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Il comune di Roma vorrebbe far costruire nelle aree dell'ex Fiera di Roma di via Cristoforo Colombo 300 mila metri cubi di cemento. L'area è di appena sette ettari e si raggiungerebbero densità inaccettabili, degne delle peggiori speculazioni degli anni '60, Magliana o viale Marconi. Eppure questa speculazione è stata chiamata «la città dei bambini». Ma i bambini romani sognano i parchi, mica il cemento. Ancora. Tutti i quotidiani hanno riportato ieri che «87.000 ettari, e cioè due terzi del territorio comunale è vincolato per sempre a verde». Un'altra gigantesca bugia. Quando sarà stato attuato tutto il nuovo piano regolatore, la metà dell'immensa estensione del comune di Roma sarà stata divorata dal cemento. La meravigliosa campagna romana sopravvive già oggi solo in pochi lacerti circondati da una volgare periferia.

Se c'è bisogno di propagare bugie, è perché non si vuole ancora prendere atto del fallimento dell'urbanistica romana. Lunedì verrà approvato il nuovo piano regolatore, si fisseranno cioè le regole delle trasformazioni della città che devono valere per tutti. Il giorno dopo, come se nulla fosse, sarà approvato un altro pacchetto di deroghe. Dal 2003 - anno in cui il nuovo piano fu adottato dal consiglio comunale - sono stati approvati almeno trenta grandi progetti in variante.

Una delle nuove deroghe, in particolare, rappresenta il de profundis delle promesse contenute nel nuovo piano regolatore. Nel comprensorio della Bufalotta - a nord di Roma - doveva essere realizzata una delle centralità urbane, la spina dorsale della nuova città. Attività pregiate, uffici e terziario in periferia, così era scritto. Martedì si imporrà al consiglio comunale, nonostante il voto contrario del municipio competente, di cambiare le regole: al posto degli uffici nuove case. E se cadono le centralità cade conseguentemente tutto il piano regolatore. Non resterà altro che periferia che si aggiunge a periferia.

Come nel caso di Tor di Quinto. Lì il nuovo piano regolatore prevedeva attività produttive. Con un accordo di programma si è permesso di costruire uno scandaloso complesso di case a pochi metri dalla via Flaminia. E pensare che a poche centinaia di metri da questa nuova speculazione, nel mese di novembre fu barbaramente assassinata una giovane donna, Giovanna Reggiani, che percorreva una strada senza illuminazione pubblica. Ma invece di migliorare la città esistente si è scelto deliberatamente di continuare un'espansione senza fine. Roma è una città senza regole, dove ha trionfato la proprietà fondiaria e la peggior speculazione immobiliare.

Sempre con il grimaldello dell'accordo di programma, in soli 7 anni sono stati realizzati in periferia 28 grandi centri commerciali e ipermercati. Mettono a disposizione della città oltre centomila posti auto che alimentano ulteriormente un traffico già caotico. Causeranno la chiusura definitiva di centinaia di vecchie botteghe artigianali e di negozi, perché non in grado di sostenere la concorrenza della grande distribuzione internazionale.

E' questa, purtroppo, l'urbanistica romana. Ripeto che, al di là del merito da cui dissento radicalmente, è comunque un bene che il nuovo piano regolatore venga approvato. Ma se non verrà chiusa per sempre la stagione dell'arbitrio sarà stato un atto inutile. E' dunque doveroso che il consiglio comunale, prima del voto sul Prg approvi un solenne documento che dichiari chiusa per sempre la stagione delle deroghe. Solo così avremmo forse ancora una piccola possibilità di recuperare una città che sta subendo il più violento sacco urbanistico della sua storia.

Qui un'ampia documentazione sul nuovo PRG di Roma

Premessa

Il PIT della Regione toscana è stato già analizzato da diversi punti di vista: per i paradigmi utilizzati (in particolare ‘statuto del territorio’, ‘agenda strategica’, ‘invarianti’), per la coerenza interna, per la sua efficacia normativa.

In questa relazione il PIT sarà esaminato da un altro punto di vista, il più elementare e basilare: per la sua efficacia misurata semplicemente nei termini di rispondenza degli obiettivi di piano con i comportamenti reali delle amministrazioni e le conseguenti (o non conseguenti) trasformazioni del territorio. Si potrà dire che il PIT è troppo recente per produrre qualche effetto in proposito, ma, anche a prescindere dalle norme di salvaguardia, le cose non stanno così. Il PIT è essenzialmente un documento politico e in quanto tale immediatamente efficace e, addirittura nelle attese, condizionante i comportamenti delle amministrazioni.

Prima di affrontare l’argomento, è opportuno dare una sintetica idea dell’architettura del piano - modalità che ne condiziona anche aspetti normativi e contenuti operativi. Un organigramma dei diversi documenti di cui è composto il piano è in questa immagine (scaricabile in calce):

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Il problema che nasce da un’organizzazione documentale estremamente complicata è che lo stesso tema è trattato in diverse parti, in modo a volte contraddittorio e spesso con un inquadramento teorico e metodologico diverso. Problema secondario se la disciplina del PIT fosse contenuta tutta nel documento intitolato, appunto, ‘La disciplina del PIT’, ma così non è. Riporto in sintesi le osservazioni in proposito di Luigi Scano, limitatamente alla pianificazione paesaggistica. Questa, anche se ha il suo cuore nello Statuto del PIT (la disciplina del PIT) è tuttavia distribuita anche in altre parti del piano:

- Nell’elaborato intitolato I territori della Toscana che è allegato al quadro conoscitivo del Piano" per quanto riguarda "la ricognizione analitica dell’intero territorio";

- Nell’ Atlante dei paesaggi toscani che è parte degli " allegati documentali per la disciplina paesaggistica", per ciò che riguarda l’analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio attraverso l’individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di vulnerabilità del paesaggio, nonché l’analisi comparata delle previsioni degli atti di programmazione, di pianificazione e di difesa del suolo", e "l’individuazione degli ambiti paesaggistici";

- Nelle schede dei paesaggied individuazione degli obiettivi di qualità, schede riferite agli "ambiti di paesaggio", anch’esse parte degli allegati documentali per la disciplina paesaggistica;

- Nel documento intitolato Le qualità del paesaggio nei PTC, (qualità che risultano dalla disciplina paesaggistica dei piani territoriali di coordinamento delle Province e che è parte degli allegati documentali per la disciplina paesaggistica) per ciò che riguarda "la individuazione" delle aree "vincolate" ope legis ,"la definizione di prescrizioni generali ed operative per la tutela e l’uso del territorio compreso negli ambiti individuati", "la determinazione di misure per la conservazione dei caratteri connotativi delle aree tutelate per legge e dei criteri di gestione e degli interventi di valorizzazione paesaggistica degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico", "l’individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione", ecc.

- Infine, nel quadro conoscitivo per alcuni riferimenti normativi contenuti nella disciplina delle invarianti strutturali facente parte dello Statuto del territorio.

Il PIT come documento politico

Si è detto che il PIT ha un valore prima di tutto politico. Da questo punto di vista acquista notevole importanza Il documento di piano, un elaborato usualmente indicato come ‘Relazione’ e che in altre circostanze potrebbe apparire poco significativo.

Il Documento, oltre ad assolvere il compito di spiegare gli obiettivi, l’architettura del piano e i principali paradigmi impiegati (il significato di statuto, agenda strategica, territorio, paesaggio, ecc.), è una chiara esposizione della politica che la Regione Toscanaintende perseguirein merito allo sviluppo economico e alla gestione del territorio. Scritto in un linguaggio colto (a differenza dei precedenti piani toscani), il Documento è molto esplicito e una sua attenta lettura avrebbe forse consentito di risparmiare molte fatiche che sono state spese da associazioni ambientaliste e istituti universitari per correggere, migliorare o sostituire la parti che apparivano più manchevoli e deboli del PIT.

In realtà, ciò che appare o appariva debole o manchevole è coerente con la filosofia del Documento, mentre ciò che sembra o sembrava apprezzabile sono le scorie di una vecchia cultura urbanistica che ancora galleggiano come relitti nel corso di un nuovo indirizzo di cui riassumiamo i capisaldi, citando testualmente o in sintesi i passi più significativi. I corsivi sono nostri:

Il governo del territorio non presuppone relazioni gerarchiche bensì intense propensioni cooperative tra i titolari di distinte responsabilità amministrative e tra diverse autorità di governo(p. 22)

- I Comuni nella loro individualità sia nelle loro compagini associative - così come gli altri Enti del governo locale del territorio - potranno trovare nella Regione, in questo Pit e nella sua disciplina il sostegno necessario ad esprimere l’autonomia delle proprie opzioni ... (p. 23);

- Ogni Comune come ogni altro governo locale, ... darà, ..., la sua lettura del proprio ruolo nello sviluppo della Toscana quale delineato nel Prs e la Regione mobiliterà ulteriormente le sue capacità di armonizzazione e di regìa strategica. Ma nessun governo locale dovrà mai sentirsi sotto tutela. Bensì, nella sua singolarità istituzionale così come nella pluralità delle sue compagini associative, dovrà trovare nella Regione e nelle sue risorse cognitive e normative uno specifico sostegno alle sue capacità di decisione territoriale, sia essa strategica che regolatoria; p. 86);

- E' un punto su cui la chiarezza dev’essere massima, a costo della ridondanza. Così come la gerarchia anche l’età del principio di conformità - quale chiave delle relazioni intergovernative - è definitivamente sepolta. Non perché tra le opzioni statutarie, le invarianti strutturali e le scelte normative del Pit vi abbia sempre ad essere qualcosa di negoziabile o di mutuamente "aggiustabile" in nome di una qualche pax interistituzionale. Ma perché tutta la strumentazione normativa del piano va considerata come una risorsa per la realizzazione del "patto": una disciplina concepita come volano della sua costruzione operativa e della sua interpretazione applicativa. (p. 86);

- Perciò lo stesso Piano di indirizzo territoriale... è anche - e prima di tutto - la proposta di un patto tra istituzioni: la scommessa di una nuova alleanza tra Regione e amministrazioni locali per dare all’insieme del territorio toscano quell’orizzonte di domande, valori e opportunità nel quale trovare le risorse, la coerenza e la duttilità necessarie al suo governo, plurale ma integrato. (p. 23).

- La governance darà testa e gambe a quel nuovo "patto" che il Pit vuole rappresentare. Infatti, solo se ogni livello di governo fa propria - sul piano politico - e accetta - in termini tecnici (cioè con strumenti adeguati di valutazione) - una semplice ma discriminante domanda: «...qual è il mio contributo al bene della mia Regione visto che da esso dipende gran parte di quello della mia comunità?», allora la governance non regredisce al mero rito negoziale del do ut des ma diventa capacità di situare problemi collettivi e opportunità territoriali nella scala ottimale a che il loro trattamento diventi efficace. O almeno più capace di mitigare le esternalità negative che sempre minacciano anche le migliori intenzioni (p. 28).

- la valutazione integrata è lo strumento indispensabile per dare sostanza alla governance territoriale, trasformando la sussidiarietà e l’autonomia locale, che ne sono il presupposto, in cooperazione attiva invece che in tentazioni di isolamento particolaristico o municipalistico. E facendone la base analitica e di confronto cognitivo perché la stessa governance territoriale si traduca in una mutua reponsabilizzazione tra gli indirizzi e le scelte regionali, da un lato, e le visioni e le opzioni locali, dall’altro. E dia testa e gambe a quel nuovo "patto" che il Pit vuole rappresentare. (p.28).

- Ciò che la legge regionale definisce come lo "statuto" del territorio toscano - interpretando lo spirito e la lettera di una norma di rango statutario su cui poggia la Toscana come comunità politica - viene definito e adottato dal Pit come un’«agenda». Cioè come l’insieme delle scelte di indirizzo e disciplina in merito a ciò che per i Toscani e per tutti coloro che in Toscana vogliono vivere od operare, e - ad un tempo - per i governi locali chiamati a dar loro rappresentanza, regole, opportunità e indirizzi, devono costituire "il" patrimonio territoriale e le condizioni della sua salvaguardia e della sua messa in valore (p.26).

- Lo statuto è dunque la fonte e il parametro etico, prima ancora che prescrittivo, di quel "senso del limite" con cui chi amministra come chi intraprende deve trattare un patrimonio tanto prezioso, quanto delicato. E di cui nessuno può avere moralmente piena ed esclusiva titolarità. Ciò non significa che lo statuto non debba annoverare proprie specifiche prescrizioni: ma vuol dire che non sta solo in esse il suo valore "normativo". Bensì anche e soprattutto negli indirizzi che esso formula e che affida, per la loro efficacia, alla "capacità politica" dell’amministrazione regionale di alimentare e orientare la cooperazione tra i diversi livelli di governo del panorama istituzionale toscano. (p.26).

- Pertanto, la scelta degli elementi che costituiscono lo statuto del territorio non è operazione neutra o meramente tecnica, ma è fortemente condizionata dalla stessa visione al futuro che determina la scelta delle strategie. Per questo, come vedremo, questo Pit preferisce la formula della "agenda statutaria" a quella più consueta e statica di "statuto" Un preferenza connessa a una circolarità normativa e programmatoria che lega in relazione biunivoca contenuti statutari e contenuti strategici (p.26)

- Per questo il Pit adotta sì, come abbiamo rimarcato e come la legge prescrive, uno "statuto" del territorio toscano ma lo formula e lo declina intrinsecamente in un’agenda di metaobiettivi e di obiettivi correlati, finalizzati alla sua stessa applicazione: dunque, al conseguimento consapevole e coerente di risultati specifici per modificare situazioni e fenomeni in itinere giudicate pericolose o rischiose o incompatibili con la valore del patrimonio territoriale e con la qualità del suo sviluppo. (p. 29).

In testa al documento alcune sintetiche considerazioni sullo stato di salute dell’economia toscana, che giustificano la finalità complessiva del PIT e del Piano di Sviluppo Regionale cui questo si collega: la crescita economica, declinata con tutti i necessari corollari di qualità ambientale, di sostenibilità, di competitività, di modernità. Sul piano territoriale questa finalità si traduce nell’idea che risorsa strategica dello sviluppo sia la mobilità di uomini e fattori produttivi, mobilità necessaria a mettere in rete le tante piccole città che costituiscono l’armatura urbana della regione e creare sinergie fra le diverse specializzazioni produttive e di servizio. Anche per colmare ritardi e incertezze (si pensi alla vexata quaestio del ‘corridoio tirrenico), il piano pone come obiettivo primario il miglioramento dell’accessibilità da ottenere con la realizzazione di infrastrutture di trasporto. "Maggiore accessibilità e minori tempi e costi - economici e ambientali - producono infatti un aumento della competitività dei prodotti toscani sui mercati internazionali ed aumentano la probabilità dei fattori produttivi di trovare una adeguata allocazione. Minori tempi e costi di trasporto e conseguenti prezzi più competitivi delle merci esportate comportano, cioè, una maggiore accessibilità ai mercati e l’entrata in altri precedentemente preclusi". (pp. 14-15).

Possiamo quindi riassumere.

1. Obiettivo primario della Toscana, attraverso PSR e PIT, è il recupero di competitività dell’economia regionale nel mercato globale. Competitività che sta alla base di una crescita economica basata su due pilastri. Il primo è il recupero del gap infrastrutturale che affligge la regione e in particolare il miglioramento della mobilità e accessibilità di uomini e merci. Il secondo è l’utilizzazione del territorio come fondamentale fattore produttivo, anche in ragione della sua qualità e delle conseguenti capacità attrattive di capitali esterni, nei limiti della sostenibilità delle risorse impiegabili;

2. Questa missione è affidata ad una cooperazione volontaria dei diversi livelli istituzionali. Regione e Province rinunciano non solo a qualsiasi disposizione gerarchica, ma anche a qualsiasi verifica di conformità dei rispettivi piani. Nessun governo locale dovrà mai sentirsi sotto tutela;

3. Affinché si realizzi questa cooperazione virtuosa e libera, occorre un patto fra diversi livelli istituzionali. Ogni livello di governo deve fare propria - sul piano politico - e accettare - in termini tecnici (cioè con strumenti adeguati di valutazione) - una semplice ma discriminante domanda: «...qual è il mio contributo al bene della mia Regione visto che da esso dipende gran parte di quello della mia comunità?;

4. ‘La governance darà testa e gambe a quel nuovo "patto" che il Pit vuole rappresentare. La governance vede pariteticamente coinvolti gli operatori pubblici e concorrenti gli operatori privati, nell’ambito degli indirizzi statutari.

5. La governance si regge su due strumenti fondamentali. Il primo è l’adesione politica ai contenuti dello statuto del territorio. Il secondo è il controllo delle scelta di piano attraverso lo strumento tecnico della valutazione integrata;

6. Lo statuto del territorio non pone vincoli o prescrizioni se non in casi eccezionali. Esso assume le forme di un’agenda statutaria (in una prima versione ‘agenda strategica’). L’agenda è fatta di indirizzi e direttive ai Comuni, la cui efficacia è affidata alla ‘capacità politica’ dell’amministrazione regionale di alimentare e orientare la cooperazione tra i diversi livelli di governo del panorama istituzionale toscano;

7. Lo statuto è dunque la fonte e il parametro etico di quel "senso del limite" con cui chi amministra come chi intraprende deve trattare il territorio toscano, un patrimonio tanto prezioso, quanto delicato.

8. Nonostante che Il PIT abbia la valenza di piano paesaggistico, il paesaggio nel Documento è trattato sommariamente e quasi incidentalmente. Il concetto di paesaggio viene assorbito in quello di ambiente, e la tutela del paesaggio assimilata alla sostenibilità nell’uso e gestione delle risorse territoriali.

La traduzione del documento politico nella Disciplina del Piano. Un esempio.

Non voglio affrontare il problema in termini generali, in quest’ottica si potrà leggere il documento allegato, ma in maniera più sintetica e forse più efficace, mediante un esempio riferito al patrimonio collinare. Questa scelta dipende da due motivi.

Il primo è che solo rispetto a questa ‘invariante’ si affaccia un barlume di pianificazione paesaggistica. Il secondo è che sul patrimonio collinare si sta sviluppando una governance reale in forma di collusione fra comuni e operatori privati, mirata allo sfruttamento di un patrimonio che non è rimasto intatto - come sostiene il documento – generalmente per la lungimiranza degli amministratori locali, ma semplicemente per assenza di domanda. Fino a tempi recenti, gli speculatori infatti preferivano i territori costieri o limitrofi ai principali centri urbani. Ora la domanda si orienta su un territorio, non solo di grande qualità ambientale e estetica, ma idealizzato e falsificato come ‘tipico paesaggio toscano’.

Anche per l’invariante ‘Patrimonio collinare’ la disciplina statutaria è quasi integralmente espressa come raccomandazioni ed indirizzi ai piani provinciali e comunali. Vale a dire che a livello regionale non vi è alcuna norma immediatamente prescrittiva, se si fa eccezione del comma 8 dell’art 21 che recita: Nelle more degli adempimenti comunali recanti l’adozione di una disciplina diretta ad impedire usi impropri o contrari al valore identitario di cui al comma 2 dell’art. 20, sono da consentire, fatte salve ulteriori limitazioni stabilite dagli strumenti della pianificazione territoriale o dagli atti del governo del territorio, solo interventi di manutenzione, restauro e risanamento conservativo, nonché di ristrutturazione edilizia senza cambiamento di destinazione d’uso, né eccessiva parcellizzazione delle unità immobiliari. Tuttavia il valore prescrittivo della norma (che suona come una disposizione di salvaguardia) è condizionato dall’individuazione, ancorché provvisoria, dell’ambito in cui si applica (cioè dei confini del "patrimonio collinare"), mentre una simile definizione non è prevista nel PIT.

Le direttive e gli indirizzi contenuti nello Statuto sono genericamente rivolti alla tutela di valori paesaggistici (a volte definiti come identitari), ma quasi mai individuano con precisione questi valori. Un’eccezione è costituita dall’art 22 dove sono individuate alcune risorse del patrimonio collinare aventi valore paesaggistico. Tuttavia la norma si limita ad impegnare la Regione, le Province e i Comuni ad una corretta gestione di tali risorse.

La tutela del patrimonio collinare si basa perciò esclusivamente o quasi su valutazioni ex-post dei progetti di trasformazione sulla base di criteri peraltro ambigui e facilmente eludibili, ad esempio:

a) la verifica pregiudiziale della funzionalità strategica degli interventi sotto i profili paesistico, ambientale, culturale, economico e sociale e – preventivamente – mediante l’accertamento della soddisfazione contestuale dei requisiti di cui alla lettere successive del presente comma;

b) la verifica dell’efficacia di lungo periodo degli interventi proposti sia per gli effetti innovativi e conservativi che con essi si intendono produrre e armonizzare e sia per gli effetti che si intendono evitare in conseguenza o in relazione all’attivazione dei medesimi interventi;

c) la verifica concernente la congruità funzionale degli interventi medesimi alle finalità contemplate nella formulazione e nella argomentazione dei "metaobiettivi" di cui ai paragrafi 6.3.1 e 6.3.2 del Documento di Piano del presente Pit.

d) la verifica relativa alla coerenza delle finalità degli argomenti e degli obiettivi di cui si avvale la formulazione propositiva di detti interventi per motivare la loro attivazione, rispetto alle finalità, agli argomenti e agli obiettivi che i sistemi funzionali - come definiti nel paragrafo 7 del Documento di Piano del presente Pit - adottano per motivare le strategie di quest’ultimo."

In sostanza, lo statuto del PIT assegna ai Comuni il compito di verificare la congruità degli interventi che loro stessi propongono rispetto alla loro "funzionalità strategica", agli "effetti innovativi e conservativi", all’"efficacia di lungo periodo" alla "congruità funzionale", e ad altri requisiti ancora più indecifrabili. E’ difficile immaginare che un Comune dichiari una propria previsione – magari lungamente contrattata - come non strategica, non innovativa, non funzionale e non efficace nel lungo periodo e che "le finalità degli argomenti e degli obiettivi di cui si avvale la formulazione propositiva dell’intervento non sia coerente con le finalità degli argomenti e degli obiettivi adottati dai sistemi funzionali del PIT", il tutto dopo una verifica condotta e certificata magari dagli stessi estensori del piano.

Generalizzando l’esempio riemerge l’idea che sta alla base di tutto il PIT. Il PIT non prescrive che le trasformazioni del territorio debbano corrispondere a regole statutarie - le regole con cui questi territori sono stati costruiti nel corso della storia e che definiscono a tutt’oggi la loro sostenibilità e la loro identità. La filosofia del PIT è, invece, che tutto si possa fare sulla base di verifiche rispetto a criteri estremamente vaghi se non fumosi, verifiche svolte a posteriori da parte degli stessi Comuni proponenti.

Anche le cosiddette norme di salvaguardia contenute nell’art. 36 della Disciplina non si discostano da questa filosofia. I piani attuativi ancora non convenzionati sono sottoposti a verifica integrata nel corso di approvazione del Piano Strutturale, o ad una semplice "deliberazione comunale che - per i Comuni che hanno approvato ovvero solo adottato il Piano Strutturale – verifichi e accerti la coerenza delle previsioni in parola ai principi, agli obiettivi e alle prescrizioni del Piano strutturale, vigente o adottato, nonché alle direttive e alle prescrizioni del presente Piano di indirizzo territoriale". Il Comune, è quindi l’unico snodo operativo, sia per quanto riguarda l’attuazione del PIT, sia per quanto riguarda le valutazioni integrate e le verifiche che, secondo il PIT, dovrebbero costituire il lato tecnico e ‘obiettivo’ della governance territoriale.

Considerazioni in parte diverse merita l’ultima invariante dello Statuto, i Beni paesaggistici di interesse unitario regionale. Questo è specificatamente terreno di competenze concorrenti fra Stato e Regione e quindi più direttamente regolato dal Codice dei beni culturali e del paesaggio e meno soggetto all’impronta legislativa della Regione Toscana. Qui in effetti si tratta di attendere per valutare come l’intesa fra il Ministero dei beni e delle attività culturali e la Regione, siglata nel gennaio 2007, sarà tradotta in pratica. I segnali in proposito lasciano perplessi. Le Commissioni regionali del paesaggio sono state nominate con criteri partitocratici e privilegiando i tecnici delle amministrazioni rispetto a membri da scegliere ‘tra soggetti con qualificata, pluriennale e documentata professionalità ed esperienza nella tutela del paesaggio, esperti di tutela del paesaggio di consolidata esperienza’, come prescrive la legge. Tra breve sarà possibile vedere se l’intesa con la successiva integrazione del luglio 2007 sarà rispettata nelle sue scadenze temporali, assai strette, e nelle dichiarazioni di principio sottoscritte.

Una valutazione ‘bottom down’ del PIT

Vediamo ora come il PIT congiuntamente alla legge 1/2005 di ‘Governo del territorio’ sia tradotto in pratica. Abbiamo già accennato che dal momento che la disciplina del PIT si regge su un ipotesi di patto e di ‘una nuova alleanza fra Regione e istituzioni locali’, trattandosi dunque di un quadro di natura politica piuttosto che normativa, esso dovrebbe avere un’immediata efficacia sul comportamento delle amministrazioni e in particolare dei Comuni.

