importante occasione, per la regione urbana di Milano, di risolvere pluriennali (a dir poco) problemi di governance a scala vasta, soluzione sinora impedita dalla frammentazione del quadro istituzione e delle competenze fra i diversi livelli di governo. Nei territori dell’est Milanese, nella zona denominata e conosciuta come Adda-Martesana, il contesto politico/amministrativo, sommato ad alcune condizioni contingenti di carattere insediativo, rende strategico il tema del governo metropolitano se si vuole avviare una stagione di cooperazione intercomunale: indispensabile non solo per sopravvivere ai tempi della spendig review, ma anche per elaborare una visione efficacemente condivisa di sviluppo locale.

MM2 Villa Fiorita

Le pratiche di collaborazione tra le amministrazioni comunali di quest’area vantano in tempi recenti una storia quasi ventennale. La più significativa è certamente quella che ha portato all’elaborazione del Piano d’area, strumento di coordinamento urbanistico approvato nel 2006 da tutti i 27 consigli comunali della zona. Un'esperienza nata dall'iniziativa di amministrazioni lungimiranti che, di fronte ai nuovi processi di natura economica (la delocalizzazione a partire dagli anni '80, poi l'attuale crisi economica dal 2008), territoriale (progressiva disponibilità di aree dismesse), infrastrutturale (grandi opere in progetto) e sociale (mutamento delle dinamiche demografiche), hanno avviato un percorso volontario di pianificazione associata. Il Piano Adda-Martesana prevedeva di ricostruire un’identità territoriale chiara e riconoscibile, carattere venuto meno nel corso del tempo, attraverso strategie che sapessero coniugare in particolare il miglioramento dell’accessibilità e la valorizzazione del sistema ambientale.

Naviglio e MM2 a Cassina de' Pecchi

La cooperazione sovracomunale ha però scontato le debolezze dello strumento esclusivamente volontario: con l’avvicendarsi delle giunte il dialogo si è di fatto interrotto. Una stagione di localismi ha condotto all’elezione di diversi sindaci da liste civiche cittadine, con orientamenti politici vari ma tutte accomunate da un approccio tutto rivolto entro i propri confini amministrativi: una sorta di leghismo di fatto, miope, autoreferenziale e di corto respiro. Molte di queste esperienze amministrative hanno fortunatamente già evidenziato a tutti i propri limiti, identificabili anche negli effetti tangibili, in quanto la parzialità dei processi decisionali ha generato anche frammentazione di natura territoriale. Insediamenti residenziali, commerciali e terziari (soprattutto legati alle attività di logistica) previsti come urbanizzato in espansione, che rompono la continuità del sistema agricolo ed ambientale; o aree di trasformazione localizzate in modo indipendente dal sistema infrastrutturale pubblico esistente.

Sono i più ricorrenti esiti sul territorio locale di questa stagione, resi possibili dalle politiche urbanistiche lombarde, che fanno della deroga e della deregulation le proprie parole d’ordine. Analizzando le dotazioni territoriali di quest’area sono due gli elementi principali: un ambiente di qualità e un’offerta di infrastrutture che determina un’alta accessibilità. In particolare l'articolato sistema di mobilità fa di questo territorio un organico corridoio insediativo, la cui gestione, soprattutto in chiave di accessibilità derivata, non può che rappresentare una delle principali sfide a scala metropolitana.
In questo contesto si inserisce la lettera firmata pochi giorni fa da 23 primi cittadini dell’Adda-Martesana (Basiano e Masate, Bellinzago Lombardo, Bussero, Cambiago, Cassano d’Adda, Carugate, Cernusco sul Naviglio, Gorgonzola, Gessate, Grezzago, Inzago, Liscate, Melzo, Pessano con Bornago, Pioltello, Pozzo d’Adda, Pozzuolo Martesana, Rodano, Settala, Trezzano Rosa, Trezzo sull’Adda, Vignate e Vimodrone) che chiedono al Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, la convocazione, urgente e non più prorogabile, di una conferenza metropolitana dei Sindaci. Al fine di elaborare un processo condiviso di governance a partire dalle quattro materie fondamentali (pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali, coordinamento della gestione dei servizi pubblici locali, mobilità e viabilità, promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale) che, per legge, saranno di competenza della città metropolitana dal gennaio 2014.
La lettera rappresenta un’iniziativa politica importante, riassume i percorsi di cooperazione intercomunale di fatto già in corso come, ad esempio, alcune proposte legislative elaborate tramite il neo-gruppo interparlamentare “Amici dei Comuni, Città e Città metropolitane” a promuovere collaborazione fra Comuni compresi nei territori delle future città metropolitane. Senza un quadro normativo e istituzionale adeguato, i contenuti della nota sarebbero destinati a rimanere un (buon) elenco di intenzioni, difficilmente convertibili in programmi operativi o azioni di governo concrete. Ma la scadenza di gennaio rende questa un’occasione imperdibile per avviare una vera riforma dei processi di governance di scala vasta, che a partire dalle funzioni fondamentali sappia esplorare e governare i processi di trasformazione economici, sociali e territoriali ad una scala pertinente, e tutelare l’interesse della collettività, al riparo dai rischi di un inadeguato localismo.
Centro storico di Gorgonzola

