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“Bisogna “commercializzare” l’Italia e in primo luogo quindi la Sardegna”. La frase lapidaria, detta ad una tv sarda, appartiene al sottosegretario ai Beni Culturali, Francesca Barracciu. Dichiarazione di primaria importanza perché chiarisce bene le intenzioni del governo Renzi in materia di cultura e di beni archeologici, storico-artistici e paesaggistici. “Gli Uffizi”, sentenziò tempo fa l’allora sindaco Renzi, “sono potenzialmente una gran macchina da soldi”. “I Musei sono miniere d’oro non sfruttate”, gli ha fatto eco il ministro Franceschini presentando a larghe linee il nuovo assetto del suo derelitto Ministero oggetto della settima-ottava “riforma” in pochi anni.

Che, stavolta, avendo accorpato di recente il Turismo, vede ormai anteporre al Patrimonio e alla sua tutela la Valorizzazione di tipo turistico-promozionale. Per cui la sigla potrebbe ben cambiare da MiBACT in MiTURBEN o MiSTURBEN visto lo “sturbo” che provocherà nelle Soprintendenze e negli uffici tecnico-scientifici della tutela. Guai però a criticare, perché, come per la riforma del Senato o per l’Italicum, si passa, tout court, per “gufi” e per “nemici delle riforme”, additati come tali da Serracchiani e Bonafè. Vecchi bacucchi insomma, mentre i Soprintendenti in carica sono, al più, studiosi squisiti incapaci di organizzare qualcosa di utile per incrementare gli ingressi o burocrati ottusi, se non babbei. Non so se per provincialismo, difetto di informazione, scarsa frequentazione di musei stranieri, costoro ignorano che il Louvre coi suoi 9 milioni di ingressi è passivo per il 50% del suo bilancio (ci pensa lo Stato) e che altrettanto accade al Metropolitan Museum, che i grandi musei inglesi e molti musei di fondazioni - come la Smithsonian di Washington - sono gratuiti e semmai con ciò danno un servizio culturale gratis e incrementano notevolmente i flussi turistici (secondo gli inglesi, del 50%). Ma ovunque la distinzione fra il Patrimonio/Materia Prima e il Turismo/Indotto è chiarissima. Da noi non più.

Il progetto Franceschini, per quello che se ne è appreso, da lui e dagli uffici, parte dall’idea centrale di rendere autonomi dalle Soprintendenze i 20 maggiori musei italiani affidandoli a manager anche stranieri. Con quale fine? Di ricavarci dei bei profitti, si suppone. La cosa è gravissima e del tutto nuova nella storia della tutela in Italia. Tagliare il rapporto fra i Musei (statali, per ora) e le loro peculiari origini, col loro territorio è antistorico e astratto. Per i Musei archeologici poi è una solenne fesseria alimentandosi questi ultimi delle continue campagne di scavo (tant’è che esistono ormai numerosi musei “di scavo”): lo splendido Museo di Policoro, osco-lucano, magno greco, ellenistico, ecc. l’hanno dovuto raddoppiare anni fa per la massa di nuovi formidabili ritrovamenti nella Siritide.

Se prevale - e in quest’ottica prevale di certo (Barracciu dixit) - la logica oggettivamente, necessariamente economica del turismo su quella culturale, non necessariamente economica, della ricerca e della conservazione artistica, si aprono le porte ad una sorta di enorme Ipermercato Italia, all’aperto e al chiuso, per masse incontrollabili di turisti di ogni Paese. E’ il risultato di aver mescolato - anziché tenerli ben distinti - Cultura e Turismo, facendo prevalere il secondo. Paradossalmente, il guaio vero è che, mentre i nostri musei, le nostre aree archeologiche (non tutto è Pompei in Italia e anche Pompei non è poi tutta quanta il disastro che si dipinge), risultano concorrenziali, non lo è affatto l’apparato turistico dell’ospitalità, della mobilità, ecc. Secondo la Coldiretti il turismo italiano è più caro del 10% rispetto agli altri Paesi più visitati. Altri rilevano che i prezzi in Italia cambiano a seconda che un semplice cappuccino venga servito agli italiani o agli stranieri. Questo scredita e respinge molto. Altro che musei.

Certo i nostri, ospitati in ville, dimore o palazzi storici, sono più piccoli e non gonfiabili: gli Uffizi attuali, se non erro, dispongono, per ora, di una superficie espositiva sui 12.000 mq contro i 180.000 mq del Louvre, ma con 1,8 milioni di visitatori ne stipano 150 per mq, mentre a Parigi con 9 milioni circa di visitatori (e con seri problemi di controllo e scioperi contro bullismi, violenze, ecc.) ne registrano soltanto 50 per mq. Per cui in tutti i nostri musei, gallerie, ecc, persino al Colosseo, non si possono non contingentare gli ingressi. Cosa che infastidisce molto i nostri “riformatori”. Ma 1 milione di visitatori all’anno sono 1 milione di persone che alitano, respirano e traspirano (e naturalmente 2 milioni di ascelle, 2 milioni di piedi), che creano umidità, con seri danni a tavole e tele se la climatizzazione non è perfetta. In ogni caso se la folla si accalca nelle sale. Come sta avvenendo.

Un’ultima osservazione sul paesaggio italiano che è sempre più aggredito e stravolto dal binomio cemento-asfalto con consumi di suolo pazzeschi, a Napoli il 62 % è impermeabilizzato, a Milano il 60, in Lombardia, montagne incluse, oltre il 10%. Che è il doppio della Germania. Se una parte dei paesaggi si è salvata dall’assalto di padroni, padroncini, abusivi, Comuni senza testa, ecc. lo si deve anzitutto alle pur depauperate e intimidite Soprintendenze che oggi risultano quotidianamente sotto accusa e che dispongono in tutto di 480 architetti per sorvegliare e tutelare un territorio vincolato pari al 47% del Belpaese, 141.358 Kmq, per cui c’è un solo architetto ogni 290-300 Kmq. Oppure, se preferite, 1 architetto ogni 42 centri storici… Una sola regione, la Toscana per fortuna, fino a qualche anno fa intaccata o minacciata da lottizzazioni pericolose (nonché dalle cave delle Apuane), ha adottato il piano paesaggistico concordato col Ministero. E il resto? Si vedrà. Le regioni più devastate, guarda caso, quelle dell’abusivismo foraggiato dalle varie mafie, e magari quelle dove - vedi Sicilia - la tutela è da sempre “regionalizzata”. Un disastro. Niente piani, niente tutele.

Purtroppo la prima apprezzabile versione governativa del “nuovo” Titolo V della Costituzione - quella che riportava al centro taluni poteri generali in materia di ambiente, di parchi, di paesaggio - è stata già snaturata dalla bozza Calderoli-Finocchiaro come ha notato (fra i pochi) Fulco Pratesi sul “Corriere della Sera”. Anche qui si retrocede dunque - per avere i voti della Lega per Senato e Italicum? - verso il brutto pasticcio istituzionale 2001. L’anno in cui, fra l’altro, si cancellò l’art. 12 della legge n. 10 sui suoli del ’77 che imponeva ai Comuni di riservare gli oneri di urbanizzazione alle sole spese di investimento e non alla spesa corrente. E i Comuni, alla canna del gas, schiacciarono il pedale dell’edilizia, per lo più “di mercato”, cioè speculativa. Con centinaia di migliaia oggi di case vuote, sfitte, ecc. E poca, o punta, direbbero Renzi o Boschi, edilizia pubblica e sociale.

Una tappa intermedia del disegno dicosiddetto sviluppo del territorio lombardo, che procedesciaguratamente e senza che se ne delinei uno davvero alternativocredibile. Corriere della Sera Milano, 22 luglio 2014, con postilla(f.b.)

MILANO — Costi lievitati, casse prosciugate e richieste di sgravi fiscali all’Erario. E ancora: cantieri in ritardo, proteste sugli espropri dei terreni, polemiche sul caro pedaggi, aree di servizio chiuse e le tre corsie che finiscono in un «imbuto» in mezzo ai campi. Eccole le incognite che fanno risuonare un Sos per le nuove autostrade lombarde. Un grido d’allarme per tre grandi opere regionali – Pedemontana, Brebemi e Tem – che echeggia proprio alla vigilia della doppia apertura per la «direttissima» Brescia-Milano e per il primo tratto (7 km) della Tangenziale est esterna. Una duplice inaugurazione, quella di domani, con il premier Matteo Renzi che taglierà il nastro.

Dopo 18 anni d’attesa e 5 di lavori, finalmente è arrivato il giorno del semaforo verde per i 62 km della Brebemi. Ribattezzata A35, la nuova autostrada, con i suoi 35 mila veicoli al giorno stimati (all’inizio erano 70 mila), alleggerirà la morsa del traffico sulla A4. Ma le luci che si accenderanno per il gran debutto non scacceranno le ombre che si allungano sulla grande opera. Soprattutto a cominciare dal raddoppio dell’investimento (tutto finanziato da privati), che dagli 866 milioni di euro previsti è salito a 1,6 miliardi, pari a un costo di 25,8 milioni di euro al km. Ecco perché i principali azionisti, Gavio e Intesa San Paolo, hanno chiesto al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) una defiscalizzazione di 497 milioni di euro e un contributo pubblico di 80 milioni di euro.

Schema incompleto ma indicativo (cliccare per zoom)

Guai finanziari che non risparmiano nemmeno la Pedemontana, controllata dalla Serravalle. Al punto che anche la società autostradale ha presentato analoga richiesta al Cipe. Obiettivo? Un super bonus fiscale da 450 milioni. Uno sgravio cruciale considerato che la disponibilità economica si aggira attorno a 1,7 miliardi di euro a fronte di un investimento complessivo di 5 miliardi, per costruire un’autostrada che collegherà Varese con Bergamo lungo un tracciato di 87 km, più 70 di viabilità connessa. Ma, senza soldi in cassa, soltanto il primo lotto della Pedemontana (30 km) sarà ultimato per l’Expo.

Entro maggio 2015, invece, saranno terminati i 32 km della Tem (la futura A58), di cui da domani — dopo due anni di lavori e una spesa di 180 milioni di euro (25,7 milioni al chilometro) — saranno percorribili i 7 km a tre corsie da Pozzuolo Martesana a Liscate. Sulla Tangenziale est esterna, però, continua a pesare il nodo espropri, che tra l’altro rischia di far lievitare i costi. Infatti il pagamento dei cosiddetti «danni zootecnici», causati alle aziende agricole nel mirino degli espropri, potrebbe far innalzare i 246 milioni di euro finora previsti per coprire i costi per l’acquisizione delle aree.

Ieri, intanto, si è concluso con un altro nulla di fatto e l’ennesimo rinvio al 28 luglio, l’incontro fra Tem, Regione e Coldiretti per raggiungere un’intesa sulla questione. E se la società Tem fa sapere che con 728 dei 1.500 proprietari di terreni e immobili lungo il tracciato è già stato siglato un accordo bonario, Ettore Prandini, presidente della Coldiretti Lombardia, osserva che 150 imprenditori della terra stanno aspettando da due anni una risposta e che la grande opera divorerà dieci milioni di metri quadrati di superfici agricole.

Non a caso Legambiente parla di «una ferita per il territorio», riferendosi proprio a Brebemi e Tem. Così come si alzano le proteste degli enti locali per le auto che, provenienti da Brescia e Bergamo, finiranno la loro corsa negli imbuti della «Cassanese» e della «Rivoltana», strade che sono ancora in fase di riqualificazione. E proprio sull’ondata di traffico che invaderà queste due arterie, Franco De Angelis, assessore della Provincia di Milano, ha sollevato timori e preoccupazioni sia sui collaudi, sia sui costi di gestione. Due problemi che saranno affrontati oggi in un incontro con i vertici della società Tem.

Capitolo pedaggi. Gli automobilisti masticano rabbia perché sulla Brebemi si pagheranno 15 centesimi al km, più del doppio, rispetto ai 7 centesimi della A4. Mentre sulla Tem si prevede un pedaggio fra 12 e 15 centesimi al km. Ma sulla Brebemi non mancheranno nemmeno i disagi, perché sino a fine anno le due aree di servizio rimarranno chiuse, dopo che l’appalto per la loro gestione è andato deserto.

postillaA rischio di annoiare, anzi nella quasi certezza di annoiare, ci si sente comunque in dovere di rammentare quanto la questione autostradale – nonostante tutte le divagazioni trasportistiche economiche e giudiziarie a cui ci ha assuefatto la stampa di informazione – sia squisitamente territoriale, ovvero riguardi il modello di assetto metropolitano e regionale. Ed è un vero peccato che questo modello, chiarissimo leggibile e pure facilmente comunicabile ai cittadini, non sia mai e poi mai al centro delle contestazioni politiche e ambientaliste, e men che meno di schemi alternativi. Evidentemente o non c'è alcuna coscienza del fatto che esista, eccome, un “grande disegno” sostanzialmente regressivo e per nulla attento alle questioni ambientali e territoriali (oggi si direbbe della sostenibilità), oppure si preferisce da parte di chi qualcosa sa, tenerselo ben stretto e non farne oggetto di dibattito pubblico. Sembra un'altra epoca, quella in cui si scontravano anche sulle pagine della stampa non specializzata gli schemi “a turbina” dichiaratamente ambientalista e di sinistra, e quello cosiddetto di “sviluppo lineare” democristiano e confindustriale. Quella serie di anelli autostradali, e il sistema insediativo che sottendono e promuovono, altro non sono che i nipotini del modello confindustriale-democristiano anni '50-'60. E chi non ne parla, potrebbe: a) riguardarsi un po' la faccenda, i documenti non mancano; b) dichiarare la propria fede destrorsa, o malafede per interesse che dir si voglia (f.b.)

«Un buon piano, dunque, ma che manca del pilastro fondamentale della nuova legge di governo del territorio, tuttora in gestazione. Piano paesaggistico e legge sono reciprocamente complementari e necessari: senza la legge il Piano è disarmato, se non per la parte vincolistica».

Dopo due anni di gestazione e di lavoro congiunto tra il Centro interateneo di studi territoriali (Università) e il Settore tutela, riqualificazione e valorizzazione del paesaggio (Regione), la Toscana ha adottato il nuovo Pit con valenza di Piano paesaggistico. Anche se la delibera parla di "integrazione"del piano precedente approvato nel 2007, si tratta di un progetto del tutto diverso, sia nella filosofia, sia nell'architettura, sia nei contenuti. Chi fosse interessato può leggerne i documenti nell'apposito sito della Regione; qui è sufficiente sottolineare che nel piano acquista centralità lo Statuto del territorio che detta le regole di tutela e riproduzione delle "invarianti strutturali", declinate come "i caratteri idro-geo-morfologici dei bacini idrografici e dei sistemi morfogenetici"; "i caratteri ecosistemici dei paesaggi"; "il carattere policentrico dei sistemi insediativi, urbani e infrastrutturali"; "i caratteri morfotipologici dei sistemi agro-ambientali dei paesaggi rurali".

Lo Statuto è distinto dalla Strategia del piano (nello strumento precedente le due cose si mescolavano in modo confuso). Poiché stabilisce le regole che assicurano la tutela e la riproduzione del patrimonio territoriale e non obiettivi contingenti, lo Statuto non ha scadenze temporali implicite e assume il valore di una Carta costituzionale cui devono conformarsi gli strumenti urbanistici e i piani di settore. Quattro abachi di "morfotipi"- uno per invariante - definiscono per ciascun morfotipo, valori, criticità, obiettivi di qualità. Completano il Piano, le "schede d'ambito" e una cartografia originale che ha avuto un prestigioso riconoscimento internazionale. Né può essere sottovalutato l'enorme lavoro svolto dai funzionari regionali per la "vestizione" dei vincoli paesaggistici, senza il quale il Mibact non avrebbe dato via libera al Piano.

Un buon piano, dunque, ma che manca del pilastro fondamentale della nuova legge di governo del territorio, tuttora in gestazione. Piano paesaggistico e legge sono reciprocamente complementari e necessari: senza la legge il Piano è disarmato, se non per la parte vincolistica. Ma anche con la legge approvata, il Piano per forza di cose agirebbe soltanto nella sfera regolativa; gli aspetti propositivi richiedono, infatti, una strumentazione che il Piano non dispone. Per fare un esempio, tutti gli obiettivi di qualità che interessano il mondo agricolo sono tradotti in direttive di tipo promozionale. Non dicono alle imprese agricole "devi mantenere" (terrazzamenti, diversificazione colturale, maglia agraria, ecc.), ma propongono in questo senso politiche di incentivazione che, tuttavia sono messe in opera (o potrebbero) solo dal nuovo Programma di sviluppo rurale. Piano Paesaggistico e Programma di sviluppo rurale, due strumenti che dovrebbero giocare in stretto accordo e che finora sono stati autonomi se non addirittura orientati in senso opposto. Lo stesso vale per i cosiddetti "progetti di paesaggio", contemplati dal Codice, ma privi di mezzi finanziari specifici. In una parola, l'assessorato all'Urbanistica, guidato con coraggio e competenza da Anna Marson, appare isolato se non addirittura osteggiato dagli altri centri di potere assessorili.