Il punto di osservazione che viene qui proposto può considerarsi privilegiato, perché raccoglie le segnalazioni di circa 170 Comitati attivi nella Regione, oltre a quanto quotidianamente appare sulla stampa e alle denunce provenienti dalle associazioni ambientaliste.

La prima osservazione è che la legge di governo del territorio del 2005 è stata accolta da molti Comuni come una specie di ‘liberi tutti’. Come è noto, la LR 1/2005, non solo esclude ogni parere di conformità del PS rispetto agli strumenti di Regione e Provincia (non mi permetto di dire sovra-ordinati) – concetto ribadito con forza nel Documento - ma affida ad ipotetiche iniziative dell’ente ricorrente (ad es., la Provincia se ritenesse il proprio piano non rispettato) la facoltà di adire la cosiddetta Commissione interistituzionale paritetica (di nomina politica) per una eventuale dichiarazione di non conformità del piano. Dichiarazione che può essere ignorata dal Comune nel qual caso, sempre ipoteticamente, la Regione può sospendere gli atti di piano controversi.

In realtà, quasi tutti i piani provinciali approvati nelle temperie della legge1/2005 hanno capito, l’antifona e sono poco più che l’esposizione retorica dei documenti regionali, secondo una prassi per cuile argomentazioni del PIT e le prescrizioni delle leggi di settore sono ripetute, amplificate e corredate da ulteriori principi, indirizzi e criteri dai piani provinciali rivolti ai Comuni i quali possono scegliere tre strade: a) accoglierli e dare loro concretezza nel piano strutturale; b) non tenerne conto; c) tenerne conto solo formalmente e approvare un piano strutturale sostanzialmente generico che rimanda ogni decisione concreta di trasformazione del territorio a strumenti operativi di esclusiva competenza comunale. Come corollario: formulare un piano operativo (in Toscana il Regolamento Urbanistico) difforme dal piano strutturale (casistica sempre più frequente, senza che né Regione, né Province possano e vogliano intervenire).

Se poi la difformità fra diversi piani fosse troppo palese, come ad esempio la volontà di costruire in un’area protetta, basta una conferenza di servizi per deperimetrare l’area e rendere legale l’abuso. Questo è quanto hanno fatto recentemente Provincia e Comune di Firenze, entrambi condannati dal TAR.

I casi di inosservanza del patto politico, dell’accordo alto auspicato nel Documento, i casi in cui evidentemente i Comuni si dimenticano di porsi la fatidica domanda «...qual è il mio contributo al bene della mia Regione visto che da esso dipende gran parte di quello della mia comunità?» stanno diventando sempre più frequenti. In realtà molti Comuni interpretano il PIT e la legge di governo del territorio esattamente alla rovescia rispetto alle ipotesi del Documento, cioè da un punto di vista burocratico e meramente prescrittivo e, poiché di prescrizioni ve ne sono ben poche, si sentono legalmente autorizzati a disporre a piacimento del proprio (?) territorio, con previsioni ed atti che risultano sempre positivi e sostenibili nelle valutazioni integrate.

Ma se anche le poche prescrizioni contenute nella legge danno fastidio, basta ignorarle nella quasi certezza che né Regione né Provincia interverranno. Il Comune di Serravalle Pistoiese vuole approvare la costruzione di un villaggio turistico sul terreno di proprietà di un grande vivaista, localizzato su un rilievo collinare di alto valore paesaggistico. Nessun problema. Basta non dimensionare l’insediamento nel Piano Strutturale, annunciando genericamente che un eventuale insediamento turistico ricettivo da prevedersi nel Regolamento Urbanistico non ne costituisce variante. La norma è chiaramente illegittima, ma la Regione, nello spirito di cooperazione fra diversi livelli istituzionali non ha niente da eccepire. E, voilà, 25.000 metri cubi dell’ennesimo villaggio in tipico stile rustico toscano (sono severamente proibiti i tegoli alla portoghese) partecipati alla popolazione locale con abbondanza di rendering, depliants e promesse di sviluppo.

La vicenda in corso di Castelfalfi – che qualcuno può avere seguito su Eddyburg - è ancora più significativa perché qui non si tratta di un intervento illegale, ma contrario allo spirito della legge e del piano. I villaggi turistici della TUI sono esattamente l’opposto di quella crescita basata su innovazione, competitività, servizi alle imprese, ecc., conclamata nel PIT. L’insediamento proposto a Castelfalfi è una gigantesca operazione in cui si produrrà reddito e rendita per la TUI e, essendo la sua gestione un sistema chiuso, ben pochi benefici per l’economia locale. Sarà disastrosa per un uso insostenibile delle risorse idriche (già attualmente scarse) occorrenti per la manutenzione di un campo da golf di 160 ettari. Ma tant’è. La Regione Toscana ha prestato il suo garante (cui peraltro va riconosciuta la correttezza dei comportamenti) al Comune di Montaione, e le dichiarazioni rilasciate in proposito dal Presidente Martini sembrano più quelle di un giocatore schierato che di un arbitro imparziale.

E che dire di Casole d’Elsa, dove l’intero ufficio tecnico è stato sospeso e messo sotto inchiesta dalla Procura della Repubblica insieme ad alcuni amministratori e dove sono sequestrati cantieri per diverse decine di milioni di euro? Comune che si è recentemente rifiutato di mostrare ai cittadini il Piano Integrato di Intervento gestito in modo del tutto illegale, con la mirabolante giustificazione che l’unica copia è stata consegnata ad uno studio privato incaricato di realizzare l’ennesimo abuso. In tutta la Toscana, nei territori costieri e nei paesaggi agrari di maggior pregio, si moltiplicano iniziative di ‘valorizzazione’ del territorio misurabili in centinaia di migliaia di metri cubi, insediamenti di seconde e terze case spacciati per residenze turistico-alberghiere, lottizzazioni trainate da centri commerciali.

La rete dei Comitati toscani ha raccolto decine di segnalazioni di questo tipo. Sono operazioni che avvengono in uno spirito esattamente opposto a quello postulato nel Documento del PIT, non poche in una situazione di palese illegalità.

Conclusioni

La domanda che abbiamo posto all’inizio se il PIT sia efficace rispetto ai suoi obiettivi può avere una duplice risposta. Una prima risposta è che poiché non possiamo considerare gli amministratori toscani così ingenui da credere di vivere in un mondo incantato, dove non esistono capitali leciti e illeciti in cerca di rendita (che è una forma di reddito), un mondo dove non esistono collusioni fra amministratori e il blocco del mattone composto da tecnici comunali, proprietari, costruttori, cooperative edilizie - un mondo dove non esiste la corruzione, dove lo statuto del territorio, ancorché costituito da soli indirizzi, è la fonte e il parametro etico, di quel "senso del limite" con cui chi amministra come chi intraprende deve trattare un patrimonio (il territorio) tanto prezioso, quanto delicato; poiché, dicevamo, i nostri amministratori, forse non sono in questo momento particolarmente sensibili alla tutela del paesaggio, ma certamente non ingenui, dovremmo pensare che gli obiettivi politici del PIT siano di altra natura rispetto a quelli dichiarati e che mirino ad una consensuale spartizione del governo del territorio fra Regione e Comuni, finalizzata alla conservazione di poteri collettivi e personali, con le Province relegate nel ruolo di convitati di pietra.

Una seconda risposta, meno pessimistica, è che vi sia stata da parte della Regione un’eccessiva fiducia nella capacità ‘tenere tutto assieme’ da un punto di vista politico e che il disegno non funzioni per una serie di cause interne ed esterne alla società Toscana (fra queste ultime ricordiamo la crescente propensione ad utilizzare gli oneri di urbanizzazione e costruzione per fare cassa).

Nel documento allegato a questa relazione vi sono alcune proposte per migliorare lo stato delle cose. Lungi dall’invocare il ritorno ad un sistema gerarchico e impositivo (che peraltro in Toscana come in Italia non c’è mai stato), si tratterebbe di fare un ulteriore passo in avanti dando più potere ai cittadini, innescando e promuovendo processi realmente partecipativi il cui fondamento è l’elaborazione di uno Statuto, articolato in tanti statuti locali (necessariamente sovracomunali) che valga come carta costituzionale del territorio. Non tornerò qui su questi argomenti, ma preferisco concludere con due considerazioni.

La prima considerazione che alla base del PIT ritorna, sia pure in modi verbalmente aggiornati, l’idea che il territorio sia una variabile dipendente dello sviluppo economico e che ‘quel che si può si fa’ (concetto più volte ribadito dall’assessore al territorio della Regione), purché non si superino certi limiti di sostenibilità intesa come ‘carrying capacity’. Limiti che sono definiti da procedimenti di valutazione integrata che assumerebbero il ruolo davvero paradossale di definire la ‘base analitica e di confronto cognitivo’ della governance territoriale. Paradossale perché una strategia tutta politica di governo territorio sarebbe in ultima analisi condizionata e guidata da una razionalità riduttivamente tecnica.

La seconda considerazione è che una volta decisa una politica, se si vuole governare devono essere fatti rispettare leggi e piani. Non vi è niente di più connaturato all’anima del nostro paese dell’idea che l’osservanza delle leggi sia un fatto discrezionale. Giusto quindi promuovere la cooperazione dei vari livelli istituzionali, giusto che la pianificazione non sia una cascata di prescrizioni localizzative a dettaglio crescente, ma non si può supporre che bastino le esortazioni e il ‘senso del limite’ a produrre un buon governo del territorio. Una volta sancito un patto, bisogna che questo sia rispettato dai contraenti e il rispetto delle leggi di governo del territorio non può e non deve esser esterno a queste stesse leggi. La Regione non è un organismo di decentramento dei poteri statali, non è una prefettura. E’ un organismo rappresentativo, eletto dai cittadini per governare e coordinare i vari interessi particolari e locali in un disegno unitario. Deve quindi assumersi le sue responsabilità. La mancanza di ogni tipo di controllo sull’operato dei Comuni (per carità senza che nessuno si senta sotto tutela) ha l’effetto perverso di stabilire una concorrenza sleale fra le varie amministrazioni locali, penalizzando i comportamenti virtuosi. Dobbiamo dare atto che molti Comuni in Toscana stanno operando bene o almeno ci provano. Che accanto a sindaci collusi che devono ripagare le loro campagne elettorali o che guidano cordate speculative, vi sono tanti amministratori onesti che intendono ancora la politica come servizio alla comunità Questi amministratori e Comuni sono messi in grave crisi dal ‘vicino’ che può vantare investimenti e sviluppo e magari una riduzione delle tasse.

Chiudo con una nota personale. In questi ultimi mesi ho incontrato molti rappresentanti di comitati locali. E’ stata un’esperienza interessante. Può darsi che vi sia una componente elitaria nelle associazioni ambientaliste di livello nazionale. Ma certamente i comitati non sono fatti da signori in villa (come sostiene una polemica volgare), ma da gente normalissima, da impiegati, operai, persone che sacrificano il loro tempo libero non per difendere un interesse particolare o il cortile di casa, ma un territorio che amano e rispetto al quale provano un senso di appartenenza. Se i nostri politici avessero occhi per vedere o orecchi per sentire riconoscerebbero una riattualizzazione della vecchia base del partito comunista, quella base che, finito il lavoro, si ritrovava nelle sezioni convinta di lavorare per il bene comune.

Questa gente, queste popolazioni dentro o fuori i comitati, sono sostanzialmente impotenti. Di fronte hanno un blocco sociale e politico (spesso capeggiato dalla Regione) che si presenta come una corazzata di fronte a fragili barchette. La loro unica risorsa, oltre alla conoscenza del territorio è il rispetto della legalità. Mai come in questo caso la legalità è il potere dei senza potere.

OLBIA. Soldi delle armi e della droga della ‘ndrangheta ripuliti in Svizzera e poi indirizzati verso investimenti immobiliari in Gallura dove buona parte degli indagati era di casa. C’è uno spaccato dell’appetito delle cosche mafiose per l’isola nell’ordinanza di custodia cautelare del giudice delle indagini preliminari di Milano Guido Salvini che ha raggiunto, su richiesta del pm Mario Venditti, nove persone accusate di riciclaggio aggravato dal favoreggiamento mafioso e dal reimpiego in attività economiche di somme provenienti da reati. Tra loro nomi di spicco del mondo affaristico che nasconde i suoi segreti in cassette di sicurezza e in conti riservati delle banche elvetiche e

dei paradisi fiscali, ma anche personaggi sardi o comunque di origine isolana. Come Sergio Contu, 42 anni, lo skipper olbiese finito in manette per un episodio legato alla vendita per 330mila euro di un motoscafo Riva, (dietro la quale si nasconderebbe l’occultamento di fondi illeciti), a Salvatore Paulangelo, 44 anni. Paulangelo è un altro arrestato dell’inchiesta milanese, amministratore finanziario con villa a Pittulongu che viene considerato uno dei nomi di spicco dell’inchiesta. E ancora Paolo Desole, figlio di Gavino, anche lui quarantatreenne, cittadino svizzero con alle spalle numerosi guai con la giustizia per traffico di cocaina, e su un conto del quale sarebbero transitati 47 milioni di dollari. E poi tutta una serie di nomi di persone molto note a Olbia per essere imprenditori, proprietari di terreni e hotel, alcuni di loro legati al mondo del calcio, che popolano le 269 pagine del provvedimento di arresto.

Uomo chiave e deus ex machina dei traffici l’avvocato milanese Giuseppe Melzi, 66 anni, ex paladino dei piccoli risparmiatori dopo il crac del Banco Ambrosiano e, a leggere le recenti accuse, spregiudicato manovratore di soldi che hanno portato altri piccoli investitori di società andate in bancarotta a perdere tutti i loro risparmi. Sullo sfondo il panorama dei terreni olbiesi, tra cui 500 ettari di pregio, in cui si muove il nutrito gruppo di procacciatori, imprenditori «indigeni» (parola del gip Salvini) che aspirano a fare l’affare del secolo. In un tourbillon di incontri e telefonate prontamente spiati e intercettati dagli investigatori, nell’arco di un’indagine che si è snodata dal 2000 al 2004.

L’inchiesta

«Il presente procedimento è stato reso possibile ed è giunto ad esiti significativi grazie all’osmosi investigativa tra diverse indagini condotte a partire dal 2003 in Svizzera e in Italia che hanno affrontato reati sicuramente definibili come “transnazionali” essendo l’espressione di un gruppo organizzato di stampo ‘ndranghetistico nato e sviluppatosi originariamente in Italia, ed in particolare nella zona di Mesoraca, in provincia di Crotone, (dove è attiva la cosca Ferrazzo n.d.r) ma che si è ramificato in territorio elvetico non solo per commettere reati in materia di stupefacenti e di armi, spostate tra i due Paesi, ma soprattutto per realizzare un’imponente attività di riciclaggio». Cos scrive il magistrato Salvini secondo il quale «a tale fine è stata allestita in Svizzera, quantomeno dalla fine degli anni ‘90, tramite società finanziarie costituite ad hoc, una sofisticata macchina di ripulitura di somme di denaro provenienti dalle attività criminali “ragione sociale” dell’organizzazione».

Semplice il meccanismo di lavaggio dei soldi: le «lavatrici» allestite dagli indagati sarebbero due società finanziarie la World Financial Services AG (WFS) e la PP Finanz Service GmbH di Zurigo, tra loro collegate, i cui patrimoni erano «caratterizzati da un’assoluta confusione contabile» e dalle quali alcuni degli arrestati avrebbero attinto per arricchirsi personalmente. Infatti, quelle societè che ufficialmente si occupavano di raccogliere capitali, direttamente o attraverso intermediari, da una clientela di investitori svizzeri e internazionali per operare sul mercato Forex, raccoglievano anche «masse di contanti di origine a dir poco incerta». Basti pensare che un’impiegata della WFS ha testimoniato che Paulangelo e altri uomini della stessa società andavano in aereo in Calabria e rientravano con valige di soldi in contanti che venivano messi nella cassaforte e non venivano contabilizzati nel sistema informativo e che alcuni “clienti”, a tarda ora, si presentavano in ufficio con pistole sotto la giacca. La cosca Ferrazzo secondo quanto hanno appurato gli inquirenti, praticamente si serviva delle due società WFS e PP Finanz come contenitore di soldi raggranellati grazie al crimine. Nel 2002 il crac, ma il gruppo di affari ha messo al sicuro il denaro in altre società o negli investimenti immobiliari privati in Sardegna.

Gli investimenti in Sardegna.

Un ruolo fondamentale sul fronte sardo ha svolto Alfonso Zoccola, svizzero trentanovenne. Un «esperto in truffe finanziarie» è definito dal giudice Salvini, consumate proprio

in Svizzera ed entrato nella WFS nel 2001 come socio occulto. Di fatto padrone della societè , Â«è¨ stato il principale elemento di collegamento con i calabresi». È proprio Alfonso Zoccola a tenere rapporti con l’avvocato milanese Melzi, tutelato in Sardegna da un avvocato che ha avuto come cliente Paulangelo. C’è da dire che l’organizzazione diretta a Zurigo da Desole, Zoccola e Paulangelo riciclava circa 1,2 milioni di dollari alla settimana provenienti dal traffico di stupefacenti; soldi che gli investimenti immobiliari potevano far ben fruttare. Zoccola si

recava spesso a Olbia dove con Melzi, secondo quanto emerge dalla documentazione acquisita nel corso di perquisizione alla WFS, era interessato ad un progetto concernente l’intera periferia di Olbia.

Negli uffici della WFS, infatti, sono state ritrovate planimetrie di terreni a Pittulongu e i documenti relativi a un progettato acquisto, sempre a Pittulongu, dell’hotel a quattro stelle «Stefania». In particolare nel faldone dei magistrati sono finite due proposte di vendita e un progetto architettonico per l’ampliamento dell’albergo.

Per i progetti immobiliari il clan avrebbe contattato, in qualità di esperto, un ingegnere olbiese.

Per poter dar corso alle operazioni immobiliari il gruppo di cui era a capo il legale milanese Melzi aveva creato una serie di società: «Dagli accertamenti svolti presso la Camera di commercio - scrive il giudice Salvini -, sono state individuate le società coinvolte nelle operazioni immobiliari in Sardegna, nella zona di Olbia: Agrenas srl, Finmed srl, Gmp srl, Montebello srl, Papo srl, Pasim srl, Sasi srl, Repi srl (giè Tre Sb srl)». Nelle societè , in un intricato giro di partecipazioni, compare più volte il nome di Giovanni Battista Pitta, noto imprenditore olbiese fino a poco tempo fa presidente del Tavolara Calcio quale detentore di quote. Secondo i magistrati di Milano, Pitta da trent’anni è in rapporti con Melzi, che è stato anche suo difensore nel corso di un procedimento penale che si è risolto positivamente. Di Pitta sarebbero state sfruttate capacità e conoscenze per l’acquisto di lotti di terreni, in parte già edificabili e in parte no.

Il gruppo si incontrava spesso ad Olbia, dove Melzi prediligeva pernottare all’Hotel Gallura e da dove sono partite molte delle sue telefonate intercettate dagli inquirenti.

L’indagine ha lambito anche un altro imprenditore di Olbia molto conosciuto che viene citato nell’ordinanza di custodia cautelare in riferimento a Zoccola: Mauro Putzu, ex presidente dell’Olbia calcio.

Un intreccio, quello scoperto dal gip milanese, che dovrà passare sotto ulteriori vagli ma che intanto ha aperto uno squarcio sul sottobosco che si muove intorno alle coste sarde con la criminalità organizzata pronta a reinvestire i propri capitali costruiti sulle attività illecite in progetti turistici di largo respiro.

Postilla

Investimenti della malavita organizzata nelle coste sarde, specialmente in Gallura. Non è una novità. Una circostanza che torna ciclicamente, e anche casualmente, esito di inchieste che seguono altre piste. La compravendita di aree fabbricabili o complessi realizzati spesso per via di piani molto compiacenti agevola in molto casi il riciclaggio di denaro sporco. Da almeno una trentina di anni, come hanno riferito i magistrati in varie occasioni, somme considerevoli transitano da queste parti per diventare pulite case a schiera. È facile immaginare che tanto denaro abbia inciso in modo rilevante nei processi decisionali. Un'altra ragione per sostenere fermamente le ragioni del Piano paesaggistico: lo spreco di luoghi bellissimi è a vantaggio di pochi e succede che che tra questi ci siano mafiosi e camorristi (s.r.)

Giorgio Salvetti, Tutti i mercanti alla fiera di Letizia

Milano vestita a festa accoglie e coccola i commissari che a marzo decideranno dove si terrà fra sette anni l'esposizione universale. Il sindaco Moratti e tutto il paese rischiano di perdere, ma la città è già un enorme cantiere a cielo aperto che macina decine di miliardi di euro

Per il sindaco Moratti è l'ultima occasione. Si vince o si perde. Il 31 marzo, a Parigi, si deciderà se l'Expo 2015 si terrà a Milano o a Smirne (Turchia). In questi giorni il capoluogo lombardo si gioca tutto. Sono arrivati a Milano i 140 commissari del Bie, l'intero comitato giudicante. Passeranno gradevoli giornate di turismo e shopping. Oggi gran galà con ballo in maschera e visita a San Siro per vedere l'Inter. E domani, convegno al Museo della Scienza e della Tecnica con i ministri D'Alema, Rutelli e Bonino. Ospite d'onore Jacques Attali, l'uomo per le riforme di Sarkozy.

Vincere a tutti i costi

Mai come oggi la vittoria appare tutt'altro che scontata. Questioni geopolitiche: molti paesi non intendono scontentare la Turchia, per ora fuori dall'Europa e la Cina preme per favorire il porto di Smirne. Sulla carta i voti per Milano ci sono, o almeno c'erano. Ma l'entrata di 40 nuovi membri nel Bie non favorisce Milano: basta pochissimo perché il verdetto sia ribaltato, e le diplomazie vociferano di compravendita di voti. «E' un po' come il voto di fiducia al Senato», esagerano alcuni. A proposito, la caduta del governo certo non aiuta, per non parlare della crisi di Malpensa. Vittorio Sgarbi, assessore alla cultura di Palazzo Marino, è pessimista, e non è il solo. Ma Letizia Moratti su Expo ha puntato tutto. Perdere sarebbe una sconfitta quasi irrimediabile, un grosso problema anche e soprattutto per tutti coloro che grazie alla spinta di Expo contano di fare affari da miliardi di euro costruendo e facendo fruttare al massimo i terreni di Milano e hinterland. E sì, perché se è difficile negare che Expo sia un'occasione da non perdere, è anche evidente che intorno all'Expo ruotano tutti i colossali progetti di trasformazione della città. Affari enormi, ma per pochi privati. Costruire, ovunque e comunque, e troppo spesso con poco rispetto per il verde, per la vivibilità, e senza un euro per l'edilizia popolare (gli affitti a Milano, solo negli ultimi sei mesi, sono saliti del 2,7% a fronte dell'inflazione all'1,8%: in media, 932 euro al mese per una casa di 65 metri quadri). Questo è il risulato della politica dell'ex sindaco, Gabriele Albertini, il quale ha dato il benestare a grandi operazioni immobiliari in totale assenza di un piano generale e in mancanza di consultazioni democratica. Il sindaco Moratti, prima ancora di cominciare, si è trovata così i cantieri già aperti e i cittadini imbufaliti. Che fare? Ecco l'idea geniale: candidarsi per l'Expo. Moratti ha mostrato tutta la sua abilità politica, mediatica e imprenditoriale. Grazie alla sua «trovata», in un colpo solo ha incassato l'appoggio incondizionato del governo Prodi, della Provincia di centrosinistra e del competitor Formigoni, e si è lanciata sulla piazza nazionale e internazionale. Ha azzittito la sua maggioranza divisa sull'ecopass, e di fatto ha cancellato l'opposizione. Cosa non meno importante, è riuscita a dare l'impressione di una gestione unitaria dei progetti disaggregati, e contestati, approvati da Albertini.

I numeri di Expò 2015

Ma cos'è Expo? Sei mesi di fiera, tra sette anni. Un tema appetitoso e molto made in Italy: «Nutrire il mondo. Energia per la vita», grande kermesse dell'alimentazione e dell'agricoltura contro la fame nel mondo; con strizzatina d'occhio all'ambiente: tutto sarà a impatto zero con un importante potenziamento dei trasporti pubblici (a fare da garante Legambiente). Una promessa fa ancora più gola: «Il 90% delle strutture rimarranno a servizio della città». Non basta? Allora: 65 mila posti di lavoro, 7 mila eventi, 160 mila visitatori al giorno, per un totale di 29 milioni in sei mesi. Cifre forse troppo ottimistiche, ma irresistibili per qualsiasi città del mondo. La location di Expo è in progetto accanto alla nuova fiera di Rho-Pero: 1,7 milioni di metri quadri per i nuovi padiglioni, una torre e la nuova fermata della Tav Torino-Milano, per un investimento di 1,4 miliardi di euro. Il tutto in project financing, con investimenti da privati, Governo, Regione, Comune Provincia e soprattutto Ue. Di contorno, è previsto un gigantesco piano di infrastrutture. Si parla di 11 miliardi di euro per un giro d'affari che potrebbe arrivare a 34 miliardi di euro. Tra le opere strettamente connesse figurano una nuova linea della metropolitana, la terza pista di Malpensa (per quali voli, a questi punti non si sa...), e le strade (tanto per non scontentare gli automobilisti): Pedemontona, BreBeMi (Brescia-Bergamo-Milano), Broni-Mortara, e l'anello tangenziale esterno. C'è dell'altro. Verranno recuperati 124 mila posti letto (nuovi alberghi), per finire con l'improbabile opera faraonica di ispirazione leonardesca: una via d'acqua che da Rho porta ai Navigli. Su tutto, naturalmente, milioni di metri cubi di cemento.