Una buona metafora e sintesi dei problemi e potenzialità dell'intero spicchio orientale dell'area metropolitana, è quella costituita dall'asse insediativo a forte infrastrutturazione delle tre città lineari lungo il naviglio Martesana, la strada Padana Superiore, binari e stazioni della Linea Metropolitana 2. Per molti versi, basta un colpo d'occhio allenato a cogliere l'altissimo valore urbano e ambientale del sistema (sviluppato su una ventina di chilometri circa), le forti potenzialità di integrazione e sviluppo, e insieme le innumerevoli occasioni perse, di sicuro per colpa di prospettive di respiro insufficiente.

Piazzale della stazione a Bussero

Fra gli aspetti positivi di forte integrazione, sia interna che col nucleo metropolitano centrale di Milano città, è il sistema lineare del naviglio e relativo percorso ciclabile, e qui non a caso è evidente il ruolo dell'unico ente che sinora ha svolto pur in modo parecchio lacunoso un ruolo di governo sovracomunale, ovvero la Provincia. L'asse della mobilità dolce rappresenta forse il più importante interessante e continuo trait-d'union est-ovest fra i territori, e su di esso si attestano sino a costruire potenzialmente una entità continua sia i nuclei residenziali di parecchi quartieri urbani, sia i corridoi secondari locali di comunicazione con altre zone a nord e sud a varia destinazione, sia e soprattutto la struttura articolata del verde pubblico. Una rete a dimensione e qualità variabile, che comunque lega direttamente la città centrale, i comuni di prima cintura, la fascia suburbana-esurbana e sfocia nella valle dell'Adda.

Per contrasto, un elemento che potrebbe essere potenzialmente di unione ma che non si rivela affatto tale è l'asse della Padana Superiore, in questo spicchio della regione urbana evidentemente in bilico fra i due ruoli che la storica arteria via via svolge nel lungo percorso trasversale da Torino a Venezia: strumento di convergenza dei flussi di traffico e smistamento sia a scala locale che territoriale, asse di arroccamento comunale. In particolare, specie nei punti di strozzatura dove la strada è costretta ad attraversare direttamente gli abitati anche con traffico pesante, essa costituisce una linea di cesura, anche se fra funzioni segregate. In altri tratti recupera il proprio ruolo di scorrimento, ma su distanze talmente brevi da risultare del tutto superfluo. Inconsistente, e forse in modo desiderato e in parte pianificato, il rapporto con gli altri due assi della mobilità metropolitana nell'area.
La pista ciclabile verso Inzago