Vi è, tuttavia, una questione ancora più fondamentale che è stata messa in luce dalla "battaglia sulle Apuane" di cui è stato già scritto su eddyburg e ancor più dalla paradigmatica vicenda dell'aeroporto fiorentino. Su quest'ultimo punto il Piano paesaggistico è completamente afasico, né poteva essere altrimenti dato che la questione, come tutte le grandi opere infrastrutturali (sottoattraversamento di Firenze da parte della Tav, autostrada tirrenica, variante di valico. ecc.), è sottratta alla pianificazione normale, sia dalla Legge Obiettivo, sia da una precisa volontà politica che in proposito assegna al Piano paesaggistico tutt'al più compiti di mitigazione e compensazione. Subito dopo l'adozione del Piano il consiglio regionale ha, infatti, approvato una variante al Pit che prevede una nuova pista aeroportuale parallela all'autostrada, una "lancia" di 2000 metri (che probabilmente diventeranno 2400, più gli spazi di manovra), conficcata nel costituendo Parco della Piana, distruggendo o compromettendo spazi agricoli, zone umide ed ecosistemi. Il Piano paesaggistico - dopo il gioco al ribasso sulle attività di escavazione nelle Apuane - è stato adottato con i voti della maggioranza e l'astensione di Forza Italia e la Variante aeroportuale del Pit approvata con i voti decisivi dell'opposizione. Regione Toscana bifronte: innovativa nel piano paesaggistico, purché non tocchi gli interessi consolidatisi in scelte sbagliate e in buona parte obsolete, ma che implicano tanto flusso di denaro per alimentare banche, imprese e nomenclatura di potere; e poco male se pochissima vera occupazione. Una strategia ancora basata sulle infrastrutture pesanti, ideologizzate come strumenti di modernizzazione e non sulla cura capillare e amorevole del territorio. Regione Toscana che non ha la forza politica di proporsi come modello alternativo di uno sviluppo durevole e sostenibile; che da un lato adotta un Piano paesaggistico coraggioso (ammesso che non sia stravolto dalle osservazioni dei numerosi cecchini interni ed esterni) e allo stesso tempo lo vanifica in alcune essenziali decisioni strategiche. Con il premierato Renzi-Berlusconi e l'aria che tira nel paese c'è da temere che prevarrà la seconda strada.

Riferimenti
Sulla "battaglia per le Alpi Apuane" si veda su eddyburg: Franca Leverotti Le Alpi Apuane: vent'anni di errori e cattiva politica, Contraddizioni toscane. Il Parco Regionale delle Alpi Apuane e il Piano Paesaggistico: un passo avanti verso la civiltà?; Paolo Baldeschi Alpi apuane - nuova maggioranza
nella Regione Toscana; Tomaso Montanari Apuane. Le ruspe cancellano i monti, Marco Rovelli
Apuane, centomila firme per salvare un bene comune. Altro ancora utilizzando il comando cerca

L'Unità, 18 luglio 2014
La sua idea di ridurre il potere delle ex Soprintendenze regionali divenute direzioni generali regionali va certo nella giusta direzione: semplificare la catena di comando e il rapporto centro-soprintendenze. Mi lasciano invece perplesso altre idee, soprattutto una: quella di una più stretta integrazione fra turismo e beni culturali e paesaggistici. Il primo sembra, da quanto si è letto, prevalere sui secondi assoggettandoli a logiche economico-promozionali. Ciò discende dalla convinzione - da lei ribadita nei giorni scorsi - che i nostri grandi musei siano “miniere d’oro” non sfruttate a dovere, cioè potenziali “macchine da soldi”.

Non dalle maggiori esperienze straniere: il Louvre infatti, coi suoi 180.000 mq di superfici espositive e coi suoi quasi 9 milioni di ingressi è passivo al 50% (ci pensa lo Stato) e analoga è la situazione del Metropolitan di New York. I grandi musei inglesi, come lei ben sa, sono gratuiti (tranne le mostre) e contano proprio così di attrarre più turisti. Il che è vero secondo le loro statistiche ufficiali: + 50% di turisti a Londra.

Ecco uno dei punti nodali: i beni culturali e paesaggistici sono, a mio avviso, la “materia prima”, il patrimonio da tutelare, da conservare, in sé e per sé, maggiore o minore che sia, mentre il turismo è un suo “indotto economico” che può ben essere potenziato se ben organizzato. E purtroppo in Italia esso è disorganizzato e più caro (del 10 %, sostiene Coldiretti) delle medie europee. Nonché spesso di qualità scadente.

Nel suo progetto (per quel che se ne sa) si prevede, in una visione che privilegia l’economia, il profitto, rispetto alla tutela complessiva del patrimonio, di separare i grandi musei dal territorio, dalle città, dal contesto storico in cui sono nati - da donazioni multiple di grandi famiglie, da chiusure di chiese e conventi, da collezioni o gallerie patrizie, nei modi più diversi - cioè dalle Soprintendenze. Popolate secondo la vulgata corrente o di studiosi troppo raffinati o di ottusi burocrati. Essi verrebbero affidati in completa autonomia a direttori anche stranieri, comunque non provenienti dai Beni Culturali. Un bello schiaffo alle nuove leve degli storici dell’arte italiani, dopo quello dell’accorpamento (deciso sulla carta) delle Soprintendenze ai Beni Artistici e storici a quella per i Beni architettonici. Con in più qualche pericolo “politico”. Chi nominerà quei venti mega-direttori e con quali criteri, il ministro? Prevarranno criteri “politici” o meritocratici? Essi potranno essere anche stranieri. Lei osserva che se vi sono italiani (per lo più, mi lasci dire, storici dell’arte) chiamati a dirigere musei vecchi e nuovi all’estero, vi potranno ben essere stranieri validi…

Per l’arte contemporanea è molto probabile. Per quella antica e per l’archeologia i dubbi non sono pochi. Nei maggiori teatri lirici nazionali non è che i Sovrintendenti stranieri abbiano dato prova strepitosa di sé. In ogni caso si è già visto con Mario Resca come inserire manager nel corpo di un Ministero “di patrimonio” abbia creato solo una gran confusione, per esempio per il “vitello d’oro” tutto o quasi privato delle società di servizi museali aggiuntivi. Ancora da sbrogliare, se non erro. Queste mega-direzioni esternalizzate sono un primo passo per privatizzare (vecchio progetto-Urbani) i maggiori musei? Retrospettivamente, anche ridurre in passato il MiBAC alla canna del gas aveva probabilmente questo fine ultimo. La polpa ai privati, l’osso allo Stato. E come la mette coi musei civici che spesso, nel Centro-Nord, sono i più grandi e prestigiosi di quelli statali? A Brescia o a Pavia, per esempio, è tutto civico.

Non voglio dilungarmi. Accenno al paesaggio italiano. Un giorno stavo assistendo alla telecronaca del Giro d’Italia e mi stupii nel vedere ripresi dall’elicottero paesaggi intatti, verdi, coltivi ordinati, nessuna periferia cenciosa. Corsi a vedere dove stessero correndo: purtroppo il Giro era sconfinato in Austria… Tutto questo avviene da noi per colpa delle Soprintendenze? Al contrario, per colpa di una sottocultura molto italiana - alla quale il berlusconismo ha dato un propellente formidabile - che intende il paesaggio come qualcosa di privato, in cui “ciascuno è padrone a casa sua”.

Lei ha costituito un precedente pericoloso con la creazione di una commissione per il ricorso contro i pareri emessi dalla Soprintendenze ai beni architettonici. Lei sa meglio di me che gli organici di quelle Soprintendenze sono ancor più carenti degli altri a fronte di una marea di richieste di concessioni edilizie, di autorizzazioni a costruire ovunque, a ristrutturare in fretta e furia. Per cui ogni architetto dovrebbe affrontare in ogni giorno lavorativo almeno 4-5 pratiche edilizie e urbanistiche ognuna delle quali richiede spesso anche una quarantina di giorni di istruttoria.
Come si rimedia? Col potenziamento degli organici, ovvio. No, col richiedere, di fatto, un silenzio/assenso, sapendo che silenzio sarà, vista la incredibile mole di lavoro e la non meno incredibile pochezza di mezzi e di uomini. Le Soprintendenze vengono accusate di essere “organi monocratici”. E’ difficile pensare che non lo sia un organo tecnico-scientifico: non si decide a maggioranza come fare un restauro o, in campo medico, un’operazione a cuore aperto. Prima dello sciagurato Titolo V (la cui effettiva riforma sembra allontanarsi) esisteva un ufficio centrale ben dotato che, per esempio nel 1998, compì oltre 135.000 istruttorie progettuali annullando 3.092 progetti, neanche tanti, però maxi-progetti, “mostri”, in tempi rapidi, mediamente 42 giorni. Ma quell’utilissimo Ufficio centrale era stato dotato di mezzi e di personale tecnico adeguato. Noi ci auguravamo che accadesse per la co-pianificazione Regioni-Ministero prevista dal Codice per il Paesaggio. Dov’è finita invece, Toscana a parte?

In conclusione mi sembra, signor ministro, che mescolare la materia prima “patrimonio” e l’indotto “turismo” anteponendo per giunta il primo al secondo, oltre a smontare, di fatto, una tradizione, centenaria ormai di buona tutela (nonostante gli italiani), rischi di non giovare per primo al turismo che avrebbe bisogno, quello sì, di manager, di specialisti, di promoter e di obiettivi adeguati ai 48.738.575 stranieri che sono arrivati da noi nel 2012. Oggi la politica turistica la fanno i tour operator, come più conviene loro. E sul paesaggio comandano speculatori, abusivi, padroni e padroncini.

Il manifesto, 18 luglio 2014

Il mini­stro Fran­ce­schini è vis­suto a Fer­rara e cono­sce ciò che quella mera­vi­gliosa città ha saputo costruire: un mira­bile equi­li­brio tra la bel­lezza urbana e il pae­sag­gio. Lo affermo per­ché rimasi col­pito di una sua dichia­ra­zione nel novem­bre 2012 in occa­sione della morte del grande Paolo Ravenna. Soste­neva Fran­ce­schini che a lui si doveva molto del rispetto della cul­tura dei luo­ghi, dalle mura al parco agri­colo che le cinge. A leg­gere le parti salienti del pro­getto di riforma del Mibac viene da pen­sare che siano state quelle parole vane, come sem­pre più spesso ci abi­tua una poli­tica che vive di slo­gan. Ma forse, nes­suno poteva aspet­tarsi – e dun­que nep­pure il mini­stro - che il Pre­si­dente del con­si­glio avrebbe ini­ziato a costruire il suo pro­filo isti­tu­zio­nale pro­prio riem­piendo di con­tu­me­lie i «pro­fes­so­roni» e attac­cando buro­crati e Soprin­ten­denze di Stato. Solo dei grigi buro­crati come i soprin­ten­denti, appunto, non capi­scono che il futuro dell’Italia è nella messa a red­dito del nostro petro­lio, e cioè lo straor­di­na­rio patri­mo­nio cul­tu­rale che ci fa un caso unico nella sto­ria della cul­tura mon­diale. Un atteg­gia­mento cul­tu­rale che è l’esatto con­tra­rio dell’impegno di una vita di uomini come Paolo Ravenna o, sem­pre per restare a Fer­rara, di Gior­gio Bas­sani.

Sarà un caso, ma pro­prio due giorni prima la pre­sen­ta­zione del pro­getto di riforma tutto cen­trato sulla valo­riz­za­zione, è stato reso pub­blico uno stu­dio della Società Auto­strade per l’Italia che si occupa niente meno dello svi­luppo turi­stico e cul­tu­rale del parco dell’Appia antica di Roma. Tra le tante perle con­te­nute in quel docu­mento — tutte elen­cate in un ottimo documento-appello dell’associazione Bian­chi Ban­di­nelli- c’è anche scritto che in alcuni luo­ghi si sareb­bero creati dei punti di ven­dita ristoro con pro­dotti tipici in modo da risco­prire l’importanza del gran tour nella Roma del set­te­cento. È scritto pro­prio così e nes­sun soprin­ten­dente di Stato avrebbe mai imma­gi­nato una simile genia­lità. Chissà cosa avrebbe scritto Anto­nio Cederna, una vita spesa per sal­va­guar­dare l’Appia antica. Que­sta fol­lia c’entra molto con il pro­getto di riforma di Fran­ce­schini. Il ruolo dei soprin­ten­denti diviene infatti mar­gi­nale e uno dei pila­stri che regge la riforma sta nel fatto che i più impor­tanti luo­ghi della cul­tura ita­liana potranno dive­nire spe­ciali e per ciò stesso affi­dati a mana­ger esterni all’amministrazione dello Stato. Tutti meno i soprin­ten­denti. Una vera osses­sione.
E veniamo al nodo che riguarda il pae­sag­gio. Il mini­stro sa che nella discus­sione par­la­men­tare è stato inse­rito un comma all’articolo 12 in cui ven­gono isti­tuiti i «comi­tati di garan­zia per la revi­sione dei pareri pae­sag­gi­stici», una mostruo­sità giu­ri­dica –la messa sotto tutela mini­ste­riale del capil­lare lavoro degli organi decen­trati dello Stato- che signi­fica una sola cosa: la fine della tutela pae­sag­gi­stica del ter­ri­to­rio, que­stione con­te­nuta nei prin­cipi fon­da­men­tali della nostra Costi­tu­zione. E anche qui c’è una coin­ci­denza impor­tante. Il 4 luglio scorso la regione Toscana ha adot­tato il Piano pae­sag­gi­stico regio­nale, un ottimo stru­mento di tutela voluto dall’assessore Anna Mar­son e a cui ha par­te­ci­pato attra­verso intesa isti­tu­zio­nale il Mini­stero dei Beni cul­tu­rali. Forse chi ha pre­sen­tato l’emendamento voleva azze­rare per sem­pre l’azione regio­nale di tutela del ter­ri­tori ed è grave che Fran­ce­schini abbia accet­tato l’emendamento e non rista­bi­lito il cor­retto fun­zio­na­mento dello Stato. Molti par­la­men­tari e qual­che mini­stro hanno a cuore le beto­niere che hanno deva­stato l’Italia.
Alcuni anni fa la Soprin­ten­denza del Lazio per tute­lare l’agro romano meri­dio­nale impose un vin­colo gene­rico. Ini­zia­rono lo stesso i lamenti che denun­zia­vano il «blocco» delle costru­zioni. Pos­siamo pro­porci di accom­pa­gnare que­sti par­la­men­tari e il mini­stro verso le cam­pa­gne del Divino Amore a Roma – luogo interno al vin­colo — e con­tare insieme il numero dei grandi quar­tieri che sta sor­gendo in aperta cam­pa­gna in una città che ha due­cen­to­mila abi­ta­zioni vuote Il pro­blema non sono i vin­coli o i soprin­ten­denti: sono il rispetto della sto­ria e della cul­tura che fanno grandi le nazioni e le città. Come la splen­dida Ferrara.
« La "paradisiaca» campagna attorno a Palermo, ricoperta di agrumeti, teatro da decenni di speculazioni edilizie e terra di conquista delle mafie senza alcun contrasto, è ancora priva di tutele. Mentre nuovi interessi preparano un altro assalto cementizio». Il manifeso, 17 luglio 2014