E qui Expo ricorda molto i progetti di speculazione dell'era Albertini. Il sito accanto alla nuova fiera di Rho, che a pochi anni dall'inaugurazione è già in crisi, sorgerà su un'area di 1,7 milioni di metri quadri di proprietà per 2/3 della Fondazione Fiera e per 1/3 della famiglia Cabassi. L'affare è semplice: l'area sarà gratuitamente disponibile per Expo, e in cambio, al termine della fiera, i terreni torneranno ai privati trasformati da agricoli in edificabili. Un business miliardario.

Il cantiere Milano

Ma Rho-Pero è niente rispetto al «radicale processo di rigenerazione urbana» già in atto. Secondo Legambiente, negli ultimi 15 anni, a Milano, 30 progetti hanno trasformato 11,248 milioni di metri quadri di territorio, in 40 anni Milano ha consumato il 37% delle aree agricole: un record in Europa. Le aree dismesse sono ancora immense, le altissime rendite del mattone attirano i privati e il pubblico si limita a fare da sponda. Expo potrebbe fungere da propulsore per progetti già approvati, gli stessi che hanno incontrato l'opposizione dei cittadini. Piani edilizi da miliardi di euro per l'80% finanziati dalle banche: il Sole 24Ore parla di debiti per 7 miliardi.

Alla vecchia Fiera, in piena città, è in stand by il progetto Citylife. Su un'area di 225 mila quadrati, venduta per 583 milioni di euro da Fondazione Fiera ai privati, è prevista la costruzione di tre grattacieli firmati dagli architetti Isozaki, Hadid e Libeskind. Gli indici di edificabilità sono stati appositamente raddoppiati. L'operazione è gestita da Generali, Ras, Lar, Lamaro e Progestim (ovvero Ligresti). Investimenti per 2 miliardi di euro finanziati da una cordata di banche (Mediobanca, Popolare Milano, Capitalia, Banca Intesa) coordinate dalla tedesca Eurohypo. Per ora è tutto fermo. Il comitato di cittadini della zona, «Vivi e progetta un'altra Milano», chiede di spalmare le volumetrie su un'area maggiore. «Ho l'impressione che fino a marzo, e cioè fino alla scadenza per la candidatura di Expo - dice Ronaldo Mastrodonato - tutto resterà fermo». Altro progetto strenuamente avversato dalla cittadinanza del quartiere Isola è la cosiddetta «città della moda» in zona Garibaldi-Repubblica, nelle mani della americana Hines: costo complessivo 2,5 miliardi. A Santa Giulia (Rogoredo) costruisce invece il gruppo Zunino. A Sesto San Giovanni, su progetto di Renzo Piano, ancora Zunino investe 4 miliardi di euro su un'area di 1,3 miliardi di metri quadri delle ex acciaieria Falck (anche qui, indici di edificabilità raddoppiati). E' poi in progetto la costruzione dell'istituto di ricerca di Veronesi, il Cerba, sui terreni agricoli del Parco Sud. E ancora, la probabile riqualificazione dell'area dell'Ortomercato (non a caso appena «visitato» dalla Finanza con una retata) e delle aree dismesse delle ex stazioni delle Ferrovie (1,5 milioni di metri quadri, trasformati in aree edificabili senza alcun vincolo purché Fs costruisca il secondo passante ferroviario, un altro buon affare).

Chi dice sì, chi dice no, chi dice nì

Soldi e cemento contraddicono i buoni propositi ecologisti di Expo. Ma come dire no a una simile occasione di sviluppo? Insomma, stiamo parlando solo di un modo più elegante per continuare l'opera di deregulation urbanistica, oppure del meritevole tentativo di darle almeno una qualche forma di coordinamento pubblico? Sergio Brenna, urbanistica del Politecnico, non ha dubbi. «Nell'inquadramento urbanistico del 2000 - spiega - l'area di Rho era destinata a un intreccio di parchi e servizi e invece diventa edificabile. Stanno preparando il piano di governo del territorio ma la valutazione ambientale strategica non si fa. Tutto si riduce a una somma di operazioni contingenti». Nettamente contrario Luca Trada del comitato NoExpo, che domani consegnerà un dossier ai delegati Bie. «Expo è un grande affare, una fiera dei e per i privati che trasforma la città in un grosso mercato a scapito del verde e della vivibilità». Più possibilista, invece, il consigliere verde a Palazzo Marino Maurizio Baruffi: «Non si tratta di dire no, si tratta di vedere come verrà realizzato Expo. Per quelli che temono che sia la fiera delle industrie agroalimentari pro Ogm, ricordo che nel comitato scientifico c'è Carlo Petrini (Slow Food). Per quanto riguarda il nesso con gli altri progetti edilizi, come Garibaldi-Repubblica, va detto che sono già stati approvati prima di Expo. Bisogna che davvero sia l'occasione per incentivare i mezzi pubblici, per garantire uno sviluppo diverso, ma non si può dire no a priori. Se Milano dovesse perdere sarebbe una sconfitta per tutti». Il mondo del lavoro, ovviamente, deve starci. Non si oppone Antonio Lareno, segretario della Cgil di Milano. «La Cgil non è contraria ma vigile - spiega - per quanto riguarda gli indici di edificabilità e per quanto riguarda il lavoro. Abbiamo firmato con la Moratti un memorandum che istituisce un tavolo con i sindacati, contro il lavoro irregolare e per la sicurezza dei lavoratori. Bisogna dire che la Moratti ha inaugurato un nuovo modello di partecipazione neo-corporativa che esclude il consiglio comunale ma che coinvolge gli altri enti, sindacato compreso». Più disarticolata la posizione del Prc, più o meno contrario a seconda delle varie anime. Luciano Muhlbauer, consigliere regionale, è contrario: «Non si tratta di un no pregiudiziale, ma così com'è Expo non è un'occasione di riqualificazione per chi vive in città ma solo un'opportunità per i costruttori. E' evidente che sponsorizza una gestione urbanistica negoziata e non programmata, con probabili leggi speciali che aprono la pista a ulteriori libertà di manovra. Quanto alle promesse sulla tutela dei lavoratori, di tavoli ne ho visti...ma poi c'è la realtà: in Lombardia il 50% del lavoro è irregolare, e basta ricordare cosa è successo nei cantieri della nuova Fiera tra infiniti subappalti».

Alle stelle, o alle stalle

Mancano due mesi al giudizio finale. Se Milano perderà sarà un mazzata, soprattutto per Lady Letizia che rimarrà qui a bocca asciutta: le elezioni sono alle porte e Formigoni è già ministro. Se vincerà, invece, le sue quotazioni saliranno alle stelle e avrà gioco facile a travestirsi da simbolo della Milano che cresce e trascina l'immagine dell'Italia fuori dalla monnezza. E se sarà una valagna di soldi e di cemento, sarà difficile fermarla.

Luca Fazio, L'altra Moratti, un'altra Milano

Si tratta forse della più grande trasformazione di un'area urbana a livello mondiale, un vortice di miliardi che è difficile anche solo quantificare. Dunque, come si fa ad essere contro l'Expo? Lo chiediamo a Milly Moratti, storica pasionaria dell'ambientalismo milanese, figura di spicco «prestata» al Partito democratico, nonché cognata del sindaco che in queste ore si sta giocando il tutto per tutto.

L'occasione da non perdere, dicono tutti.

Può darsi. Ma noi, intendo dire la cittadinanza, non abbiamo ancora capito in che cosa consiste questo progetto strategico. Milano è stata oltraggiata e bloccata per molto tempo, questo è vero, ma in tutti questi anni di frenetici lavori in corso ci sembra di non aver scorto alcuna idea di città. Ci hanno raccontato che grazie a colossali finanziamenti ci saremmo ritrovati una città ricostruita senza spendere soldi, ma siamo sicuri che tutto ciò sia nell'interesse pubblico dei cittadini?

La sinistra, come sempre, è divisa e comunque non ha un'idea diversa di città.

Non c'è il coraggio di pretendere l'elaborazione di un progetto condiviso dai cittadini, è come se non ci sentissimo all'altezza di confrontarci con i portatori di interessi forti. La sinistra è in soggezione. I costruttori hanno tutto il diritto di costruire, ma è compito dell'amministrazione studiare piani più equilibrati nell'interesse di chi vive la città. I cittadini hanno bisogno di politici che non siano deboli rispetto al dovere di emanciparsi dai poteri economici e finanziari.

Si dice che l'Expo serve a far da volano ai vecchi progetti già in fase di realizzazione che sono stati e sono contestati.

Ma certo. Di per sé l'Expo non è cosa buona né cosa cattiva, ma bisogna rivalutare tutte le situazioni. Purtroppo stiamo ancora partendo dai soliti progetti già in corso d'opera, e sono frammentati, discutibili, e non incontrano il favore dei cittadini. Il Comune sta gettando il cuore oltre l'ostacolo per ottenere i finanziamenti ma non ha ancora elaborato un piano strategico. Avere a disposizione fondi importanti è positivo, ma mi spaventa questo voler attrarre tutto senza aver sviluppato una visione complessiva della città. Stiamo solo pensando ad acquisire i voti per battere Smirne, invece, Expo o non Expo, bisogna impegnarsi per la revisione del progetto strategico per Milano.

Altra obiezione. Di fronte a un'immagine dell'Italia piuttosto desolante, molti sostengono che Milano in qualche modo è una realtà che si muove e guarda al futuro...

Ma bisogna muoversi bene, agitarsi scompostamente potrebbe risultare dannoso. Mi dispiace constatare che la gran parte della città non abbia partecipato alla formulazione di idee e speranze per risolvere problemi fondamentali. Esempio: sappiamo cosa potrebbe significare per Milano un aumento considerevole del volume di traffico?

Milano o Smirne?

Sono esterrefatta. Sembra una tombola. Se è con questi metodi che si offrono le occasioni di crescita ai paesi del mondo, questo mondo mi spaventa. Del contenuto fondamentale dell'Expo - l'alimentezione del genere umano - si discute poco. Stiamo andando incontro agli Ogm, oppure stiamo pensando a un'agricoltura di prossimità? Niente di tutto questo, stiamo solo discutendo su come conquistare il voto delle Maldive o di altre isole strane. Se le cose stanno così, è come puntare sul rosso o sul nero, la spunterà il più furbo...

Quanto peserà sulla carriera del sindaco una eventuale sconfittà?

In questo caso, tutti, seriamente, dovremo ricominciare a pensare alla città, alla salute di chi la vive, ai bambini, la rapacità di voler attrarre tutto ad ogni costo deve essere sostituita dalla volontà di ascolto dei milanesi.

Cosa dirà ai commissari del Bie che oggi vanno a San Siro a vedere la sua Inter?

Non lo so, il calcio è un linguaggio universale, probabilmente si divertiranno...

Nota: per chi se lo fosse perso, qui il documento del Comitato No Expo (f.b.)

“Un’occasione decisiva per segnare una svolta nella vita della nostra collettività”. “L’inizio di una rifondazione ecologica del Paese, la prima pietra di una nuova Italia”. Giovanni Valentini, dalle pagine di Repubblica del 28 gennaio, non nasconde l’entusiasmo per quello che non esita a definire “un moderno rinascimento civile”. Poi si rende conto, abbassa il tiro e aggiunge “o quantomeno una fase virtuosa nella gestione dell’ambiente”.

A cosa si deve tutta questa estasi? Pensate, all’ennesima revisione del Codice dei Beni Culturali, che avrebbe il pregio di riaffermare la competenza dello Stato nella tutela del paesaggio.

Bene. L’entusiasmo fa sempre bene, e vorremmo poterlo condividere. Purtroppo il nuovo “rinascimento civile” di cui vagheggia Valentini non è proprio dietro l’angolo e la revisione del Codice dei Beni Culturali sembra l’ennesima caricatura delle gloriose leggi di tutela del 1939, predisposta da chi ignora – pressoché completamente – il lavoro di trincea svolto ogni giorno dalle soprintendenze.

I nuovi 184 articoli del Codice – praticamente tutti – non sono noti, ma a leggere l’articolo di Valentini sembrerebbe che la principale novità – che poi novità non è - consista nell’attribuire alla soprintendenze il compito di autorizzare le trasformazioni del Paesaggio.

La legge 1497 del 1939, varata dopo un dibattito culturale di alto respiro, già assegnava alle Soprintendenze questo compito e già il regolamento del 1940 indicava nel “piano paesistico” il mezzo per prevedere, graduare e valutare gli effetti sul territorio della sommatoria delle singole trasformazioni, limitando, tra l’altro, il potere discrezionale di chi avrebbe rilasciato le autorizzazioni, con evidente vantaggio per la certezza del diritto.

Dunque, nessuna novità. La vera novità è l’ammissione del fallimento di un malinteso spirito di democrazia e decentramento che portò, dal ’77 in poi, ad attribuire il potere di autorizzare le trasformazioni del paesaggio, a quegli stessi soggetti – i comuni – che in tanti casi si sono resi corresponsabili dei peggiori guasti ambientali. Insomma, fu come affidare le pecore al lupo e non è un caso che la peggiore, estesa ed incontrastata devastazione del territorio nazionale sia avvenuta in a partire da quegli anni e fino al parziale recupero di competenze operato, nel 1985, dalla benemerita legge Galasso. La recente, ennesima proposta di modifica del Codice assume, dunque, il sapore rancido di un tardivo ravvedimento operoso.

Ma andrebbe anche bene, e potrebbe addirittura essere convincente se appena gli estensori dell’ultimissima versione del Codice si fossero soffermati ad analizzare lo stato di pietoso degrado in cui versa l’amministrazione periferica del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Quella, cioè, che dovrebbe metter in pratica i nuovi-vecchi principi di tutela.

Personale insufficiente, invecchiato e mal pagato, ma tutto indistintamente “riqualificato”, cioè slittato verso profili superiori, con conseguente assenza totale delle figure una volta definite “ausiliarie”. Cronica carenza di fondi, anche quelli necessari per la vigilanza, sedi insufficienti, pericolose e malsane, mancanza di attrezzature, di cancelleria, perfino della carta igienica. Eppure, con il regolamento di riforma del Ministero, approvato solo qualche mese fa, non si trova di meglio da fare che spezzettare gli uffici periferici, duplicando evidentemente i costi. Cui prodest?

Le soprintendenze stanno morendo. Lentamente, senza darlo a vedere, stanno morendo, assassinate da scelte politiche distratte, inadeguate, spesso autocelebrative. Ma mentre le soprintendenze muoiono, mentre la normativa italiana si arricchisce, ogni giorno di più, di norme derogatorie che consentono a chiunque di realizzare qualsiasi cosa ovunque, mentre i provvedimenti di tutela emessi dalle soprintendenze vengono impallinati dagli ipergarantisti tribunali amministrativi, mentre, insomma, il paesaggio va a puttane e, con esso, il Bel Paese, l’orchestrina del Mibac-Titanic, con l’acqua alle ginocchia, continua a suonare “Nearer, My God to Thee”.

Dunque, ancora un nuovo Codice, con effetto salvifico incorporato. Nuovo, o lavato con Perlana? Vedremo.

L’autore è coordinatore del settore per il paesaggio delle Soprintendenza per i B.A.P.S.S.A.E. di Salerno e Avellino

La fine del governo nazionale di centro-sinistra ha evidenti riflessi nella politica sui beni culturali, dati alcuni aspetti che riepilogo per punti: 1. la Regione Autonoma della Sardegna impegnata nella richiesta del passaggio di competenze sui beni culturali; 2.Il ridimensionamento degli Uffici di Tutela; 3. la recente sentenza della Corte Costituzionale sulle competenze in materia di paesaggio; 4. le modifiche del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio operate in Consiglio dei Ministri prima della crisi. Mentre i recenti spostamenti dei Direttori del Ministero fanno percepire tensioni fra i partiti dell’ex-Unione e, anche da noi, fra senso dello stato e radicalismo regionalista, a sinistra ( e dintorni) serve un nuovo approfondimento della questione.

Dopo oltre mezzo secolo di fitta discussione sulla natura pubblica dei beni culturali, non possiamo dare tale natura per scontata, neppure per legge: le generazioni nate tra gli anni ‘20 e gli anni ‘50 e formatesi su questi temi sanno quanto sia complesso (e probabilmente dovrebbero/dovremmo farlo assai meglio e di più) comunicare alle nuove generazioni per quale motivo ‘la testimonianza avente valore di civiltà’ vada tutelata, perché ciò abbia senso.

Il concetto non è affatto scontato né di immediata o innata formazione, anche se la disponibilità di almeno parte delle generazioni giovanili al bene comune è più alta di quanto sembrano farci credere i coatti del Grande Fratello o delle platee di Maria de Filippi. Conservare opportunamente i beni culturali (non in scantinati o assurde vetrine senz’anima, ma cognitivamente in senso pieno) è una delle risposte più efficaci all’alienazione di una società molto più unidimensionale di quella raccontata da Herbert Marcuse, rendendo l’esistenza umana più ricca e profonda.

Dal punto di vista storico e politico vi è la natura devastante di una crisi che vede la frammentazione dei popoli italiani come segno attualizzato di un processo nazionale nato male e mai concluso, quasi sempre - tranne rari bagliori temporali come la Resistenza e la fine degli anni Sessanta - condotto e modellato da aree e interessi forti.

Questa tendenza si contrasta anche potenziando nel campo della cultura i valori del bene comune e le politiche nazionali conseguenti, con un sistema nazionale unitario della tutela dei beni culturali (e del paesaggio), contributo alla soluzione del dramma mai risolto della questione meridionale nel processo di unità nazionale.

L’indebolimento della tutela si sente particolarmente nel Mezzogiorno d’Italia e in Sardegna, nelle aree urbane ma soprattutto in quelle non urbanizzate dove permangono reti di documenti storici, archeologici e non, ai quali lo Stato deve un impegno maggiore, che significa una forma non secondaria di riconoscimento pieno della stessa ‘questione meridionale’.

Se nella Sardegna i territori restituiscono dense testimonianze reticolari (si veda, sul Manifesto Sardo, “Sito, monumento, paesaggio”), che dire delle altre reti diffuse, se vogliamo più fragili ma ugualmente preziose, nelle aree lucane, pugliesi, calabresi, siciliane, nei territori vasti della Campania e del Lazio, e dovunque la modernizzazione agricola e industriale nei secoli non abbia piallato le testimonianze storiche ed archeologiche e annichilito le culture orali? Il nostro paese, considerato un modello di tutela all’avanguardia, è in forte affanno concettuale. Un esempio: il processo politico e legislativo italiano, dalla legge 1089 del 1939 all’attuale Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio non ha ancora avuto la capacità di riconoscere vera dignità al patrimonio delle tradizioni popolari, non istituendo Soprintendenze né Direzioni apposite (solo miste, e da pochissimi anni). Verrebbe da dire, sapendo che le leggi vengono promulgate dai vincitori, che vi sia rappresentata la vittoria delle società a cultura scritta su quelle a cultura orale.

Ma il ministro Rutelli promuove, assieme a Maurizio Costanzo, lo spettacolo dell’etnografia con una selezione di 20 eccellenze fra le tradizioni popolari. Considerazioni che necessiterebbero di altri approfondimenti.

Torniamo perciò al dato immediato, con il quale dovremo velocemente misurarci in maniera drammatizzata grazie alla crisi politica: nell’attuale fase storica con il passaggio della titolarità alla Regione faremmo un grave danno ed errore politico, perchè la tutela è un dovere morale e finanziario dello Stato; faremmo un regalo ai teorici del contenimento della spesa pubblica colpendo la comunità nazionale. Ad essa servono i beni culturali e paesaggistici di un mezzogiorno nuragico, indigeno, italico, magnogreco, meridiano, per aumentare il benessere materiale e morale; per apprendere che una tutela non può limitarsi a pochi grandi episodi artistici e architettonici (di rarità e pregio selezionava l’ottica idealistica, mai abbandonata, di Bottai) ma a tutta la storia del territorio, senza cesure.

Battaglia indifferibile, tanto più che dagli anni ’90 si stanno affermando nuove e forti spinte alla rottura della natura pubblica dei beni culturali e del paesaggio, con responsabili di ogni provenienza politica; sembra che esista solo una ‘malintesa’ valorizzazione. La privatizzazione di una patrimonio in teoria indisponibile (ricordate il grave progetto delle cartolarizzazioni per fare cassa in direzione delle grandi opere, su tutte il Ponte sullo Stretto di Messina), ebbe antecedenti nei ministri di sinistra – oggi nel Partito Democratico - che precedettero ai ‘beni culturali’ l’ondata tremontiana basata sulle strutturazioni del poi ministro Siniscalco. Ed anche dopo: da noi in Sardegna c’è stato a sinistra il grave tentativo di vendita di un patrimonio culturale come quello minerario, sventato e infine corretto, e il profilarsi di un modello di gestione dei beni culturali e paesaggistici il cui impianto, migliorativo rispetto ai silenzi del passato, non manca di forti criticità. Ne parleremo nel prossimo numero, ma ora è necessaria una profonda riflessione, e sicuramente una battaglia affinché questi beni pubblici non siano indeboliti e frazionati in ‘gabbie culturali’ (come quelle ‘salariali’), e possano diventare bene comune di un territorio vasto e articolato, che non è composto solo dalle città d’arte, dalle coste pregiate dalle grandi mostre. Dal bene che è pubblico, classica condizione necessaria ma non sufficiente, dobbiamo andare verso l’obiettivo del bene comune, in modo che la coscienza lo difenda meglio delle leggi; che la pregnante origine economica della parola ‘bene’ perda, attraverso la natura ‘comune’, le sue connotazioni economicistiche conducendo finalmente alla comunità.

Ma oltre alla dimensione nazionale, nella drammatica crisi attuale, vi è il più vasto scenario del mondo globale, la dimensione europea e planetaria. Grandi battaglie da condurre per rispondere all’Europa capitalistica con la nostra ricchezza culturale, contrastando la forza delle legislazioni liberiste di molti paesi, non orientate verso il bene comune e di fatto conniventi col traffico internazionale dei manufatti archeologici ed artistici. Vi è ‘semplicemente’ da impostare una politica mondiale sulla tutela. Una sinistra europea che non si misuri su questi temi è destinata alla sconfitta, poiché l’assenza di un pensiero politico condiviso e sviluppato nella materia è spia di un economicismo speculare a quello capitalistico, definito anche dalla maniera con la quale si intende e si ‘tratta’ il patrimonio culturale, e che non vede i nessi con le nuove irrompenti forme del lavoro culturale.

Lo spazio della questione è affascinante, da coniugare con le moltitudini che credono in un mondo diverso, sostenibile, senza guerre, dove le tematiche di liberazione e coscienza proprie del lavoro cognitivo possono intrecciarsi con la difesa, lo sviluppo e l’uso di quel bene comune che sono i cosiddetti beni culturali.

il manifesto sardo è raggiungibile qui

È oramai accantonata definitivamente la possibilità di indire il referendum sul Piano paesaggistico regionale almeno fino al 2010. Anche l'ultimo ostacolo del tribunale è stato superato dalla Regione. Alla domanda di un giornalista che chiedeva ulteriori alternative l'assessore dell'Urbanistica Sanna ha risposto ironicamente sotendendo che al deputato Pili e ai suoi compagni referendari, non resta altra strada se non quella del tribunale internazionale per i diritti dell'uomo.

Il tribunale civile di Cagliari ha quindi rigettato il reclamo contro la decisione del giudice che aveva negato la possibilita' di fissare in via urgente il referendum abrogativo del Piano paesaggistico regionale, come chiesto la scorsa settimana dal comitato dei referendari.

L'istanza del Comitato referendario era finalizzato ad imporre all'Ufficio regionale del referendum di contare le firme raccolte dal deputato di Forza Italia Mauro Pili, per poi trasmettere gli atti al presidente della Regione in modo che potesse indire la consultazione entro il 30 gennaio.

Secondo il Collegio, presidente Giangiacomo Pisotti, il Ppr è materia non omogenea, e di conseguenza non si può sottoporre ad un unico quesito referendario. Il Tar Sardegna invece aveva accolto il ricorso del Comitato guidato da Pili presentato contro l'ufficio regionale per il referendum, che il 15 marzo 2007, aveva dichiarato illegittima la consultazione. Successivamente, su ricorso della Regione, il Consiglio di Stato aveva sospeso la sentenza del TAR. I referendari si erano appellati al giudice ordinario contro le decisioni della giustizia amministrativa.

