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Un opera sbagliata che subordina gli interessi sociali, economici ed ambientali della collettività alle logiche finanziarie. Emblematica di come le grandi opere in Italia vengono gestite male, dove i fondi pubblici servono per coprire mancanze progettuali e salvare le imprese private da qualsiasi rischio. Con dettagliata cronologia.

Premessa
Le vicende della Pedemontana veneta si snodano (o si annodano) da oltre un trentennio e ancora appaiono lontane dall’essere concluse. Allo stato delle cose l’itinerario pedemontano è servito dalla Schiavonesca-Marosticana, strada una volta statale, nel 2001 passata dall’ANAS alla Regione Veneto e da quest’ultima alle Provincie di Vicenza e di Treviso. Sicuramente la Schiavonesca-Marosticana è da molto tempo inadeguata alle funzioni e alla quantità di traffico che la percorre ed è stata oggetto, nel tempo, di varianti e di interventi di potenziamento. Tuttavia la soluzione autostradale in corso di realizzazione, le modalità di finanziamento ad oggi note, gli effetti della riorganizzazione complessiva della mobilità nell’area appaiono del tutto inappropriate rispetto alle ragioni che hanno sostenuto nel tempo la necessità di questo nuovo asse stradale.

In queste note si descrive il momento cruciale che portò alla scelta, potenzialmente molto innovativa, di realizzare la Pedemontana come “Superstrada a pedaggio”, si elencano le tappe attraverso cui quella scelta coraggiosa venne di fatto pervicacemente ridotta alla realizzazione di una autostrada in concessione. Una infrastruttura calata forzosamente in un territorio strutturalmente inadatto, per tipologia degli insediamenti e per quantità di traffico, ad essere servito da un tradizionale asse autostradale.

Oggi i nodi vengono al pettine. Qui si accenna brevemente alle forzature decisionali, alla tormentata vicenda del ricorso al project financing e alle relazioni della Corte dei Conti che sollevano questioni di fondo che non possono essere ignorate e dovrebbero far seriamente riflettere sulla possibilità di trovare qualche via d’uscita meno dannosa di quella dell’andare avanti nonostante tutto con il progetto in corso.

La Pedemontana e la sua storia costituiscono a mio parere un caso emblematico da cui trarre insegnamenti per il più generale problema del processo decisionale delle grandi infrastrutture. Un processo che nel nostro paese ha dimostrato nel tempo di essere profondamente irresponsabile, straordinariamente conflittuale a tutti i livelli, accompagnato da modalità di valutazione inesistenti o totalmente ininfluenti, sistematicamente fondato sul ricorso alla spesa pubblica per far fronte a buchi finanziari e a carenze progettuali.

Ne emerge con molta efficacia la necessità di un cambiamento profondo nel modo di programmare, progettare, realizzare e gestire le infrastrutture necessarie. Un cambiamento oggi potenzialmente avviato attraverso il nuovo Codice degli appalti, l’abolizione della Legge Obiettivo e le nuove regole per la programmazione e la realizzazione delle infrastrutture. Ma la vicenda della Pedemontana dimostra che non basta un cambiamento nelle norme e nelle logiche dell’azione statale: occorrono profondi cambiamenti culturali anche nelle regole per l’azione delle Regioni e degli enti locali, occorre una nuova capacità di sinergia e di vigilanza e occorrono, anche nelle comunità locali, consapevolezze e alleanze ad oggi largamente mancanti.

1. Piccola cronologia dei primi (falliti) tentativi [1]

1990 Il Piano Regionale dei Trasporti
La Pedemontana nasce, come dice il suo nome, come itinerario destinato a raccogliere e distribuire il traffico generato e attratto dai numerosi centri posti allo sbocco delle valli, dove la manifattura ottocentesca e novecentesca basata sullo sfruttamento dei corsi d’acqua aveva concentrato attività, ricchezza, popolazione. Uno sviluppo proseguito poi nella forma peculiare di una diffusione insediativa frammentaria, per lo più ricalcata sui precedenti assetti agricoli, oppure organizzata in fregio filiforme lungo le strade esistenti. La previsione di “potenziamento dell’itinerario pedemontano” è effettivamente contenuta nel Piano Regionale dei Trasporti (PRT) approvato nel 1990, mai aggiornato e tuttora vigente. Quella previsione sottointendeva una realistica gerarchia delle priorità: non una nuova strada ma potenziamenti per tratte, finanziati dall’ANAS, partendo dalle tangenziali a servizio dei centri maggiori. Le caratteristiche omogenee delle tratte e il loro successivo collegamento poteva dare luogo ad un itinerario da subito capace di servire il traffico locale, che costituiva la grandissima maggioranza del traffico. In seguito, una volta completato, l’itinerario avrebbe potuto servire anche il traffico di più lunga percorrenza. Nel 1992 la Regione Veneto sviluppa su questa base un progetto di tipo super stradale [2].