Meno di quarant’anni fa, Fer­nand Brau­del, in un suo sag­gio sulle terre del Medi­ter­ra­neo, riser­vava l’attributo che è pro­prio di un pae­sag­gio per­fetto esclu­si­va­mente alla cam­pa­gna attorno a Palermo: la Conca d’oro, rico­perta di alberi di limone e man­da­rino, era «para­di­siaca». Ma già da vent’anni era arri­vato l’inferno. Tra il 1965 e il 1970 ogni anno ave­vano cam­biato uso oltre 200 ettari – 3000 nei due decenni – e da terre di leg­gen­da­ria fer­ti­lità erano diven­tate una brutta peri­fe­ria di cemento e di asfalto. Fu «il sacco di Palermo». Mafia, poli­tica e affari ave­vano assunto un unico volto: quello di Lima e Cian­ci­mino, con la com­pli­cità della Chiesa e dell’aristocrazia pro­prie­ta­ria, nel silen­zio della bor­ghe­sia e degli intel­let­tuali con la sola ecce­zione del gior­nale L’Ora.
In que­gli anni si rag­giun­ge­ranno, scri­verà la Com­mis­sione Anti­ma­fia, «ver­tici sco­no­sciuti nell’inosservanza delle leggi» e gli orti e i frut­teti che costi­tui­vano il pre­va­lente uso del suolo, espri­mendo al meglio i carat­teri di uti­lità e bel­lezza che sono pro­pri delle pia­nure costiere medi­ter­ra­nee fer­tili e irri­gue, si ritro­va­rono ai mar­gini della piana, faz­zo­letti pro­fu­mati e colo­rati tra i palazzi della spe­cu­la­zione. Solo qual­che ampio agru­meto resi­steva ancora inte­gro: nella bor­gata di Cia­culli la mafia li aveva riser­vati per sé, futuro bot­tino men­tre pro­ce­deva all’assalto del cen­tro sto­rico. Il con­sumo di suolo, negli anni che segui­rono, si atte­nuò appena, scese a 70 ettari tra il 1990 e il 2000 e quindi arrivò a 40. Il sacco di Palermo sem­brava però non avere fine: prima il Quar­tiere Zen, monumento all’autocompiacimento degli studi di archi­tet­tura, poi le 314 vil­lette arram­pi­cate sulla «col­lina della ver­go­gna», quindi l’abusivismo irre­fre­na­bile (60.000 richie­ste di con­dono) e cen­tri com­mer­ciali su oltre cento ettari. L’ultimo di que­sti, aggiun­gendo la beffa al danno, fu bat­tez­zato «Conca d’oro».
Non servì nean­che un buon piano rego­la­tore. Quello di Cer­vel­lati, redatto nel 1994 ma defi­ni­ti­va­mente appro­vato nel 2002, riser­vava grande atten­zione al verde agri­colo: l’agrumeto di Cia­culli – il più vasto e inte­gro della città – ben­ché pri­vato, veniva vin­co­lato come bene di inte­resse pub­blico. In que­gli anni un pro­getto finan­ziato dalla Ue, che mirava alla crea­zione di un parco agri­colo periur­bano, regalò alla città il pre­mio di “città soste­ni­bile”, agli agri­col­tori l’acqua per irri­gare a metà prezzo e con­ti­nuare così a col­ti­vare con pro­fitto gli agru­meti sto­rici, agli abi­tanti e ai turi­sti il pia­cere di pas­seg­giare tra le zagare e i frutti degli agrumi. Durò poco, appena un anno: la poli­tica locale non lo con­si­derò prio­ri­ta­rio e la Regione si limitò, nell’approvazione del Prg, a con­si­de­rare i giar­dini (così i sici­liani chia­mano i loro frut­teti) di Cia­culli nor­male zona di verde agri­colo. Si apriva la strada alle varianti: quella dei cen­tri com­mer­ciali, delle coo­pe­ra­tive edili e dei piani inte­grati men­tre nuove con­ces­sioni occu­pa­vano le aree ancora dispo­ni­bili del piano regolatore.
Nel 2012, repu­tando neces­sa­rio avviare la revi­sione del piano Cer­vel­lati, la giunta della nuova ammi­ni­stra­zione Orlando votò le diret­tive gene­rali per la for­ma­zione del nuovo Prg: abu­si­vi­smo e varianti ave­vano mutato lo stato dei luo­ghi e biso­gnava sod­di­sfare gli stan­dard urba­ni­stici. Come se non bastasse, la pre­ce­dente ammi­ni­stra­zione — di cen­tro­de­stra — si era eser­ci­tata in un imma­gi­ni­fico piano stra­te­gico che, nel nome della «valo­riz­za­zione delle risorse eco­lo­gi­che e ambien­tali», pre­ve­deva cen­tri dire­zio­nali, nuovi mer­cati gene­rali, una tan­gen­ziale che riu­niva le due auto­strade verso Tra­pani o Mes­sina, un “water front” che riqua­li­fi­cava i por­tic­cioli della costa. Il con­sumo di suolo era pronto a ripren­dere nuova lena. Porti turi­stici nelle bor­gate di pesca­tori, nuovo cemento sugli agru­meti e una tan­gen­ziale da incubo: alle pen­dici delle mon­ta­gne che chiu­dono la Conca, 18,5 chi­lo­me­tri con 6 svin­coli, un via­dotto di mille metri e cin­que gal­le­rie per com­ples­sivi 9 km, con grandi rischi di dis­se­sto idro­geo­lo­gico in un ter­ri­to­rio già com­pro­messo e un costo pre­vi­sto di 800 milioni di euro che la stessa Anas, che ha redatto lo stu­dio pre­li­mi­nare, defi­ni­sce ai limiti della soste­ni­bi­lità. Facile imma­gi­nare – è la lezione del sacco – cosa suc­ce­de­rebbe dei resi­dui ettari di verde al di qua della tan­gen­ziale pede­mon­tana.
Le diret­tive del nuovo Prg del 2012 par­lano di assenza di armo­nia tra il vec­chio Prg e il piano stra­te­gico, che più volte viene dichia­rato supe­rato, ma mai for­mal­mente respinto. La sua pre­senza tra gli alle­gati alle diret­tive ali­menta anzi una con­ti­nua pole­mica tra chi non si accon­tenta di gene­rici impe­gni ma vor­rebbe atti chiari: un no deciso alla tan­gen­ziale e uno stral­cio nel vec­chio Prg, annun­ciato ma mai arri­vato, delle zone verdi esi­stenti per evi­tare nuove urba­niz­za­zioni, come quelle in variante del cimi­tero da rea­liz­zare pro­prio a Cia­culli o dei nuovi mer­cati gene­rali nel quar­tiere di Bona­gia su un’area di oltre 20 ettari, che con­fina con il nin­feo barocco della set­te­cen­te­sca Villa Tra­bia di Cam­po­fio­rito. Un clima di sospetto per­mane tra l’amministrazione e la gran parte delle asso­cia­zioni di cit­ta­dini, che invo­cano quel pro­cesso di urba­ni­stica par­te­ci­pata annun­ciato, ma mai decol­lato per reci­pro­che dif­fi­denze.
In attesa che si isti­tui­sca l’ufficio del nuovo piano o, come si è anche ipo­tiz­zato, si pro­ceda ade­guando il vec­chio con defi­niti piani par­ti­co­la­reg­giati, il futuro urba­ni­stico di Palermo rimane incerto, tra noti­zie allar­manti: un nuovo cen­tro com­mer­ciale, un mega acqua­rio, l’idea mai abban­do­nata di un cen­tro dire­zio­nale.
A chi teme un nuovo assalto cemen­ti­zio non può bastare che si scriva che deve con­te­nersi il con­sumo di suolo. Ser­vono poli­ti­che con­crete e non ade­sioni a slo­gan. Potrebbe bastare dare seguito a due deli­bere di giunta. Una riguarda i 235 ettari della Favo­rita, parco ibrido tra aree natu­rali, giar­dini sto­rici e pae­saggi agrari tra­di­zio­nali, per il quale è neces­sa­rio arri­vare a un piano di gestione; e non bastano popu­li­stici pro­clami di chiu­sura al traf­fico di strade oggi irri­nun­cia­bili per col­le­gare la fre­quen­ta­tis­sima bor­gata bal­neare di Mon­dello. L’altra riguarda quel 25% della super­fi­cie com­ples­siva della Conca d’oro ancora non coperto dal cemento e per la cui sal­va­guar­dia si deve pun­tare ad una difesa attiva degli spazi verdi che pro­muova l’attività agri­cola, incen­ti­vando vec­chi e nuovi pro­dut­tori e, con­si­de­rando l’ inte­resse pub­blico, sostenga gli inte­ressi ambien­tali, sociali, cul­tu­rali e non sia affi­data solo alla legge del mer­cato per quanto inte­res­sato a tipi­cità e qua­lità. Se così non fosse, se non si riu­scisse a soste­nere la pre­senza degli agri­col­tori, all’abbandono dei giar­dini, come avviene in misura ogni giorno cre­scente, segui­rebbe l’invasione dei rovi e degli ailanti, la morte degli alberi da frutto, gli incendi, le disca­ri­che, l’abusivismo e poi, chissà, nuovi palazzi.
Non si tratta di affer­mare una visione nostal­gica che guarda a un glo­rioso pas­sato agri­colo ma ope­rare – e, essendo stato asses­sore all’ambiente fino allo scorso aprile, penso che ce ne siano tutte le pre­messe poli­ti­che – per la nascita di un sistema agri­colo locale, urbano e periur­bano, cen­trato sul rac­cordo (a km zero) tra pro­du­zione e con­sumo, sul rico­no­sciuto ruolo poli­fun­zio­nale dell’agricoltura non solo pro­dut­trice di ali­menti, ma anche depo­si­ta­ria di valori e di stili di vita, capace di gestire in modo equi­li­brato le risorse natu­rali e ambien­tali e di tute­lare e sal­va­guar­dare un pae­sag­gio agra­rio tra i più illu­stri.

Per giun­gere a que­sto, gra­zie alla spinta di un comi­tato civico costi­tuito da più di set­tanta enti e asso­cia­zioni, veniva fir­mato un pro­to­collo d’intesa con la Regione che avrebbe dovuto por­tare ad un piano di inve­sti­mento inte­grato per uti­liz­zare le risorse della pro­gram­ma­zione comu­ni­ta­ria 2014–2020. Con la Favo­rita (tra i più grandi par­chi urbani nel mondo, ricco di sto­ria e natura), con la rina­scita dell’agricoltura della Conca d’oro, insieme al recu­pero dei giar­dini di cul­tura isla­mica del Genoard, con i tanti giar­dini sto­rici che per­cor­rono la sto­ria del pae­sag­gio medi­ter­ra­neo, con una diversa atten­zione a un sistema verde mul­ti­fun­zio­nale di ecce­zio­nale valore, vale la pena di ripro­porre la domanda che Guido Pio­vene si pose in un suo viag­gio in Sici­lia del 1957: «Come sarà Palermo tra una cin­quan­tina d’anni? Forse nes­suna città ita­liana costringe a que­sta domanda con tanta nettezza».
Lagatta frettolosa fece i gattini ciechi. Accanto alla prevaricazione di segnopre-democratico dalle riforma del Parlamento e della legge elettorale, anche lafrettolosa approssimazione con la quale si affronta la “riforma” dei poterilocali è un segno del degrado italiano. Un commento da Milano, inviato aeddyburg il 13 luglio


1.La legge n. 56 del 7 aprile 2014, nota come legge Del Rio, ha istituito leCittà Metropolitane di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari,Napoli e Reggio Calabria, più Roma Capitale con disciplina speciale. L’entratain funzione è fissata al primo gennaio 2015 (con una dilazione al 2016 perReggio C.). Condizione perché il sindaco metropolitano possa essere elettodirettamente dai cittadini è che il comune capoluogo venga suddiviso in zone (omunicipi) dotate di autonomia amministrativa. Senza questa suddivisione, la leggeprevede che la carica venga assunta automaticamente dal sindaco del comunecapoluogo con un evidente deficit di democrazia.
Milimito qui al caso milanese, dove il pubblico dibattito latita, mentre affiorano prese di posizione con agli estremidue alternative: da un lato quella di chi vede nell’istituzione della CittàMetropolitana l’occasione per abolire il Comune di Milano (in tal modo, percostoro, si farebbe finalmente giustizia di una politica centralistica edisattenta ai problemi cronici della periferia urbana); dall’altro quella dichi pensa si debba procedere con la massima attenzione e cautela, esaltando le potenzialitàdel decentramento senza abolire un ambito di governo come quello comunalepotenzialmente in grado di esprimere una politica unitaria per la città nel suoinsieme. È questo anche l’orientamento di chi scrive. È mia convinzione infattiche si debba procedere a un’articolazione del governo locale così da risponderenel modo più adeguato ai problemi evitando la trappola di populismi vecchi enuovi.
2. Ogni abitante della Città Metropolitana èinteressato da almeno tre livelli relazionali su cui si definiscono anche le appartenenze/identità:
- il luogo in cui abita (con un orizzonte esteso alquartiere);
- la città (o cittadina, o paese) in cui in diversamisura si riconosce;
- la metropoli in cui esplica comunemente le sueattività nell’arco delle 24 ore.
Ognunadi queste appartenenze/identità chiede di essere rappresentata politicamente,anche perché ad ognuna di esse corrispondono ambiti di polarizzazione deiproblemi che il governo locale è chiamato ad affrontare. Ma, per risponderepositivamente a questa richiesta, va ricercato un equilibrio fra livellidecisionali, cominciando con il mettere ben in chiaro chi decide che cosa (unamateria su cui, a poco più di quattro mesi dell’entrata in funzione del Governometropolitano, grava una fitta nebbia). Equilibrio significa che ogni livello –locale, urbano, metropolitano – deve saper pervenire a una sintesi nell’ambitodi sua competenza, in una dialettica complessa con gli altri livelli.
Èquesta la materia che va ordinata dallo Statuto: un nodo da sciogliere primadel nuovo anno.
Perinciso, alle incognite che si addensano su questo passaggio delicato se neaggiunge un’altra. Il Governo metropolitano dovrà vedersela con la RegioneLombardia. Un rapporto, questo tra città Metropolitana e Regione, per nullaregolato dalla legge Del Rio e su cui, se non si prende una adeguata iniziativapolitica, potrebbe crearsi una situazione incresciosa: quella che potrebbevedere tutte le altre realtà provinciali (con la finta abolizione delleprovince) coalizzate contro la Città Metropolitana Milanese (Barbarossa docet).
Perrestare alla questione degli equilibri interni alla Città Metropolitana, aifautori della cancellazione di Palazzo Marino chiedo: per quale motivo icittadini di Milano dovrebbero rinunciare alla seconda delle treappartenenze/identità sopra indicate? Hanno forse da scontare una doppia colpa:l'egemonia esercitata dal capoluogo sulla metropoli e sulle sue zone deldecentramento? A chi pensa che sia giunto il momento di una resa dei conti,faccio osservare che una simile operazione da piazza pulita sarebbe unarivoluzione condotta a tavolino. Un non senso sul piano storico. Le egemonie sicombattono sul loro terreno, facendone sostanza della politica. Puntare aeliminare i problemi con improvvisate ingegnerie istituzionali portaimmancabilmente al fallimento.
3. Mi preoccupa poi la moltiplicazione dei parlamentini e degliapparati burocratici. E dei costi relativi. Che si arrivi cioè a spendere lerisorse scarse per mantenere in piedi macchine amministrative farraginose esovradimensionate invece che per fare le cose necessarie.
In una situazione come quella italiana dove una della cause deldissesto del bilancio dello Stato, oltre che nelle politiche governative, stain quella parte della Pubblica Amministrazione che va sotto il nome di EntiLocali (a tutti i livelli), una riforma come quella della Città Metropolitana,dovrebbe essere obbligatoriamente accompagnata da una quantificazione dei costieconomici. Senza questo bilancio, ogni proposta è difficilmente giudicabile esarebbe comunque un'operazione mistificatoria. Il decentramento, ilfederalismo, la sussidiarietà in questo nostro malandato Paese presentano unquadro che fa acqua da tutte le parti.
Se non si procede con accortezza e con una logica sperimentale,c'è il rischio di perdere la bussola in nome del localismo. Per bussola intendoun progetto politico e civile volto a combattere e a correggere gli squilibriinterni e a portare qualità urbana,vivibilità e vitalità dove non c'è.
Un simile progetto richiede:
a) una mobilitazione di intelligenze e di risorse apartire da un'analisi condivisa;
b) la messa a punto di un quadro degli interventi daattuare sulla base di una sintesi tra una visione d'assieme e una visionedall'interno dei diversi contesti in cui è articolata la città (una prospettivapraticabile solo se crescita politica e crescita civile procedonoparallelamente);
c) la definizione di priorità in un processo che nonpotrà che essere graduale e di medio periodo.
Tuttecose che, a tutt'oggi, la giunta Pisapia non ha voluto o saputo mettere incampo, giocando invece di rimessa rispetto all'iniziativa privata eall'insorgere di problemi.
4.Senza un progetto come quello sopra richiamato, il decentramento èun'operazione velleitaria e populistica che porterà solo a complicare le cose ea sollevare dalle responsabilità chi assumerà la guida del Governometropolitano. Oggi, come milanese, mi sento coinvolto rispetto a quel chesuccede a Lambrate o a Baggio; quando il Comune di Milano verrà suddiviso in 9parti, ogni Municipio (ex-zona) sarà forse più vicino ai cittadini ma certo piùisolato e impotente.
Pernon dire della debolezza con cui ogni Municipio ex-zona dovrà fare i contiquando avrà come interlocutore la grande società immobiliare o anche Ferroviedello Stato.
Cosìcome stanno le cose, si rischia di decentrare per scaricare i problemi. Sipotrà anche avere una maggiore partecipazione dei cittadini, ma parallelamentesulle grandi questioni aumenterà, c'è da scommettere, il senso di impotenza edi inadeguatezza.
5.Se dici Isola, o Niguarda, ti viene in mente una parte di città che ha trattiidentitari per chi ci abita, come anche per gli altri abitanti della città edella metropoli; se dici Zona 2 il riferimento resta muto. E si potrebbecontinuare. L'identità non è una cosa che si inventa a tavolino.
AMilano sopravvive qualcosa di un policentrismo storico; altre focalità sipotrebbero individuare in un progetto unitario capace di fare sistema. A Barcellonalo si è fatto in modo esemplare (a partire dagli anni settanta!) per l'interacittà su una dimensione ancora più ampia di quella di Milano, che tutto sommatoresta una città piccola ma con una precoce e spiccata propensionemetropolitana. Il progetto che può rendere effettivamente policentrica Milanova coltivato e realizzato in un'ottica metropolitana.
Primadi ogni progetto istituzionale occorre un piano di interventi volto non a unaastratta equipotenzialità del territorio (Giancarlo De Carlo), ma a superare ledisparità in fatto di qualità urbana dei luoghi. Quelli che alcuni chiamano conun certa sufficienza "quartieri" (per Milano l'elenco sarebbe moltolungo, almeno sei volte 9) hanno al loro interno energie per orientare ilprogetto unitario di riqualificazione della città in un'ottica di superamentodegli squilibri (De Carlo, che invece su questo aveva ragione, chiamava questaprospettiva la piramide rovesciata).