Polemiche, come sempre, sono state le dichiarazioni espresse dal deputato Pili che ha sottolineato come la sentenza sia di fatto l'esatto contrario di quanto deciso dal Tar Sardegna. Per Pili questa giustizia lascia davvero perplessi.

L'assessore regionale dell'urbanistica Gian Valerio Sanna nel corso di una conferenza stampa ha commentato la sentenza del tribunale: "le valutazioni del Tribunale civile di Cagliari sono andate decisamente al di là delle nostre aspettative" - ha spiegato Gian Valerio Sanna - si è conclusa una parte del lungo iter relativo al contenzioso sul referendum. Leggendo l'ordinanza, ci sono alcune cose da dire. Innanzi tutto, è stato precisato che l'Ufficio del referendum è da considerarsi in parità nei confronti dei promotori. Il Tribunale ha detto che dobbiamo consentire all'elettore di esprimersi su un argomento che riguarda l'interesse pubblico, e non l'interesse per fini politici e di parte. Per ottenere questo, il referendum deve avere il suo oggetto specifico. A detta dei magistrati, il referendum così definito toglieva la libertà di scelta agli elettori. Dunque, è stata impedita la volontà di condizionare gli elettori. Altro che imbavagliarli - come viene sostenuto dai promotori del referendum. L'argomento - ha aggiunto l'assessore Sanna - è talmente eterogeneo e complesso che si sviluppa in 114 articoli suddivisi in tre sezioni. Perciò sarebbe difficile pronunciarsi in merito. L'ordinanza dice testualmente che ‘il quesito proposto dai referendari non è chiaro' e che le varie disposizioni del Piano paesaggistico non sono sostanzialmente omogenee. D'altronde, la cancellazione totale di questo provvedimento metterebbe la Regione in condizione di vaghezza".

Ora il Consiglio di Stato dovrà pronunciarsi in merito al ricorso della Regione sulla sospensiva del Piano.

Intendiamo esprimere e motivare, con il presente documento, il punto di vista dei cittadini dell'area urbana e periurbana di Milano contrari al progetto di candidatura per ospitare l'esposizione universale del 2015.

Riteniamo che la candidatura di Milano, al di là della retorica dei buoni propositi e delle pompose dichiarazioni di pura immagine contenute nel dossier circa il tema della manifestazione, risponda in realtà essenzialmente ad interessi ed affari privati, ben poco solenni, che peggioreranno la sitazione ambientale e sociale già compromessa di un vasto territorio, proseguendo una linea di scelte politiche che negli ultimi anni non abbiamo potuto condividere.

Amiamo la nostra città e ovviamente non siamo contrari ad interventi strutturali che garantiscano un miglioramento della qualità della vita dei suoi abitanti, ma proprio per questo crediamo che si debba guardare al progetto Expo per quello che sarà, non come alla vetrina scintillante, la Milano-Disneyworld fantasiosamente disegnata dal sindaco Moratti nel dossier ufficiale. Crediamo che non sarà l’Expo a risolvere i problemi della città di Milano e che non saranno i milanesi a trarne benefici.

Oltre al lato ambientale ed economico della questione, crediamo che la candidatura di Milano costituisca innanzitutto un grave esempio di pessima amministrazione democratica delle problematiche del nostro territorio. Sappiamo infatti che la candidatura di Milano ad un evento di tale portata è di fatto una decisione imposta direttamente in sedi isituzionali senza consultazione dei territori e senza l'opportuna partecipazione da parte di un adeguato numero di cittadini sufficientemente informati (dove sono le decine di migliaia di volontari che dovrebbero partecipare all'evento?). Il Governo ha proposto Milano come candidatura italiana; Regione Lombadia, Provincia e Comune hanno accettato entusiasti; ma nessun organo elettivo è stato consultato e nessun Ente Locale interessato dalle opere ha potuto preventivamente pronunciarsi.

Ancora una volta grandi progetti e grandi opere vengono portati avanti senza chiedere nulla ai milioni di uomini e donne coinvolti dalle loro conseguenze, mentre viene rigorosamene curato il beneficio di pochi soggetti economici in grado di trarne profitti e benefici a lunga distanza. Pensiamo invece che la logica di un’amministrazione pubblica rchieda di agire in direzione di una tutela dei beni comuni (a cominciare da aria, acqua, suolo, energia) nell’interesse della cittadinanza. La candidatura all’Expo 2015 e il progetto presentato confermano invece che sempre più a Milano la politica rinuncia ad avere un piano di controllo, procedendo piuttosto per singoli progetti, separati e derivanti dalle proposte di forti poteri contrattuali in vista di grandi interessi privati. Si prevede che l’intervento verrà attuato con l’adozione del General Contractor, un sistema di Appalto regolato dalla L. 443/01, la Legge Obiettivo introdotta da Lunardi, che presuppone l’individuazione di un Concessionario – il Contraente generale – cui sono delegati tutti i compiti di vigilanza, controllo, collaudo, contabilità e subappalto, proprio mentre il decreto Bersani ha revocato le concessioni sulla TAV e la Corte dei Conti (sezione controllo sulle pubbliche amministrazioni) evidenziando un “caos contabile” nelle Grandi Opere che non consente di avere idee chiare sul loro stato di avanzamento. Sappiamo già che non è da escludere una richiesta di poteri speciali conferiti al sindaco Moratti per portare avanti i lavori, il che ci pare l'ennesima coltellata al processo democratico, alle norme di salvaguardia ambientale, al sistema dei controlli e delle garanzie.

Se guardiamo al processo decisionale, agli operatori coinvolti, agli sponsor dell’operazione, emerge una prima verità: l’Expo sarà l’occasione per attirare concentrare e spartire decine di miliardi di euro (si parla di un volume complessivo di 34 mld di business vari), consolidando quel sistema affaristico e di potere che da qualche anno sta coprendo Milano e provincia di quartieri esclusivi, centri commerciali e operazioni immobiliari varie che niente hanno a che vedere con uno sviluppo sostenibile del territorio. Un sistema trasversale agli schieramenti politici, che detta lo sviluppo urbanistico della metropoli suddividendosi gli interventi relativi a tutte le grandi trasformazioni urbanistiche che stanno interessando la città sulle ex aree industriali e sui terreni agricoli della cintura metropolitana. Esempi di nomi dei protagonisti? Ente Fiera, LegaCoop, gruppi della Grande Distribuzione, Cabassi, Pirelli, Zunino, Caltagirone, le grandi banche, Ligresti, Compagnia delle Opere, Assolombarda, Camera di Commercio. Ognuno di questi attori, coinvolto a vario titolo nell’operazione Expo, è parte di una nuova mappa del potere, di una nuova stratificazione sociale, culturale, economica, che porta avanti il disegno di un nuovo modello di città fuzionale a logiche di profitto finanziario anzichè a valutazioni di impatto ambientale, sociale o lavorativo.

E dove non bastano gli affari ci pensa la politica: rinunciando ad un ruolo del pubblico nei grandi progetti sulle aree dismesse, emanando provvedimenti che hanno favorito la speculazione e il proliferare di centri commerciali, preparando una nuova legge urbanistica per la Regione Lombardia che permetterà di costruire senza freno anche nei parchi regionali. Forse soltanto chi è sull’orlo della bancarotta (come Zunino) o dispone della proprietà di padiglioni inutilizzati (Fiera) potrà tirare un sospiro di sollievo: ma che ne sarà del patrimonio lasciato ai cittadini alla fine dell'evento?

Se l'interesse del BIE è "to lead, promote and foster Universal Exhibitions for the benefit of the citizens of the international community", attraverso la proposta World’s Fairs come "unique global gathering places for living participation fostering education through experimentation, participation through cooperation, development through innovation", pensiamo che sia opportuno valutare le proposte nei termini della loro reale utilità sociale, dal momento che, come si è visto in passato, non tutte le manifestazioni sinora svolte sono state un esempio di successo in questi termini. Pensiamo che occorra dare una valutazione del reale impatto sul territorio delle proposte se non si vuole squalificare l'operato stesso dell'organizzazione e il suo prestigio futuro. Da più parti sentiamo dichiarare, da parte delle istituzioni che hanno proposto l'evento, in alleanza con gli interessi di cui si è detto, che l'Expo a Milano si presenterebbe come una grande "opportunità" di sviluppo per il territorio. Nient'altro. Ma "opportunità" è una parola vuota finchè non si entra nel merito dei fini che ci si propone di conseguire: l'idea di "opportunità" segnala qualcosa di strumentale, una dimensione di utilità, funzionalità, potenzialità, un mezzo per conseguire degli obiettivi. Ma non serve a nulla inseguire ciecamente un'opportunità finchè non è chiara la direzione in cui ci muoviamo. Un conflitto internazionale è forse un'opportunità per esportare un sistema istituzionale? La proliferazione di cantieri edili e grandi opere di discutibile senso è forse un'opportunità di lavoro per pochi (facilmente sfruttabili)?

Pensiamo che la logica di esercizio di una politica che preveda un controllo democratico del territorio debba passare primariamente attraverso la discussione dei fini che vogliamo raggiungere, prima di discutere dei mezzi e delle opportunità, prima di stanziare fondi e inviare da qualche parte documenti di candidatura per grandi eventi: rinunciare a questo spazio di dialogo significa già consegnare le decisioni che contano agli interessi econimici di pochi a svantaggio della comunità.

Ma non certo è compito di questo documento avanzare le istanze di un progetto alternativo del territorio: crediamo che un simile "progetto" non possa neppure essere concepito in sede "architettonica" prima di emergere dal tessuto vivente e dalle pratiche stesse che coinvolgono il territorio. La città non può essere disegnata nelle aule prima di essere vissuta, tantomeno può essere disegnata dai piani affaristici dei grandi proprietari immobiliari e delle imprese edilizie, o magari dalla pesante eredità lasciata da un grande evento espositivo dominato da zone d'ombra come quello presentato dalla città di Milano. Una città sostenibile e a livello d'uomo può emergere solo da un confronto reale che avviene in uno spazio di esercizio di partecipazione democratica.

Quale scenario si configura invece con l'attuale proposta di candidatura?

Proviamo ad immaginare Milano tra una decina d'anni? Maggio 2015: viene finalmente inaugurata l’Esposizione Universale più attesa della storia. Enorme il lavoro preparatorio: migliaia di cittadini hanno portato idee e proposte in centinaia di assemblee locali. Finalmente tutto questo ha dato i suoi frutti. L’Expo milanese è il primo esempio ad impatto zero nella storia: nessuna speculazione, nessuna nuova edificazione, ma un grande lavoro di recupero, riutilizzo e valorizzazione del patrimonio urbano esistente. Strutture sicure che verrano riconvertite in alloggi per gli studenti. 200000 visitatori attesi al giorno che si muoveranno solo con mezzi di trasporto pubblico a emissione zero. Un nuovo look, perchè anche l'estetica, a dispetto della sua difficile trattazione in termini di deliberazione per costi-benefici, vuole la sua parte: il nuovo bosco urbano, realizzato al posto del vecchio quartiere fieristico, è il simbolo della prima città mondiale ad aver risolto i problemi energetici e della mobilità con un ricorso totale ad energie rinnovabili, con una rete di linee pubbliche e percorsi ciclabili che non ha paragone al mondo. I quartieri periferici sono stati trasformati in tante cittadelle dove cultura, socialità e vivibilità sono le nuove parole d’ordine. Il Parco Agricolo Sud è diventato il principale fornitore di alimenti biologici per la città. Spicca l'innovazione di una rete wireless gratuita, fruibile da milioni di persone quotidianamente, che potenzia la comunicazione e gli scambi. Il 40% del territorio comunale è stato pedonalizzato. Solo alcuni esempi dei fiori all’occhiello del Rinascimento ambrosiano. Insomma oggi Milano è una città dove chiunque vorrebbe vivere, modello cui tutte le metropoli si ispirano per superare i problemi che stanno portando il pianeta al collasso...

Sarà così? Purtroppo crediamo di no.

Gli obiettivi dell'attuale candidatura milanese si discostano profondamente da questa visione. Di tre livelli del progetto, quello che ci sembra più chiaro è unicamente quello speculativo. Ad un secondo livello, per quanto riguarda la "vetrina commercale" e l'opportunità di far convergere le eccellenze agricole della regione in relazione al tema trattato, non dubitiamo che i padiglioni dell'Expo potranno offrire attrezzature all'altezza dell'organizzazione; ma ricordiamo che fermo obiettivo del BIE è una "regolazione" di questa dimensione, come leggiamo ove si scrive "the degree of commercial activity carried out at BIE exhibitions is carefully regulated". D'altra parte, per quanto riguarda il tema dell'esposizione, ci riserviamo di esprimere la nostra posizione più avanti nel presente testo.

Un'attenzione speciale merita dapprima l’area su cui dovrebbe sorgere l’Expo.

Situata al centro di una zona già congestionata, densamente popolata e ad alto tasso di inquinamento, durante lo scorso settembre, in occasione della Fiera del Ciclo, ha registrate punte di oltre 32 km di coda in Tangenziale in direzione Fiera. Dalle immagini si vede abbastanza chiaramente che il grigio-nero è territorio vivo, con insediamenti residenziali e produttivi: sembra "ground zero", con attorno poche costruzioni superstiti e un po' di verde che resiste. Si tratta sicuramente di un territorio già massacrato dai lavori per la nuova Fiera e per la viabilità circostante (viabilità in corso di realizzazione per opera dell’impresa Grassetto di Gavio e Ligresti). Un’area organizzata in un sistema complesso, composto da 3 autostrade (Milano-Torino, Milano-Varese, Tangenziale Ovest), dall’Alta Velocità, dalla s.s. 33 del Sempione, da aree industriali dismesse e da aree abitate contese tra Milano, Pero e Bollate, che meriterebbero interventi di riqualificazione, non certo 10 anni di cantieri, 6 mesi di EXPO, altri 10 anni di cantieri ed alla fine una bella speculazione edilizia a vantaggio di pochi immobiliaristi, con terreni la cui destinazione d'uso è stata come per magia cambiata per ospitare strutture residenziali, commerciali, uffici per strati sociali che non sono certo in cima a urgenze di sostegno.

Sappiamo che l’accordo tra Ente Fiera, Cabassi e Comune di Milano, in cui vengono definiti i termini per l’uso e la trasformazione del territorio, è stato infatti siglato il 19 luglio 2007 a Malpensa. Il Gruppo Cabassi e l’Ente Fiera hanno ceduto in diritto di superficie al Comune di Milano l’area (in totale: due milioni di metri quadri di intervento): in cambio, hanno ottenuto la nuova destinazione d’uso. E' previsto che la costruzione e la demolizione dell’Expo sarà a spese del Comune. L'accordo prevede che il diritto di superficie concesso al Comune si estingua dopo l´Expo e che le aree tornino ai privati, finalmente edificabili. L´indice di edificabilità concesso è ricco, mentre non risultano vincoli per le proprietà, a parte il divieto di installare attività produttive insalubri.

Anche se quello presentato è un progetto di massima che verrà ampiamente ricontrattato nei suoi dettagli, è evidente l’impatto che l’Expo avrà sul territorio. Grandi interventi urbanistici trasformeranno molte zone di Milano (CityLife, Santa Giulia, Città della moda, per esempio) secondo una logica che non risponde nè a esigenze di gestione della manifestazione nè al governo del territorio in futuro: sono interventi comunque pesanti che muteranno per sempre il carattere sociale, culturale ed economico della città. Quartieri esclusivi, case per manager e società multinazionali. Niente a che vedere con la socialità, con i bisogni dei cittadini, con la Milan cunt el coeur in man.

Oltre al territorio immediatamente circostante, l’Expo 2015 sembra presentarsi come occasione per accelerare una serie di interventi legati ad infrastrutture per la mobilità, completando la saturazione di un territorio ampio che va dal Piemonte al Veneto, dalle Prealpi al Po. L’obiettivo emergente è un grande conglomerato dedito alla logistica e allo smistamento di merci, alla loro commercializzazione in spazi sempre più grandi e diffusi. La ValPadana e i suoi circa 10.000.000 di abitanti potrà essere trasformata in un grande centro intermodale per i trasporti, con autostrade che solcano la superficie in ogni direzione collegando centri commerciali, interporti, grandi infrastrutture; mentre i nostri diritti alla salute, ad un territorio libero dal cemento, ad una mobilità sostenibile, a beni comuni fruibili, puliti, accessibili... dimenticati.

Basta leggere alcune cifre del progetto:

- 1.700.000 mq di superficie per realizzare il sito dell’Expo adiacente all’attuale Fiera di Rho-Pero sui terreni attualmente a destinazione agricola

- 2.100.000 mq di superficie per possibili strutture di servizio e supporto all’Expo (potrebbe essere sull’area ex-Alfa Romeo di Arese ma anche altrove)

- opere ricettive per un fabbisogno stimato di 124.000 posti letto al giorno

- opere per la mobilità per far viaggiare i 160.000 visitatori al giorno previsti e le merci del caso, in particolare

1. realizzazione della terza pista a Malpensa e collegamento diretto Malpensa-Fiera

2. parcheggi presso il sito Expo e in corrispondenza di nuovi centri di interscambio

3. realizzazione stazione TAV tratta Lione-Torino-Milano presso la Fiera

4. realizzazione 4^ linea metropolitana da Linate al Giambellino

5. nuove tangenziali per Milano (la nuova Est più esterna, il completamento a Nord dell’anello)

6. realizzazione delle autostrade Pedemontana, BreBeMi e Broni-Mortara

7. nuovo raccordo A4 Boffalora-Malpensa

- più di 4 miliardi di Euro di costi diretti per realizzare il sito dell’Expo e tutto ciò che serve all’evento (di cui 1,400 milioni di denaro pubblico)

- svariati miliardi di Euro (si suppone in parte pubblici) per realizzare le altre opere suddette.

Pensiamo che Milano e la Lombardia siano vittime di un modello socio-economico che sta portando il territorio al collasso, e non da oggi. Diverse fonti statistiche indicano senza dubbio un quadro allarmante: la densità di auto per abitante è tra le più alte al mondo, il trasporto di merci e persone è prevalentemente su gomma. Spicca l’assenza di politiche energetiche e sui rifiuti che puntino alla rinnovabilità delle fonti, al riciclo totale e all’emissione zero di CO2. La mobilità sostenibile resta un lontano obiettivo. Per 2/3 dell’anno Milano è oltre le soglie di rischio per polveri sottili e altri inquinanti (e la Val Padana è tra le regioni più congestionate del pianeta). Senza considerare l’incidenza di tumori e altre patologie di tipo cardio-circolatorio sopra le medie: bambini che imparano fin da piccoli a conoscere asmi, bronchiti, bruciori a occhi, naso e gola. Senza contare i disagi del traffico, le code, i tempi esagerati di percorrenza per i pendolari (anche più di un’ora di treno o di altro mezzo pubblico per fare poche decine di km in condizioni spesso disumane).

Per un malato in queste condizioni, normalmente, si somministrano cure drastiche. Quali cure sono contenute nel progetto per l'Expo? Gli investimenti sulla rete della metropolitana erano già previsti a prescindere dalla candidatura. Altri interventi sul trasporto pubblico sono insignificanti rispetto alla quantità di soldi e di cemento che caleranno sulla Lombardia nei prossimi anni. Non è difficile immaginare lo scenario post Expo: urbanizzazione intensa del territorio a nord-ovest di Milano, saturazione delle aree residue attorno alla Nuova Fiera, realizzazione di nuove infrastrutture e nuove residenze, erosione delle aree verdi (Parco delle cave, Parco di Trenno, Parco Agricolo Sud Milano), ed infine “valorizzazione” del territorio. Ma per chi? E’ un progetto ad impatto ambientale enorme, economicamente costoso. Prendiamo il caso della terza pista di Malpensa. Oggi Malpensa è in crisi, inutile e inutilizzato come hub, soffocato dalla concorrenza di almeno altri dieci aeroporti sparsi lungo la direttrice Torino-Trieste. Come si può pensare di ingrandirlo? E quando si concluderà l’Expo cosa succederà? Cosa ci faremo con la terza pista? Gare di auto?

Nel presentare la candidatura ad un'esposizione universale non si dovrebbe trascurare di dare una fotografia reale della situazione attuale. Perchè si dipingono tanti ghirigori ma si tace, per esempio, che questa città da un anno non riesce a trovare una sede per una scuola elementare islamica, o un luogo sicuro per vivere a circa 600 ROM? Si persegue invece un modello di città esclusiva, il Downtown di tanti film americani, dei tanti progetti in corso (Citylife, Santa Giulia, Portello, Garibaldi-Repubblica, etc); torri scintillanti e giardini pensili di lusso.

E perchè organizzare la manifestazione nell'unica area verde prossima all'attuale polo fieristico di Rho- Pero? Perchè consentire facili speculazioni di Cabassi o Ente Fiera? Perchè non riutilizzare strutture già esistenti? Perchè non ripiegare sugli attuali mezzi del polo fieristico e sospendere nel periodo interessato tutte le altre manifestazioni? Queste sono domande ineludibili e prive di risposta, che secondo noi rivelano la vera posta in gioco presente nell'attuale progetto di candidatura.

Infine, cosa dire onestamente del tema scelto per l'Expo?

"NUTRIRE IL PIANETA - ENERGIA PER LA VITA". In estrema sintesi: ci sembra una presa in giro.

Vorremmo sgombrare il campo da un'equivoco: pensiamo che il Nord del mondo non debba affatto nutrire il pianeta. Non dobbiamo vendere i nostri modelli. Dobbiamo semplicemente permettere al mondo di nutrirsi da solo.

Il fallimento delle politiche delle organizzazioni a livello internazionale, FAO, FMI, Banca Mondiale, WTO, riguardanti la cancellazione o riduzione della fame nel mondo è sotto gli occhi di tutti. Siamo la prima generazione ad essere in possesso di strumenti e mezzi per debellare la fame e la povertà nel mondo e, nonostante questo, il divario tra paesi ricchi e poveri aumenta sempre più ogni anno, come dimostrano i rapporti dell’UNDP ( Programma Delle Nazioni Unite) sullo sviluppo umano.

Nel mondo, due miliardi e 800 milioni di persone vivono con meno di due dollari al giorno (pari ai sussidi che riceve quotidianamente dai governi ogni mucca occidentale) e 852 milioni soffrono la fame. Le persone malnutrite sono in aumento. Ogni anno, 5 milioni di bambini muoiono di fame. Nel mondo, 2 miliardi di persone ogni anno si ammalano per mancanza di acqua pulita e 2 milioni ne muoiono. Un miliardo e mezzo di persone subisce le conseguenze della privatizzazione dell’acqua.

Pensiamo che questi siano i risultati delle politiche delle Organizzazioni Mondiali, ma soprattutto il risultato del nostro modello di sviluppo, i risultati del libero mercato.

Notiamo che nel programma dell’Expo, purtroppo, non si legge nulla al riguardo: nessuna critica al modello agro-alimentare fin qui seguito; nessuna critica all’imposizione delle monoculture che impoveriscono il suolo e affamano milioni di contadini; nessuna critica all’impiego nell’agricoltura di Organismi Geneticamente Modificati, di sementi ibride che spegneranno la biodiversità.

L’Expo, come si legge nel programma, si configura come un luogo dove le multinazionali potranno tranquillamente tornare all’attacco per esporre i vantaggi degli OGM e farci credere che sono un mezzo per lottare contro la fame nel mondo.

Ma la fame nel mondo non è legata principalmente alla scarsa resa dei terreni e dei semi, bensì alle sovvenzioni all’agricoltura in Europa e negli USA che consentono massicce esportazioni di alimenti dal Nord del mondo verso i paesi più poveri; direttive che hanno l'effetto principale di buttare fuori dal mercato le economie locali, così che si arriva al paradosso per cui il riso locale costa di più di quello in arrivo dall'occidente. Il risultato è la distruzione dei mercati locali e la spinta obbligata a comprare OGM che devono essere comprati ogni anno, mentre i semi naturali posso essere ripiantati. Questo è stato finora l’atteggiamento dei Paesi ricchi e delle multinazionali, il che ci sembra perfettamente compendiato nel titolo “Nutrire il pianeta”.

Durante l’Expo ci sarà l’esposizione della produzione elitaria dei cosiddetti prodotti tipici. Ma non dobbiamo tanto propagandare i prodotti tipici, quanto valorizzare la cultura dei contadini nostrani e dei contadini del Sud del mondo. Dobbiamo pensare a un nuovo rapporto con la terra, che lasci spazio a produzioni e consumi tipici non d’élite. Dobbiamo proporre un’offerta di cibi che diano la possibilità di acquisto diretto a prezzi ragionevoli, accompagnati da informazioni e incontri produttore/consumatore. Dobbiamo comprare soprattutto cibi che vengono dalle nostre campagne, e non cibi che hanno fatto il giro del mondo aumentando il tasso di anidride carbonica con un trasporto selvaggio.

Se Milano vuole valorizzare la propria agricoltura, ad esempio, dovrebbe far vivere e valorizzare il Parco Agricolo Sud, mettendo in pratica il Piano di Settore Agricolo e proponendo leggi per il cambio d’uso delle terre. L'esatto contrario di quanto avverrà prefigurando gli attuali scenari del progetto.