1.1 1995 La Pedemontana: una autostrada senza oneri per lo Stato
Un pregevole dattiloscritto ad opera del partito della Margherita [3] richiama le ragioni dell’abbandono di quella prospettiva e spiega l’entusiasmo diffuso verso un progetto autostradale. Le cause vanno ricercate nella crisi finanziaria dello Stato dei primi anni ‘90, nel drastico taglio della spesa pubblica seguito al Trattato di Maastricht e non da ultimo negli effetti politici della profonda indignazione per gli scandali di Tangentopoli, per lo più maturati proprio sugli appalti delle grandi opere infrastrutturali. Nel 1995, in questo quadro di oggettivo impallidimento della possibilità stessa di realizzare la Pedemontana, attecchisce ancora una volta una vecchia promessa mai mantenuta: il Presidente della Autostrada A4 Serenissima si offre di realizzare la Pedemontana come autostrada in concessione “senza oneri per lo Stato” [4]. Quella che sembra una provvidenziale soluzione raccoglie una ampia adesione da molte Amministrazioni comunali e dalla generalità della popolazione. Non mancano le voci critiche: da quelle che richiamano l’oggettiva falsità di quella promessa a quelle che rivendicano per la nuova strada funzioni locali incompatibili con l’assetto autostradale a quelle che evidenziano i danni ambientali e i danni economici alle colture di pregio delle aree attraversate dal nuovo asse. Appena un paio di anni dopo quello stesso Presidente della Serenissima dirà ad un convegno a Vicenza “Non c’è nessuno in grado di remunerare gli investimenti con i pedaggi”. Ma ormai l’autostrada è divenuta luogo comune. Nella percezione delle Amministrazioni locali e dei cittadini, anche se non è la soluzione migliore, almeno si fa qualcosa.

1.2 1997-1998 finanziare una autostrada, ma con giudizio
La previsione della Pedemontana come asse autostradale, inserita nel 1997 nell’Accordo Quadro sottoscritto da Governo e Giunta regionale faceva della nuova infrastruttura un ramo della maglia autostradale destinata prevalentemente ai traffici di lunga percorrenza e all’alleggerimento della Serenissima. Tale previsione, che relegava di fatto il servizio per il traffico locale al rango di sottoprodotto, suscitava non poche opposizioni da parte di Comuni, associazioni di categoria e associazioni ambientaliste. E anche da parte di forze politiche. Tanto che il riflesso di tali opposizioni era ben evidente nelle leggi di fine anni ‘90, nelle quali si stanziavano denari per la realizzazione della Pedemontana:

Anche restando nell’ambito di una prospettiva autostradale tali leggi rispecchiano bene la ricerca di soluzioni progettuali più attente alla morfologia dei luoghi e al servizio della reale domanda di trasporto, formata per la grandissima maggioranza da traffico locale.
1.3 2000: il progetto autostradale di Bonifica spa
Intanto Anas, senza aspettare alcuna valutazione preventiva, forte del contributo statale fissato dalla L 448/98, indice una gara a licitazione privata per il progetto definitivo dell’autostrada tra Dueville (A31) e Spresiano (A27) vinta, nel gennaio 2000, dalla società di progettazione Bonifica spa, con sede in Roma.
Le proposte tariffarie e di tracciato nonché le stime di traffico del progetto Bonifica per il 2007, anno previsto per l’entrata in esercizio della Pedemontana, risultano per molti versi illuminanti:

Nonostante le “aperture” al traffico locale ora ricordate, l’opposizione al progetto dichiaratamente autostradale di Bonifica è forte e interessa un numero crescente di Amministrazioni locali: per il tracciato, che serve pochissimo ad alleggerire la viabilità locale congestionata, per il ridisegno della viabilità ordinaria orientato principalmente a favorire gli accessi autostradali per la pesante interferenza con le previsioni urbanistiche e i vincoli ambientali. Il passaggio del tracciato lungo i confini comunali, assunto come criterio base, può servire a minimizzare il conflitto con i Comuni ma appare del tutto inadeguato a prendere nella dovuta considerazione la natura dei suoli, la struttura storica degli insediamenti e delle ville, i valori paesaggistici e ambientali, l’impatto sulle aziende agricole e le loro colture di pregio.

1.4 Autostrada o Superstrada?

Proprio dalla intensità di questa opposizione trae origine la legge 388/2000 [6] nella quale si stabilisce che l’infrastruttura:
“puo' essere realizzata anche come superstrada. In tal caso sono applicabili, ai sensi dell'articolo 21, comma 3, della legge 24 novembre 2000, n. 340, il pedaggiamento e la concessione di costruzione e gestione, ferme restando le procedure stabilite dall'articolo 10 della legge 17 maggio 1999, n. 144. Ai fini dell'esercizio dell'opzione di cui al presente comma e della valutazione delle alternative progettuali, finanziarie e gestionali, di sostenibilita' ambientale e di efficienza di servizio al territorio, il Ministero dei lavori pubblici conclude entro il 31 marzo 2001 una conferenza di servizi con il Ministero dell'ambiente, la Regione Veneto, gli enti locali e gli altri enti e soggetti pubblici interessati. Trascorso il termine predetto senza che sia stabilita la realizzazione di una superstrada a pedaggio, riprende la procedura di cui all'articolo 10 della legge 17 maggio 1999, n. 144. "