Senzaun progetto strategico, spezzare Milano in 9 piccoli comuni è pura macelleriaistituzionale che non porterà a risolvere i problemi: porterà solo a moltiplicarecosti e burocrazia (magari sistemando qualche politico a spasso) e a riprodurrein piccolo, quando non a moltiplicarli, gli squilibri e le disfunzioni chesulla carta si vuole combattere. Non si farà un passo per avvicinare icittadini alle istituzioni: ci sarà un triste spettacolo dove i pochi soldipubblici, invece che essere spesi per migliorare la città, verranno sperperatiper tenere in piedi apparati pletorici.

Corriere della Sera Lombardia, 16 luglio 2014

L’Enac ritira il progetto della terza pista di Malpensa, parte integrante del piano di sviluppo futuro dell’aeroporto. A Sarebbe stato lo stesso il presidente della Sea, Pietro Modiano, a prendere la decisione di chiedere una pausa di riflessione. Il gestore aeroportuale rinuncia così all’ampliamento dello scalo, ma — secondo fonti interne alla società — non per sempre. Si tratterebbe veramente di una pausa, per poi ricominciare il percorso da capo. I dati su cui era stato costruito il masterplan, in sostanza, non sono più attuali, dicono in azienda, e la decisione di abbandonarlo è finalizzata anche a riformulare con più calma nuove proposte di sviluppo futuro.

Ora il «dossier sviluppo» è stato preso in mano da Modiano, e nelle intenzioni dei vertici c’è ben chiara l’idea che in futuro sia indispensabile il consenso del territorio. La terza pista e l’intero masterplan, infatti, sono stati oggetto di una forte contestazione in provincia di Varese in questi anni. Nello specifico, il lavoro fatto finora andrà perso ma è stato ritenuto più utile ricominciare da zero, tenendo conto delle mutate condizioni di traffico aereo e di qualità dei veicoli, piuttosto che procedere con continue integrazioni richieste dal ministero dell’ambiente dopo le osservazioni piovute dagli enti locali del territorio.

Del resto, due anni fa la Sea prevedeva di aumentare i passeggeri del 5 per cento annuo. Negli ultimi sei anni è invece c’è stata la «fuga» di Alitalia, il «Dehubbing» e infine la crisi economica che ancora affligge il traffico aeroportuale. Il masterplan, cioè il documento che contiene le previsioni di crescita dell’aeroporto, racchiudeva una gigantesca operazione di strategia industriale. In una relazione tecnica del 2009 gli investimenti previsti erano stimati in 2 miliardi di euro: la sola terza pista aveva un costo preventivato di 237 milioni di euro. E con 847 milioni di euro si prevedeva di allargare il terminal 1 e di costruire un nuovo terminal in mezzo alle attuali piste.

Oggi alla Sea non si esclude che il piano possa essere riproposto in futuro, dal momento che ogni aeroporto dovrebbe avere un proprio masterplan. In realtà è un documento in continua elaborazione dal 2005, quando uno studio dell’istituto Mitre di Washington, specializzato in trasporto aereo, indicò luogo e modalità per lo sviluppo della terza pista e dei servizi collegati. Lo scorso anno il progetto era giunto alla valutazione di impatto ambientale al Ministero dell’ambiente, dopo un sostanziale via libera della Regione Lombardia. Il ministero aveva richiesto alcune integrazioni, ma era stata la stessa Sea nel 2013 a chiedere una sospensiva, intuendo forse che le possibilità di realizzarlo si stavano assottigliando.

Il motivo sta proprio nel mutamento dei numeri di riferimento: quando tutto è partito si sognava un’espansione di Malpensa fino a 50 milioni di passeggeri l’anno, che oggi sono 18,5 milioni annui. Il risultato è che esce dall’agenda l’idea di realizzare una terza pista e viene accantonata anche l’idea di costruire migliaia di metri cubi di capannoni logistici che il masterplan avrebbe previsto a ridosso di Malpensa. L’impatto ambientale rimane ancora da valutare.
Nel frattempo esulta Legambiente, che si augura di poter parlare di «fine di un incubo», accusando Sea di aver voluto «un progetto faraonico per ampliare un’infrastruttura già nata sovradimensionata e disfunzionale».

«Un'evoluzione della secolare perdita di funzione dell'arte e dell'architettura: dalle opere nate per il museo arriviamo al museo nato senza avere le opere. E la direzione è di arrivare ad avere città senza cittadini (Venezia è a un passo, in tutti i sensi)». Il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2014

Certo, la posa della prima pietra non poteva avvenire in un momento più simbolico. Siamo a Mestre e il cantiere è quello dell'M9, che non è un servizio segreto evoluto, ma un enorme Museo del Novecento (9.200 mq, 100 milioni di euro di costo). La ditta vincitrice dell'appalto –forse nessuno si sorprenderà– è la Maltauro, a tutti gli italiani nota grazie allo scandalo dell'Expo.

Ma cosa sarà, esattamente, l'M9? «M9 risponde il sito del progetto – sarà un polo culturale di nuova concezione, con un museo, spazi espositivi, una mediateca-archivio, aree per le attività didattiche e servizi al pubblico. M9 nasce per far conoscere il passato, comprendere il presente e avere fiducia nel futuro: sarà un luogo in cui rappresentare, studiare e interrogarsi sulla modernità e la contemporaneità. M9 rappresenta un passo importante per l'affermazione dell'identità culturale della terraferma veneziana e allo stesso tempo si propone come un esperimento ambizioso di elaborazione di un nuovo standard museale, applicato a un tema difficile e importante qual è quello del raccontare la storia del Novecento».

La cosa singolare è che non si sa bene cosa sarà esposto in questo museo. Né quale e quanto personale scientifico potrà essere assunto. Insomma, più che di un museo si tratta di un grande contenitore. Si tratta di un'evoluzione della secolare perdita di funzione dell'arte e poi anche dell'architettura: dalle opere nate direttamente per il museo siamo arrivati al museo nato senza avere le opere. E la direzione è quella di arrivare ad avere città senza cittadini (Venezia è a un passo, in tutti i sensi).

È chiaro che il progetto di Mestre vuol essere specie di remake italiano del Guggenheim di Bilbao: una storia di successo che in molti hanno cercato di replicare. Quasi sempre, però, con scarsissimo successo. La fondazione di un museo dovrebbe inserirsi nel progetto che una comunità urbana ha sul proprio futuro: è solo un simile progetto che permette di rileggere il passato. Da noi quasi sempre è il contrario: si fa il mega-museo per coprire il vuoto progettuale e politico. Ma invertendo l'ordine dei fattori il prodotto non resta lo stesso.

Si avvicina l'inaugurazione di un progetto simbolo della scellerata gestione (si fa per dire) della città, svenduta ai più bassi interessi con la scusa di “modernizzarsi”. Due articoli da la Repubblica e Corriere della Sera locali, postilla (f.b.)

la Repubblica
Piazza Sant’Ambrogio riapre dopo otto anni di polemiche e rinvii
di Alessia Gallione e Oriana Liso

Otto anni fa, nell’agosto del 2006, i primi scavi archeologici. Poco meno di quattro anni fa, nel novembre 2010, l’avvio dei lavori di cantiere: per tanti anni piazza Sant’Ambrogio è stata prima parzialmente e poi del tutto chiusa, per realizzare un parcheggio al centro di tante polemiche e tante battaglie. Da questa mattina, però, chi passa davanti alla Basilica vedrà qualcosa di nuovo: gli operai al lavoro per rimuovere le transenne del cantiere. Entro questa sera, infatti, il novanta per cento della piazza verrà riaperto: bisognerà aspettare fine mese — al più tardi la prima settimana di agosto, assicura il Comune — per vedere il lavoro completato. Con la piazza finalmente aperta e rinnovata e con il parcheggio interrato in attività.

La riapertura di oggi permetterà di vedere la piazza attraverso i due “cannocchiali prospettici”, ovvero i due assi che partono dalla Basilica e dall’ingresso dell’università Cattolica: gli spazi saranno ben diversi dal passato, con alberature, viali lastricati di pietra, panchine. Si vedrà, ovviamente, anche l’accesso al parcheggio, che si sviluppa sottoterra per cinque piani, con 223 posti a rotazione e 347 box per i residenti, per un totale di 570 posteggi. Il costo finale, a carico delle imprese che l’hanno realizzato (ovvero il raggruppamento formato da Borio Mangiarotti, Botta e Garage Velasca) è di circa 18,5 milioni. Fa il conto alla rovescia per la riapertura definitiva, fra meno di un mese, l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris: «In questi anni abbiamo lavorato con grande attenzione, anche con la Sovrintendenza, per rispondere alle esigenze di qualità e di bellezza imprescindibili per quella piazza. Speriamo che questa restituzione possa far superare le polemiche e i problemi che hanno accompagnato questa vicenda », spiega De Cesaris, proprio riferendosi all’odissea di uno dei parcheggi più contestati del “piano Albertini”, quel lungo elenco di opere in project financing deliberate dall’allora sindaco e, in larga parte, decadute con le giunte successive.

Parlano i numeri: dei 240 progetti immaginati negli anni Novanta, sono già 98 quelli che, ufficialmente, non saranno realizzati: 14 perché la localizzazione è stata ritenuta non idonea (tra questi, via Zecca Vecchia, via Washington, via Lodovico il Moro) e 84 per inadempienza, rinuncia o revoca del pubblico interesse, e qui ci sono i casi più famosi, come piazzale Lavater, via San Barnaba, piazzale Libia, via Bernini, senza considerare il parcheggio simbolo, quello della Darsena, già cancellato dalla precedente giunta. Su altri 5 parcheggi il giudizio è sospeso: gli uffici stanno completando le istruttorie. Non ci sono solo le cancellazioni, ma anche i 10 parcheggi ultimati — co- me piazza XXV Aprile — , quelli con i cantieri in corso, che dovranno concludersi entro Expo (oltre Sant’Ambrogio: Rio de Janeiro, Maffei e Valsesia Est) e gli 8 per cui i lavori inizieranno dopo l’ottobre 2015.

La strategia dell’amministrazione è chiara: privilegiare le localizzazioni fuori dal centro, con posti a rotazione e per residenti. Nei prossimi mesi apriranno tre nuovi indirizzi, per un totale di 1.347 posti auto (più 97 posti moto) per i quali il Comune pensa a forme di abbonamento in chiave anticrisi: 140 in via Pichi-Magolfa, gli altri nei due parking al Portello, per auto e moto, e alla Comasina, dove il parcheggio di interscambio avrà 306 posti. Non nuovi posteggi ma un aumento degli stalli esistenti, invece, è previsto per Famagosta e San Donato: all’inizio del 2015 Atm, dopo il via libera del Comune, potrà affidare i lavori per altri 870 posti.

Corriere della Sera
«Isola verde in Sant’Ambrogio». La piazza riapre dopo otto anni
di A.D.M.

Non è ancora un’inaugurazione vera e propria. Quella si terrà tra la fine di luglio e i primi di agosto, quando sarà pronto anche l’ingresso del parcheggio interrato. Oggi però qualcosa accadrà in piazza Sant’Ambrogio: dopo otto anni di cantiere il 90 per cento dell’area verrà liberata dalle transenne. Sarà «scoperta» la passeggiata che collega la piazza a via Terraggio: un percorso pedonale delimitato da aiuole e alberi (le panchine non ci sono ancora, verranno posate a breve). Via i ponteggi anche dal lato opposto. I box auto, invece, apriranno a fine mese: 570 posti in cinque piani interrati, 223 a rotazione, 347 per i residenti.

Un traguardo che arriva alla fine di un percorso lungo e accidentato: il progetto dei parcheggi risale al 2000. La Procura l’ha messo sotto inchiesta, poi l’ha assolto. Il cantiere per i box è partito nel 2006 con i saggi archeologici effettuati dalla ditta costruttrice, la Borio Mangiarotti. Nel 2010 sono cominciati gli scavi, con consegna prevista entro la fine del 2012. Nel mezzo ci sono state le proteste dei residenti, gli appelli degli storici, la preoccupazione per i reperti paleocristiani nel sottosuolo e le critiche ai parcheggi. La stessa giunta Pisapia aveva annunciato al momento dell’insediamento che non avrebbe mandato avanti il progetto.

«Abbiamo provato in tutti i modi a evitare l’opera, ma la penale per l’interruzione ci sarebbe costata troppo, oltre i 10 milioni di euro — spiega il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris —. Quindi abbiamo cercato di concludere in fretta l’intervento, lavorando con la Soprintendenza per garantire la massima tutela storico-artistica della piazza, un luogo dal grande valore culturale e religioso. La giornata di oggi è un piccolo passo importante in vista dell’inaugurazione completa di fine mese. Un momento che dovrebbe essere positivo per tutti, visto che la riqualificazione è il frutto di un lavoro corale». Non la pensano così i residenti: «Siamo felici di liberarci dalle transenne, questo sì — dice Roberto Losito —. I lavori ci hanno tenuti in reclusione per oltre otto anni, creando crepe nei nostri pavimenti e rendendoci la vita impossibile per colpa del rumore. Ma la piazza che vediamo oggi sembra un’autostrada: non si sposa certo con la storia del luogo».

postilla
La cosa tragicomica è che l'ex amministratore di condominio facente ahinoi funzioni di sindaco Gabriele Albertini ribadisce che fosse stato per lui di sforacchiamenti così ce ne sarebbero stati decine, centinaia in più, insomma una bella città “mudern” che neppure nelle più feroci inquadrature di Jacques Tati, con ingegneri e politicanti da macchietta lì ad applaudirsi addosso mentre sostituiscono via via piazzole di sosta a case, parchi, monumenti. In questi anni molta parte dell'opposizione ai progetti di autosilo, specie nella zona più centrale, si è focalizzata su aspetti storici, estetici, di vivibilità, e va benissimo. Esiste però anche un'altra prospettiva, spesso un pochino sorvolata, ed è quella della coerenza rispetto a processi evidentemente in corso. La modernità farlocca pervicacemente inseguita o sbandierata dal centrodestra forse si sposa con quella idea di città automobilistica, di New York anni '20 de noantri, che permeava di sé i piani di epoca fascista e in parte anche il periodo dalla ricostruzione al boom. Oggi crolla il ruolo centrale del veicolo privato a motore, si afferma una idea diversissima di mobilità urbana, e dulcis in fundo tra le tante cose del dibattito sull'Expo è ritornata a galla l'idea per nulla peregrina di scoperchiare la Cerchia dei Navigli. Quel gruviera sforacchiato del Sant'Ambrogio Central Box, con tutte le sue centinaia di piazzole pateticamente vintage, sta all'interno della cerchia, raggiungibile teoricamente solo scavalcando un poetico ponticello: che senso ha? Forse quello di accogliere a braccia aperte la sera i rampolli della Brianza suburbana, intossicati insieme dal mito del Suv e della movida? Anche di questo, bisognerà ricordarsi, a lungo (f.b.)