Viviamo come se avessimo tre pianeti da consumare. Se non modificheremo radicalmente i nostri comportamenti e il nostro modello di sviluppo, si prevede entro breve tempo una crisi drammatica, con un crollo della produzione di alimenti e della produzione industriale dovuto alla progressiva diminuzione delle risorse naturali. Nei paesi ricchi viviamo ampiamente al di sopra delle nostre possibilità ecologiche: il nostro benessere materiale è possibile solo a prezzo dello sfruttamento delle risorse naturali e del lavoro di quei tre quarti dell’umanità che vive nel Sud del mondo. Siamo una società miope, incapace di guardare oltre se stessa e i propri immediati vantaggi, sia nel tempo, ignorando del tutto i diritti delle generazioni future, sia nello spazio, ignorando tranquillamente anche i diritti delle altre comunità umane.

Dunque, non “Nutrire il pianeta”, ma “riutilizzare”, “riciclare”, “riparare” dovrebbero essere i temi di un’Expo credibile oggi.

Anche per questo motivo vogliamo ribadire la nostra contrarietà all'attuale progetto di candidatura per ospitare l'esposizione universale del 2015 a Milano. Siamo cittadini che hanno a cuore sia lo sviluppo del territorio milanese e circostante, sia i grandi temi della fame nel mondo e delle prospettive future del nostro modello economico. Ma non crediamo che tutto questo sia neppure lontanamente rappresentato dal progetto in questione, che invece rischia di arrecare danni irreparabili alle nostre vite. Sulla base di quanto sommariamente detto, vogliamo sottolineare che dal nostro punto di vista la candidatura di Milano somiglia più ad una sciagura da evitare che ad una "grande opportunità". Nel simbolo di Leonardo, "uomo che fa girare il mondo", non vediamo la logica di uno sviluppo e di una crescita senza limiti connessa ad un'onnipotenza produttiva, e celebrata da una Grande Esposizione Universale dello scempio del territorio lombardo: ci piacerebbe invece riconoscere in questo simbolo la comunità umana che torna a partecipare attivamente al controllo del suo mondo. Quella stessa comunità che non è stata consultata per la candidatura all'Expo 2015.

[di seguito pdf allegato con tabella e illustrazioni f.b.]

Comitato No Expo - Milano – Febbraio 2008

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Sviluppo alcune riflessioni dopo la lettura della lettera di Morisi e delle risposte di Salzano e Baldeschi su Castelfalfi. Premetto che l’attività del garante della comunicazione (che non ho mai fatto) e quella dell’activist o attivatore di processi partecipativi (che ho sempre fatto, come “urbanista di parte” secondo la classica definizione di Pierluigi Crosta) sono due mestieri molto diversi, ma non necessariamente, se lo si vuole, in contraddizione fra loro.

Il garante deve garantire terzietà, condurre un processo partecipativo informando, dando la parola a tutti in modo equanime, “registrare e basta” come giustamente scrive Massimo Morisi e come correttamente ha fatto a Montaione esercitando il suo ruolo tecnico.

L’activist no, non è imparziale, assume volta a volta l’internità dell’osservatore al campo di osservazione e ne assume le passioni muovendosi nell’ambito della ricerca-azione, opera nel processo partecipativo esercitando un ruolo etico (che riguarda la felicità pubblica) per aiutare i soggetti deboli del processo a destrutturare i problemi come sono posti, a decolonizzare l’immaginario, a spostare in avanti la progettualità, l’autogoverno, a crescere come cittadinanza attiva e consapevole. Farò un esempio lontano nel tempo.

Quando con Giorgio Ferraresi e altri nel 1988, nella Milano “da bere”, fondammo l’associazione Ecopolis, Città di villaggi, il nostro lavoro consisteva nell’aiutare i più di cento comitati di cittadini a coordinarsi e a sviluppare, anche tecnicamente, i loro progetti quando questi erano in conflitto con quelli dell’amministrazione. Un giorno venne alla sede di Ecopolis un gruppo di abitanti del quartiere Adriano, una periferia di casermoni in prati incolti e degradati a nord-est di Milano, molto poco da bere. Ci chiesero di aiutarli a progettare una schermatura di alberi alla futura “Gronda Nord”, una superstrada urbana che avrebbe tagliato in due il loro quartiere. Le discussioni e le indagini sul quartiere furono lunghe e appassionate e portarono a conclusioni inaspettate.

Dopo qualche mese gli stessi abitanti cominciarono a ripulire una discarica abusiva, a trasformarla in un anfiteatro a gradonate per un teatro all’aperto; una vicina cascina abbandonata fu restaurata con l’aiuto di giovani volontari russi ospitati dagli abitanti, per farne il centro sociale del quartiere. Ciascuno portava i suoi saperi, i falegnami, i muratori, i meccanici, gli idraulici, i geometri, gli architetti e cosi via; affluivano per incanto materiali da costruzione, ruspe, arredi, piantumazioni. Si avviarono (con modesto successo, dato lo stato velenoso delle acque del Lambro) i progetti di orti urbani. In una serata memorabile con uno spettacolo di Paolo Rossi si inaugurò il nuovo spazio pubblico autocostruito del “villaggio” Adriano.

Il tracciato della Gronda Nord era stato nel frattempo radicalmente contestato dagli abitanti, coordinati con quelli degli altri quartieri interessati; essendo cresciuta la loro coscienza di luogo attraverso i percorsi partecipativi della cura quotidiana del quartiere, non si accontentavano più delle barriere antirumore, ma l’opera stessa era negata dal loro orizzonte, ampliatosi sulla ricostruzione della comunità locale e del suo luogo sociale di vita.

C’è dunque differenza fra garantire un processo di ascolto allargato alla popolazione, su un problema predefinito e contingente (la gronda nord, il progetto di insediamento turistico TUI) che definirei una specifica interpretazione del processo di governo dei conflitti verso un processo di governance; e far crescere processi di democrazia partecipativa in quanto forma ordinaria, non contingente di governo che comporta processi lunghi e difficili, ma costanti di maturazione di cittadinanza attiva e di trasformazione culturale verso l’autogoverno. Rispetto a questa seconda accezione, l’ascolto sul problema contingente non può che essere il primo passo della democrazia partecipativa, se l’obiettivo non è il consensus building ma l’empowerment della società locale.

Per questo sono rimasto un poco allarmato dalle conclusioni di Martini riportate da Morisi: “Castelfalfi è il modello di riferimento della partecipazione in Toscana del governo del territorio”; speravo (e non dispero) che il modello di riferimento fosse ad esempio un processo di costruzione dall’inizio del quadro conoscitivo di uno “statuto del territorio” che consentisse agli abitanti di un comune (o di un gruppo di comuni) di maturare un’idea condivisa di patrimonio territoriale, ambientale, paesistico; di codificarla nello statuto in modo da affrontare poi con consapevolezza collettiva i progetti di trasformazione che via via vengono proposti.

Assumere Castelfalfi come modello sarebbe come considerare l’articolo 1 della Convenzione Europea del paesaggio , in cui il paesaggio “designa una determinata parte del territorio cosi come è percepita dalle popolazioni”, trattabile alla lettera con qualche intervista o con qualche assemblea in cui ognuno dice come percepisce il paesaggio.

Ma chi sono queste “popolazioni” che “percepiscono”? Esse, lo sappiamo, sono ridotte (non tutte per fortuna, esiste una cittadinanza attiva crescente e diffusa sul territorio) a individui la cui cittadinanza implode nella loro figura di consumatori. Questi consumatori sono bombardati, tramite pubblicità televisive, da una cultura che gli propone l'auto sotto il letto; essendo espropriati dai saperi locali, sono indotti a praticare correntemente il "localismo vandalico", sognando di abbellire i luoghi con i modelli stilistici standardizzati delle periferie metropolitane; sono sospinti a vivere la loro socialità negli pseudo spazi pubblici degli ipermercati o in piazze telematiche; sono costretti a delegare sempre più la propria vita riproduttiva a grandi apparati tecnologici e finanziari, sempre più lontani dalla loro capacità di controllo. Sono questi immaginari eterodiretti che dobbiamo “ascoltare” o abbiamo la responsabilità di fornire agli abitanti di un luogo strumenti che li aiutino a cambiare la loro posizione di sudditanza culturale e alienazione? Se ci limitiamo a consultarla per capire come "percepisce" il paesaggio, ho l'impressione che l’”ultimo ex mezzadro” citato da Morisi ci chieda: "ma che hazzo è sto paesaggio?" Figurarsi poi di quali saperi contestuali riescono ad avere memoria e pratica attiva, i giovani rumorizzati delle discoteche o quelli dei centri sociali sistematicamente sfrattati, i maratoneti delle ipercooppe, gli immigrati con i problemi di cittadinanza, gli anziani che non arrivano con la pensione alla fine del mese, ma anche una gran parte dei nostri colleghi architetti, impegnati ad affermare la propria griffe nei paesaggi posturbani.

Finché molti cittadini di Montaione continueranno a pensare che il turismo di lusso della TUI gli porterà dei vantaggi (economici? occupazionali?), con le sirene degli accattivanti disegnini tedeschi che inventano un paesaggio toscano ad uso esclusivo di turisti globali, e la Regione che legittima soluzioni come questa come ottimali per l’economia turistica, avrà ragione il garante che, applicando correttamente il suo mestiere e operando entro questi orizzonti di senso, rivendica la correttezza della consultazione contingente degli abitanti per ridurre l’impatto dell’intervento, identificandola con la democrazia partecipativa. Quest’ultima è necessariamente un processo ben più complesso di decolonizzazione dell'immaginario e di maturazione culturale verso la consapevolezza del proprio patrimonio e la ricerca di una identità collettiva; processo che la sinistra (insieme agli intellettuali, con o senza villa) dovrebbe contribuire a far crescere, prospettando modificazioni degli interessi in campo dati, progettando e prospettando futuri equi e autosostenibili, anziché santificare lo stato presente delle cose e le sue ineluttabili leggi e confini di operatività.

Ma al di la della distinzione fra consultazione e partecipazione, ha colpito anche me, come ha colpito Edoardo Salzano, l’affermazione di Morisi che il destino di Montaione si situi inevitabilmente nella tenaglia fra il villaggio-missile transnazionale con raddoppio del campo da golf e del borgo storico (ridimensionato, forse, speriamo, dal processo di consultazione attivato) e lo svillettamento monticchiellare. Ritorno con un esempio all’annata 1988.

Abito in un piccolo borgo storico di Montespertoli (io sono una modesta variante della figura degli ’”intellettuali proprietari di villa” citati da Martini come unici oppositori al progetto di Castelfalfi, ovvero l’”intellettuale proprietario di torre borghigiana”, dove con mia moglie Anna ho lo studio e abito). Ebbene a quel tempo i proprietari del borgo, parte della fattoria di Lucignano, i conti Lodovico e Antonella Guicciardini, intenzionati a venderlo, avevano la comoda soluzione di una immobiliare, possibilmente multinazionale, che lo acquistasse a caro prezzo in blocco. Facile ipotizzare, in quel caso, un modello Castelfalfi ante litteram: la multinazionale avrebbe “trattato”una variante al PRG (che prevedeva per la zona circostante il borgo area di pregio ambientale, non edificabile) con raddoppio del borgo per ragioni di economia dell’azienda turistica che ne sarebbe seguita e la sostituzione, nella valletta antistante il borgo, della complessa trama di oliveti, vigneti, ragnaie, sterrate, ripe, boschetti e ciglioni, che costituisce il paesaggio storico delle ville fattoria, con un campo da golf. I Guicciardini scelsero un’altra strada. Frazionarono il borgo in 15 unità immobiliari, attribuirono a ciascuna un pezzo di terra circostante il borgo da coltivare (oliveti, vigneti, orti, giardini, ecc) e fecero preparare al prof. Luigi Zangheri dell ‘Università di Firenze un “Piano di riuso”, ratificato dal Comune che, oltre a confermare l’immodificabilità volumetrica del borgo, stabiliva regole di buona manutenzione dello stesso e delle sue pregevoli caratteristiche architettoniche, urbanistiche e paesistiche. Il Piano di riuso era allegato all’atto di acquisto di ogni unità immobiliare, come parte integrante del contratto. Non solo. Nelle vendita è stata data precedenza in primo luogo ad ex contadini e lavoratori della Villa fattoria, in secondo luogo ad artigiani locali (muratori, idraulici, cestai) e infine, per una quota residua, a “stranieri” come me. Oggi il borgo e il suo paesaggio (non senza gli usuali conflitti condominiali) sono mediamente ben riprodotti, curati, coltivati.

In conclusione concordo con Paolo Baldeschi (altro intellettuale in villa) quando a conclusione del suo intervento propone un tavolo partecipativo interscalare per elaborare uno “statuto del territorio dell’ambito di paesaggio” in cui si trova Castelfalfi, che potrebbe portare “buone regole d’uso e delle possibili trasformazioni, perché no, migliorative”.

La legge sulla partecipazione della Regione Toscana appena approvata offre questa possibilità: iniziare la costruzione di statuti dei luoghi attraverso processi partecipativi, che produca buone regole condivise per la cura e la trasformazione dei luoghi, decise dal comune insieme agli abitanti che rappresenta, prima e a prescindere dall’arrivo delle multinazionali del turismo; aiutando inoltre gli abitanti, attivando modelli di sviluppo economico locale, a non vendere il proprio territorio alle multinazionali stesse, processo purtroppo “galoppante” per le grandi aziende agricole, industriali, borghi e città toscane.

Tutto è bene ciò che finisce bene, ma l’inizio dell’Ecopass sembra non essere negativo, almeno secondo le fonti ufficiali. Certo l’impatto è destinato ad attenuarsi: molti si abboneranno, altri cambieranno i veicoli per non pagare. Ma vediamo le possibili conseguenze sulle due variabili "strategiche" cui è destinato l’Ecopass: smog e congestione. Paradossalmente l’impatto ambientale, dichiarato prioritario, è quello con minori prospettive di successo. Gli inquinanti tradizionali (ossidi di zolfo e di azoto, composti del piombo, monossido di carbonio) sono sotto le soglie critiche, e l’anidride carbonica (che provoca l’effetto serra ma non nuoce alla salute) non diminuisce con veicoli "puliti". Resta solo il particolato, che è fuori norma e non cala. Ma è emesso dal traffico solo in parte, quasi solo dai diesel, e si muove rapidamente, per cui sembra problematico (e iniquo) cercare di fare del centro di Milano un’isola felice.

Situazioni di alta pressione atmosferica, infatti, mostrano una presenza di particolato fuori dai limiti europei, diffusa "democraticamente" su tutta la pianura lombarda. Qui occorre dunque vedere gli effetti reali nel medio periodo, e dei dubbi sono legittimi.

Parzialmente diverse possono essere invece le prospettive sulla congestione, che ha andamento molto più che proporzionale al traffico: bastano, cioè, relativamente pochi veicoli in meno sulle strade urbane per avere rilevanti benefici in termini di velocità di deflusso. Il problema tuttavia è la stabilità nel tempo del fenomeno: infatti il miglioramento delle velocità ha un fortissimo effetto di attrarre nuovo traffico (principio dei "vasi comunicanti"). Ben diverso sarebbe stato l’impatto di una disciplina più severa della sosta (le sanzioni comminate per divieto di sosta sono una piccolissima frazione di quelle necessarie a scoraggiare le infrazioni, come d’altronde è evidente dal perdurare, in questo settore, di comportamenti da terzo mondo). Tale disciplina avrebbe determinato condizioni più stabili di riduzione del traffico, e più equamente distribuite.

Ma qualche segnale positivo emerge anche su questo fronte. L’indisciplina del carico e scarico delle merci è uno dei fattori maggiori di congestione (la sosta in seconda fila, insieme alla mancata delimitazione delle corsie di marcia, genera una sostanziale sottoutilizzazione della rete viaria), ed è già stata oggetto di limitazioni, rimaste però, come ognuno di noi può vedere, perfette "grida manzoniane". Milano rimane ancora la capitale mondiale delle soste in doppia fila. Ora sembra che sia imminente il varo di nuove regole che limitino il carico e scarico alle ore notturne. Eccellente iniziativa (i vecchi furgoni diesel tra l’altro inquinano molto): ma lo scetticismo è purtroppo d’obbligo, visto il destino del provvedimento precedente.

Il prof. Massimo Morisi ritiene che il resoconto sulla stampa del processo decisionale su Castelfalfi- Tui sia carente di notizie assunte in loco.

E' vero, il caso è stato all’inizio sottovalutato dagli organi d’informazione: ma questo è certo dipeso dal messaggio sottotono – e rassicurante – che è stato fatto passare. Oggetto: la riqualificazione di un vecchio borgo e non il progetto speculativo di una multinazionale determinata a fare quadrare molto rapidamente i costi dell’ investimento ( cosa che solo l’intrapresa edilizia consente).

Sì, il caso non è apparso immediatamente con il suo vero volto, e questo è il primo difetto della comunicazione.

Peccato, però, che non tutto quello che è stato pubblicato sia presente nel sito dp-castelfalfi.it.. Per esempio: della cronaca che ho scritto tempestivamente sulla presentazione del progetto di Tui ( sul n. 41 di Carta e poi su eddyburg.it ) non c'è tracccia, nonostante l’articolo sia stato tempestivamente inviato all’ ufficio del Garante della comunicazione, insieme al commento di Edoardo Salzano.

L’esordio della “buona” partecipazione. Io c'ero quella domenica 21 ottobre a Montaione e l'impressione negativa che ho ricavato è che ex mezzadri e intellettuali in platea, siano stati iniziati al dibattito da una illustrazione assai circospetta – con troppe omissioni – e a tratti forse anche faziosa, dato che la lettura del progetto è stata tutta di parte.

Si dirà che toccava a Tui illustrare la proposta, e ai suoi procuratori difenderla appassionatamente. Replico che in assenza diuna “accusa” – un’istruttoria rigorosa – che con un tempo pari a disposizione, proponga altre interpretazioni e altre ragioni, il messaggio che si veicola è asimmetrico, pende troppo da una parte. Nella fase delicata dell’avvio, questo è un deficit comunicativo di grave pregiudizio per il seguito del dibattito.

Si sapeva che la multinazionale avrebbe magnificato il suo progetto e che la sindaca avrebbe manifestato grande apprezzamento. Della parola dei sindaci i cittadini da queste parti ancora si fidano. Così la proposta di Tui è stata posta su un piano leggermente inclinato eliminando qualche curva nel percorso verso l’approvazione.

Chi avrebbe dovuto evitare questa partenza così squilibrata e mettere a disposizione un’altra diversa opinione ? Una opinione “contro” da proporre prima di aprire il dibattito, guarda caso costretto in un tempo assai breve ( si sapeva che alle 12,30 – concluso il tempo assegnato al prologo monocorde – il pubblico sarebbe piano piano svicolato verso il desco domenicale).

Nella presentazione alla quale ho assistito nessun accenno ai numeri ( perché?); e senza numeri non si spiega un progetto che prevede trasformazioni: così la comunicazione è stata deprivata di una cognizione indispensabile nella fase più delicata.

I numeri, superfici, volumi e quindi utenti e automobili, con po' d'impegno si possono desumere dal fascicolo (prodotto con risorse di Tui) nonostante il resoconto sfuggente.

Numeri da interpretare, però. In mezzo a disegni a pastello anch’essi evasivi e furovianti. E perché non simulazioni tridimensionali? Che, per quanto manchevoli della poetica neoimpressionista, avrebbero reso un servizio più adatto al caso? La comunicazione sarebbe risultata più efficace, senza le mediazioni dell’artista, che possono confondere le idee.

Non mi pare che questa prima fase, utile a formare le opinioni, sia stata condotta con sufficiente equilibrio e troppo volta all’interno.

Temo che il prof. Morisi non colga quanto sia imprudente una visione introversa del caso Castelfalfi. Non è un successo la partecipazione ristretta ai soli abitanti di Montaione, perchè Castelfalfi ci appartiene (sì, anche a noi che abitiamo lontano dalle colline del Val d'Elsa). Ecco, dei modi interscalari della partecipazione, non c’è alcuna traccia nel procedimento.

La proprietà é di Tui – ripete più volte il Garante.

E allora? Ci sono regole sulla tutela del paesaggio che si possono applicare pure in Toscana, con rigore alla proprietà di chicchesia, se solo non si traducesse il principio di sussidiarietà in una pericolosa serie di scorciatoie locali. Perchè interpretazioni locali per la tutela non dovrebbero intaccare la sostanza del principio.

Ma perché questa visione rassegnata ? La proprietà privata dei suoli non ci condanna a un futuro di villette a schiera, di villaggi Robinson, dappertutto..

Anche in Sardegna, uno dei posti più belli del mondo è di proprietà privata, nientemeno della famiglia Berlusconi.. Volevano farci un megavillaggio turistico, molte centinaia di migliaia di metri cubi, una grande speculazione edilizia come quella di Castelfalfi, d’accordo il Comune di Olbia. Eppure, regole meno circoscritte, frutto di un dibattito più ampio, transcalare appunto, hanno impedito quella orribile speculazione. Neppure una villetta a schiera in quell’area ribattezzata Costa Turchese.

Le regole per difendere il paesaggio ci sono e possono e devono prevalere. Solo Cetto Laqualunque è sicuro che “ in amore e in edilizia è vietato vietare”.

Nota: sul nodo partecipazione locale/trasformazioni terrioriali con specifico riguardo all'emblematico caso Castelfalfi, si vedano: le critiche al lavoro del garante, di Mauro Parigi, la risposta del garante Massimo Morisi, un intervento di Edoardo Salzano, e il contributo di Paolo Baldeschi ; a complemento di queste specificazioni, è certamente utile la lettura o rilettura dei testi di Alberto Magnaghi sulla Legge Toscana che regola le modalità partecipative (f.b.)

La lettera di Massimo Morisi e la replica di Edoardo Salzano pongono un interessante terreno di riflessione. Parlo solo dei punti 1-5 della lettera, perché il resto mi sembra inutilmente polemico, come sgradevole l’accenno agli “accoliti di Asor Rosa”, fra cui ho l’onore di annoverarmi.

A Castelfalfi il garante ha fatto bene il suo mestiere. Per rendersi conto di ciò basta leggersi i verbali delle assemblee e la loro sintesi nel rapporto. Nessuno può accusare Morisi di essere stato di parte o indulgente con la Tui o omissivo. Da questo punto di vista molte critiche suonano preconcette e “a prescindere”. Morisi ha ragione quando ribadisce la necessità di non confondere il ruolo del garante con un ruolo decisionale e che - piaccia o non piaccia - questa è partecipazione e su questo terreno occorre che movimenti e comitati si confrontino.

Confrontiamoci dunque. Molto meglio il dibattito pubblico di Castefalfi che analoghi episodi, più piccoli ma consistenti nel numero, che si producono in modo seminascosto, aggirando lo spirito della legge di governo del territorio e del PIT, quando non in aperta illegittimità. I casi di Serravalle Pistoiese, dove il sindaco procede spedito nell’approvazione (illegale) di un villaggio turistico sul Montalbano nonostante le assicurazioni contrarie dell’assessore all’Urbanistica della Regione Toscana, e di Casole d’Elsa, dove trionfa un cronico abuso di potere da parte dell’amministrazione comunale, insegnano fra i tanti.

Il dibattito pubblico di Castelfalfi assume però un significato politico e non episodico solo se si inserisce in un processo rappresentativo e decisionale interscalare. Ha perfettamente ragione Salzano a sottolineare che questo è il vero nocciolo della questione. Da un punto di vista strettamente istituzionale, si tratta innanzitutto di fare rispettare le raccomandazioni del garante. Ma questo non basta. Ci vuole anche una buona politica. Una politica che, a mio avviso, deve essere basata sul semplice principio che ogni trasformazione del territorio nel “patrimonio collinare toscano” (invariante del PIT) e ogni nuovo consumo di suolo deve conformarsi alle regole del paesaggio - strutturali e ambientali - e non pretendere di dettare le proprie. In parole semplici: è la Tui, se vuole operare in Toscana che non è un’isola caraibica, ad adattarsi al paesaggio e non viceversa. Solo in subordine vengono le logiche tecniche e finanziarie.

Cosa succede adesso? Una strada, la più probabile, è che Tui ridisegni e in qualche modo ridimensioni il proprio progetto e che da qui inizi una contrattazione con il Comune dove si vedrà se le raccomandazioni del garante avranno efficacia. Si tratta comunque di un giocare in difesa. Soprattutto, come ha notato Salzano, se l’alternativa prospettata è l’ennesimo ‘svillettamento’ delle colline toscane, un’ipotesi che nella lettera di Morisi suona come dichiarazione di sfiducia rispetto ai buoni propositi e alle salvaguardie del PIT.

