Il manifesto, 2 luglio 2014
Tra gli anni Settanta e Ottanta, Massa Carrara è stata il teatro della lotta contro il polo chimico e la Farmoplant che diventò parte dell’«educazione sentimentale» alla politica di una generazione apuana, passato il decennio furioso dei movimenti. Oggi, di nuovo, quella terra si fa portatrice di istanze radicali in una lotta che non è solo locale, ma decisamente nazionale: quella contro l’escavazione di marmo sulle Alpi Apuane. Montagne martoriate – come «denti cariati» per citare T. S. Eliot – da una produzione esponenzialmente cresciuta negli ultimi trent’anni grazie alle nuove tecnologie, che si mangiano un costone di montagna in pochissimo tempo. Richiedendo un decimo di manodopera, queste tecnologie hanno drammaticamente declinare l’occupazione nel settore estrattivo. E per cosa, poi? Non per le statue di Michelangelo, come vorrebbe la vile retorica dei padroni del marmo, ma per la produzione di carbonato di calcio per produzioni industriali: il dentifricio, uno per tutti, simbolo dello scempio.
L’assessore regionale toscano all’urbanistica, pianificazione territoriale e al paesaggio Anna Marson ha tentato di mettere mano al far west delle cave con alcune norme contenute nel Piano paesaggistico regionale con le quali ha posto finalmente la questione di una regolamentazione e ha immaginato un futuro possibile di riconversione produttiva. Questo piano, grazie alle larghe intese di fatto tra Pd e Forza Italia (ma il governatore Enrico Rossi non aveva detto che il suo era un governo di sinistra?), verrà approvato monco delle sue parti più importanti e innovative.
Se prima il testo immaginava – sia pure in maniera vaga, ma quantomeno indicava una direzione — una riconversione dalle attività estrattive ad attività rispettose dell’ambiente, adesso questa parte è stata cassata. Non solo: si concede di riaprire cave chiuse anche da vent’anni, ormai rinaturalizzate, e verranno consentiti ampliamenti del fronte di cava anche senza chiedere varianti. I padroni hanno vinto. Diciamolo: questa è lotta di classe, sia pure riconfigurata su uno scenario inedito all’epoca dell’Internazionale, quello della salvaguardia ambientale, e sulla contrapposizione tra nuovi «padroni» e «comune». E tuttavia, pur avendo vinto, a loro non basta ancora. Gli «spiriti selvaggi del capitalismo» non accettano il benchè minimo vincolo. Le loro richieste – estremistiche, come la loro campagna di stampa – erano di poter aprire cave nuove! Perciò hanno deciso di fare guerra alla legge regionale, poiché essa vieta finalmente di aprire cave in cresta, dove sulle Apuane ci sono creste abbassate di cinquanta metri dalle escavazioni.
La legge impone inoltre una valutazione di impatto paesaggistico che i padroni non vogliono, perché si considerano parte del paesaggio, si considerano «natura». Entro il 2020 si prevede il 50% della lavorazione dell’escavato in loco. Senza le cave, hanno scritto i signori padroni, le Apuane «sarebbero montagne come le altre». Una vera banalità, impossibile da mettere a valore. E allora, signori, cancelliamo il Parco, questa ultima, infima, inutile ipocrisia. L’alternativa è ripristinare il testo originale, attualmente in discussione in consiglio regionale, come chiedono gli ambientalisti apuani che ieri sono andati a Firenze e hanno consegnato a Enrico Rossi le centomila firme di una petizione online su Avaaz che chiede la chiusura progressiva delle cave.