La Superstrada a pedaggio costituiva una innovazione di grandissimo interesse. Il pedaggio, applicato ai traffici di lunga distanza, avrebbe contribuito a finanziarla e al tempo stesso sarebbe stato coerente con le politiche di trasferimento delle merci dalla strada alla ferrovia. La Superstrada, classificata dal Codice come “Strada extraurbana principale di tipo B” [7], avrebbe potuto ridurre il consumo di suolo, massimizzare il servizio al territorio con l’infittimento delle connessioni alla viabilità ordinaria, consentire un miglior inserimento paesaggistico grazie alle velocità più ridotte e ai conseguenti minori raggi di curvatura necessari. Il massimo riuso dei sedimi stradali esistenti previsto dalla legge poteva assumere un senso ben preciso alla luce della fittissima rete di strade statali e provinciali dell’area.

La gestione “aperta” avrebbe potuto selezionare l’utenza facendo pagare le lunghe percorrenze, esentando le percorrenze brevi e brevissime e dosando opportunamente le situazioni intermedie. Il ricorso al sistema “a barriere” e/o l’applicazione delle tecnologie telematiche di identificazione dei veicoli [8] potevano assicurare la minimizzazione dei costi di gestione anche in presenza di un numero elevato di accessi. Se si avesse avuto coraggio e lungimiranza la superstrada a pedaggio avrebbe potuto addirittura avviare la trasformazione del pedaggio da (inefficiente) strumento di finanziamento dell’infrastruttura a strumento di regolazione dell’uso del sistema delle infrastrutture, con effetti ben più importanti ed efficaci.

La Conferenza dei Servizi prevista dalla legge si svolse effettivamente a Castelfranco Veneto il 31 marzo 2001, dunque nei tempi fissati. Gli Enti locali e i soggetti istituzionali i convenuti optarono a grande maggioranza per la Superstrada, in pieno disaccordo con la Regione Veneto e le due Provincie interessate, che abbandonarono provocatoriamente la riunione [9]. Dal punto di vista della trasparenza e della consapevolezza fu una grande occasione mancata. Non solo perché il progetto Bonifica era stato visto compiutamente solo da pochi comuni e solo in maniera informale, ma perché tutto il complesso lavoro di approfondimento tecnico e modellistico degli advisor previsto dalla L 144/1999, venne distribuito all’ultimo momento e non ci fu tempo per valutare e studiare. E’ appena il caso di ricordare che anche quell’interessante lavoro, che aveva comparato ben dieci ipotesi di livello tariffario e di modalità di riscossione del pedaggio, arrivava infine, attraverso una analisi multicriteri, a raccomandare l’adozione di un sistema “selettivamente” aperto e metteva in guardia circa la fragilità delle ipotesi di finanziamento da pedaggio.

2. Il nuovo scenario post 2001: Legge Obiettivo e project financing

Gli eventi che seguirono la decisione del marzo 2001 segnano una svolta nell’iter decisionale. In primo luogo cambia profondamente il contesto nazionale e in secondo luogo, per la Pedemontana, cambiano radicalmente gli attori in gioco.

A fine del 2001 il nuovo Governo di centro-destra rivoluziona, con la Legge Obiettivo (L 443/2001) le modalità di decisione e realizzazione delle grandi infrastrutture. La Legge Obiettivo avrebbe dovuto riguardare unicamente poche opere strategiche di “preminente interesse nazionale” a cui riservare uno speciale percorso decisionale accelerato e semplificato e la certezza del finanziamento. All’insegna di parole d’ordine come “ semplificazione delle procedure” e “rapidità di attuazione” la maggior parte delle decisioni sulle singole opere doveva essere assunta sul progetto preliminare, comprese le valutazioni economiche e lo svolgimento della procedura di VIA.

Il risultato si rivela ben presto disastroso. L’assenza di programmazione, l’oggettiva insufficienza del progetto preliminare a consentire valutazioni attendibili circa la fattibilità economica ed ambientale delle singole opere, la corsa ad iscrivere opere negli elenchi della Legge, a prescindere dalla loro strategicità (e spesso anche della loro utilità) portano a situazioni paradossali: nel 2015 gli elenchi della Legge Obiettivo registravano oltre 400 opere, molte delle quali con progetti preliminari approssimativi, incerta fattibilità e incerto finanziamento [10]. Oggi, abolita la Legge Obiettivo in nome della ripresa della programmazione e del rigore nelle valutazioni [11], molte di tali opere dovrebbero essere abbandonate o radicalmente riviste, ma vantano diritti acquisiti che costituiscono altrettante remore al disegno di un razionale sistema infrastrutturale e al corretto uso della spesa pubblica.