L’altra strada è che le istituzioni facciano un coraggioso passo avanti, aprendo un altro e più importante tavolo di partecipazione, un tavolo interscalare che, a partire da una ricognizione del patrimonio ambientale e paesaggistico in cui si inserisce il progetto, definisca le regole del suo uso e delle possibili trasformazioni, perché no, migliorative. In sintesi, si tratta di definire un vero e proprio statuto del territorio dell’ambito di paesaggio (per usare il lessico del Codice) in cui si trova Castelfalfi. Il soggetto promotore che dovrebbe fungere da ponte fra diversi livelli istituzionali e cittadini può essere la competente Commissione regionale del paesaggio o la Regione stessa. Ma le dichiarazioni su Castelfalfi del presidente Martini, e quell’incauto(?) incipit del rapporto del garante “nella misura in cui si può sa da fare” (tutto si può, ahimè, nella regione Toscana, legittimamente o illegittimamente), lasciano non pochi dubbi sul ruolo di garanzia politica della Regione.

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Se si vuol discutere con qualcuno la prima cosa è ammettere la sua buona fede. Dò per scontata la buona fede e l’onestà intellettuale di Massimo Morisi, e perciò non dirò che è un “accolito” di Riccardo Conti (e mi piacerebbe che lui non parlasse di “Alberto Asor Rosa e dei suoi accoliti”). Dò per scontata anche l’intelligenza di Morisi e credo volentieri che egli abbia applicato correttamente, come non dice solo Luigi Bobbio, la tecnica della partecipazione locale.

Ciò detto, mi sembra che Morisi, nella sua autodifesa dalle critiche all’intervento di Castelfalfi presti il fianco ad alcuni ulteriori motivi di critica. Mi sembra utile proporli anche perché il tema della partecipazione è tornato oggi all’attenzione dell’opinione pubblica, soprattutto in relazione alla Toscana e alla legge in proposito, recentemente approvata dal Consiglio regionale.

Vorrei partire da un concetto, che è stato chiaramente espresso da Alberto Magnaghi (un appassionato apostolo della partecipazione locale): quello che egli definisce “interscalarità”. “Se si vuole attribuire ai processi partecipativi il ruolo di strumento di intervento della cittadinanza attiva sulla costruzione del proprio futuro – ha scritto su eddyburg Magnaghi - è chiaro che tematiche come la qualità dell’ambiente di vita, la produzione, il consumo, la qualità dell’alimentazione, la mobilità, il paesaggio, le strategie di sviluppo, ecc. richiedono una forte interscalarità degli attori interessati e delle istituzioni coinvolte, dai comuni ai circondari, alle province alla regione”. In altri termini, la partecipazione “richiede la realizzazione integrale del principio di sussidiarietà per affrontare i problemi alla loro giusta scala di risoluzione”.

Declinare il principio di sussidiarietà nel contesto italiano richiede di interrogarsi (se si vuole adoperare il termine “sussidiarietà” secondo il modello europeo di Jacques Delors e non secondo quello dialettale di Umberto Bossi) su quali siano i livelli di governo e di appartenenza, le “comunità”, cui sono affidati patrimoni materiali e morali del Paese. In particolare – visto che di questo si è soprattutto discusso a proposito di Castelfalfi – quel bene comune che è il paesaggio. La Costituzione del 1948, nei suoi immoodificati principi, è molto chiara in proposito: la tutela del paesaggio è compito solidale della Repubblica, cioè dello Stato, della Regione, della Provincia, del Comune, i quattro livelli nei quali la Repubblica italiana si articola.

Ogni livello di governo, ogni comunità (quella locale e comunale, e via via fino a quella nazionale) esprimono interessi meritevoli di rappresentazione e di considerazione: quelli più vicini e diretti, come quelli più lontani e generali. La domanda è: è giusto che a decidere sul destino di un tassello del meraviglioso mosaico del paesaggio italiano sia la sola comunità di Castelfalfi? Ed è giusto che l’unico interesse sovralocale rappresentato con energia nel processo partecipativo di Montaione sia quello espresso dai rappresentanti di una istituzione che hanno predicato e praticato il più smaccato mix tra centralismo regionale (in materia di infrastrutture e altri grandi opere) e delega piena ai comuni (in materia di gestione del territorio e del paesaggio)? I cittadini della Toscana, dell’Italia (e dell’Europa) avrebbero anch’essi il diritto di essere coinvolti con pienezza di rappresentanza in un processo partecipativo compiuto.

Chi, nel concreto, ha rappresentato gli altri cittadini, le comunità più ampie di quella locale, i livelli di governo sovraordinato nelle assemblee di Montaione? Avrebbe potuto e dovuto svolgere questo ruolo il presidente della Regione Toscana, Claudio Martini. Egli infatti è stato presente ed è intervenuto nel dibattito. Ma basta leggere alcuni passi del suo intervento (nel rendiconto del Garante della partecipazione, che riportiamo qui sotto) per rendersi conto di come egli abbia saputo interpretare le ragioni degli altri.

“Il presidente ha sottolineato la valenza regionale della vicenda-Castelfalfi, perché ha a che vedere con lo sviluppo turistico della Toscana e perché può aiutare a decongestionare le città d’arte, creando alternative di qualità e puntando ad un turismo non mordi e fuggi”. Ciò che interessa, insomma, è “lo sviluppo del turismo”. Il prezzo che si paga in termini di snaturamento del paesaggio non conta.

“Martini – prosegue la sintesi ufficiale dell’intervento - ha polemizzato sia con l’isteria di tanti dibattiti politici, sia con chi vuole che si tolga l’urbanistica ai Comuni, centralizzando le decisioni. Si tratterebbe – ha precisato – di un drammatico passo indietro, anche perché nessuna Sovrintendenza o nessun ufficio ministeriale sarebbero in grado di organizzare e gestire un processo partecipativo come questo. E’ dunque bizzarra la posizione di chi chiede di abolire tutto ciò che sta tra i comitati locali e il livello statale”. Non risulta che nessuno abbia chiesto ciò. Ma attribuire all’avversario richieste palesemente assurde serve a screditarlo. Un artificio polemico adoperato nella “isteria di tanti dibattiti politici”, assolutamente impropria nell’intervento di chi dovrebbe esporre le ragioni dei “livelli sovraordinati”.

Allora una prima domanda a Massimo Morisi. È politicamente e culturalmente, corretto un processo di partecipazione in cui l’unico contrappeso all’espressione degli interessi locali, l’unica traccia di “interscalarità”, sia quello costituita dalle parole espresse dall’attuale presidente della Regione, il quale per di più ha affermato che gli unici oppositori all’intervento della multinazionale TUI sono “gli intellettuali proprietari di ville in Toscana”?

Una seconda domanda nasce da un’affermazione che Morisi esprime nella sua lettera di risposta alle critiche. Egli afferma: “Naturalmente, trovandoci anche noi, nell’infausta Toscana, entro quella ‘incresciosa’ situazione di un regime capitalista fondato sulla proprietà privata dei suoli, Tui potrebbe anche mandare tutti al diavolo, frammentare la vendita dell’area e affidarla a un incerto destino di villette a schiera (...anche perché sia i sindaci sia le opinioni sia gli strumenti urbanistici possono sempre cambiare)”.

Insomma, per il garante della partecipazione o a Castelfalfi avviene lo stravolgimento fisico e sociale che il progetto annuncia, oppure il suo futuro è di diventare come Monticchiello: “un incerto destino di villette a schiera”. E perché mai? Non è possibile immaginare un assetto urbanistico nel quale non diventi dominante ed esclusiva la monocultura turistica, non domini la privatizzazione d’ogni elemento del territorio, e in cui invece l’equilibrato rapporto tra le utilizzazioni del territorio e la sua forma diventi l’obiettivo primario? E in cui gli interventi edilizi privilegino il recupero, non lo stravolgimento, delle strutture storiche? E se oggi questo non fosse possibile, se le uniche convenienze economiche sono quelle delle multinazionali del turismo globale e non il tessuto delle economie locali, non sarebbe più saggio conservare quello che c’è in attesi di tempi migliori, praticando una intelligente politica di conservazione?

Certo, per farlo occorrerebbe che ogni istituzione svolgesse appieno il suo ruolo. Bisognerebbe che la Regione fosse consapevole di dover svolgere, in stretta intesa con lo Stato, un ruolo decisivo ai fini della tutela del paesaggio.

Bisognerebbe che le scelte della Regione Toscana fossero fedeli alla lettera e allo spirito del Codice del paesaggio. Bisognerebbe perciò che il Piano d’inquadramento territoriale (malamente camuffato in Toscana da piano paesaggistico) stabilisse precise invarianti territoriali: precise regole da rispettare da parte di tutti, anche da parte dei potenti, anche in una regione che si trova, per adoperare le parole di Morisi, “entro quella ‘incresciosa’ situazione di un regime capitalista fondato sulla proprietà privata dei suoli”. (Ma la privatizzazione dei beni pubblici, lo sfruttamento economico immediato, lo stravolgimento dei fattori naturali e antropici che caratterizzano il paesaggio, non sono stati e non sono praticati da tutti i capitalismi: sono un ‘privilegio’ del nostro, nel quale la rendita continua a essere la componente prevalente del reddito, e quella della quale gli interessi economici prevalenti si impadroniscono più volentieri).

Bisognerebbe, infine, che in Toscana (e magari in tutte le regioni d’Italia) si comprendesse, da parte dei governanti e dei loro consiglieri, che “valorizzare” non significa sfruttare nell’immediato i patrimoni costruiti da una società che, nei secoli, ha applicato lavoro e cultura al territorio, ma restituire e mettere in evidenza il loro valore originario. Questo per la verità è difficile immaginarlo nel breve periodo, dato che si deve a Claudio Martini, attuale presidente della Regione, la proposta dell’infausta separazione tra “tutela” e “valorizzazione” introdotta nelle nefaste modifiche costituzionali del 2001.

Mi rendo conto che parlare di valorizzazione in termini diversi da quelli della riduzione d’ogni bene a merce e d’ogni valore a valore di scambio, alludere a un concetto di sviluppo che non coincide con l’accrescimento del PIL, parlare di autonomia della politica sull’economia, sostenere che può essere opportuno conservare per domani quello che oggi corre il rischio d’essere solo distrutto e degradato, significa parlare di un mondo che è diverso da quello attuale: un mondo che in gran parte deve essere costruito.

E il problema, se si va al fondo della questione, è proprio questo. L’attuale establishment toscano (e italiano) è convinto che tempi radicalmente diversi da quelli attuali non siano possibili. L’economia della globalizzazione è quella che comanda, ora e sempre e così sia. È l’economia che comanda sulla politica: quest’ultima può temperarla, ammortizzarne gli effetti più rischiosi, ammorbidirne gli impatti: non guidarla o trasformarla . E la politica costruisce il consenso, la sopravvivenza dei propri apparati, sollecitando gli interessi economici immediati: sono essi che devono prevalere su quelli più generali e strategici, di lungo periodo.

Non meraviglia troppo che anche in Toscana, anche nell’antica “regione rossa”, sia questa l’ideologia che si è affermata. So bene che una parte molto consistente degli abitanti della parte “avanzata” del pianeta è pervasivamente formate da un tendenziale “pensiero unico” che privilegia l’individuo sulla comunità, il privato sul pubblico, l’immediato sul remoto, il vicino sul lontano, l’eguale sul diverso. Che i dogmi di questo “pensiero unico”, di questa ideologia, prevalgano anche a Montaione non ci meraviglierebbe, e neppure ci meraviglierebbe troppo che essi fossero condivisi da Morisi. Ma in quest’ultimo caso dobbiamo dire che ci sarebbe piaciuto un “garante” più equilibrato – oppure, per adoperare il linguaggio corretto, “diversamente equilibrato”.

P.S. – Nella rassegna della stampa che correda la documentazione esibita dal Garante nel sito dedicato al processo partecipativo è assente, tra l’altro, un articolo nel quale, sulla rivista Carta, ho espresso le ragioni per cui sono contrario all’intervento di Castelfalfi. Si può leggerlo qui.

Qui la lettera di Massimo Morisi. E qui sotto è scaricabile l’intervento del Presidente della Toscana, Claudio Martini. L'mmagine è tratta dal sito www.montaione.de

Chiarissimo Prof. Salzano, mi piacerebbe poter pubblicare sulla Vostra rivista elettronica un mio intervento che prende spunto da una serie di contributi variamente critici sulla vicenda Castelfalfi e sul ruolo del garante. La ringrazio molto comunque. Con viva cordialità. mm.

Premessa. Fare partecipazione è altra cosa dal solo parlarne. “Farla” e non solo “reclamarla” implica molta onestà intellettuale. Se si è onesti quando si parla di partecipazione, occorre concordare su un fatto: o i cittadini contano e debbono contare per le loro opinioni quando si esprimono mediante un processo partecipativo organizzato per informarli e metterli in condizioni di confrontare argomenti e se del caso di cambiare visioni, giudizi e valutazioni, oppure c’è sempre qualcuno più saggio che deve decidere per loro, insegnare loro il buono e il cattivo, il bello e il brutto. Nella sua banalità, la distinzione sta tutta qui. “Fare” partecipazione. Oppure semplicemente “invocarla” per difendere pregiudizialmente le proprie tesi. Se si è onesti si accettano i risultati della partecipazione. Se non lo si è, si fa finta che essa non ci sia stata anche quando, come a Castelfalfi, essa rappresenta – come ha scritto Luigi Bobbio «un lavoro eccellente e pionieristico». Ciò premesso provo ad affrontare alcuni punti specifici.

1. La partecipazione presuppone che l’opinione dell’ultimo ex mezzadro di Castelfalfi valga quanto 10, 100, 1000 editoriali di Salvatore Settis o di Vittorio Emiliani. Non un grammo di meno. Ovvio che quella dell’ex mezzadro è e sarà un’opinione assai meno influente, anche perché non ha a sua disposizione (come diceva Carmelo Bene) gazzette e gazzettieri compiacenti. Ma chiediamoci: vale la pena attivare un qualunque processo partecipativo e addirittura, come in Toscana, farci una legge sopra (dalla 1 a quella specifica) se non riconosciamo appieno quel pari valore?

2. Ci si può domandare, a questo punto: ma i cittadini hanno sempre ragione? Certo che no. Non a caso ci teniamo ancora le nostre farraginosissime istituzioni rappresentative, nella speranza che sappiano esprimere quella visione più generale o profonda o consapevole che, come singoli cittadini, se non siamo vittime del delirio di onnipotenza tipica dell’intellettuale latino, dobbiamo ammettere di non avere mai in misura sufficiente. E proprio perché i cittadini non hanno sempre ragione la buona partecipazione è quella che integra il circuito istituzionale e che non pretende di rappresentare un’alternativa alle istituzioni democratiche ma un loro necessario complemento. La chiave del modello toscano sta tutta qui. E’ la chiave della democrazia deliberativa. Il resto è protesta, voglia di imporre veti: tutte cose più che legittime e necessarie per la vitalità culturale e civile di una democrazia. Ma non sono partecipazione, possono esserne il presupposto, lo sfondo o anche la conseguenza. Ma non è partecipazione. E’ democrazia tendenzialmente “referendaria”: che finisce a colpi di spada (il voto) non con la costruzione di una scelta collettiva condivisa, nata dal dialogo, dal confronto argomentativo. E i colpi di spada tagliano ma non risolvono.

3. Sto parlando d’altro? No. Parlo proprio di Castelfalfi. Perché il dibattito pubblico di Montaione sul progetto Tui è stato un classico caso di democrazia deliberativa. Come tale, esso ha deluso chi si aspettava una cittadinanza venduta alla multinazionale da un sindaco debole o corrotto o da un garante ciambellano. Invece i cittadini, mediante il lavoro del garante, hanno fatto valere le proprie ragioni, hanno imposto condizioni irrinunciabili, hanno detto: quel progetto lo vogliamo, nonostante l’opinione di Asor Rosae e i suoi accoliti perchè siamo noi, non lui, i padroni del nostro destino ma sappiamo anche che il nostro territorio non è solo roba nostra e che gli interessi da tutelare sono molti e altri, a cominciare dal suo valore per la Toscana: quindi diciamo sì, ma a serie, onerose e precise condizioni, a cominciare da un corposo, molto corposo, ridimensionamento del progetto. Tui accetterà? Vedremo. Ma quel territorio è purtroppo suo, e tuttavia non solo suo. E la partecipazione glielo ha fatto capire. Si leggano le ammissioni di Martin Schluter (amministratore di Castelfalfi S.p.A. in proposito.

4. Se si ha la pazienza di leggersi tutto il rapporto del garante, questo ne emerge. Poi c’è la sintesi: che comincia con quel «nella misura in cui si può, s’ha da fare» su cui si sono appuntate le critiche di chi sperava che i cittadini dicessero “...non passa lo straniero” (ancorché legittimo proprietario dell’area) ma che prosegue anche con le precise e gravose condizioni che stanno dentro a quella “misura in cui”. Eppure è scritto a chiare lettere: il rapporto va letto tutto, non solo nei titoli delle raccomandazioni! Tanto più che nessuno, ma proprio nessuno tra coloro che alzano oggi di più la voce sui media si è tolto la briga di venirci alle sei assemblee di Montaione per capire da dentro quali erano l’aria, le opinioni, gli argomenti, i giudizi. Perché Castelfalfi è il modello di riferimento della partecipazione toscana nel governo del territorio (l’opinione non è del sottoscritto, ma di Claudio Martini).

5. Infine, sempre se si legge quel rapporto nella sua interezza si comprende - come non si può non fare sempre che lo si voglia - che le raccomandazioni del garante non sono il risultato della sua opinione (vivaddio: la legge è chiara, il garante non dà pareri!) ma l’esito delle opinioni dei cittadini, si vede bene che quel rapporto è stato costruito in modo tale che un così imediato legame non può non risultare di tutta evidenza - e sfido chiunque a dimostrare il contrario carte alla mano. Perciò parlare di manipolazioni (come taluni hanno fatto) significa offendere semplicemente l’intelligenza di chi quel rapporto abbia letto. Altro che valutazione “ex ante” o “carenza di conoscenza” in cui si sarebbero mossi i cittadini. Proprio perché le informazioni ottenute dalla Tui su profili essenziali come le risorse idriche sono rimaste insoddisfatte è stata chiesta e ovviamente ottenuta una serie di perizie di parte pubblica. Per la stessa ragione Tui dovrà provvedere a una riprogettazione integrale dell’intervento sotto il profilo architettonico. E, a monte, dovrà adeguarsi a quelle che saranno le indicazioni che il Comune, forte del giudizio dei suoi cittadini, imporrà a Tui circa le dimensioni complessive e specifiche dell’intervento. Ma qualcuno tra i detrattori, prima di parlare, il rapporto lo ha letto davvero? Ha visto cosa dicono i cittadini? Ha avuto l’umiltà di rispettarne l’opinione?

6. Naturalmente, trovandoci anche noi, nell’infausta Toscana, entro quella “incresciosa” situazione di un regime capitalista fondato sulla proprietà privata dei suoli, Tui potrebbe anche mandare tutti al diavolo, frammentare la vendita dell’area e affidarla a un incerto destino di villette a schiera (...anche perché sia i sindaci sia le opinioni sia gli strumenti urbanistici possono sempre cambiare). Ciò non toglie che i cittadini di Montaione non si siano piegati al ricatto potenziale e si siano rifiutati di comprare a scatola chiusa. Ma resta il fatto che, per loro, è meglio andare avanti con quel progetto, purché lo si riveda e lo si ripensi in profondità, piuttosto che lasciare le cose come stanno. In tutto questo il garante non c’entra nulla. Registra e basta: nell’assoluta convinzione di aver fatto del suo meglio per mettere i cittadini nelle condizione di costruirsela quell’opinione, fornendo, in quanto disponibili, informazioni e potenziali alternative. Quando non c’è riuscito, per carenze o riluttanze delle fonti, lo ha puntualmente denunziato (il sito www.dp-castlfalfi.it è lì a dimostralo).

7. L’esperienza del dibattito pubblico in Toscana proseguirà. E costituirà uno dei segni salienti di questa legislatura regionale: sia nelle modalità della legge 1, sia con le integrazioni della nuova legge sulla partecipazione. Il garante regionale collaborerà in ogni modo con la nascitura autorità per la partecipazione perché una simile esperienza divenga una nuova e solida pratica democratica applicata all’area tematica di maggior conflitto culturale, economico e sociale: il governo del territorio. So bene che critiche (e qualche insulto calunnioso) non cesseranno perché la partecipazione fa paura a chi fino ad oggi l’ha solo propugnata a tutela delle proprie religiose convinzioni. E soprattutto perché la partecipazione è anche fatica. Bisogna scriverci sui webforum e alle assemblee bisogna venirci (Castelfalfi ha avuto centinaia di partecipanti tra i cittadini: ma ha visto non più di un esponente per Italia Nostra, 1 per wwf e 3, massimo 4 per Legambiente. Mentre c’è stato qualche giornalista che ha preferito lavorare sui comunicati stampa piuttosto che venirci: e sapete perchè? Perché Castelfalfi è lontana, ci è stato detto!). Ma occorre insistere: perché l’intelligenza della democrazia, come insegnava Charles Lindblom, sta proprio nel dar torto a chi pensa che il governo del territorio si riassuma in un comunicato stampa o nell’editto di una cattedra. Il territorio è in primo luogo i suoi cittadini, nell’intreccio dei loro diritti, dei loro interessi e delle loro responsabilità verso il futuro e verso chi sta al di là dei loro confini . Se a qualche professore o a qualche politico o a qualche movimento questi cittadini non piacciono: vuol dire che ciascuno di loro ha semplicemente perso il senso del reale. O, se preferite, della sua misura. (21 dicembre 2007)

Qui la replica di Edoardo Salzano

Il garante della comunicazione ha rimesso il proprio rapporto sull’anteprima del procedimento conseguente alla presentazione di un progetto di sviluppo di Castelfalfi che prevede nuove volumetrie pari a circa il 50% di quelle esistente, che sono oltre 200.000 mc., da parte di una società tedesca.

Il rapporto del garante, premesso che questi si premura di ricordare che il proprio lavoro non sostituisce il diritto – dovere di pianificare e decidere dell’Amministrazione Comunale, si conclude con otto raccomandazioni, di cui riportiamo i titoli:

1 - nella misura in cui si può, s’ha da fare;

2 - definire dimensionamenti sostenibili a prescindere dalle esigenze finanziarie dell’investitore;

3 - parsimonia ambientale e risorse idriche sicure e rinnovabili;

4 - perseguire l’eccellenza culturale e progettuale nella qualità architettonica, nella realizzazione edilizia e nella rimodellazione paesaggistica;

5 - qualificazione dell’offerta per uno sviluppo turistico a circuito aperto;

6 - rilancio non simbolico ma innovativo dell’azienda agricola;

7 - qualificazione della domanda occupazionale e dell’offerta di opportunità formative

8 - predisporre un puntuale monitoraggio;

Cose anche condivisibili nella sua generalità, ma rimane un dubbio, perché raccomandazioni e non piuttosto e più chiaramente elencazione di problemi e preoccupazioni espressi dalla partecipazione popolare da affrontare e risolvere preventivamente? Sarà forse una questione letteraria quella che si pone, la domanda potrà apparire retorica, ma non si sfugge alla sensazione, soprattutto per quella prima raccomandazione, ma non solo per quella, che più che rapporto di un garante si sia di fronte ad una valutazione ex ante.

D’altra parte che in questa vicenda qualche ambiguità sussista lo dimostra il Direttore del Il Tirreno che la scorsa settimana in un editoriale attendeva la risposta del garante come fosse presupposto perla realizzabilità dell’intervento. Oppure vale la pena di ripensare alla dichiarazione del presidente della regione Martini che a valle del rapporto del garante dichiara che scelte come questa sono occasione per ridurre la pressione turistica sui i centri d’arte, su Firenze, raccogliendo peraltro un ilare commento del cronista de Il Tirreno.

Certamente avremo capito male, ma la sensazione che si sia dato corso ad una pre approvazione cercando di evitare altre battaglie politiche e con le forse sociali, ambientaliste, della cultura, è forte. Peraltro, non si può non sottolineare e che il dibattito si è sviluppato in evidente carenza di conoscenza come dimostrano le perplessità dei cittadini sul fabbisogno di risorsa idrica dei nuovi insediamenti, sulla vaghezza dei numeri circa l’esistenza o la recuperabilità della risorsa, che nel rapporto del garante se ne da conto ma senza chiedere esplicitamente che questi dati vengano certificati, che il bilancio costi benefici sia esplicitato subito, perché, tanto per esemplificare, se non c’è l’acqua o ce ne è poca, prima viene l’agricoltura e quanto esiste nel territorio, poi i nuovi insediamenti che in situazione limite potrebbero non realizzarsi.

Per questo, e per altro che sarebbe troppo lungo riconsiderare, abbiamo la sensazione di trovarci di fronte ad una valutazione ex ante, per questo insorge il dualismo garante – mallevadore. Ma, per evitare fraintendimenti, la nostra è l’espressione di un civile preoccupazione, che va oltre il contingente e le sue convenienze, che vuole contribuire a chiarire i contorni di una esperienza innovativa e positiva, il ruolo, del garante, cui sembra ancora si debba trovare una giusta collocazione perché in fondo sono in gioco le ragioni di un processo democratico, la legittimità, le prerogative e le responsabilità di chi governa.