Alessandro Capponi intervista l'assessore Giovanni Caudo sulla spinosa vicenda dello stadio a Tor di Valle. I "paletti" del Comune alla scelta obbligata da una sciagurata legge nazionale. La Repubblica, ed. Roma 13 luglio 2014

«La penso come il presidente dell’associazione dei costruttori: non sono loro i poteri forti». L’assessore all’Urbanistica, Giovanni Caudo, sta parlando di quanto fatto «in un anno per tutti gli operatori del settore, piccoli e grandi, senza guardare in faccia nessuno»: la polemica è ormai quotidiana - con tutto ciò che sta accadendo tra lo stadio della Roma, Parnasi, Caltagirone - e di certo le ultimissime puntate dello scontro racchiudono il curioso record di aver messo d’accordo l’editore del Messaggero e Legambiente, «un miracolo dei tempi moderni» come scritto da Stefano Menichini su Europa, in un editoriale dal titolo perfetto per spiegare ciò che sta accadendo con lo stadio della Roma: «Una partita di potere».

Assessore, buongiorno. Ma quindi farete lo stadio a Tor di Valle così come si legge in questi giorni? Così senza metropolitana e con 220 milioni di compensazioni?
«Due premesse. La prima: qualsiasi proposta è soggetta a modifiche e quindi anche questa. La seconda: io lo chiamerei lo stadio della trasparenza, visto che il dibattito a tratti polemico al quale lei faceva riferimento l’ho voluto io perché tutti i documenti sono nella Casa della Città, un luogo tra Garbatella e Ostiense nel quale tutti i romani possono visionare questo e altri importanti progetti. Tutto aperto ai cittadini, altro segno di discontinuità col passato».

Il progetto, nel merito.
«La proposta ci è stata presentata da un gruppo privato in accordo con la Roma, sulla base di una legge nazionale. Per me si tratta di una proposta semplicistica: oltre i 340 milioni per lo stadio ne metterebbero 50 per le opere infrastrutturali, gli altri 220 andrebbero compensati con edificabilità per uffici...».
Troppi?
«Ragioniamo, il progetto è complesso e vale, euro in più euro in meno, un miliardo. Sia chiaro: io non ho pregiudizi ma l’amministrazione non può ridursi al ruolo di passacarte e nell’operazione dev’esserci spazio per l’utilità pubblica. 220 milioni da compensare sono troppi o pochi? Io in verità, in un momento nel quale a Roma grazie al piano casa molti uffici si stanno trasformando in case, rilancerei: cosa ne sarà di questi uffici una volta completati? Rimarranno vuoti? C’è una capacità di attrarre investimenti e creare nuova occupazione? Sono queste le domande a cui si deve dare una risposta».
Ce ne sarebbe un’altra, prima: la metropolitana...
«La cura del ferro per quella zona non è solamente importante, è fondamentale. Lì ci sono tre stazioni: Tor Di Valle sulla Roma-Lido, Muratella e Magliana sulla tratta del trenino da Fiumicino. In questo senso la loro proposta è carente: propongono di arrivare a Tor Di Valle con la linea B. Evidentemente non basta, perché tutte le tratte, inclusa quella del trenino, devono essere in rete. La nostra condizione è chiara: allo stadio bisogna poter arrivare in metropolitana. Voglio dire che in questa proposta l’interesse della Roma e quello dei privati sono chiari: ma quello pubblico?».
Risponda lei.
«È il sindaco che chiede di realizzare un progetto che metta al centro il riordino dell’area e in cui sia immediatamente percepito l’interesso pubblico che non può esaurirsi nel dare un magnifico stadio alla squadra ma deve incontrare una definizione più chiara dei tanti vantaggi che Roma deve avere. Il nostro interesse è risolvere i problemi che già ci sono in quella zona, le infrastrutture, e mentre il progetto sulla strada va bene - il collegamento tra la Roma-Fiumicino e l’Ostiense-via del mare con lo svincolo che consente di uscire prima e poi entrare in zona Eur - sulla cura del ferro non ci siamo...».

Intanto, con il progetto dello stadio, questa amministrazione ha fatto ritrovare sulle stesse posizioni Legambiente e Francesco Gaetano Caltagirone...
«Anche questo è un esito dell’operazione “Lo stadio della trasparenza”, siamo interessati a raccogliere tutte le opinioni e le osservazioni. Ricordo poi che il 3 agosto dello scorso anno, appena insediati, abbiamo cancellato 23 milioni e 610 mila metri quadrati di aree potenzialmente edificabili ma alla notizia non è stato dato il benché minimo risalto... In più di un anno non abbiamo fatto un atto che cancellasse anche solo un metro quadrato di aree agricole, niente, e invece abbiamo liberato 9.500 ettari di città malamente costruita che saranno rigenerati, e si badi che quello della rigenerazione è l’unico settore dell’investimento edilizio in crescita...».

Poi si lamenta se i costruttori la attaccano...
«Tutti a Roma devono poter lavorare. Ma abbiamo anche fatto in modo che tutti i costruttori dessero seguito agli obblighi firmati sulle convenzioni, in modo da costruire parchi o scuole o strade a seconda dei casi, ed è evidente che il privato ha fin qui sfruttato la disattenzione dell’amministrazione nel passato... Dico di più: una delibera consentiva a Porte di Roma di cambiare cubatura per il 30 per cento del totale, l’abbiamo portata al 18; in questo caso riguardava il costruttore Parnasi, mentre a Grottaperfetta abbiamo difeso le regole anche se scontentavamo i comitati... È necessario far rispettare le regole: per tornare alla richiesta avanzata ai costruttori di dare seguito agli impegni presi, si sappia che abbiamo pezzi di quartieri che non sono nel contratto di servizio Ama, strade mai completate...».


Riferimenti

Sulla legge che "liberalizza" gli stadi 8e i numerosi annessi e connessi) vedi su eddyburg l'articolo di Paolo Baldeschi, La legge sugli stadi in un paese normale

i terreni sono privati. Inviato l'11 luglio 2014.

Un villaggio neolitico. Una fattoria romana. Un quartiere medievale. Il casino di caccia di Federico II. Accanto, una masseria settecentesca e forse più antica. Periferia di Foggia, tra la superstrada per Candela e via di san Lorenzo. Dalla sterpaglia ecco i ruderi della Masseria Pantano, poco lontano il tratturo Foggia-Ordona-Lavello, così trascurato che il cartello che racconta uno dei percorsi della transumanza è stato cancellato dal sole.

E' il minore degli scandali. Lo scandalo vero è l'avanzata a tenaglia dell'edificazione di questa grande fetta di territorio, così importante per la città di Foggia, così abbandonata. Com'è possibile?

Federico II, convogliando le acque di un torrente vicino, aveva costruito qui un invaso – ancora visibile – a servizio del suo casino di caccia insieme al vivarium e ai padiglioni mobili. Qui ospitava amici e legazioni straniere, qui andava a caccia: al posto dei prati c'erano boschi ricchi di acqua e animali, altri ne aveva naturalizzati il re. Studi e scavi sono ancora da completare.

Poco più in là la Masseria reale, o Masseria Pantano, dal nome del luogo, san Lorenzo in Pantano. Un grande edificio rurale a volte, di cui restano vasti ambienti e si intravedono i piani sottostanti. Volte e archi abbracciati da fichi e rampicanti, semi sepolti da enormi cumuli di macerie, quasi fosse una discarica per calcinacci e scarti di mattonelle. Quasi come tutti i costruttori di Foggia si fossero dati di gomito: andate lì, per scaricare materiali inerti non si paga, in discarica sì. A difendere le mura, una rete da polli abbattuta in più parti, forse dai camion dei cantieri. Poco segnalata persino la “fossa granaria”, un pericolo per chi ci cadesse dentro.

Perché? Il luogo non è ignoto. L'università di Foggia lo ha studiato, il Fai ha fatto più di un'iniziativa per riportarlo in uno stato decente, convegni, manifestazioni, istanze al sindaco. Invano. Hanno ottenuto dal Comune un'ordinanza di messa in sicurezza che vale meno della carta su cui è stata scritta, e infatti.

La questione è che quei terreni sono privati – possibile che nessuno, in Soprintendenza o in Comune o in Regione, abbia pensato all'esproprio: è un bene culturale una zona così ricca, o no? – e che probabilmente i proprietari abbiano presentato proposte di edificazione. Già preesistenze neolitiche sono state conglobate negli scantinati di alcuni dei palazzi in costruzioni, le cui gru stringono d'assedio la Masseria Pantano.

Impossibile verificare le voci: sta di fatto che quando si chiede di chi sono quelle aree, molti cambiano discorso e distolgono lo sguardo. Persone potenti, certo. Tanto da cancellare un gran pezzo di storia di Foggia? Pensate: Federico II trasferì a Foggia la capitale del Regno delle Sicilie, prima a Palermo. Innamorato di questa città e conscio della sua posizione strategica, vi costruì un palazzo imperiale di cui poco resta, se non il portale accanto al Museo Civico. Ancor più importante, dunque, la testimonianza di pietra di Masseria Pantano.

Invece no. Invece la valanga di calcinacci fin dentro la Masseria. Invece una rovina forse accelerata dalla mano umana, vandalizzata, così che quel “dente cariato” sia cancellato più presto dall'orizzonte. C'è chi, invitato a un laboratorio urbanistico, assicura che in comune si prevede sia cementificata tutta l'area e che i cittadini sarebbero stati convocati per chieder loro qualche compensazione vogliano, una pista ciclabile o l'area giochi per bambini.

Intanto le gru avanzano, a tenaglia. Da un lato la superstrada, dagli altri i cantieri dei palazzi di speculazione. Non c'è una piazza, non c'è un ritrovo, l'unico luogo “sociale” è il centro commerciale. Negli edifici già costruiti, poche le case occupate davvero, ma si va avanti, le betoniere macinano cemento, i camion marciano, le gru s'affannano. La Masseria Pantano, la sua storia, la sua ricchezza di testimonianze non è che un trascurabile inciampo nella gloriosa edificazione di una brutta periferia in una città che sceglie di essere sempre più brutta. E perde se stessa.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a l'Unità, blog"Città e Città"

La Nuova Sardegna, 5 luglio 2014, con postilla

Il Consiglio comunale di Arzachena ha approvato nei giorni scorsi un piano attuativo, oltre 7mila metricubi nei pressi di Porto Cervo. La cornice è lo strumento urbanistico (PdiF) utilizzato negli anni '40 e '50, con l'approssimazione di quel tempo lì, e di manica larga – per dirla in modo sbrigativo.

L'acronimo PdiF sta per Programma di Fabbricazione, voluto per assicurare un minimo di disciplina edilizia nei più piccoli comuni dalla legge del 1942, scritta quando del paesaggio nella pianificazione se ne parlava nella cerchia ristretta di Croce e Bottai.

Se lo sono tenuto ben stretto, a Arzachena, quella specie di piano, dandogli ogni tanto un' aggiustata con la prudenza dei collezionisti antiquari, e mancando ostinatamente a tutti gli appuntamenti con la storia dell' Autonomia in materia di governo del territorio. Per cui delle disposizioni di legge dagli anni '80 a oggi, non c'è traccia nel PdiF del comune gallurese, del quale è certificata l'intolleranza alle disposizioni della pianificazione paesaggistica, avviata in Sardegna verso una terza fase.

Il PdiF di Arzachena è più figlio della cultura dell'Italia anteguerra che delle riforme prodotte nell'isola al tempo di Mario Melis o di Renato Soru. Così evocano un mondo antico in bianconero quelle planimetrie ingiallite: inchiostro di china, foto Alinari, cinegiornali Luce, ecc., più che il clima multicolore degli anni '70 (me la immagino custodita tra i cimeli la carta originale, quella visionata dal principe Karim quand'era ancora sposato con Begun Salimah).

Insomma una trascuratezza imperdonabile. D'altra parte per il Comune gallurese è passato da un po' il tempo dell'innocenza; e non può pensare che uno dei posti più belli del pianeta – nelle mire dei più attrezzati gruppi imprenditoriali – si possa difendere con il bluff delle armi scariche. Ti aspetteresti squadre di tecnici specialisti, muniti di sofisticati attrezzi, a presidiare la splendida natura residua, e invece scopri la leggerezza di una conduzione familiare.

E tuttavia fa pensare il consenso scarno alla delibera del mese scorso (9 voti a favore, 8 tra astenuti e assenti). Segno di preoccupazione diffusa tra i consiglieri per la debordante liberalità di quell'atto che sfrutta una specie di congiunzione astrale: quel vecchio PdiF accomodante che incontra il recente furbesco piano casa, perfetto lasciapassare per grandi affari (ma presentato come risposta alle necessità di ogni famiglia).

E così un ettaro di terra intercluso (?) a Porto Cervo è trattato come un lotto nella periferia di un centro abitato tutto l'anno. Per quanto in Sardegna un villaggio turistico (dove magari risiede qualcuno pure d'inverno) debba essere oggi compreso per legge e buonsenso tra “gli insediamenti di tipo prevalentemente stagionale”. L'importanza di chiamarsi “C”: un vetusto privilegio utile per sfuggire alle disposizioni del Ppr complice il piano casa salvacondotto. La famigerata legge regionale ispirata da Berlusconi e incorporata al Pps, sta consentendo dappertutto pratiche simili a questa, uno stillicidio di cui ci scandalizzeremo quando vedremo gli effetti.

Il caso di Porto Cervo è un dettaglio – il diavolo è spesso nei dettagli, pare – che spiega il senso delle politiche del precedente governo regionale, ispirate dagli ultras della liberalizzazione edilizia, ovvero di “su connottu” contro ogni moderna idea di tutela del territorio.

Anche per questo, come promesso dal presidente Pigliaru, è necessario liberarsi quanto prima di tutti i lasciti ingombranti e pericolosi di Cappellacci urbanista: in grado di disorientare i comuni impegnati ad aggiornare i propri piani. E quindi le stesse iniziative della Regione a sostegno della pianificazione locale in grave ritardo e di cui ha parlato l' assessore Erriu agli organi d'informazione. Una bella notizia, ed è importante notare che i centri urbani inadempienti sono quelli dove il vento della speculazione immobiliare è stato più forte.

postilla
Quello che molti lettori non sanno è che il "programma di fabbricazione" (PdF) non è un piano urbanistico vero e proprio, ma solo un allegato grafico al Regolamento Edilizio. E magari non sanno neppure che in Sardegna è stato eliminato dal 1989 (come del resto in tutte le regioni italiane). Stupisce però che in Sardegna non si sia provveduto ancora a operare perché i comuni che non abbiano ancora provveduto a sostituirli con veri e propri piani urbanistici comunali (magari adeguati ai piani paesaggistici) non siano stati commissariati.

i criticato da Tomaso Montanari, gli risponde, e Montanari replica. Il Fatto quotidiano, 2 luglio 2014, con postilla

"Non ho mai parlato di petrolio"
di Emilio Casalini

Scrive Tomaso Montanari che ci sono degli ingenui che hanno la pretesa di inserire la parola “bellezza” nell’articolo uno della Costituzione. L'iniziativa della deputata di Sel, Serena Pellegrino, per cambiare l'articolo uno della Costituzione era sconosciuta ai più, me compreso, fintanto che lo stesso Montanari non ne ha parlato su questo giornale. Quanto al mio libro, che Montanari gentilmente cita (Fondata sulla bellezza un ebook Sperling&Kupfer), se lo avesse letto, avrebbe scoperto che l'aborrita parola “petrolio”, in 120 pagine di testo, non c’è. Invece ricorre il termine “risorsa” perché il libro è un viaggio-inchiesta tra i paradossi che bloccano lo sviluppo del Paese.

La bellezza forse non salverà l'Italia, ma una mano potrebbe darla. Il turismo, nel mondo, crescerà del +5% per i prossimi 15 anni, la produzione industriale pesante è in calo costante da 40 anni. Dove sarebbe utile investire? Abbiamo l’Alitalia in crisi che però non ha voli diretti verso la Cina, mentre Lufthansa ne ha 47 settimanali. O la Sicilia che, nel 2012, ha registrato 6 milioni di pernottamenti di turisti, mentre le isole Canarie, stessa lunghezza di coste, ma molto meno da offrire, ne hanno avuti 75 milioni. Abbiamo gravi problemi nell’accoglienza, nella promozione dei nostri tanti musei sempre più vuoti. Ma quando si propone di riportare alla luce le opere nascoste e portarle in giro per il mondo, ecco il purista che grida alla prostituzione dell’arte.

La bellezza è invece un marchio identitario da sfruttare, come propone il creativo Maurizio di Robilant attraverso la fondazione “Italia Patria della Bellezza”. Lo certifica il rapporto “Future Brand Country Index”: il mondo ci riconosce ancora la leadership in turismo, arte, cultura e cibo. Attività caratterizzate da piccole imprese che non inquinano, che tutelano l’ambiente, non delocalizzabili, con capitale diffuso, che stimolano la creatività dei singoli. Oltre l’economia, quindi, c'è una coscienza comune raccolta intorno alla bellezza. La formulazione dell’attuale articolo uno della Costituzione è un compromesso del ‘47, figlio del confronto tra Fanfani e Togliatti, che voleva una “Repubblica di lavoratori” di stampo sovietico.