2.1 Trasferimento alla competenza regionale e project financing

Nella Delibera CIPE 121/2001 che tracciava regione per regione il primo programma delle opere in Legge Obiettivo era compresa, per il Veneto, la Pedemontana Veneta (tratte est e ovest) insieme al Passante di Mestre, alla Tratta Venezia – Ravenna (Nuova Romea E 45 – E 55) , al Raccordo autostradale Verona – Cisa (Ti-Bre) e al Completamento A 27 – Alemagna. A partire da questo momento ci si sarebbe aspettati un periodo di revisione del progetto Bonifica al fine di accelerare la realizzazione e di cogliere appieno gli aspetti positivi della trasformazione in Superstrada. Invece il trasferimento alla competenza regionale e il ricorso al project financing rimettono tutto in discussione. In rapida successione nel 2001 la Legge finanziaria trasferisce i contributi già stanziati per la tratta est-ovest alla Regione Veneto (L 448/2001 art. 73, comma 2), un Accordo tra Presidenza del Consiglio, Ministero dei Trasporti e Regione Veneto trasferisce alla Regione la competenze sulla realizzazione dell’opera; la Regione acquisisce da Anas il progetto Bonifica (non senza qualche resistenza da parte di Anas).

Nel 2002 la società Pedemontana Veneta Spa [12], a cui la Regione trasferisce il progetto Bonifica [13]. presenta, come promotore, un progetto in Project Financing per la tratta da Dueville (A31) a Spresiano (A27). Il progetto viene messo in gara, ma un ricorso presentato da alcuni Enti locali e da Legambiente del Veneto viene accolto dal TAR che annulla la gara. Nello stesso anno la tratta Ovest della Pedemontana, di raccordo tra la A4 e la A31 era stata concessa, senza alcuna gara, alla Serenissima: una procedura di infrazione comunitaria per l’assenza di gara porta ad annullare la concessione.

Il 2003 segna il punto fermo dal quale parte la storia recente dell’infrastruttura:

Dal punto di vista della capacità di servire il territorio attraversato il progetto preliminare approvato nel 2006 é sensibilmente peggiorativo rispetto al progetto Bonifica. L’infrastruttura, nonostante la reiterata dichiarazione che si tratta di una “Strada extraurbana principale di tipo B”, in realtà rincorre malamente le dimensioni di una autostrada [14], adotta un sistema di riscossione del pedaggio completamente chiuso e costa 1.991 milioni di euro contro i 1450 previsti del progetto Bonifica.

3. I guai del project financing e la Corte dei Conti

Più di dieci anni sono trascorsi dalla approvazione del progetto da parte del CIPE e l’avanzamento dell’infrastruttura pone ancor oggi molti rilevanti problemi. I lavori sono iniziati [15] ma l’iter decisionale è ancora incerto su temi fondamentali come il rapporto contrattuale tra Regione e Concessionario o la possibilità, per il Concessionario, di arrivare in tempo utile al closing [16], o ancora il regime tariffario per i residenti e le attività dell’area. Inoltre i danni ambientali denunciati sui giornali, le perdite di risorsa idrica nella realizzazione delle gallerie e l’impatto dei cantieri sembrano sopravanzare di molto le valutazioni dello Studio di impatto ambientale.

Nel riquadro di figura 1 si indicano in estrema sintesi, ordinati per data, i fatti più significativi del decennio dal 2006 ad oggi. Qui conviene invece riprendere alcuni macroscopici punti critici, anche sulla scorta delle recenti Relazioni della Corte dei Conti (CdC) relative alla attuazione della Pedemontana Veneta [17].

Figura 1 Cronologia del decennio 2006-2016

3.1 Un project financing a geometria variabile

Un primo aspetto determinante riguarda la scelta regionale di ricorrere al project financing, le modalità con cui tale scelta è stata attuata e le continue modificazioni del rapporto tra Concedente e Concessionario ancora oggi in corso. E’ una vicenda tormentata a partire dalla gara del 2006 per la scelta del concessionario. In quella gara infatti l’offerta più vantaggiosa era stata presentata dall’ATI costituita dal Consorzio Stabile SIS SCpA - Itinere Infraestructuras S.A. (Consorzio SIS). Tuttavia la Regione aveva affidato la concessione al promotore Società Pedemontana Veneta (ATI con capogruppo Impregilo), che aveva esercitato il diritto di prelazione previsto dalle norme italiane (peraltro contestato dalle norme europee). L’ATI Consorzio SIS ricorre contro tale assegnazione e la sentenza conclusiva del Consiglio di Stato obbliga la Regione ad affidare la concessione al Consorzio SIS. Intanto sono passati tre anni: sarà il Commissario a firmare nel 2009 la prima Convenzione tra il Concedente Regione Veneto e il Concessionario Consorzio SIS.

Quella Convenzione suscita non poche perplessità: perché la Regione si impegna [18] a garantire con ogni mezzo l’equilibrio del Piano economico finanziario (ad es. con l’aumento dei contributi, l’allungamento della concessione, la variazione delle tariffe, ecc.) e a versare al Concessionario oltre al contributo in conto capitale di 173,7 milioni di euro, un canone annuale “di disponibilità” pari a 14,5 milioni di euro, aggiornato annualmente in base al tasso di inflazione. Tale canone che garantisce al concessionario un introito annuale basato su stime di traffico riviste al rialzo rispetto a quelle del progetto, potrebbe essere rimodulato a favore della Regione nella improbabile ipotesi che gli introiti da pedaggio risultassero molto superiori a quelli previsti in convenzione. Ovviamente nel caso, assai più probabile, che gli introiti fosse inferiori, la Regione si obbliga a provvedere al ripiano. Viene così meno, oggettivamente, il rischio del Concessionario, al quale tali regole garantiscono la totale copertura dei costi, in aperta contraddizione con la logica di equa ripartizione dei rischio che dovrebbe stare alla base del project financing.