Nota: ancora, per l’intera vicenda si faccia riferimento ai numerosissimi articoli presenti in SOS Toscana (f.b.)

All’alba, quando si contano i feriti (quattordici) e si dà un volto e un nome agli arrestati (sei, due i minorenni), la notte da cani di Cagliari mostra la velenosa miscela che l’ha incendiata

Per cinque ore, nella piazza su cui affaccia la basilica di Nostra Signora di Bonaria, lo squadrismo ultras ha cavalcato a colpi di spranga, sassi, bottiglie, l’odio politico predicato, nella notte tra giovedì e venerdì, sulla banchina del porto, dalla delegazione di parlamentari del centro-destra che aveva accolto la prima nave carica della "munnezza" napoletana. Chi era al porto giovedì – i deputati di Forza Italia Piergiorgio Massidda, Mauro Pili, ex presidente della giunta regionale Sardegna, e Salvatore Cicu, ex sottosegretario alla Difesa; il senatore dell’Udc Massimo Fantola; il senatore di An ed ex sindaco di Cagliari Mariano Delogu (come hanno riferito le informate cronache del giornale on-line "L’Altra Voce") – sabato non era sotto le finestre di casa Soru. Ma la miccia, assai corta, era stata accesa. Bisognava soltanto aspettare.

Ci hanno pensato in due-trecento degli "Sconvolts" (tanti ne hanno contati le riprese degli operatori di polizia e carabinieri). Tipi che di maccheronico hanno solo il nome, a quanto pare. I padroni della curva nord dello stadio Sant’Elia. Gente che, nel tempo, ha meritato le "5 stelle" Youtube per la violenza documentata dai video on-line dei loro scontri (da ieri, per altro, ricchi di una nuova saga). Degni – nei forum del tifo organizzato – di ricevere la genuflessa ammirazione di chi le ha prese in tutta Italia. Con post di questo tipo: «"Sconvolts" Cagliari… Quadrati, compatti, mani nude. Gente tosta. Duri. Più li colpisci e più ritornano. Vederli davanti in 37 al bar Bentegodi (lo stadio di Verona ndr.), dove non credo nessuno sia mai arrivato, è stata una cosa impressionante. Tecnica spaventosa. Prima linea, davanti, di dieci unità. A caricare. Venticinque dietro in supporto quando si apriva la prima linea. Potrei menzionare centinaia di casi. Senso di appartenenza spaventoso. Camminano in mezzo alla strada senza scorta. Un gruppo di fratelli». Odiano i napoletani. Dicono dal 1997, quando a Napoli si consumò la retrocessione del Cagliari in serie B dopo uno spareggio con il Piacenza e la città si trasformò per loro in una tonnara. Ma il calcio e il campanile, in questa storia, sembrano solo un’ipocrita foglia di fico. Osserva un alto funzionario della polizia di Prevenzione: «Vorrà pur dire qualcosa se in questa storia dei rifiuti, a Napoli, a incendiare Pianura, trovi i "Nis" (Niente incontri solo scontri), i "Mastiff", le "Teste matte", vale a dire le peggiori sigle della curva napoletana e a Cagliari ti ritrovi di fronte gente come gli "Sconvolts"». Già, vorrà dire qualcosa. Cosa? «Che come ripetiamo da tempo, come fu chiaro a tutti domenica 11 novembre a Roma, giorno in cui fu ucciso il tifoso laziale Gabriele Sandri e venne dato l’assalto alle caserme, siamo di fronte a una nuova forma di violenza. Liquida. Imprevedibile e disomogenea nella progettazione. Costantemente eversiva negli obiettivi: gli sbirri, i simboli del potere costituito. Ieri, appunto, le caserme. Oggi l’abitazione del presidente di una giunta regionale. Il calcio non c’entra più nulla. Non c’entra più da tempo».

Dice il questore di Cagliari Giacomo Deiana: «E’ gente che non ha niente a che fare con la protesta per i rifiuti. Ed è logico che qualcuno li abbia pagati. Fino ad una certa ora tutto si era svolto in modo tranquillo. Poi, da un gruppo ben individuato, sono partite pietre e bottiglie contro polizia e carabinieri e sono iniziati gli incidenti. E’ chiaro che qualcuno li ha mandati. Si è trattato di un’azione ben organizzata di cui queste persone si sono fatte strumento». "Manovali prezzolati", dunque. Ma da chi?

Fin dove la violenza di sabato notte sia "autoconvocata" – come sembrano inclini a credere a Roma gli analisti della Prevenzione – in ragione di un mutato dna del cosiddetto ultrà, in cerca di nuovi spazi che non siano solo gli stadi, e dove addirittura "comprata", come sostiene il questore di Cagliari, lo potranno chiarire, forse, le indagini avviate in queste ore. Resta un fatto, che tutti mette d’accordo, la circostanza che gli "Sconvolts" non solo hanno cercato lo scontro, ma lo hanno pianificato sin dalle prime ore del pomeriggio. La catena di sms che dava appuntamento per la sera di fronte alla casa del presidente della giunta regionale ha raggiunto centinaia tra le più disparate utenze cellulari di Cagliari. Un invio multiplo che evidentemente ha utilizzato "mailing list" normalmente nella disponibilità di chi lavora con la politica, non certo con le curve. Non solo. La falange squadrista che si è aperta la strada tra le bandiere di Alleanza nazionale, e Azione giovani, si era data tempo e modo di armarsi. Del sagrato della basilica di Nostra Signora di Bonaria non è rimasto nulla. Gli "Sconvolts" hanno metodicamente divelto con le loro spranghe prima la gradinata della Basilica, quindi i dissuasori di parcheggio, per poi dedicarsi all’antico acciottolato che, fino a ieri notte, riproduceva lo stemma dei Padri Mercedari. Napoli. Cagliari. Finisce qui il "lavoro" ultras? La risposta di un investigatore della polizia che da anni lavora sul tifo organizzato non annuncia nulla di buono. «Spero davvero di sbagliarmi, ma credo che siamo solo all’inizio. Per quello che siamo riusciti a capire in queste settimane, la partita dei rifiuti, per la sua dimensione nazionale, è un’opportunità estremamente ghiotta. Per la visibilità che offre ai ghetti delle curve. Per la dimensione sociale, che consente di dare un segno alla violenza. Immaginatevela un po’ questa gente. Se accoltella uno sbirro sul piazzale di uno stadio, gli argomenti sono pochi. Se lo sbirro se lo va a cercare in mezzo a una montagna di rifiuti, potrà sempre dire che lo ha fatto non più per difendere la sua curva. Ma il suo quartiere, la sua città, dai "veleni del potere". No, purtroppo Cagliari porta pessime notizie. Non è stato e non è un affare tra napoletani e sardi».

Caro Ministro,

leggo una tua intervista di ieri ad un giornale di tiratura nazionale dal titolo “Io e Formigoni uniti per salvare l’hub” nel quale ribadendo una Tua posizione del resto già nota, favorevole allo sviluppo dell’hub e quindi contrario alla cessione di Alitalia ad Air France, che porterebbe al declino di Malpensa, affermi testualmente:

“….Il mio impegno è fare in modo che il traffico aereo su Malpensa possa crescere ancora.”

Ora, nella mia veste di coordinatore per la provincia di Novara di Italia dei Valori, di capogruppo in provincia sempre per Italia dei Valori nonché di presidente del Consiglio Provinciale, quale espressione del territorio soggetto all’inquinamento acustico ed ambientale, in nome delle popolazioni che mi hanno e Ti hanno votato, mi sento di affermare

Ministro DiPietro, NON SONO D’ACCORDO

Credo che esperti in tutti i settori, ben più credibili di me, abbiano detto tutto di tutto e di più sul tema delle ripercussioni economiche relativamente ad un alleggerimento di Alitalia su Malpensa.

Io vorrei sommessamente ribadire che il problema dei posti di lavoro sarebbe ben presente anche con la soluzione Air One e che si, sono stati spesi dal contribuente alcune migliaia di miliardi delle vecchie lire a realizzare Malpensa , ma occorre anche dire che indirettamente lo stesso contribuente brucia 300 milioni di Euro all’anno a tenere in piedi Alitalia in funzione Malpensa. Vogliamo continuare così?!

Se effettivamente c’è questo mercato allora dov’è il problema?

La Pedemontana serve perché serve indipendentemente da Malpensa inoltre, come dice Spinetta, normalmente sono gli aeroporti che si adeguano alle Compagnie aeree ed al mercato e non viceversa.

Ma parliamo di ambiente, di inquinamento, di qualità della vita dei cittadini residenti attorno all’Aeroporto, parliamo di leggi da rispettare, di legalità, Ministro Di Pietro, non è un Tuo cavallo di battaglia?

E’ su questo tema che ti ho seguito, che Ti abbiamo seguito, è su questo tema che l’Ovest Ticino ti diceva grazie per le tue istanze in Comunità Europea, assieme ad altri Europarlamentari, istanze che hanno comportato ben due messe in mora al Governo Italiano per mancata Valutazione Ambientale sugli ampliamenti di Malpensa.

Non eri tu il 30 Gennaio 2004 ad Oleggio a bollare Malpensa come la madre di tutte le tangenti?

Come si concilia il Tuo attuale atteggiamento con quello che dicevi appena 3 anni fa?

Tutti sappiamo che Malpensa è cresciuta in un modo molto, ma molto, “border line” dal punto di vista autorizzativo e, malgrado questo, per il secondo anno consecutivo sono stati superati i volumi di traffico già così spesse volte derogati.

E Tu chiedi che cresca ancora sempre senza Valutazioni di Impatto Ambientale?

Riconosco comunque che è grazie al partito se mi è stata data la possibilità di essere eletto e ha consentito al territorio di raggiungere risultati significativi e di questo devo dartene atto, però mi è d’obbligo chiederti cortesemente di prendere una posizione coerente col Tuo passato e con gli ideali per i quali Ti abbiamo seguito e creduto.

Mi è anche d’obbligo comunicarti che io non ho cambiato idea e continuerò nella battaglia di civiltà che sto conducendo e in cui credo, anche in completo disaccordo con le Tue posizioni, lasciandoti la responsabilità politica di creare le future mie condizioni per continuare la Tua rappresentanza.

Cordialmente

Renzo Tognetti

Presidente del Consiglio Provinciale di Novara

Domani i giornali informeranno che il Consiglio di stato ha dato sostanzialmente ragione alla decisione dell’apposita commissione regionale, che aveva dichiarato inammissibile il referendum abrogativo del Piano paesaggistico regionale. Il TAR di Cagliari aveva accolto un ricorso dei promotori del referendum abrogativo e aveva ordinato alla Regione di bandirlo. Ora l’ordinanza del Consiglio di stato, in attesa della sentenza di merito, ha sospeso gli effetti della decisione del TAR. Ecco il dispositivo dell'ordinanza del Consiglio:

“ritenendo la sussistenza dei presupposti di cui all'art.33 (danno grave e irreparabile),avuto anche riguardo al costante indirizzo giurisprudenziale che qualifica in termini di diritto soggettivo politico inaffievolibile la posizione che si appunta in capo ai promotori dell'iniziativa referendaria, con conseguente radicamento della giurisdizione ordinaria, per questi motivi accoglie l'appello e sospende la sentenza”.

In sostanza, secondo il Consiglio di stato la competenza a stabilire l’obbligo della Regione a bandire il referendum abrogativo non era del TAR ma del giudice ordinario. Ora è possibile che i promotori del referendum adiscano al giudice ordinario per chiedere una sentenza che obblighi la Regione a bandire i referendum. Sembra però improbabile che il giudice ordinario compia questo passo, nelle more della discussione – da parte del Consiglio di stato - del merito della questione, e della relativa sentenza. Il termine per bandire il referendum è il 30 gennaio.

Permane il referendum abrogativo della legge (n. 8 del 2004) che stabilisce le procedure di approvazione del PPR, fissato per il 29 giugno 2008. Se questo avesse esito positivo la Giunta regionale sarebbe costretta a ripercorrere l'iter di approvazione secondo la precedente legge regionale, che prevede l'approvazione del PPR da parte del Consiglio.

Una strana attesa sembra gravare da qualche tempo sul destino urbanistico di Palermo, una serie di segnali, voci e dichiarazioni che investono direttamente i due principali strumenti urbanistici della città, il Piano regolatore generale e il Piano particolareggiato esecutivo, segnati nella loro vicenda storica da due diverse visioni e culture. Il primo, varato definitivamente dal Consiglio comunale nel gennaio 2004 con una presa d´atto che ha recepito i due decreti di approvazione da parte della Regione della variante generale inviata nel 2002, ha avuto un iter più che decennale quanto mai frastagliato che ne ha infine fortemente alterato le premesse e la filosofia d´impianto. Il secondo, approvato nel 1993 secondo i criteri del restauro conservativo, è ormai scaduto e, secondo gli annunci dell´assessore comunale all’Urbanistica Nino Scimemi, necessita di una revisione profonda così da attrarre capitali e risorse in grado di accelerare il recupero del centro storico. In modo differente, entrambi gli strumenti in vigore risultano così allo stato attuale delle anitre zoppe, insufficienti a delineare le direttrici di sviluppo e di disegno urbano, con la conseguenza di sospendere i piani di previsione della città tutta in una sorta di limbo, una condizione di incertezza che impedisce e blocca ogni ipotesi di progettualità unitaria accentuandone quella fisionomia casuale e frammentaria che sembra divenuto il suo carattere irreversibile.

Non c’è dubbio che tutta la vicenda del Prg abbia giocato, in questa disarticolazione progettuale, un ruolo centrale. Avviato addirittura nel 1989 con l´incarico affidato dalla giunta cosiddetta esacolore guidata da Leoluca Orlando a una équipe coordinata da Leonardo Benevolo per la variante di adeguamento, concretizzatosi operativamente con l´affidamento a Pierluigi Cervellati nel 1993, consegnato con gli elaborati a scala 1 a 5.000 l´anno successivo e adottato nel 1997, il Piano regolatore ha conosciuto, dopo questa data, una serie di modifiche all’impianto iniziale.

Un vulnus decisivo per Cervellati, al punto da disconoscerne la paternità in una dichiarazione polemica nei confronti della amministrazione Orlando, secondo la quale invece il passaggio non ne invalidava la concezione di base e gli assi operativi miranti a un recupero (come si legge nella premessa) della unitarietà territoriale: dalla identificazione del cosiddetto «netto storico» che indicava le parti di città dai caratteri di pregio storico, artistico e ambientale alla valorizzazione del verde storico, dal contenimento dell’incremento di cubatura nelle zone parzialmente urbanizzate alla individuazione delle aree destinate alla realizzazione di strutture residenziali, ricettive o direzionali.

Contro quel Piano - prima e dopo l’accoglimento delle osservazioni - si levarono subito le critiche di chi lo giudicava eccessivamente conservativo, penalizzante verso i possibili nuovi insediamenti commerciali e industriali, frenante nei confronti di un possibile sviluppo economico della città e del suo territorio; le stesse critiche a suo tempo rivolte al Ppe, con il quale infatti il Prg stabiliva una organica continuità di metodo saldando la filosofia del restauro del centro storico a quella di un recupero - dopo i decenni del saccheggio indiscriminato delle risorse territoriali - di quanto, nella lunga vicenda di Palermo e delle antiche borgate fagocitate dalla cementificazione era ancora leggibile e recuperabile come un sistema culturale unitario. I due decreti regionali contenenti una serie di modifiche e correzioni del marzo e del luglio 2002, recepiti poi dal Comune con una semplice - e anomala - presa d’atto, hanno inficiato sostanzialmente quel disegno e quella concezione. Alcune parti del «netto storico», soggetto a salvaguardia (zone A e A1), sono state convertite in zona B, e rese passibili quindi di aumenti di cubatura e di incremento demografico; alcune parti della zona B (parzialmente o totalmente edificate) sono state a loro volta convertite in zona C per nuova edificazione, aree di verde storico prima costrette da vincoli di inedificabilità assoluta sono state rinominate a verde agricolo con nuovi indici di fabbricabilità. Al termine del suo lungo iter, il Piano regolatore è così approdato a una mappatura ibrida, incerta, priva di strategia, e nonostante questo già più volte ulteriormente assediata sotto forma di deroghe e varianti, come quelle che hanno destinato l’area di Fondo Raffo, verde storico della Piana dei Colli a ridosso dello Zen, al nuovo centro commerciale fortemente voluto da Maurizio Zamparini. Una condizione di debolezza strutturale insomma, che non a caso ha indotto alcuni costruttori, nei giorni dell’emergenza dei senza casa, a chiedere addirittura un nuovo Piano regolatore che allenti definitivamente i vincoli in una deregulation che rischierebbe di tramutarsi nell´ennesimo, definitivo episodio delle mani sulla città.

La richiesta è stata respinta dall’assessore all’Urbanistica (né poteva essere altrimenti: i Prg hanno, per legge, una loro durata), che però, quasi contestualmente, ha annunciato l’intenzione di rivedere in modo sostanziale il Ppe affidando tale compito a un gruppo di cinque esperti. Ufficiosamente, i nomi sono usciti nei giorni scorsi, e si tratta di urbanisti e architetti di prestigio (da Bruno Gabrielli a Teresa Cannarozzo, che proprio sulle pagine di questo giornale aveva in passato sottolineato i meriti del piano, e la cui presenza costituiva quindi una garanzia di equilibrio in un contesto così delicato), ma le nomine, improvvisamente, sono state bloccate al punto che lo stesso assessore ha minacciato le dimissioni se queste non fossero state firmate dal sindaco entro la fine della settimana scorsa. La settimana è trascorsa, le dimissioni non ci sono state; in compenso, è giunta la notizia (non smentita; ne ha scritto la scorsa domenica Massimo Lorello) di un possibile accordo che Diego Cammarata starebbe per condurre in porto con la società degli Emirati Arabi "Limit Less" per il risanamento non soltanto del centro storico, ma anche di quella zona costiera - il Waterfront, come è stato ribattezzato - su cui da tempo gravitano gli interessi della autorità portuale, senza che tuttavia l’intervento progettuale (era uno degli aspetti più sconcertanti della mostra della Biennale architettura che proprio il commissario Nino Bevilacqua aveva voluto nel padiglione di Sant’Erasmo lo scorso anno) andasse oltre le indicazioni preliminari. Come si costituirebbe tale accordo, e soprattutto quali conseguenze avrebbe nei confronti sia del Prg che del Ppe, è tutto da vedere. È altamente probabile, tuttavia, che la logica di intervento possa avere un effetto dirompente sui due strumenti urbanistici, ed è tale incertezza sulla logica di ridisegno della città tutta - senza che si sia aperto un dibattito reale su questioni di cruciale importanza per il futuro di Palermo - a destare allarme, nel merito e nel metodo.

Mario Agostinelli, Il polverone Malpensa (estratto di un articolo più ampio sul 2007 lombardo), il manifesto ed. Milano, 3 gennaio 2007

Da mesi come PRC andiamo ripetendo che è solo propaganda la riproposizione di Malpensa come secondo hub italiano e che è ridicola la proposta di costituire una compagnia aerea del Nord. Meglio sarebbe difendere l’occupazione, migliorarne la qualità sottraendola al precariato e rendere definitivamente possibile la convivenza di un’opera sbagliata con l’ambiente circostante. E’ sull’insieme del sistema aeroportuale del Nord che si deve riprogettare il traffico aereo e i collegamenti, evitando la congestione di un’area già provata da cementificazione e infrastrutture mal programmate. Invece Formigoni si è messo alla testa di una insana sollevazione a difesa di un futuro che Malpensa non avrà mai e che è stato in gran parte pregiudicato dai clamorosi errori prioprio di chi, come Forza Italia e Lega, ha pensato in piccolo e non in dimensione adeguata al nuovo assetto delle comunicazioni e allo sviluppo equilibrato e qualitativo del territorio. Sono i nodi del modello di rapina di questi ultimi 20 anni che vengono al pettine e non basterà l’illusione di un grande hub nella brughiera o di 20 grattacieli per Expo 2015 a curare le ferite inferte e la mancanza di una progettualità partecipata.

Temo molto la virulenza di una protesta tanto più truculenta quanto più carente di proposte realizzabili e desiderabili.

Claudio Del Frate, Nuova strada per Malpensa dimezzata, Il Corriere della Sera ed. Milano, 3 gennaio 2007

Il disimpegno di Alitalia rischia di penalizzare Malpensa proprio nel momento in cui arrivano al traguardo i lavori per la realizzazione di importanti infrastrutture. Il 31 marzo prossimo, 24 ore prima della data in cui è previsto che scattino i tagli ai voli, è programmata infatti anche l'apertura del nuovo collegamento tra l'hub e l'autostrada A4 Milano-Torino. Quasi una beffa.

Ieri ha preso posizione anche «Fiera Milano»: «Condividiamo la battaglia che i vertici delle istituzioni lombarde portano avanti affinché Malpensa non venga privata del suo status di hub e delle sue rotte e collegamenti intercontinentali».

Il pesce d'aprile, in aeroporto, quest'anno cadrà il 31 di marzo. Ventiquattr'ore prima della data in cui è previsto che scattino i tagli ai voli (il primo aprile, per l'appunto) è prevista infatti anche l'apertura del nuovo collegamento tra l'aeroporto e l'autostrada A4 Milano-Torino. Come dire: le infrastrutture arrivano quando i voli sono ormai cancellati. È l'ultima beffa di Malpensa, è la contraddizione in cui si dibatte un'infrastruttura sulla quale lo Stato aveva impegnato miliardi di euro, ma che adesso si va svuotando.

A oggi, con la Lombardia intera in gramaglie per la vendita di Alitalia ad Air France e la conseguente smobilitazione dei voli da Malpensa, è difficile immaginare tagli di nastro, fasce tricolori e fanfare di ottoni, ma nei giorni scorsi era data per sicura l'apertura al traffico della nuova strada proprio il 31 di marzo. L'arteria, realizzata dall'Anas, era da anni ritenuta di vitale importanza per l'aeroporto: avrebbe consentito a tutti i passeggeri che risiedono a Torino e in Piemonte (ma a chiunque fosse destinato a raggiungere quelle zone) di andare e venire dall'aeroporto senza passare per le forche caudine della tangenziale di Milano. E soprattutto avrebbe tolto l'hub da quell'isolamento che i suoi critici hanno sempre additato come una delle pecche maggiori. Detto e fatto: adesso la strada c'è, ma nel frattempo sono spariti in voli e Malpensa, al 31 marzo, avrà probabilmente smesso di essere uno snodo del traffico dei cieli così come era stato ipotizzato per anni. Il piano «di sopravvivenza » di Alitalia, condizione per la vendita ad Air France prevede infatti di tagliare 14 delle 17 destinazioni intercontinentali e altri 130 voli cosiddetti di «feederaggio», cioè rotte brevi ma che portano passeggeri da imbarcare sulle tratte più lunghe. In pratica questo si tradurrebbe, dall'oggi al domani, in un taglio del 25% del traffico di Malpensa.

Paradossalmente la mazzata della vendita ad Air France non sembra avere intaccato la fiducia di molti amministratori locali nel futuro dello scalo. Il Comune di Gallarate, ad esempio, è intenzionato a tirare dritto nella realizzazione del cosiddetto business park, una maxivariante urbanistica che preve la nascita, alla periferia della città di un'area di 900.000 metri quadrati di uffici, centro direzionale, logistica, aree produttive alternate al verde. Il tutto, ovviamente, come indotto dell'attività dell'aeroporto.

«La nostra volontà è confermata — dice il sindaco di Gallarate Nicola Mucci — perché continuiamo a credere che Malpensa sarà una risorsa del Paese e per il nostro territorio, nonostante la vendita ad Air France ». Anche Lonate Pozzolo, il Comune ai margini delle piste dove sono stati spesi buona parte dei circa 400 milioni di euro per le cosiddette «delocalizzazioni » (lo Stato ha acquistato le case degli abitanti che si trovavano sotto le rotte di decollo e atterraggio), niente cambierà.

«Chiediamo innanzitutto che le delocalizzazioni vengano completate — dichiara il sindaco Piergiulio Gelosa — perché il rumore dei sorvoli continua e continuiamo a credere che quegli edifici oggi svuotati possano servire ad attività di supporto a Malpensa. Adesso lo shock è forte ma in futuro, specie quando Alitalia avrà lasciato liberi i suoi slot, siamo convinti che la struttura riprenderà a crescere ».

Nota: altri elementi per giudicare il tema, nelle ormai parecchie (ahimé) pagine questa stessa ricca sezione SOS padania (f.b.)

RIVOLTELLA (Desenzano del Garda) — Ricco, straniero e ingombrante. Almeno fosse bello come George Clooney. O famoso come Michael Schumacher, che si dice avesse messo gli occhi su quella che è adesso casa sua. Invece no. Del misterioso magnate russo che tre anni e mezzo fa ha comprato Villa Bober, a Rivoltella del Garda non si sa neppure il nome.