A nulla valsero le parole del deputato di Ezio Coppa che ricordava come il lavoro fosse un mezzo, non un fine. Tutto questo aveva, forse, un senso in un’Italia in macerie, divisa tra stelle e falci, strisce e martelli. Un incipit costituzionale moderno (bellissimo quello del Sudafrica di Mandela) potrebbe includere i valori universali dell’uomo e impegnare i nostri governanti nel promuovere lo sviluppo delle potenzialità del popolo italiano tra cui la Bellezza. Su cui l’Italia è già fondata.

La replica
di Tomaso Montanari


Per la bellezza vale ciò che si dice del sesso: chi ne parla molto, ne fa poco. E a proposito di elitarismo: non sarà un po’ snob, radical-chic, e appunto elitario permettersi di gettare il tempo in simili pipponi? L’articolo 1 sta bene come sta. Ma se Casalini è convinto del contrario basta dare un colpo di telefono alla fatina Maria Elena Boschi: e con un colpo di bacchetta magica la Costituzione e l’Italia risorgeranno, fondate sulla bellezza. In bocca al lupo.

Postilla

All'Autore del libro citato da Montanari sfugge una importante distinzione lessicale: quella tra risorsa e patrimonio. Considerare le qualità che storia e natura hanno depositato nel territorio come una risorsa anziché come un patrimonio significa considerarli come qualcosa che (come, appunto, il petrolio, o il marmo delle Alpi apuane può essere estratto, trasformato in altro da sè, venduto. Considerarle invece come un patrimonio significa considerarle un bene che deve essere conservato, accresciuti, trasmesso ai posteri.

Il manifesto, 2 luglio 2014

Tra gli anni Set­tanta e Ottanta, Massa Car­rara è stata il tea­tro della lotta con­tro il polo chi­mico e la Far­mo­plant che diventò parte dell’«educazione sen­ti­men­tale» alla poli­tica di una gene­ra­zione apuana, pas­sato il decen­nio furioso dei movi­menti. Oggi, di nuovo, quella terra si fa por­ta­trice di istanze radi­cali in una lotta che non è solo locale, ma deci­sa­mente nazio­nale: quella con­tro l’escavazione di marmo sulle Alpi Apuane. Mon­ta­gne mar­to­riate – come «denti cariati» per citare T. S. Eliot – da una pro­du­zione espo­nen­zial­mente cre­sciuta negli ultimi trent’anni gra­zie alle nuove tec­no­lo­gie, che si man­giano un costone di mon­ta­gna in pochis­simo tempo. Richie­dendo un decimo di mano­do­pera, que­ste tec­no­lo­gie hanno dram­ma­ti­ca­mente decli­nare l’occupazione nel set­tore estrat­tivo. E per cosa, poi? Non per le sta­tue di Miche­lan­gelo, come vor­rebbe la vile reto­rica dei padroni del marmo, ma per la pro­du­zione di car­bo­nato di cal­cio per pro­du­zioni indu­striali: il den­ti­fri­cio, uno per tutti, sim­bolo dello scempio.

L’assessore regio­nale toscano all’urbanistica, pia­ni­fi­ca­zione ter­ri­to­riale e al pae­sag­gio Anna Mar­son ha ten­tato di met­tere mano al far west delle cave con alcune norme con­te­nute nel Piano pae­sag­gi­stico regio­nale con le quali ha posto final­mente la que­stione di una rego­la­men­ta­zione e ha imma­gi­nato un futuro pos­si­bile di ricon­ver­sione pro­dut­tiva. Que­sto piano, gra­zie alle lar­ghe intese di fatto tra Pd e Forza Ita­lia (ma il gover­na­tore Enrico Rossi non aveva detto che il suo era un governo di sini­stra?), verrà appro­vato monco delle sue parti più impor­tanti e innovative.

Se prima il testo imma­gi­nava – sia pure in maniera vaga, ma quan­to­meno indi­cava una dire­zione — una ricon­ver­sione dalle atti­vità estrat­tive ad atti­vità rispet­tose dell’ambiente, adesso que­sta parte è stata cas­sata. Non solo: si con­cede di ria­prire cave chiuse anche da vent’anni, ormai rina­tu­ra­liz­zate, e ver­ranno con­sen­titi amplia­menti del fronte di cava anche senza chie­dere varianti. I padroni hanno vinto. Dicia­molo: que­sta è lotta di classe, sia pure ricon­fi­gu­rata su uno sce­na­rio ine­dito all’epoca dell’Internazionale, quello della sal­va­guar­dia ambien­tale, e sulla con­trap­po­si­zione tra nuovi «padroni» e «comune». E tut­ta­via, pur avendo vinto, a loro non basta ancora. Gli «spi­riti sel­vaggi del capi­ta­li­smo» non accet­tano il ben­chè minimo vin­colo. Le loro richie­ste – estre­mi­sti­che, come la loro cam­pa­gna di stampa – erano di poter aprire cave nuove! Per­ciò hanno deciso di fare guerra alla legge regio­nale, poi­ché essa vieta final­mente di aprire cave in cre­sta, dove sulle Apuane ci sono cre­ste abbas­sate di cin­quanta metri dalle escavazioni.
La legge impone inol­tre una valu­ta­zione di impatto pae­sag­gi­stico che i padroni non vogliono, per­ché si con­si­de­rano parte del pae­sag­gio, si con­si­de­rano «natura». Entro il 2020 si pre­vede il 50% della lavo­ra­zione dell’escavato in loco. Senza le cave, hanno scritto i signori padroni, le Apuane «sareb­bero mon­ta­gne come le altre». Una vera bana­lità, impos­si­bile da met­tere a valore. E allora, signori, can­cel­liamo il Parco, que­sta ultima, infima, inu­tile ipocrisia. L’alternativa è ripri­sti­nare il testo ori­gi­nale, attual­mente in discus­sione in con­si­glio regio­nale, come chie­dono gli ambien­ta­li­sti apuani che ieri sono andati a Firenze e hanno con­se­gnato a Enrico Rossi le cen­to­mila firme di una peti­zione online su Avaaz che chiede la chiu­sura pro­gres­siva delle cave.

Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2014

Stasera alle 21 si svolgerà una – immaginiamo movimentata – assemblea pubblica indetta dai lavoratori dell’Istituzione Bologna Musei. Il tema da discutere è: “Le esternalizzazioni nei musei fra privatizzazione dei servizi pubblici e svalorizzazione del lavoro”. Già, perché il Comune di Bologna ha prima riunito tutti i musei in un’unica istituzione, e ora sta procedendo a passo veloce verso una privatizzazione ancora più spinta di quella che ha già fagocitato gli Uffizi, il Duomo di Siena o il Colosseo.Sono stati messi a bando, per il triennio che va dall’autunno di quest’anno a quello del 2017, non solo i servizi di accoglienza, la biglietteria, la sorveglianza e la custodia, ma anche i servizi educativi e la mediazione culturale.

Chi vincerà la gara? I musei di Bologna finiranno in mano a Civita (presidente Gianni Letta), o a Electa (gruppo Mondadori, cioè Berlusconi)? I lavoratori dei musei denunciano che tutto si sta svolgendo senza trasparenza e senza garanzie per i loro diritti, e che dopo il bando saranno orientate al lucro privato funzioni che vanno “dall’allestimento mostre alla movimentazione e trasporto di opere, dal controllo del patrimonio al controllo di gestione e qualità, dalla gestione delle attività amministrative e organizzative alla gestione e conservazione del patrimoni, dai servizi bibliotecari all’organizzazione e gestione degli eventi, della comunicazione e del marketing e valorizzazione del patrimonio”.

Insomma, è come se una scuola o un’università pubbliche appaltassero le lezioni e la ricerca: tanto varrebbe smettere di mantenerle con le tasse pubbliche. Dalla parte dei lavoratori, e dei cittadini, si è schierata Italia Nostra, chiedendo “un ripensamento radicale del bando emanato dal Comune, e proponendo di aprire una discussione trasparente su quello che è un capitolo decisivo della nostra politica culturale, ovverosia il destino dei nostri musei”.

Già, perché Bologna è l’ennesima stazione della via crucis che sta inchiodando il patrimonio culturale della nazione alla croce del mercato. E non si intravedono resurrezioni.

Dopo Napoli anche Milano interviene a regolare l'uso a fini pubblici di beni privati abbandonati. Salviamoilpaesaggio.it, giugno 2014 (m.p.r)

27 giugno 2014 Immobili abbandonati e funzione sociale: dopo Napoli è l’ora di Milano

Nei mesi scorsi abbiamo ampiamente raccontato il punto di arrivo degli studi di Paolo Maddalena, Vicepresidente Emerito della Corte Costituzionale, riguardante la funzione sociale degli edifici e la corretta applicazione, in particolare, dell’articolo 42 della Costituzione che porta a considerare in maniera innovativa la necessità di imporre che «qualunque bene abbandonato, in virtù della cessazione della sua funzione sociale, debba ritornare nella disponibilità del soggetto che originariamente ne è proprietario e che ne aveva ceduto parte ad un singolo privato: cioè il popolo sovrano». Questi fondamentali studi hanno già trovato un’azione amministrativa, un primo caso, con due delibere della Giunta del Comune di Napoli che potete scaricare qui.

Ecco, ora, un secondo prezioso caso che arriva dall’amministrazione comunale di Milano, che ha provveduto a censire e rendere pubblici (in una mappa pubblicata online sul suo sito internet ) 160 immobili privati abbandonati presenti in tutte le nove zone cittadine. Rappresenta la prima fase conoscitiva del progetto che ha l’obiettivo di rigenerare e ricucire il tessuto urbano esistente.

Se i proprietari non interverranno, soprattutto in seguito alle messe in mora, l’ente locale potrà richiedere «l’attribuzione a tali beni di una destinazione pubblica, di interesse pubblico o generale», come previsto dall’articolo 11 del nuovo regolamento edilizio adottato dal Consiglio Comunale lo scorso 14 aprile.Secondo la classificazione dell’amministrazione comunale, sono ritenuti abbandonati quegli edifici che risultano non manutenuti e utilizzati per più di cinque anni, «ove tale non utilizzo riguardi almeno il 90% delle loro superfici».

L’elenco è il risultato delle rilevazioni effettuate da associazioni ed enti impegnati sul territorio. E’ stato così possibile costruire una prima banca dati in continua evoluzione e aggiornamento anche sulla base di nuove segnalazioni da parte dei Consigli di Zona e dei cittadini e suscettibile, quindi, di ulteriori integrazioni o modifiche.

Il nuovo regolamento edilizio (che attende ora l’approvazione in via definitiva dal Consiglio Comunale), stabilisce che «l’amministrazione comunale, una volta accertato lo stato di abbandono, di degrado urbano, di incuria e di dismissione delle aree e/o degli edifici, diffida i soggetti ad eseguire interventi di ripristino, pulizia e messa in sicurezza delle aree, nonché di recupero degli edifici sotto i profili edilizio, funzionale e ambientale». Entro 60 giorni dalla notificazione della diffida (già ricevuta da molti proprietari) «i proprietari o i titolari di diritti su detti immobili – come si legge nel regolamento edilizio – devono presentare progetto preliminare per l’esecuzione degli interventi edilizi, per la sistemazione e la manutenzione, o per la riconversione funzionale degli stessi in conformità alle previsioni del Piano di Governo del Territorio, allegando una relazione che espliciti le modalità e i tempi per l’esecuzione degli interventi di recupero urbano e di riqualificazione sociale e funzionale».

Decorso il termine e «constatata l’inerzia dei proprietari o dei titolari di diritti su tali beni», il Comune può provvedere in via sostitutiva all’esecuzione di interventi di manutenzione e di pulizia degli immobili, nonchè a mettere in sicurezza le aree.Le relative spese sostenute dovranno essere rimborsate dai proprietari o titolari di diritti su tali beni.

Ovviamente il Comune di Milano (come tutti i Comuni italiani) risulta privo della disponibilità finanziaria per accollarsi tutti gli interventi di recupero non espletati dai proprietari. Sempre secondo l’articolo 11 del regolamento edilizio, «qualora il proprietario non intervenga, rendendo necessario l’intervento sostitutivo, l’amministrazione comunale provvede, altresì, ad attivare uno dei seguenti procedimenti:
a) di attribuzione a tali beni di una destinazione pubblica, di interesse pubblico o generale assumendo gli atti e gli strumenti previsti dalla legislazione nazionale e regionale vigente;
b) di recupero delle aree non residenziali dismesse, ai sensi dell’art. 97 bis della Legge Regionale 11.3.2005 n. 12».

“La pubblicazione di questo censimento, costruito e aggiornato grazie alle associazioni, ai Consigli di Zona, ai cittadini – ha spiegato la vicesindaco Ada Lucia De Cesaris – è un altro tassello nel contrasto all’incuria del patrimonio edilizio esistente, impegno primario di questa Amministrazione. La normativa, ma anche l’Amministrazione comunale, hanno già numerosi strumenti per consentire il superamento del degrado prodotto dagli immobili abbandonati, che hanno pesanti ricadute sul territorio, sui singoli quartieri, sulla vita quotidiana delle persone. Ci auguriamo che questo censimento possa essere di ulteriore stimolo per avviare interventi concreti di messa in sicurezza, riqualificazione o anche riuso temporaneo”.

L’assessore De Cesaris ha anche aggiunto: «Non ci sono espropri “proletari” sugli edifici abbandonati e le azioni saranno conseguenti ad eventuali non risposte della proprietà» e ha sottolineato come «i veri inadempienti siano le grandi proprietà immobiliari, che lasciano proprietà fatiscenti mentre chiedono di poter effettuare nuovi interventi edilizi».

Il nostro Forum sta lavorando tecnicamente su tutti questi aspetti, nel solco degli stimoli suggeriti da Paolo Maddalena, e quanto prima avvierà un proprio progetto per far sì che Napoli e Milano non siano semplici casi isolati ma i primi “gradini” di un percorso capace di eliminare il valore speculativo al possesso di beni immobiliari e restituire un significato al bene comune e alla funzione sociale.

1 giugno, 2014Napoli: due delibere prevedono il riutilizzo a fini sociali di beni abbandonati.
Un primo passo nella direzione dei “beni comuni”?


Negli ultimi mesi, attraverso il nostro sito nazionale e la newsletter settimanale, abbiamo ampiamente divulgato il punto di arrivo degli studi di Paolo Maddalena (Vice presidente emerito della Corte Costituzionale) in merito ad un tema assolutamente nevralgico, legato alla corretta interpretazione dell’articolo 42 della nostra Costituzione, alla sua applicazione, all’appartenenza giuridica e storica del territorio. In particolare, Maddalena sostiene in modo molto argomentato e tecnico che qualunque bene abbandonato, in virtù della cessazione della sua funzione sociale, debba ritornare nella disponibilità del soggetto che originariamente ne è proprietario e che ne aveva ceduto parte ad un singolo privato: questo soggetto altri non è che il popolo sovrano.

Dice Maddalena: «Se il singolo non utilizza un bene, il popolo sovrano se lo riprende. Ad esempio, se un imprenditore delocalizza la fabbrica all’estero per guadagnare di più e poi vuole trasformare l’immobile in un albergo, è fuori dalla Costituzione. Non si inventa niente: anche gli antichi romani, nella loro saggezza, stabilirono che le res nullius non esistevano, perché non potevano immaginare l’esistenza di un bene non appartenente a nessuno. E questo principio era accolto anche nello Statuto Albertino. Se non c’è funzione sociale non c’è tutela giuridica, e non c’è quindi proprietà privata. Inoltre, l’articolo 838 del Codice civile dispone che il terreno abbandonato è trasferito a chi vuole coltivarlo. Ma il Codice è stato scritto prima della Costituzione: tutte le norme antecedenti vanno lette alla luce della Carta».

Ora, a distanza di 66 anni, l’articolo 42 della nostra Costituzione ha un primo caso di applicazione secondo questa visione giuridica: il 24 aprile scorso la giunta del Comune di Napoli ha varato due delibere (che dovranno essere discusse ed approvate dal consiglio comunale) che prevedono il riutilizzo a fini sociali dei beni abbandonati.

Con queste delibere il Comune individua i beni del patrimonio immobiliare «inutilizzati o parzialmente utilizzati», ma «percepiti dalla comunità come “beni comuni“, e suscettibili di fruizione collettiva», attraverso una analitica mappatura che comprenderà anche i 391 beni del Demanio di cui l’amministrazione ha fatto richiesta. Nella categoria «beni comuni» verranno compresi anche i beni «inutilizzati o parzialmente utilizzati» di proprietà di privati. Il Comune inviterà formalmente i proprietari di questi beni privati, entro 150 giorni, «ad adottare provvedimenti necessari al perseguimento della funzione sociale»; in caso di mancato riscontro, l’amministrazione deciderà l’inglobamento al patrimonio comunale.