Terzo e ultimo elemento dell'insediamento lineare continuo, la linea della MM2 che collega nel tratto extra-milanese la fascia della tangenziale est a Gobba con l'inizio della fascia esurbana a Gessate. Oltre a svolgere col fascio dei binari un ruolo di margine a volte positivo, a volte meno auspicabile, la linea della metropolitana interagisce naturalmente con territorio negli ambiti delle stazioni e relativi quartieri. Qui appare più che mai evidente la frammentazione nel tempo e nello spazio di strategie locali a dir poco differenziate, e soprattutto prive di qualunque consequenzialità: si va dalla buona integrazione nel tessuto urbano, con però qualche difficoltà a servire le zone circostanti per problemi di accessibilità, al classico modello della stazione terminale suburbana, poco più di una piattaforma circondata da parcheggi. Con una unica, interessantissima quanto carente eccezione, manca del tutto un rapporto chiaro tra stazioni della metropolitana e attività economiche, sino al caso limite di un grosso office park che dista pochi metri da una delle stazioni, ma che per la collocazione in altro comune ne è totalmente tagliato fuori.

Questi brevi cenni alle forme insediative, ai loro problemi, alle loro potenzialità, solo per mettere in luce cosa possa significare qui il governo a scala metropolitana della pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali, il coordinamento della gestione dei servizi pubblici locali, della mobilità e viabilità, la promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale, così come previsti dalle leggi. Sapranno le istituzioni, nazionali e locali, rispondere davvero alla sfida? Sapranno coinvolgere davvero i cittadini, ormai ampiamente inseriti nel sistema della “patria metropolitana” che va oltre l'ambito localistico? Sembrano esattamente queste, le preoccupazioni e le urgenze espresse dai sindaci nella loro lettera aperta al collega della grande città centrale, su cui in particolare pesa la responsabilità di farsi carico di un ruolo guida e di stimolo verso il governo centrale. Per non trovarsi di nuovo nella situazione degli anni '70-'80 quando, varati i comprensori alla fine di un lunghissimo e contraddittorio processo di riforma istituzionale, la loro incerta situazione dal punto di vista delle competenze e della rappresentatività ne decretò il rapido accantonamento.

Si potrebbe intitolare questa intervista, pubblicata dal Messaggero l'8 luglio, "l'urbanistica di Luciano Canfora". E metterla poi nell'elenco di stravaganze e sciocchezze detto "stupidario". Noi invece la prendiamo sul serio, e nella postilla spieghiamo perchè.

«È molto più importante occuparsi delleperiferie romane che delle zone pedonali nel pieno centro». Non usa mezzitermini Luciano Canfora, illustre storico e saggista italiano, profondoconoscitore della cultura classica, ordinario di Filologia greca e latinapresso l'Università di Bari, che interviene a gamba tesa sul progetto dipedonalizzazione di via dei Fori Imperiali.

Professor Canfora, cosa pensa del piano lanciato dal sindaco Ignazio Marino?
«Il mio pensiero si articola per punti: sette, tanti quanti sono i colli diRoma. Punto primo, mi sembra più opportuno che ci si occupi delle periferie diRoma piuttosto che di pedonalizzazioni del centro. E soprattutto un sindaco,presumibilmente di sinistra, dovrebbe avere una tale sensibilità. Punto secondo,i problemi del traffico non si risolvono con iniziative estetizzanti, cioè cheinseguono la bellezza. Così come non si risolvono con iniziative estemporaneeche rischiano di fare impazzire la circolazione stradale con conseguenzeimprevedibili. Punto terzo».

Non ha fiducia nel piano traffico proposto dal Campidoglio?
«Infatti. Punto quarto, bisogna occuparsi forse dei tempi di percorrenza di chiva al lavoro usando un mezzo proprio, anziché creare difficoltà supplementaririspetto alle moltissime esistenti già, in una città come Roma».

In molti l’hanno definito un provvedimento demagogico o ideologico.
«Non mi piacciono questi termini. Direi più uno spot elettorale. Punto quinto,già ci bastano le bizze di Renzi col Ponte Vecchio a Firenze, non vorremmoquelle di Marino sui Fori Imperiali. Mi sembra tanto il desiderio di lasciareun segno nei secoli a venire».