Le regole così cautelative per il Concessionario si rivelano comunque insufficienti a garantire la “bancabilità” dell’opera: nel 2013 un Atto convenzionale aggiuntivo aggiorna i costi dell’intervento da 1,4 miliardi di euro del progetto preliminare del 2003 a 2,258 miliardi di euro, incrementa il contributo pubblico in conto capitale fino a 614,410 milioni di euro, 370 dei quali stanziati dallo Stato e prevede, per il Concessionario, un contributo annuo in conto gestione di 20 milioni di euro a partire dall’entrata in esercizio dell’infrastruttura e per tutta la durata della concessione.

Per la “bancabilità” ancora tutto questo non basta: nel 2016 la Cassa Depositi e Prestiti, coinvolta con altre banche nel finanziamento del Concessionario, giudica l’infrastruttura non finanziabile sulla base di una stima del traffico, appositamente commissionata, che quantifica un TGM di poco superiore a 15.000 veicoli, la Regione Veneto reagisce mettendo a punto una complessa soluzione che comprende un ulteriore contributo pubblico (regionale) di 300 milioni di euro e la riformulazione dei rapporti tra Concedente e Concessionario SIS attraverso un III Atto convenzionale che sostituisce completamente le convenzioni precedenti.

Tale riformulazione modifica radicalmente i termini delle Convenzioni sottoscritte nel 2009 e nel 2013 e viene motivata dall’aumento dei costi del progetto e dalla constatazione che i volumi di traffico saranno prevedibilmente minori di quelli ipotizzati data la crisi economica e i suoi effetti di lungo periodo. Nonostante la sistematica minimizzazione con cui il III Atto convenzionale viene presentato, il cambiamento è davvero radicale. La titolarità dei proventi da pedaggio passa dal Concessionario SIS al Concedente Regione Veneto che si addossa così completamente il rischio di mercato, ovvero l’incertezza circa i volumi di traffico e le conseguenti entrate tariffarie. Il Concessionario, a cui restano i rischi collegati al costo di costruzione e alla disponibilità dell’infrastruttura, rinuncia ad introiti da Concessione per circa 6,7 milioni euro, ma il suo equilibrio di bilancio è garantito da un “canone di disponibilità” annuo aggiornato nel tempo e rivedibile al rialzo qualora necessario.

E’ una modifica non da poco perché mentre il rischio di mercato non dipende dal Concessionario, e in tal senso si tratta realmente di un rischio, le altre due componenti (costo di costruzione e disponibilità legata alla manutenzione e al buon funzionamento dell’infrastruttura) dipendono invece pressoché completamente dalla azione del Concessionario, dalla sua abilità imprenditoriale e dalla sua efficienza tecnica. La prevista copertura totale di tali costi da parte della Regione attraverso il canone annuo di fatto rende il rapporto simile ad un contratto di appalto piuttosto che a un contratto di concessione. La previsione che il canone di “disponibilità dell’infrastruttura” possa essere diminuito (nella quota massima del 15%) in seguito alle eventuali inadempienze del Concessionario non sembra modificare sostanzialmente le cose.
Noterà la Corte dei Conti nella Relazione del 2016:

“Il ricorso al partenariato pubblico-privato non solo non ha portato i vantaggi ritenuti suoi propri, ma ha reso precaria ed incerta la fattibilità dell’opera stessa. Appare evidente, infatti, la difficoltà a far fronte al closing finanziario, ricorrendosi, in contrasto con i principi ispiratori della finanza di progetto, all’intervento di organismi pubblici, al fine di superare le criticità dell’operazione. E’ manifesta la traslazione del rischio di mercato sul concedente, fatto anch’esso in contraddizione con la ratio del ricorso alla finanza di progetto."

L’importo elevato del previsto contributo regionale supera la capacità di indebitamento della Regione. D’altra parte il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti dichiara pubblicamente che “lo Stato non è un bancomat” e che nessuna risorsa aggiuntiva verrà assegnata alla Pedemontana Veneta. Un bel pasticcio: perché recedere dalla Concessione significa interrompere i lavori nei cantieri iniziati, lasciar sospesa la remunerazione degli espropri e comunque subire uno scacco politico di enorme portata. L’idea iniziale della Amministrazione regionale di ricavare i 300 milioni di euro attraverso una addizionale IRPEF del 5xmille sui redditi superiori a 28.000 euro viene rapidamente abbandonata per il clamore e le proteste suscitate. L’articolazione dell’impegnativo contributo regionale in due tranche successive di mutuo trentennale sottoscritto con Cassa Depositi e Prestiti, fa fronte al problema della capacità di indebitamento della Regione. Ma non risolve tutti i problemi: sussiste uno squilibrio troppo accentuato a favore del concessionario? Le modifiche della Convenzione potrebbero dare luogo a ricorsi (già annunciati) da parte dei soggetti “perdenti”? Non sarebbe più conveniente, per l’Amministrazione pubblica, rivedere tutta la questione e procedere ad una regolare gara d’appalto?