Per i complessi edilizi rimasti invenduti, il sindaco convocherà i proprietari costruttori per concordare con loro un prezzo di vendita «parametrato alla capacità media dei napoletani». In caso di mancato accordo, anche questi immobili entreranno a far parte del patrimonio comunale. Abbastanza superfluo aggiungere che l’iniziativa della giunta napoletana porta il dibattito dal livello puramente accademico alla prassi quotidiana, ristabilendo il senso del concetto di “bene comune”. Non sono mancate e non mancheranno le polemiche, poichè il tema tocca il “nervo” del rapporto tra proprietà collettiva e proprietà privata indicando un principio già felicemente applicato in Svezia o in Danimarca.

Per approfondire lo studio del prof. Maddalena invitiamo a leggere il suo recente libro “Il territorio bene comune degli italiani“, di cui potete trovare una nostra recensione e i dati necessari qui:
http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2014/04/il-territorio-bene-comune-degli-italiani-un-libro-di-paolo-maddalena/

Potete anche leggere questo contributo maggiormente dedicato al tema dei cosiddetti “diritti edificatori“: http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2014/02/il-consumo-di-suolo-e-la-mistificazione-dello-ius-aedificandi/

Secondo Maddalena «gli sprechi, con la crisi dilagante, sono intollerabili: ci sono immobili abbandonati appartenenti a persone che se ne disinteressano, mentre il popolo napoletano vive nei tuguri. La delibera è nel solco della Carta fondamentale: il diritto alla prima abitazione è garantito dalla Costituzione. Ma ci sono beni che soddisfano utilità personali e familiari, inviolabili, e altri che vanno ben oltre questi bisogni. La piccola proprietà è intoccabile, ma la grande proprietà deve giovare a tutti. Capannoni, fabbriche, immobili abbandonati non adibiti alla loro funzione».

In un’intervista al Corriere del Mezzogiorno, Maddalena ha ricordato che «nella Costituzione ci sono norme secondo cui “la proprietà privata non è garantita come diritto soggettivo assoluto, ma esclusivamente in quanto finalizzata ad assicurare una funzione sociale del bene”, il che consente al Comune di acquisire il bene in quanto “bene comune” della città a cui restituire “una funzione sociale ed economica” da decidere attraverso “modalità partecipate”. I beni eventualmente espropriati potranno essere affidati tramite avviso pubblico». Il sindaco Luigi De Magistris ritiene che potranno esserci contenziosi «ma le delibere le abbiamo scritte bene e c’è un preciso procedimento amministrativo. Non c’è alcun rischio per chi possiede beni, ma solo per chi li ha abbandonati».

A ben vedere, questa interpretazione dell’articolo 42 della Costituzione è l’esatto opposto di quanto il Ministro Lupi ha nei giorni scorsi compreso in una bozza di disegno di legge riguardante i principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana. Questo DdL è chiaramente indirizzato verso gli interessi della proprietà immobiliare, così come chiarito sin dal titolo primo e dall’articolo 1 dove si attribuisce ai proprietari il diritto di iniziativa e di partecipazione – nella pianificazione – per “garantire” il valore della proprietà ed evitare riduzioni al valore immobiliare dei terreni.

Delibera 240414 0258 beni pubblici beni comuni (formato pdf – 1,1 MB) >>
Delibera 240414 0259 beni privati beni comuni (formato pdf – 1,3 MB) >>

Riferimenti

Sull'argomento si veda su eddyburg Quel bene di tutti chiamato paesaggio di Francesco Erbani Il consumo di suolo e la mistificazione del ius aedificandi di Paolo Maddalena
Il territorio, il lavoro, la crisi finanziaria.Contributo alla teoria dei beni comuni di Paolo Maddalena, Perché e come contrastare il consumo di suolo di Edoardo Salzano. Si veda anche la sezione Consumo di suolo, e l'anolaga su "archivio di eddyburg 2003-2013"
Apuane: vi è una riserva di marmo ancora per mille anni di escavazione, sostengono gli industriali. E chi se ne frega se questo comporterebbe la sparizione di uno straordinario monumento >>>

Apuane: vi è una riserva di marmo ancora per mille anni di escavazione,sostengono gli industriali. E chi se ne frega se questo comporterebbe lasparizione di uno straordinario monumento paesaggistico, ambientale egeologico. L'importante - come si è anche accorta la famiglia Bin Laden che oravuole entrare nel business - è di continuare a godere di colossale renditeinquinando sorgenti, fiumi e aria. Intanto, un passo in questo senso è statofatto con l'approvazione nella Commissione ambiente e territorio della RegioneToscana, nonostante l'eroica resistenza dell'assessore Marson, di ulterioriemendamenti peggiorativi del Piano paesaggistico. Di cui, il più negativo è lapossibilità di riaprire le cave dismesse da non più di 20 anni al di sopra dei1200 metri, in aree vincolate. E non è improbabile che in fase di approvazioneda parte del Consiglio regionale, qualche soldatino alle dipendenze diConfindustria proponga ulteriori codicilli per la distruzione della Montagna.

Ma in attesa dell'assalto finale, si possono già fare alcuneconsiderazioni. La prima è che, nonostante che le autorizzazioni di apertura dinuove cave dovrebbero ora essere inquadrate in "piani di bacino"soggetti al parere preventivo della Regione, saranno i Comuni a decidere e adire l'ultima parola; e l'esperienza insegna che in Toscana l'osservanza deipiani sovraordinati è stata finora un'eccezione. Con l'aggravante, che quil'osmosi fra amministratori, imprese e Parco delle Apuane ha creato un bloccodi interessi che nessun meccanismo regolativo di piano può seriamente intaccare.Bisogna, perciò, cambiare politica e l'unica chance in questo senso è dimandare a casa gli attuali amministratori e sostituirli con persone che sipreoccupino più della salute del territorio e dei cittadini che dei profittidelle imprese. Da qui alle prossime elezioni questo è il compito dei comitati.

La seconda considerazione è che il grande sconfitto di questa prova diforza è il Presidente Enrico Rossi, il quale all'inizio e durante il suomandato aveva ribadito che la sua era una maggioranza di sinistra. "Ilnuovo piano garantisce insieme alla tutela ambientale, anche le legittimeistanze di crescita e sviluppo economico"; non è un esponente della giuntaa dichiaralo, ma la portavoce di Forza Italia che così sancisce la nascita di una nuova maggioranza. LaRegione Toscana perciò si omologa alla politica di Matteo Renzi, il premier cheintende sfasciare la Costituzione vigente in combutta con un corruttore digiudici e di minorenni, compratore di senatori, evasore fiscale, ma"votato da milioni di italiani".

Fine del modello toscano? Vi è da dire che questo modello, chesignificava uno sviluppo che non distruggesse paesaggio e ambiente, ma anzi nefacesse preziose materie prime da salvaguardare e riprodurre, è esistito solocome proposta politica e tecnica di minoranze fra cui la Rete dei Comitati perla difesa del territorio. E, tuttavia, il tentativo e in qualche caso la speranzaerano che le istituzioni sapessero raccogliere la sfida, in tale senso erastato possibile registrare qualche cauta apertura del Presidente della Regione.Ora, un Consiglio di nominati dai partiti, ignaro di quanto avviene nel mondo,culturalmente arretrato (e cattiva cultura fa cattiva politica) affonda questasperanza. Ribadisce che lo sviluppo si ottiene distruggendo un patrimonio chenon appartiene ai cavatori, ma al mondo. Scavalca i sindacati, molto più cautie consapevoli che la monocultura marmifera deve essere sostituita daun'economia più equilibrata che valorizzi tutte le risorse del territorio.Puntella le rendite dell'oligopolio dei cavatori senza accorgersi che larendita storica del partito ex Pci, ex Pds, ex Ds, ... "ex" siesaurirà definitivamente quando sulla scena elettorale prenderà posizione unpartito degno di credibilità che faccia propri gli interessi dei cittadini.

Rispunta dopo un periodo di velo pietoso su un'area lasciata all'abbandono, il progettone simbolo del centrodestra urbanistico, che sia l'ennesima volta buona? Dal tono, parrebbe proprio di no, almeno riguardo ai vantaggi per la città. Corriere della Sera Milano, 27 giugno 2014, postilla (f.b.)

Santa Giulia si presenta al mercato. Dopo il lungo stop imposto dalla magistratura e dopo aver affrontato una profonda crisi finanziaria e la successiva ristrutturazione dell’assetto societario, il gruppo Risanamento propone il nuovo masterplan dello sviluppo edilizio e urbanistico di circa 450 mila metri quadrati a sud-est di Milano, oltre Rogoredo.

Il piano presentato ieri all’ultima giornata di Eire-Expo Italia real estate, la fiera del settore immobiliare, è sostanzialmente lo stesso già illustrato (a fine gennaio) al Comune e prevede nuove residenze, un nuovo museo tecnologico dedicato ai bambini (al posto della prima idea di un centro congressi), un’arena per spettacoli ed eventi sportivi e un parco urbano che diventerà il secondo più grande della città con 330 mila metri quadrati di verde. L’idea dei progettisti dello studio Forster+Partners è quella di un quartiere «aperto» e non separato al resto della città, grazie ai collegamenti viari e di trasporto pubblico, da un lato con Rogoredo e dall’altro con la zona di viale Ungheria e via Bonfadini «Il meglio della città, insieme al meglio del verde», è lo slogan suggerito dall’architetto Luis Matania, insieme all’immagine di una zona capace di vivere «24 ore su 24» per effetto delle molte funzioni commerciali e terziarie e del reticolo di strade strette e «promenade » pedonali. Nella parte Sud dell’area, inoltre, è prevista a breve la consegna del raddoppio (altri 20 mila metri quadrati) dell’insediamento di Sky tv.

«Abbiamo pensato a una città che punta sull’integrazione di due dimensioni chiave — spiega Davide Albertini Petroni, direttore generale Risanamento e amministratore delegato di Santa Giulia —: sostenibilità e smartness, traducendo in proposte concrete il concetto di smart city». Ma subito dopo spiega anche che una priorità è «trovare operatori interessati al progetto e preparare un piano da presentare al mondo immobiliare», oltre a «trovare partner che possano investire». A fine marzo, infatti, è scaduta la clausola di esclusiva di Idea Fimit, la società di sviluppo immobiliare che aveva manifestato interesse a una partnership con Risanamento su Santa Giulia. Resta quindi aperto il nodo della ricerca di nuove «forze», dopo le traversie finanziarie e le cessioni di alcuni asset, tra i quali l’area Falck.

Il progetto, inoltre, è in attesa di approvazione da parte del Comune di Milano e «con gli enti competenti quali Arpa e Asl si sta iniziando il processo di confronto per la procedura delle bonifiche, visto che la zona si trova su una ex area industriale della Montedison — spiega ancora il direttore generale — con l’obiettivo di iniziare i lavori nei primi mesi del 2016 e di concluderli in un periodo di almeno 7 anni dall’inizio del lavoro delle gru». Insomma, c’è ancora un po’ di strada da percorrere prima di vedere completato questo nuovo pezzo di città, che ha già conosciuto una gestazione tormentata, con il lungo sequestro giudiziario del parco che adesso è stato riconsegnato alle 1.400 persone che già abitano a Santa Giulia.

postilla

Condividiamo le conclusioni dell'articolo: eh si, c'è ancora un bel po' di strada da fare, soprattutto per capire, o provare a capire, quale sarà lo sbocco a regime, anche nei suoi effetti non solo urbanistici sul contesto circostante, del progettone simbolo degli interessi privati che, da soli, avrebbero dovuto scagliare la metropoli nell'orbita luccicante del postmoderno, dove tutti sono fotomodelle, designers, cantanti e intrattenitori, intenti a relazionarsi in una specie di shopping mall eterno e ubiquo. Ci restano invece ancora quegli eterni disegni, urbanisticamente identici, di un quartiere che fa poco per quanto gli sta attorno, e che segrega anche al proprio interno le zone di serie A da quelle di serie B, col parco a fare da cuscinetto. E restiamo sempre e comunque, a vent'anni e passa dal suicidio (qualcuno se lo ricorda ancora, no?) di Raul Gardini, travolto da quell'idea di passaggio dall'industria alla rendita immobiliar-finanziaria-tangentara, sospesi nel limbo delle decisioni degli speculatori. Consolandoci, si fa per dire, con l'ennesimo rendering dell'archistar, mentre vorremmo camminarci dentro, nella città futura, tanto per gradire (f.b.)
p.s. Digitando nell'Archivio “Santa Giulia” nel motore di ricerca interno, o magari semplicemente sfogliando le pagine della sezione Milano, tanti particolari in più

Dietro l’apparente ingenuità della proposta ci sia la solita retorica del petrolio d’Italia: una retorica che ha in mente una bellezza da sfruttare, se non da prostituire. E non stupisce che sia stato Oscar Farinetti a lanciare l’idea, nel marzo scorso». Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2014


L’Italia è una Repubblica democratica fondata sulla bellezza”. Dopodomaniun certo numero di persone con un’agenda sorprendentemente libera si incontreràa Roma per discutere (sembra seriamente) sull’opportunità di cambiare in questomodo l'articolo 1 della nostra Costituzione. Da settimane un incalzantemailbombing annuncia l’evento, promosso dalla deputata Sel, Serena Pellegrino,e condiviso da molte associazioni, anche serie e rispettabili. Tutti, apartire dalla promotrice, sembrano in ottima fede. E si presume che inbuona fede sia anche il giornalista di Report Emilio Casalini, che è il veroautore dell'idea, contenuta in un suo ebook (Fondata sulla bellezza. Come farrinascere l’Italia a partire dalla sua vera ricchezza) appena uscito daSperling&Kupfer.

Gli stralci di questo testo, tuttavia, confermano comedietro l’apparente ingenuità della proposta ci sia la solita retorica delpetrolio d’Italia: una retorica che ha in mente una bellezza da sfruttare, senon da prostituire. E non stupisce che sia stato Oscar Farinetti a lanciarel’idea, nel marzo scorso. Ma quali che siano i sottintesi, l’idea meritadi essere (velocissimamente) archiviata. Intanto i principi fondamentali dellaCostituzione sono un sistema perfettamente equilibrato, che non c’è alcunmotivo di alterare. E poi questa retorica stucchevole ed estetizzante della“bellezza” (che “salverà il mondo”, secondo una frase di Dostoevskijdecontestualizzata e ripetuta a vanvera) è superficiale, melensa,deresponsabilizzante, sviante. La Repubblica non tutela il patrimonio perchésia “bello”, ma perché ci fa eguali, liberi, umani. Il valore in gioco non è labellezza, ma la cittadinanza. E poi: chi non vede quanto sarebbe devastantesostituire al pane del lavoro la brioche della bellezza? Non ci potrebbe essereun messaggio più autolesionista e privo di mordente e di futuro. Dopo un similecambiamento non ci resterebbe che dire ai nostri ragazzi: “Non hai lavoro? Èl’Italia, bellezza”.

Il Comitato per la Bellezza è stato gentilmente invitato a partecipare ad un confronto che si svolgerà venerdì prossimo alla Camera e che ha per tema l’inserimento all’articolo 1 della Costituzione della Bellezza come uno degli elementi fondanti dell’identità nazionale. Al confronto hanno aderito numerose associazioni, alcune dal passato importante. Non il nostro Comitato per la Bellezza. Noi riteniamo infatti - e l’abbiamo ripetutamente spiegato alla promotrice, on. Serena Pelegrino di SEL - che la Bellezza sia già ampiamente tutelata dalla nostra Costituzione all’articolo 9 laddove si dice che “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Solo che questo articolo rischia di rimanere - grazie anche al Titolo V della Costituzione e all’inerzia di troppe Regioni - inattuato. Per questo riteniamo necessaria un’ampia, documentata, cruda riflessione sulle continue violazioni, sui continui svuotamenti ai quali è sottoposto il fondamentale articolo 9. Altro che fare accademia sulla Bellezza di cui tutti parlano come “un brand” , anzi “il brand” italiano, in termini pericolosamente mercantili, mentre, ogni giorno, i nostri paesaggi, le nostre coste, le nostre montagne, persino i Parchi lasciati a se stessi, subiscono l’aggressione di nuovo cemento e asfalto, i centri storici, svuotati, rischiano di diventare sempre più rumorosi divertimentifici turistici, la tutela dei beni culturali e ambientali ha subito tagli di fondi e di personale qualificato spaventosi, da tramortire, le Soprintendenze vengono intimidite e ulteriormente indebolite da una campagna ormai quotidiana contro di esse, accusate, anche da uomini e forze di governo, di essere un “residuo dell’Ottocento”, di aver “incatenato” il processo di modernizzazione del Paese, di burocratizzare la tutela stessa, di basarsi su di un “pregiudizio estetico” (così Legambiente) per difendere paesaggi straordinari dalle pale eoliche...Non di aver invece fermato nei limiti delle loro esigue forze, mai adeguate, nuovi “mostri” e nuove degradazioni, non di aver realizzato, quando c’erano i fondi, splendidi restauri, di presentare ai turisti una costellazione comunque straordinaria di musei e di aree archeologiche, ecc.