Lei ama parlare con molta schiettezza, liquidando i giri di parole.
«Preferisco essere d’accordo con Lucrezio: usare poche parole per dire moltecose».

Il suo sesto punto?
«Se l’obiettivo esibito, o meglio ostentato, dal piano di Ignazio Marino èquello di salvaguardare il Colosseo dall’inquinamento da smog dovuto altraffico, il fatto stesso di far passare gli autobus nella corsia preferenzialedimostra che il problema non viene affatto risolto».

Molti studiosi, come Eugenio La Rocca, Cesare De Seta e Francesco Buranelli,hanno richiamato l’attenzione sui rischi per il Colle Oppio e il suo patrimonioarcheologico.
«Ecco il punto settimo, un sindaco dovrebbe conoscere profondamente la città dicui diventa sindaco».

Pensa che Marino non la conosca?
«Temo di no. Prima sembra sia stato tanto in America. D’altronde la suabiografia non è ancora compresa nella Treccani. Ma quando andava in televisionee pontificava tanto sulle università, faceva solo confronti con l’Americaraccontando delle sue esperienze. Il mio è un sommesso pensiero, ma un sindacodeve poter vantare una profonda conoscenza sociale della città. È una legittimaipotesi: gli amici di Marino possono dire che è una malignità, ma è unaconstatazione di fatto».

E se le chiedessimo una considerazione su via dei Fori Imperiali, lontano datermini ideologici (che non le piacciono), ma almeno storici? Andrea Giardinariconosce piena dignità di monumento a questa strada.
«Sono d’accordo con Andrea Giardina, persona seria. Via dei Fori Imperiali nondeve essere toccata. Analogamente dovremmo disfare i grandi boulevard di Parigiche furono fatti costruire da Napoleone III. L’intervento di Mussolini equivalealla stessa operazione urbanistica compiuta a Parigi, fa parte della storiaurbanistica di Roma. Dire che si debba sbancare la strada mi pare un segno diinfantilismo. La storia ha preso questa forma, non si può infierire sullastoria. Roma è una metropoli, non un giocattolo. Quando si fece lacommemorazione dei primi 50 anni dell’Unità d’Italia, nel 1911, fu costruito ilVittoriano, una mostruosità. È come dire, abbattiamo l’Altare della patria eportiamo il Campidoglio alla forma che aveva prima. Demenziale».

Postilla
Stupisce molto questa intervista. Perun urbanista che conosce Roma e il “progetto Fori”, così come è stato elaboratonel corso da qualche decennio, il giudizio sul contenuto dell' intervista èsintetizzabile nella parola che la conclude: “demenziale”. Per un polemista chevolesse contrapporre una sua frase a quelle di Canfora, all’affermazione che «unsindaco dovrebbe conoscere profondamente la città di cui diventa sindaco» lareplica sarebbe: un intellettuale, anche quando parla fuori dal suo campo,dovrebbe conoscere con una certa profondità ciò di cui parla. Per direttore diquesto sito la decisione sarebbe: ignoriamo quell’intervista oppure pubblichiamolanella cartella “stupidario”. Per un appassionato lettore di molti libri di Canfora, tra i quali Demagogia, verrebbe da chiedere se la politica culturale di Renato Nicolini avesse giovato al centro contro le periferie o alle periferie contro il centro, o se avesse per caso giovato ad entrambe (alla città, che è una).
Ma abbiamotroppa stima per Luciano Canfora per ridurre il commento a una di queste possibilirepliche. E allora ci domandiamo e domandiamo: ma che cosa è mai successo, eper colpa di chi o di che cosa, perché i saperi e i mestieri si siano cosìprofondamente separati che chi opera all’interno di un campo non comprende chelavora nel campo vicino? Ci torna in mente quella frase di Lemontey citata daMarx in Miseria della filosofia alla quale qui rinviamo. E ci domandiamo poi, inparticolare, che cosa mai dobbiamo e possiamo fare, noi urbanisti perché inostri progetti siano compresi da tutti, quale che sia il campo nel quale operanoe la profondità con la quale lo coltivano?

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