Su questi temi si è in attesa delle determinazioni dell’Autorità Nazionale anti-corruzione e degli organismi di vigilanza, compresa la Corte dei Conti ai quali è stata inviata la documentazione relativa al III Atto convenzionale.

3.2 Un abnorme contenzioso

Un secondo aspetto rilevante è costituito dalla ampiezza del contenzioso, che è un buon indicatore della poca chiarezza delle leggi e della incerta legittimità delle decisioni. Il contenzioso interessa conflitti tra Stato e Regione, tra Regione ed Enti Locali, tra Associazioni di vario tipo e istituzioni, tra cordate imprenditoriali, tra privati ed enti pubblici. Gli effetti che ne derivano in termini di allungamento dei tempi, crescita dei costi e oggettiva incertezza delle decisioni sono rilevantissimi. Il commissariamento dell’opera ottenuto nel 2009 rappresenta un maldestro tentativo di risposta a questo problema. Nell’estate del 2009 infatti la Regione ottiene dal Consiglio dei Ministri una dichiarazione di “stato di emergenza” nel settore del traffico e della mobilità nelle provincie di Vicenza e Treviso. E’ evidente l’intenzione di ricalcare in tal modo l’esperienza di commissariamento che aveva portato, non senza problemi, alla realizzazione del Passante di Mestre. Non a caso viene nominato Commissario [19] e dotato di amplissimi poteri straordinari proprio l’ingegnere Vernizzi, alto dirigente regionale e Amministratore delegato di Veneto Strade, reduce in quel periodo dall’aver portato a termine la realizzazione del Passante di Mestre.

Tutta la vicenda del commissariamento e dei suoi esiti saranno considerati assai criticamente dalla Corte dei Conti: per il costo elevato della struttura commissariale, per la sistematica e continuativa deroga alle norme, per l’esproprio di responsabilità dell’istituzione regionale e, paradossalmente, per l’incredibile numero di contestazioni, di ricorsi o di minacce di ricorso che costellano l’elaborazione del progetto definitivo, conclusa nel 2010. La soluzione “commissariamento” peggiora il male che dorrebbe curare. La Corte dei Conti, stigmatizzando proprio l’ampiezza del contenzioso, osserverà che da questa vicenda emerge l’assoluta necessità di approfondire e concordare le soluzioni relative al tracciato e alla integrazione nel territorio nelle fasi preliminari, per evitare il danno erariale che deriva dall’uso strumentale del contenzioso come mezzo per aumentare il proprio potere contrattuale e ottenere vantaggiose modifiche del progetto o anche opere aggiuntive. Uno degli effetti macroscopici della negoziazione tra enti locali e Commissario è l’incremento dei costi: il costo di costruzione aumenta di oltre 300 milioni di euro.
Nella Figura 2 lo schema del tracciato della Pedemontana veneta a seguito dal progetto definitivo del 2010 [20].

Figura 2 Pedemontana schema del tracciato

A chi serve la nuova strada?

Infine al di là degli aspetti finanziari e amministrativi l’aspetto più rilevante di questa storia è la perdita progressiva del significato dell’opera: un significato compromesso alla radice dalla progressiva subordinazione degli interessi sociali, economici ed ambientali delle collettività locali alle logiche finanziarie e agli interessi legati alla realizzazione della grande opera.

Basti considerare la questione delle stime di traffico e la ricerca della massimizzazione degli introiti che le guidano. Nel 2016, in opposizione allo studio di traffico della Cassa Depositi e Prestiti che aveva quantificato un TGM di 15.000, la Regione commissiona a sua volta uno studio di traffico. Tale studio assumendo le tariffe di pedaggio fissate nella convenzione del 2013 stima al 2020, anno di prevista entrata in esercizio dell’infrastruttura, un TGM di circa 20.000 veicoli. Simulando invece tariffe più basse, che rendono conveniente l’uso dell’infrastruttura per una maggior quantità di traffico, il TGM stimato cresce fino a 27.000 veicoli [21]. Queste nuove condizioni sono formalmente assunte nel III Atto convenzionale, che ripropone da parte della Regione la garanzia dell’equilibrio economico finanziario attraverso un contributo in conto “disponibilità dell’infrastruttura” che ancora una volta garantisce la copertura dei costi del Concessionario. Il progetto in via di realizzazione assume, come si è detto, un sistema di gestione chiuso, organizzato con 15 caselli e due barriere in corrispondenza della connessione con le altre autostrade. Dunque tutto il traffico è potenzialmente soggetto al pagamento del pedaggio: le eventuali esenzioni a favore di residenti e attività locali dipendono unicamente dal gestore dell’infrastruttura. La totale sparizione nel III Atto convenzionale di ogni accenno a tali regole di esenzione dal pedaggio per la popolazione e le attività locali, che erano invece dettagliatamente contenute nella Convenzione del 2009 e del 2013, rispecchia perfettamente il problema: la quantità di traffico e le tariffe previste nel III Atto convenzionale sono calibrate per conseguire la massimizzazione degli introiti indispensabile ad assicurare la finanziabilità del progetto. Qualsiasi esenzione, anche qualora possibile in termini contrattuali, potrebbe compromette gli equilibri finanziari previsti, così che la prospettiva più realistica è sicuramente quella dell’azzeramento di ogni ipotesi di esenzione.