Questi sono i veri problemi oggi. Una seria, civile, diffusa tutela (che è già, in sé, valorizzazione) passa da qui, da questi drammatici nodi che esigono una autentica “ricostruzione” del Ministero stesso, non declamazioni accademiche. Anni fa si voleva “migliorare” l’articolo 9 della Costituzione inserendovi la nozione di “ambiente” (come se il paesaggio non la contenesse già). Vennero presentate modifiche così pasticciate che si concluse di lasciar perdere. La prima parte della nostra Costituzione è quanto mai attuale: non ha bisogno di essere modificata, bensì di venire finalmente, puntualmente attuata.

per il Comitato per la Bellezza: Vittorio Emiliani, Desideria Pasolini dall’Onda, Luigi Manconi, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Gaia Pallottino.
Roma, 24 giugno 2014


Nel 1994 il Presidente del Consiglio dei Ministri impugnava la legge della Regione Toscana “Disciplina degli agri marmiferi di proprietà dei Comuni di Massa e Carrara” per violazione dell’art. 117 della Costituzione (le cave devono essere normate dalla Stato e non dalle Regioni sosteneva), e in particolare perché prevedendo la Regione la temporaneità e l’onerosità delle concessioni, perpetue in base alla legge vigente, incide sui diritti reali immobiliari preesistenti, disciplinati con normativa speciale risalente alla legislazione preunitaria (Editto di Maria Teresa 1751 e Decreto di Francesco V 1846).
La Regione, che aveva legiferato costretta anche dall’“allarmante fenomeno delle rendite parassitarie” e in considerazione dell’enorme importanza economica dello sfruttamento degli agri marmiferi e della loro rilevanza anche dal punto di vista paesaggistico ambientale , aveva dettato criteri, che andavano, a parere del governo Berlusconi, a danno dei concessionari di cava. La Corte Costituzionale (488/ 1995) non solo confermava la validità della legge “rivoluzionaria” regionale, ma riaffermava la valenza dell’art. 32 comma 8 (L. 724/1994) e cioè che a decorrere dal 1 gennaio 1995 i canoni annui sarebbe stati determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato. E precisava: "A questa regola i Comuni di Massa e Carrara devono fin d’ora uniformarsi, indipendentemente dall’entrata in vigore dei regolamenti più volte ricordati".
Che cosa è successo in questo ventennio?

A Carrara il regolamento è stato svuotato dalle amministrazioni succedute alla Fazzi Contigli; a Massa si è scelto di continuare con il decreto del 1846. Il canone rapportato al valore di mercato del marmo estratto, imposto (“devono”) dalla Corte Costituzionale, è stato dimenticato, con il vantaggio dei pochi concessionari di cave, anche percettori di rendite, che a queste rendite improprie e ai guadagni mostruosi non vogliono rinunciare. A Massa, il Comune riscuote 8,30 euro ogni tonnellata di marmo che passa dalla pesa pubblica (e molto non passa dalla pesa), indipendentemente dal valore del marmo (che oscilla da qualche centinaia di euro ad alcune migliaia di euro)

Vent’anni dopo (2014) è ancora la politica, la cattiva politica, anche di sinistra, che scende in appoggio degli industriali e di fronte ad un piano paesaggistico che cerca di tutelare l’ambiente, le acque, i profili dei monti, i circhi glaciali, le grotte carsiche, geotopi e geositi, le aree di Rete Natura 2000 (SIC-ZPS), un patrimonio che non è solo italiano, ma del mondo intero, un piano paesaggistico che suggeriva di portare a progressiva chiusura le cave all’interno di un Parco, modificando e stravolgendo i diritti della cittadinanza.
Due soli esempi: è sopravvissuto un paragrafo nella disciplina del piano paesaggistico in cui si precisa che l’apertura di nuove cave (che cadranno in zona SIC/ZPS), l’ampliamento delle esistenti (che già ora sono entrate in zona SIC/ZPS) e ampliamenti e recuperi ambientali di cave dismesse (molte di queste sono già oggi in aree individuate come SIC e ZPS) non devono interferire in modo significativo con SIC, SIR, ZPS, emergenze geomorfologiche, geositi e sorgenti, linee di crinale, zone umide Ramsar (fatti salvi i diritti acquisiti di chi ha una attività in corso !).

Che cosa vuol dire "in modo significativo?"
Nel fascicolo Emendamenti, ( pag. 7 punto 4) si scrive che si intendono “rinaturalizzate” solo le cave dismesse da almeno 30 anni: la politica dunque stabilisce che la natura si riappropria dello spazio che le è stato tolto…. solo dopo 30 anni.
La sostanza del comma ci dice che, grazie a questa precisazione, si potranno ri-aprire cave chiuse da 30 anni!
Ancora più sorprendente (pag. 8) l’art. 12 relativo alle aree boscate, aree dove sono ammessi interventi di trasformazione a condizione che non comportino alterazione significativa permanente del paesaggio. Il testo originario riportava semplicemente: alterazione significativa. La politica impone che l’alterazione significativa debba essere anche permanente: solo in questo caso non si ri-apriranno cave.
Per volontà politica il grande bacino marmifero di Carrara non è entrato nel Parco delle Alpi Apuane. Leggiamo sui quotidiani di questi giorni che la famiglia Bin Laden sta per comprare il 50% di una società che possiede 1/3 delle cave di Carrara per 45 milioni di euro. Che cosa rende così costoso quel bene? Certamente la materia prima che appartiene, come ha scritto la Corte Costituzionale, alla collettività carrarina. Quanti dei 45 milioni ricadranno nel territorio? Nessuno, ma questa cifra sarà divisa fra TRE famiglie, proprietarie appunto di quel 50%.
Siamo in Europa, ma in questa parte di Europa, nella Toscana da decenni amministrata dalla sinistra, si permette per il guadagno di pochi di tagliare a fette le creste, distruggere l’ambiente, inquinare le acque, e, per gli interessi economici di questi imprenditori, si rischia oggi che la materia paesaggistica dell’intera Regione, ancora una volta, non abbia norme e regole. E’ recente una sentenza del Consiglio di Stato (sez. IV n. 2222, 29 aprile 2014)che definisce il paesaggio un “bene primario e assoluto”, ma gli abitanti della Toscana sono costretti a ricorrere all’Europa perché ciò si realizzi.

legati mani e piedi all'industria del marmo, dall'altra un movimento che guadagna terreno per la forza delle ragioni: in mezzo un'opinione disorientata dalla propaganda di chi oppone economia e lavoro all'ambiente». Il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2014

Verrà un giorno in cui le Alpi Apuane saranno come i dinosauri: sparite. Con la differenza che dovremo spiegare ai nostri figli che siamo stati noi a distruggere un pezzo straordinario del nostro territorio e della nostra vita. Parlare delle Apuane vuol dire descrivere – attraverso un caso estremo, e dunque più comprensibile – la situazione di tutto ciò che la Costituzione chiama «paesaggio e patrimonio storico e artistico della nazione». Le Apuane sono cancellate da una industria che crea sempre meno occupazione; sono cancellate in violazione delle leggi vecchie e nuove (per esempio annullando le linee di cresta anche sopra i 1200 metri di altezza, in barba al Codice del paesaggio); sono cancellate inquinando acqua e aria, e abbassando la qualità della vita degli abitanti (si pensi solo ai 700 camion che attraversano ogni giorno Carrara); sono cancellate da una politica incapace (per ignoranza e corruzione) di comprendere che è possibile un'altra economia; sono cancellate dal silenzio mediatico.

All'inizio del Novecento i cavatori erano 14.000, oggi sono poco più di mille, ma la loro produttività è andata alle stelle. Ogni anno si estrae un milione e mezzo di tonnellate di marmo, distruggendone però quasi dieci milioni. Il professor Elia Pegollo, che viene da una famiglia di cavatori, ha calcolato che col materiale escavato ogni anno si potrebbe lastricare un'autostrada a quattro corsie di 2500 km: da Firenze a Stoccolma, per intenderci. Ma l'80% del volume che ogni anno sottraiamo alla montagna non finisce in opere di architettura o scultura, bensì in filtri per acquedotti, adesivi edilizi, vernici e sbiancanti, industria alimentare, dentifrici. Il che rende grottesco l'uso abusivo della retorica michelangiolesca: come ha scritto lo storico dell'arte Fabrizio Federici, «se davvero, come poetava Buonarroti, le figure portate alla luce dallo scultore fossero già racchiuse entro il blocco di marmo, si assisterebbe a una quotidiana mattanza di Madonne e Bambini, di Veneri, di atleti, ridotti in scaglie e in polvere».

Le quantità necessarie ad una industria del lusso globalizzata e le potentissime e violentissime tecniche moderne rendono impossibile – anzi truffaldino – parlare ancora dell'estrazione del marmo nei termini romantici di un cimento tra l'uomo e la montagna. Ma non solo la propaganda, perfino le regole del gioco sono ancora ferme all'antico regime: nonostante alcuni severi pronunciamenti della Corte Costituzionale, il comune di Massa regola le concessioni usando ancora le leggi precedenti all'unità d'Italia (per l'esattezza una legge estense del 1846). Una situazione normativa intollerabile, quando si apprende che la famiglia saudita Bin Laden (sì, quella) sta trattando l'acquisto del 50% del gruppo Marmi Carrara, il più importante estrattore. Una notizia che ci pone di fronte alla situazione per quello che è: sulle Apuane abbiamo rinunciato alla nostra sovranità sul nostro territorio nazionale, il cui letterale sbriciolamento verrà deciso molto, ma molto lontano dai nostri confini.

E mentre gli interessi speculativi sauditi sono accolti a braccia aperte, il Coordinamento imprese lapidee del Parco delle Apuane ha dichiarato una guerra santa contro il Piano Paesistico Regionale della Toscana, voluto dall'assessore Anna Marson (che è stata oggetto di pesanti attacchi personali). Il perché di una reazione così violenta lo ha chiarito bene l'urbanista Paolo Baldeschi: «Ma qual è il peccato mortale del Piano? La colpa è di cercare di frenare il taglio delle vette al di sopra dei 1200 metri e di limitare l’estrazione all’interno del Parco delle Apuane, facendo salve le concessioni esistenti, ciò che ha provocato la netta contrarietà del Presidente del Parco, (vicepresidente uscente, già segretario del Pd di Fivizzano), evidentemente più sensibile agli interessi dei cavatori che a quelli dell’ente da lui presieduto». D'altro canto, continua Baldeschi, «il Coordinamento dimentica di dar conto delle inadempienze sistematiche delle aziende impegnate nelle attività estrattive: la mancanza di raccolta delle acque a piè di taglio, l’assenza o il mancato utilizzo degli impianti di depurazione spesso esistenti solo sulla carta, i rifiuti abbandonati nelle cave dismesse, la mancata attuazione dei piani di ripristino, una diffusa e impunita inosservanza di regolamenti e prescrizioni. Si dimentica, altresì, dell’inquinamento delle falde, delle sorgenti e dei torrenti, della diffusione di polveri sottili, degli innumerevoli danni ambientale e paesaggistici».

Da una parte gli interessi dell'industria del marmo e una politica locale ad essi legata mani e piedi, dall'altra un movimento di opinione che guadagna terreno grazie alla forza delle proprie ragioni: nel mezzo un'opinione pubblica disorientata dall'eterna propaganda di chi oppone le ragioni dell'economia e del lavoro alle ragioni dell'ambiente. La sfida è quella di far comprendere che questa opposizione è un clamoroso falso, alimentato ad arte da chi ha interesse nella perpetuazione dell'attuale economia di rapina.

Sabato scorso è tornato a riunirsi a Casola, in Lunigiana, il movimento Salviamo le Apuane, e martedì prossimo si occuperà dello stesso tema la Rete dei Comitati, convocata a Firenze. L'obiettivo non è solo quello di fermare la distruzione delle Apuane, ma anche e soprattutto dire che un'altra economia apuana è possibile, e che è tempo di mettere a punto un Piano Alternativo di Sviluppo per le Alpi Apuane. Il messaggio è quello contenuto nella Carta delle Apuane, redatta nel 2010: «Le Apuane sono sottoposte ad un regime monocolturale che mortifica ed impedisce uno sviluppo economico potenzialmente notevole: si afferma dunque che la monocoltura della cava è incompatibile con lo sviluppo economico ed occupazionale del territorio ... Le Apuane possono diventare il cuore di un modello economico diverso, più equo e più fertile, che rifacendosi alle ricchissime quantità di risorse naturali, antropiche, idrogeologiche e paesistiche di questa catena, unica nel Mediterraneo e in Europa, possa estendersi alle colline e alle città costiere, nonché ai parchi limitrofi (Cinque Terre, Appennino, Magra, San Rossore) fino a costituire un formidabile complesso sociale ed economico, oltre la crisi e la bolla finanziaria». Con le Apuane, insomma, si può anche mangiare: se non ci divoriamo le Apuane.

Sardinia post, 22 giugno 2014
Il Piano paesaggistico regionale (o dei sardi che dir si voglia) s’ha da annullare. La posizione è ribadita da sempre a chiare lettere dalle associazioni ambientaliste, ma ora più che mai a circa quattro mesi dalle elezioni regionali. E si punta chiaramente il dito contro l’attuale governatore di centrosinistra, Francesco Pigliaru, che ha ampiamente citato la salvaguardia del paesaggio nella breve – ma vittoriosa – campagna elettorale. Si chiedono interventi urgenti e immediati, perché ripete ancora Stefano Deliperi, storico referente del Gruppo d’intervento giuridico, “non basta l’annullamento in via di autotutela della delibera assunta a febbraio, a due giorni dal voto dalla precedente giunta”. Non basta, almeno, a tutelare coste e paesaggio. Servono azioni nuove, perché, secondo tecnici e specialisti il rischio è che il Pps voluto da Cappellacci sia in vigore e con il Piano anche quelle lottizzazioni definite zombie. Sopite solo perché messe in stand – by dal precedente Piano targato Soru. Sono due, principalmente, le ragioni di scontento degli ambientalisti (dal Grig a Italia Nostra) citate da La Nuova Sardegna in edicola oggi. Una è appunto la questione Pps, l’altra è il commissariamento della Conservatoria delle coste (società in house) decisa qualche giorno fa dalla giunta Pigliaru. Per gli attivisti è un primo passo verso il ridimensionamento, da qui le promesse tradite sull’attenzione ai temi ambientali.

Ma c’è di più. Intervistato sempre dal quotidiano sassarese scende in campo addirittura Gian Valerio Sanna (ex assessore all’Urbanistica Pd, della giunta Soru). Nessuna corsa alle regionali, per lui (era stata negata la deroga a ripresentarsi nelle liste dopo tre mandati, ndr) e un bel po’ di amaro in bocca. E’ lui uno dei padri del primo Ppr. Ebbene, si schiera fianco a fianco agli ambientalisti e rincara la dose senza mezzi termini, parla di “connivenze nel partito”, e ancora dice “sul cemento da riversare sulle coste destra e sinistra oggi mi sembrano uguali”. Critica anche la posizione di Soru: “Mi pare che in questa fase gli interessino di più vantaggiosi compromessi, come continuare ad avere un peso nella politica regionale”. E si spinge fino a indicare chi e cosa nutre il clima attendista. Come la Lega delle cooperative, mentre all’interno del Pd, non si contrasta più l’area Cabras – dice- apparsa più possibilista nei confronti degli interventi costieri. I punti di frizione con Pigliaru sono sempre due: il Pps, per Sanna è in vigore quello di Cappellacci, e il commissariamento della Conservatoria delle coste.

Troppi freni, per lui, troppi silenzi. Così, denuncia, il rischio è che piombino 12/13 milioni di metri cubi. E fa pure degli esempi concreti. Uno su tutti: gli investimenti in Costa Smeralda del Qatar. Secondo la normativa attuale, dice Sanna, sono concessi ampliamenti fino al 30% per le strutture ricettive, più un ulteriore 25% per l’ampliamento delle strutture ricettive collegate e ancora 15% per strutture di carattere tecnico. Insomma, a Pigliaru chiede di riprendere il vecchio Piano e di farlo senza indugi, prima che sia troppo tardi.

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