Passione

Dicono però sia uno di quelli che contano nella Gazprom, la potentissima compagnia russa del gas, uno dei giganti dell'economia mondiale. E che un ex campione di ciclismo, suo connazionale, gli faccia da ambasciatore in attesa del trasloco. In comune con gli altri due, o almeno con il primo, sembra avere solo la passione per le case in riva al lago e la voglia di dare una ritoccatina alle sponde.

Mica parliamo di case qualsiasi, s'intende. Villa Bober risale più o meno agli anni Trenta del Novecento. Ma a renderla celebre (e anche un po' sinistra) fu il cavalier Guido Bolzacchini da Carpenedolo, fondatore di quel calzaturificio Bober che arrivò ad impiegare 1600 persone, prima di essere ceduto nel 1974 e fallire qualche anno dopo.

Dynasty

A dar retta alle cronache dell'epoca, certo non in debito di fantasia, quella dimora in stile liberty, che l'imprenditore acquistò e restaurò negli anni Sessanta, doveva essere tale e quale a un set di Dynasty: marmi, stucchi, feste col bel mondo, compresa una Maria Callas di passaggio dalla vicina Sirmione. In realtà, tra quei muri, c'era probabilmente meno magia e un po' più di malasorte, visto che la moglie del cavalier Bolzacchini annegò nella grande piscina nel parco. L'Innominabile venuto dal freddo, però, non se dette gran cura. O forse nemmeno lo sapeva. Fatto sta che, a luglio 2004, i giornali locali rivelarono l'acquisto da parte del magnate russo: 6,8 milioni di euro versati alla società San Marco. Quasi 5 in meno di quelli che, si dice, fossero stati chiesti inizialmente e che (ma il condizionale è d'obbligo) avrebbero fatto innestare la retromarcia persino a Michael Schumacher. E chissà quanti ne starà spendendo per i lavori di ristrutturazione in corso.

Monumento

Ma, come la villa, anche quel tratto di lago non è un tratto qualsiasi. Dove finisce il muraglione di cinta, inizia il canneto di San Francesco, che la Regione Lombardia dovrebbe presto dichiarare, su richiesta del Comune, «monumento naturale». E lo specchio d'acqua davanti a Villa Bober ha un difetto: il fondale è basso, bassissimo. D'estate finisce pure in secca. Il Paperone di tutte le Russie, invece, pare abbia un debole per lo sciabordio dell'acqua contro la muraglia. E, ovvio, per le barche.

Progetto

Visto quel che ha speso, s'è così sentito in diritto di chiedere al Comune un' aggiustatina idraulica: un canale a U, fondo due metri e largo undici, con le braccia protese per 280 metri verso il lago e la base a sfiorare, per 200 metri, il muraglione della villa. Un modo per poter di nuovo utilizzare la piccola darsena interna ormai interrata. E il fondale troppo basso? Basta grattargli via mezzo metro, in tutta l'area interna ai bracci del canale (circa 4500 metri quadrati).

Il russo ha incassato tutti i via libera che servono, anche se il Comune gli ha bocciato l'ipotesi di un pontile lungo 200 metri, ma le associazioni ambientaliste (Cai, Cnr, Lega Navale e Airone Rosso) sono insorte.

«Un'opera del genere — dice Guido Parmeggiani dell'Airone Rosso — stravolgerebbe l'intero ecosistema di questo tratto di lago. Passi per un braccio di canale di accesso alla darsena, che peraltro c'era già in passato. Ma quell' enorme U e lo scavo del fondale sarebbero deleteri per pivieri, pettegole, pantane, cavalieri d'Italia e altri piccoli trampolieri che trovano alimento proprio nei fondali bassi. E oltre che dannosa, l'opera sarebbe pure inutile, perché una volta smosso il fondale, il canale si interrerebbe di continuo».

Confronto

«Che funzioni o no, non spetta a me dirlo, perché non sono un ingegnere idraulico — replica il sindaco di Desenzano Cino Anelli — ma non mi pare che uno scavo sotto il livello dell'acqua possa fare un gran danno all'ambiente. Abbiamo anche imposto che il secondo braccio stia a 15 metri di distanza dal canneto (gli ambientalisti vorrebbero un'area di salvaguardia di almeno 75 metri, ndr) Comunque, ridiscutiamone pure».

Già, ma adesso chi va a dirlo all'oligarca?

Un «appello» per la tutela del paesaggio

di Giovnni Lo Savio (presidente nazionale di Italia Nostra)

Il Lago di Garda rischia di rappresentare il peggior esempio italiano di governo del paesaggio per assenza di tutela.

Nell'ultimo decennio, pesanti interventi di edilizia speculativa hanno gravemente compromesso l'ambiente lacustre, specialmente perché gli «strumenti della tutela del paesaggio» non hanno degnamente svolto il loro compito: il Piano paesistico regionale non è precettivo, il piano territoriale paesistico provinciale pare inefficace e la sub-delega regionale ai comuni in materia di rilascio delle autorizzazioni paesistiche nelle aree soggette a vincolo ambientale hanno consentito innumerevoli scempi che la sezione di Brescia di Italia Nostra da anni denuncia. Casi clamorosi a Padenghe, come a Moniga e Manerba, come a Toscolano e Gargnano ove si costruiscono residence in stile «caraibico», villettopoli sulle colline moreniche, strade abusive sulle colline, una cascata inserita in un nuovo albergo-residenziale a lago, ville a quattro piani a margine di un castello medievale, un hangar a lago, di 33.000 metricubi, alto 8 metri, per il ricovero di 300 imbarcazioni, costruito in assenza dell'autorizzazione della competente Sovrintendenza. Agli interventi privati, ed è ancor più grave, si aggiungono iniziative pubbliche, altrettanto devastanti. Clamoroso é il caso del progetto di realizzare una «passeggiata» sulle spiagge dei comuni da Desenzano a Toscolano, finanziato dalla Regione Lombardia. Un intervento pubblico di cementificazione delle spiagge che danneggerebbe irreversibilmente le rive del lago. A questo scempio Italia Nostra si oppone, rivolgendosi contemporaneamente al Ministro Rutelli perché impedisca l'ennesimo— pubblico — sfregio e ai cittadini perché manifestino il loro dissenso aderendo al nostro appello per la salvaguardia del paesaggio del lago di Garda.

Le levate di scudi contro il progetto di AirFrance sono, ancora, l'ennesimo italiano modo di affrontare situazioni internazionali.

In poche parole il criterio, che assolutamente non condividiamo, è: bisogna mantenere l'inefficienza a spese dell'intera collettività ed a vantaggio di poche categorie.

Malpensa potrebbe invece essere un aeroporto che produce utili per tutti, Alitalia compresa, senza essere un hub e senza devastare definitivamente il territorio e la salute dei cittadini che lo abitano.

Quindi fare del terrorismo ideologico su presunte italianità è del tutto strumentale e, soprattutto, non costruttivo a lungo termine per la sopravvivenza della stessa Malpensa.

Bisogna considerare il fatto che il primo tentativo di vendita di Alitalia è andato a vuoto per i troppi “paletti”, tra cui il mantenimento di due hub.

Questo secondo tentativo è avviato a raggiungere l’obiettivo grazie alla premessa costituita dal Piano industriale di Alitalia che ridimensiona Malpensa, a favore di Fiumicino, ponendo fine alla catastrofe economica dei due hub, fonte solo di doppi costi.

Secondo il piano di AirFrance-KLM, con tre aeroporti di concentrazione ben distanziati, l’alleanza può funzionare e, per Alitalia c’è, nuovamente, un futuro, nel senso dell’interesse nazionale italiano.

Gli strepiti dei nordisti ci spingono a ricordare che l’ampliamento di Malpensa non aveva l’obiettivo di trasformare un aeroporto con scarso traffico in un hub: stabiliva invece una crescita fino a una media di 274 movimenti/giorno “senza limitare la capacità operativa dell’aeroporto di Linate”.

Invece, per arrivare a 750 movimenti al giorno a Malpensa, sono stati “prelevati” centinaia di voli da Linate, da Fiumicino e da altri aeroporti del nord.

L’elevata concentrazione di voli (forzando il mercato) e di lavoratori costituiva (costituisce) a Malpensa una bolla destinata a scoppiare. Siamo ora al punto in cui la bolla scoppia facendo pagare ai più deboli o, nella migliore delle ipotesi, ai contribuenti, gli errori di politici e amministratori.

Ma oltre agli aspetti del mercato ci sono gli aspetti ambientali: il pesante impatto ambientale di Malpensa non è mai stato valutato.

L’ampliamento di Malpensa era stabilito con il limite di 12 milioni di passeggeri.

Ora siamo al doppio e non basta neppure il ridimensionamento programmato da Alitalia a far rientrare il traffico di Malpensa nei limiti di sviluppo stabiliti dal Piano regolatore dell’aeroporto.

E, come hanno denunciato 87 sindaci lombardi e piemontesi, delle province di Varese, Milano e Novara sul giornale “Ticinia”, questa situazione è “illegale”: è il mancato rispetto del Piano regolatore aeroportuale.

I programmi noti e sbandierati di raddoppio addirittura rispetto agli attuali volumi di traffico, ora accantonati perchè le vicende legate alla vendita del Vettore nazionale pongono altri problemi, costituiscono una ulteriore ed ancor più grave minaccia ambientale e mettono addirittura a rischio l’esistenza del Parco del Ticino, oltre al futuro di circa 500.000 cittadini residenti intorno all’aeroporto nel raggio di pochi chilometri.

L’attuale crociata contro i piani riguardanti Alitalia ci conferma che c’è chi, anche contro le regole del mercato, è determinato a sacrificare l’Ambiente allo sviluppo incontrollato ed immotivato di Malpensa.

Dilapidare un patrimonio come il Parco del Ticino lombardo e piemontese, dichiarato dall’UNESCO “Riserva della Biosfera”, è un lusso che ci possiamo permettere?

Gallarate, 26 dicembre 2007

WWF Italia,

LEGAMBIENTE di Varese e Novara,

C.OVES.T. ONLUS-Varallo Pombia,

UNI.CO.MAL. LOMBARDIA-Gallarate,

EXCALIBUR-Lonate Pozzolo,

AMICI DELLA NATURA-Arsago Seprio

Giovanni Valentini

Un Appello per Procida, “Salvate l’isola del Postino”

Il paradiso è assediato dal cemento. E’ «l’isola di Arturo», quella del romanzo di Elsa Morante e di molti film, tra tutti il Postino con Massimo Troisi. E’ Procida, ormai deturpata dagli abusi edilizi e da un traffico selvaggio. Per questo intellettuali e artisti hanno sottoscritto un appello: «Fermate questo scempio».

Lo sgangherato microtaxi, un furgoncino Ape carrozzato con un abitacolo e i sedili di plastica, sobbalza sulle lastre nere di basalto sfiorando i muri delle stradine e dei vicoli, già sfregiati da tanti passaggi precedenti. Siamo sull’"isola di Arturo", celebrata dal romanzo di Elsa Morante e da molti film di successo, da Morgan il Pirata al Postino con l’indimenticato Massimo Troisi, ma ormai deturpata dagli abusi edilizi e da un’aggressiva cementificazione che minaccia di sostituire i giardini brulicanti di limoni, arance e mandarini con rampe e parcheggi. "Nu’ piezze e’ Napule jettate a ‘mmare", come la definisce con trasporto lo scrittore Raffaele La Capria. In poco più di quattro chilometri quadrati, oggi a Procida vivono quasi 11 mila abitanti, dotati di almeno 5 mila automobili e più di altrettanti moto e motorini, evidentemente eccessivi per coprire una lunghezza massima di tremila metri. Un traffico caotico da centro storico di una grande città, con la differenza però che lì si istituiscono le isole pedonali e qui invece l’isola naturale è oppressa da una motorizzazione selvaggia. A metà novembre, dopo un’iniziativa dell’Associazione commercianti nei confronti del Comune, un comitato spontaneo locale - guidato dall’albergatore Francesco Cerase e dal tabaccaio-libraio Franco Ambrosino - ha depositato un migliaio di firme raccolte su 53 fogli, per chiedere drasticamente di "ridurre, regolamentare e rallentare il transito dei veicoli".

E ora un folto gruppo di intellettuali, personaggi della cultura e dello spettacolo che frequentano abitualmente l’isola, lancia un appello pubblico per "Salvare Procida" dal degrado urbanistico, architettonico e ambientale, con l’intento di denunciare il caso a livello nazionale per richiamare l’attenzione del governo e dell’opinione pubblica.

Sono circa tremila le istanze di condono che attendono da decenni di essere esaminate ed eventualmente approvate: dai piccoli abusi su porte, finestre e infissi alle costruzioni o sopraelevazioni sui tetti dove sono state brutalmente decapitate le caratteristiche cupole. Solo per il 2007 il Comune si aspetta un incasso straordinario di 750 mila euro, 250 a testa alla presentazione della domanda, per ripianare il suo deficit di bilancio. Ma il sindaco, Gerardo Lubrano, tiene ad assicurare: «Prima di concedere i condoni, vogliamo che venga riqualificato il territorio».

Più che un impegno, però, questo sembra uno slogan di circostanza. A girare per il centro dell’isola, l’avanzata del cemento appare più forte e minacciosa di una colata lavica. In via Vittorio Emanuele, per esempio, è in costruzione il parcheggio "Olmo Garden" con rampa di accesso al fondo privato e due muraglioni di contenimento: spesa prevista 37.000 euro, come si legge sul cartello esterno con la licenza dei lavori. Poco più avanti, un altro parcheggio viene ricavato a spese di un agrumeto superstite. E vicino alla piazzetta delle Poste, il supermercato Sisa ha già sradicato da tempo limoni e mandarini per accogliere le auto dei clienti.

Tutto risulta in regola, per carità, con tanto di permessi e autorizzazioni in carta bollata. Sta di fatto però che le ruspe continuano a scavare come tarli nel legno, mentre la piaga dei parcheggi divora questi polmoni verdi, racchiusi tra antichi muretti e protesi in qualche caso fino al mare. Un patrimonio di verde e di memoria che, una volta distrutto, non si potrebbe più sostituire né tantomeno riprodurre. «Sarebbe uno sfregio irreparabile all’ambiente e alla natura», commenta affranta Elisabetta Montaldo, trapiantata nella casa in cui visse e morì l’attrice Vera Vergani, sorella del giornalista Orio.

La verità è che ormai questo pezzo di paradiso sta cambiando anima e pelle. Dall’antica tradizione marinara, riassunta nel cliché "un comandante e un prete per ogni famiglia", Procida si converte anno dopo anno a una più moderna vocazione turistica, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che la riconversione comporta. E in mancanza di alberghi e pensioni sufficienti, anche qui la pressione del mercato immobiliare ha fatto lievitare i prezzi oltre misura, fino a 4-5 mila euro al metro quadro, alimentando il fenomeno dell’abusivismo diffuso. In base ai calcoli di Giancarlo Cosenza, ingegnere ed ex consigliere comunale del Pci, figlio di Luigi, l’autore del Piano paesistico del 1962, sono almeno 600 i vani proliferati in sanatoria senza neppure il parere della Sovrintendenza. E nella maggior parte dei casi, si tratta di costruzioni che oltraggiano l’originaria architettura dell’isola, un’architettura minore e popolare, definita "un’architettura senza aggettivi" dallo storico dell’arte Cesare Brandi. Spariscono così gli archi e le volte, a botte o a vela; le scale costruite a mano subiscono ferite strutturali ed estetiche; i materiali locali come la pietra, la pomice e la malta vengono sostituiti da quelli d’importazione; e sulle facciate delle case e dei palazzi i tipici colori pastello, in prevalenza rosa e giallo, lasciano il posto alle tinte forti che i riflessi del sole rendono accecanti.

Sull’Acropoli di Terra Murata, da cui si domina a novanta metri d’altezza l’incantevole baia della Corricella, l’antica Abbazia di San Michele - il giacimento culturale più importante dell’isola - versa intanto in condizioni di abbandono. Il loggione a fronte della sacrestia è stato interdetto per ragioni di sicurezza, sul campanile sono state rilevate crepe e infiltrazioni d’acqua, il soffitto a cassettoni rivela preoccupanti avvallamenti, l’impianto elettrico è obsoleto e ai limiti delle norme. E c’è da temere che prima o poi la chiesa, devoluta nel 1899 da Vittorio Emanuele III al Comune di Procida che se ne assumeva la manutenzione, debba essere chiusa per lavori, sebbene continui ad attirare circa trentamila visitatori all’anno.

A strapiombo sul mare, anche l’antico castello cinquecentesco poi trasformato in carcere duro e abbandonato negli anni Cinquanta, attende di essere restaurato e riutilizzato. Sono circa 30 mila metri quadrati, già costruiti e disponibili. Ma ora si tratta di decidere se l’ex penitenziario deve diventare un residence per le vacanze, con le vecchie celle ristrutturate in mini-appartamenti, aggravando ovviamente i problemi di sovraffollamento e di traffico; oppure se qui può sorgere - come auspica con entusiasmo l’ingegner Cosenza - un Palazzo della cultura e dell’artigianato, a beneficio dei residenti e dei turisti.

Di giorno in giorno - o meglio, bisognerebbe dire di notte in notte - tutt’intorno continua intanto a prosperare un "ecomostriciattolo roditore", come lo chiama il regista Giuliano Montaldo, alimentato dall’incultura, dalla speculazione, dall’incuria o complicità dell’amministrazione pubblica. Nel romanzo di Elsa Morante, alla fine Arturo lascia con nostalgia quella piccola terra che "fu tutto" e non metterà mai più piede a Procida. Oggi quel destino minaccia purtroppo di ripetersi per tanti residenti e turisti traditi, con il rischio che l’isola finisca per perdere il suo fascino e la sua identità.

Ennio Morricone, Siamo ancora in tempo: difendiamo Procida

Ci sono eccessi, nell’abuso di cemento su gran parte delle coste italiane, che fanno scandalo. Per questo ho firmato l’appello per chiedere che un’isola ancora incontaminata come Procida rimanga intatta. Con tutto il rispetto per gli enti locali che devono decidere queste cose, mi auguro che si possa evitare uno scempio a Procida, un’isola ancora pulita e verde.

L’ho conosciuta grazie a un amico, il regista Giuliano Montaldo che aveva una casa lì, ci ho passato periodi brevissimi ma ho avuto l’impressione di un luogo non violentato dal cemento. Posso capire la commercializzazione di tutto, tenendo conto che le coste italiane alimentano una delle più forti industrie del nostro Paese: il turismo. Ma salvaguardare le bellezze naturali lasciandole il più possibile intatte può sicuramente attrarre un altro tipo di turismo, che non sia quello di massa. Purtroppo siamo talmente abituati allo stravolgimento del paesaggio che quasi non ci facciamo più caso. Mia moglie, nata in una cittadina della Sicilia, San Giorgio di Gioiosa Marea, ci è tornata insieme a me dopo molti anni di lontananza. Il posto era talmente mutato che non ha riconosciuto niente di quello che un tempo le era familiare e ha vissuto un momento di curioso estraniamento. Quando un paesaggio non è stato stravolto dalla mano dell’uomo conserva un fascino che è ormai sempre più raro da trovare. Recentemente ho composto, su commissione della provincia di Trento, un pezzo ispirato al lago di Garda, Vidi aquam, cinque quintetti e una voce di donna. Poi, dopo essere stato registrato, è stato diffuso sulle rive del lago che in quel punto sembrava incontaminato, senza mostri edilizi che turbassero la vista. L’effetto era di una serenità stupefacente.

L'appello per Procida

"Salvare Procida"

- dal degrado urbanistico, architettonico e ambientale;

- dall'abusivismo edilizio e dai "condoni facili";

- dalla distruzione del verde e dalla cementificazione che diffonde strade e parcheggi;

- dalla congestione del traffico automobilistico;

- dall'assalto del turismo selvaggio e predatorio;

Rivolgiamo questo pubblico appello al ministro dei Beni culturali, al ministro dell'Ambiente, alla Sovrintendenza dei Beni ambientali e architettonici di Napoli; al Prefetto di Napoli e al Sindaco di Procida;

per fermare lo scempio dell'isola e restituirle la sua identità, la sua cultura e la sua memoria, come patrimonio mondiale dell'umanità e simbolo altamente rappresentativo della civiltà mediterranea, in ragione di uno sviluppo economico-sociale sano ed equilibrato.

- Renzo Arbore, musicista

- Achille Bonito Oliva, critico d'arte

- Daniel Buren, artista

- Margherita Buy, attrice

- Luciano D'Alessandro, fotografo

- Lorenza Foschini, giornalista Rai

- Antonio Ghezzi, direttore del Festival "Il vento del cinema"

- Antonio Ghirelli, giornalista e scrittore

- Raffaele La Capria, scrittore

- Antonio Lubrano, giornalista Rai

- Giuliano Montaldo, regista

- Ennio Morricone, musicista

- Piergiorgio Odifreddi , matematico

- Mimmo Palladino, artista

- Renzo Piano, architetto

- Raffaele Porta, presidente Associazione Studi sul Mediterraneo

- Ermanno Rea, scrittore

- Francesco Rosi, regista

- Vittorio Silvestrini, presidente IDIS - Città della Scienza

( 24 dicembre 2007)

Postilla

Sarà bello quel giorno (che temiamo sia lontano) in cui non servirà più la "croce rossa" dei personaggi noti per difendere la bellezza d'un sito o l'equità di una situazione. Sarà bello quel giorno (che può essere vicino) in cui ciascuno di quelli che hanno audience ne impiegheranno un po' per far comprendere a tutti in che modo si può agire per far prevalere il bene di tutti sul bene di pochi.

La discussione su Milano si accende e spegne senza sedimentare una riflessione organica. Le indagini del Corriere nei quartieri della città hanno evidenziato i problemi che interessano soprattutto la periferia urbana. Il sindaco Moratti ha ricordato che Milano ha anche qualità, tante eccellenze e che è un errore fermarsi a parlare solo del suo degrado. Adriano Celentano ha accusato architetti e amministratori di avere reso la città brutta. Report ha sostenuto che a Milano assistiamo a una versione aggiornata di Mani sulla città. Il che è evidentemente non vero, anche se la crescita del mercato immobiliare ha costruito ricchezze che si sono trasformate in enormi concentrazioni di potere.

Da questo insieme di voci sovrapposte e intermittenti mi sembra emergano tre temi. Il primo è la necessità di costruire e rendere trasparente un discorso pubblico sulla città, su dove vuole andare, quali obiettivi si vuole proporre per il futuro oltre all'assegnazione dell'Expo 2015 e l'avvio della pollution charge. La mancanza di tale discorso crea disorientamento e affida la giustificazione di ogni singola scelta ad argomentazioni contingenti. Il caso della Fiera è un esempio. La costruzione del nuovo polo a Rho-Pero è stato «autofinanziato » dalla Fondazione Fiera vendendo l'area del polo interno dove sarà realizzato il progetto City Life. Posto che la Fiera rappresenta uno degli asset strategici della città e che era necessario decentrarla per consentire vivibilità al quartiere ed efficienza alle funzioni fieristiche, è stato giusto concentrare volumetrie elevatissime nell'area lasciata libera per finanziare lo spostamento? Esistevano alternative? L'area interna poteva rispondere ad altre esigenze della città — case in affitto accessibili per i giovani, verde, servizi — se non la si fosse usata come strumento finanziario? In assenza di un discorso pubblico sulla città non sappiamo in che relazione stiano obiettivi di competitività economica e di risposta ai bisogni dei cittadini e quindi ogni operazione di trasformazione urbana deve ricostruire le proprie ragioni, giungendo a scelte che spesso appaiono incomprensibili.

Il secondo tema sorto dal recente dibattito riguarda le periferie urbane e l'assenza di un centro di coordinamento delle decisioni sui quartieri. È ora di dire che i «grandi progetti urbani» non sono solo quelli che riguardano i luoghi noti, da Santa Giulia a Garibaldi-Repubblica. Occorre un grande progetto urbano per le periferie milanesi, possibilmente in accordo con i Comuni di prima cintura, investendo intelligenza, capacità tecnica e risorse economiche. Fino a quando non ci sarà una mobilitazione straordinaria con una guida interna che sappia integrare le diverse competenze, dialogare con i cittadini, e con i Comuni contermini, saremo sempre costretti a fare solo l'elenco delle molte cose dimenticate.

Il terzo tema è quello della qualità della vita e della bellezza della città, oggi bene primario. Abbiamo bisogno di una città più accogliente, amichevole e facile da vivere, non solo per i suoi abitanti ma anche per favorire il suo sviluppo economico. I settori trainanti non sono più le grandi imprese ma le università, i centri di ricerca, i settori del design, della moda, della finanza, dei media. Settori che richiedono, per potersi sviluppare, di attrarre talenti ma anche di ospitare gli addetti ai servizi che questa città fanno funzionare. Persone che qui dovrebbero (anche) trovare la possibilità e il piacere di vivere, stabilirsi e crescere i figli.

Si tratta in conclusione di imparare dalla discussione avviata senza disperderla, in una nuova direzione che porti a superare gli stereotipi del passato, le contrapposizioni ideologiche e a lavorare per una città ancora competitiva ma più capace di affrontare i suoi problemi.

Nota: Alessandro Balducci è Direttore del Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano (f.b.)

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