Infine occorre osservare la sistematica ambiguità con cui la Pedemontana è presentata come maglia della rete autostradale, cosa che implica l’assunzione di caratteristiche progettuali coerenti con quelle del resto della rete autostradale. La qualifica di “superstrada” resta dunque come fatto puramente formale, mentre le caratteristiche tecniche e il sistema di esazione del pedaggio sono del tutto autostradali. L’autostrada, come tutte le autostrade, risulta di difficile inserimento morfologico e paesaggistico in un territorio diffusamente abitato. Le implicazioni in termini di caratteristiche costruttive e costo di costruzione sono assai rilevanti: su una lunghezza complessiva di km 94,50 circa il 72% del tracciato corre in trincea o in galleria e il restante 28% in rilevato. C’è da scommettere che la piacevolezza del paesaggio potrà essere ben poco colta dai viaggiatori autostradali. Le singolari caratteristiche plano altimetriche certamente hanno a che fare con la preoccupazione di minimizzare la visibilità dell’opera, ma sicuramente scontano anche l’interesse per il profitto ricavabile dalla vendita degli inerti risultanti dagli scavi.

In conclusione ogni passo della storia delle Pedemontana è scandito dalla crescita dei costi di costruzione e dall’aumento del rischio per l’Amministrazione pubblica. Ogni passo rende tuttavia più difficile cambiare e spinge di fatto verso la realizzazione ad ogni costo di un progetto profondamente inadatto rispetto i problemi di mobilità e di congestione della viabilità locale che dovrebbe aiutare a risolvere. Non c’è più nulla da fare? A parte l’attesa per i giudizi di legittimità e le verifiche sul III Atto convenzionale si potrebbe comunque far qualcosa per diminuire il danno? Anche restando all’interno della filosofia del sistema chiuso, capace cioè di intercettare tutto il traffico che percorre la strada, le scelte progettuali della Pedemontana in costruzione appaiono singolarmente arretrate. Quale risparmio di costi di costruzione e di impatto paesaggistico si sarebbe potuto ottenere attraverso l’adozione di sistemi tipo Free Flow Multilane22 oggi già ampiamente utilizzati in altri paesi europei e anche in Italia per la Pedemontana lombarda o previsti per la Livorno-Civitavecchia? E quale flessibilità di gestione e di tariffazione sarebbe

possibile attraverso questo sistema? Dato il modesto avanzamento dei lavori si sarebbe probabilmente ancora a tempo per modificare il sistema di esazione, che vorrebbe dire semplificare enormemente svincoli e connessioni con la viabilità ordinaria, diminuire i costi di costruzione e di gestione e risparmiare risorse da dedicare alle necessarie misure a favore del traffico locale.

In ogni caso le vicissitudini della Pedemontana veneta costituiscono una perfetta dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, della necessità di modificare profondamente il processo decisionale relativo alle grandi infrastrutture. Le riforme avviate con il nuovo Codice degli appalti [23] e l’abolizione della Legge Obiettivo vanno in questa direzione disegnando un itinerario assai diverso da quello fin qui descritto. Nelle nuove regole il progetto preliminare è sostituito da un ben più approfondito e valutato Progetto di fattibilità tecnica economica (PFTE) strutturato attraverso il confronto tra alternative e l’analisi costi-benefici. La elaborazione definitiva del PFTE dovrà essere preceduta da un Dibattito Pubblico capace di far emergere la domanda reale, gli interessi collettivi e i problemi dei territori interessati. La solidità dei progetti ottenuta attraverso tali fasi progettuali dovrebbe essere in grado di ridurre al minimo il contenzioso e l’aumento dei costi, perché il progetto dell’infrastruttura potrà tener conto da subito dei problemi, invece di rincorrere con continue variazioni gli esiti del contenzioso e delle opposizioni locali sui progetti definitivi ed esecutivi. La programmazione integrata di ordine nazionale e locale consentirà di definire lo schema strategico della rete infrastrutturale ai diversi livelli, con le sue sinergie e le sue priorità. Le nuove regole, valide anche per le infrastrutture di interesse regionale, renderanno più facile, almeno si spera, decidere infrastrutture condivise e appropriate al loro ruolo, valutate nei loro effetti economici, sociali ed ambientali rispetto ad altri impieghi delle risorse pubbliche. Infrastrutture realizzate con costi prevedibili, maggiore rapidità e regole meno vulnerabili a fronte degli interessi privati confliggenti. Con vantaggio per l’erario e per le popolazioni interessate.

Note

[1] Tutti gli atti ufficiali richiamano la successione degli atti politici, normativi o in varia forma autorizzativi che hanno fin qui sostanziato l’iter decisionale della Pedemontana. Ad essi si rimanda. In queste note si fa riferimento alle note interpretative di tali atti, redatte da partiti, associazioni, organizzazioni della società civile.
[2] Il progetto del 1992 prevedeva 85% del tracciato di tipo III Anas (m 18,60 a carreggiate separate) e 15% del tracciato di tipo IV Anas (m 10,70 a carreggiata unica).
[3] La Margherita – Insieme per il Veneto Breve storia della Pedemontana Veneta, novembre 2004.
[4] La logica di tali promesse si fondava sull’aspettativa, da parte del Concessionario, di consistenti allungamenti delle Concessioni sulle autostrade già realizzate. Ma già negli anni ’90 le norme europee imponevano l’obbligo di gara ad evidenza pubblica per la realizzazione di nuove opere e vietavano quindi allungamenti di concessione motivati dalla realizzazione di nuove opere da parte del concessionario. Senza contare che la Legge 492/1975 aveva vietato la costruzione di nuove autostrade in concessione proprio a motivo della loro dimostrata impossibilità di remunerare gli investimenti attraverso il pedaggio. Lo Stato, garante dei debiti delle concessionarie, era chiamato a coprire le loro insolvenze presso il sistema bancario, generando così insostenibili impegni di spesa pubblica. Per dare un’idea della dimensione del problema, quando la Legge 531/1982 Piano decennale per la viabilità di grande comunicazione riaprirà la vicenda delle concessionarie, il contributo a fondo perduto chiesto allo Stato per la realizzazione di nuove autostrade in concessione era dell’ordine del 65-70% dell’investimento.

[5] Si prevedono 3 barriere di pagamento di un pedaggio fisso: due collocate alle estremità per il collegamento con le autostrade A31 e A27 e una in posizione centrale, al confine tra la provincia di Vicenza e quella di Treviso.
[6] Tale previsione è dovuta all’emendamento proposto dal Senatore Giorgio Sarto, dei Verdi.
[7] In realtà il progetto Bonifica adottava una sezione più ampia di quella delle “Strade extraurbane principali di tipo B”: la banchina in destra passava da m1,75 a m 2,50 e la sezione complessiva da m 22 a m 24,50. Se si considera che per le Strade extraurbane di tipo A, ovvero le Autostrade, le norme prevedono una sezione di 25 m è evidente il tentativo di ridurre il passaggio alla Superstrada un fatto meramente nominalistico.
[8] Il Telepass, antesignano del pedaggiamento telematico, è stato introdotto sperimentalmente in Italia nel 1990
[9] Nel mio ruolo di rappresentante del Ministero dell’ambiente, DG del Servizio di Valutazione dell’impatto ambientale, ebbi modo di partecipare a quella riunione e di registrare l’evidente fortissima resistenza della Amministrazione regionale ad immaginare qualcosa di diverso da una tradizionale autostrada in concessione.
[10] Per un efficace quadro critico della attuazione della Legge Obiettivo si vedano i lavori del WWF e in particolare il Dossier Il corto circuito del programma delle infrastrutture strategiche – Controstoria di dieci anni di Legge Obiettivo, 2011.

[11] L’abolizione della Legge Obiettivo e la ripresa della programmazione in materia di infrastrutture è una delle previsioni più qualificanti del nuovo Codice dei contratti Dlgs 50/2016.
[12] La Società Pedemontana Veneta è composta da Autostrade per l'Italia, Autostrada Brescia-Padova, Autovie Venete, Banca Antonveneta, Unicredit e San Paolo.
[13] Un trasferimento accompagnato da molte polemiche: perché la nuova Società può disporre di un progetto già sviluppato? Non si configura in tal modo una ingiusta posizione di privilegio rispetto ad altri possibili concorrenti? Il progetto, che comunque costituisce una proprietà pubblica, è stato trasferito a titolo oneroso o a titolo gratuito?

[14] La sezione adottata per la superstrada è di m 24,50 contro quella di 25 m prevista dal Codice della Strada per le autostrade.
[15] Nel 2017 la Regione Veneto, nell’approvare il III Atto convenzionale stima nel 27% l’avanzamento dei lavori.
[16] Termine utilizzato per indicare la chiusura dell’operazione finanziaria con le banche, che deve avvenire, in base al III Atto convenzionale, entro tempi certi.
[17] In particolare la Relazione del 2015 (Deliberazione 30 dicembre 2015, n. 18/2015/G) ripercorre puntualmente e criticamente tutto l’iter decisionale.
[18] Art. 8 della Convenzione registrata in data 27.10.2009 presso il notaio Gasparotti.
[19] Il commissariamento scade nel 2016. In vista di tale scadenza la Regione Veneto ha provveduto ad istituire nell'ambito della Segreteria Generale della Programmazione una Struttura di Progetto "Superstrada Pedemontana Veneta" che eredita le funzioni del Commissario senza tuttavia averne i poteri derogatori.
[20] L’immagine è tratta dal testo Pedemontana: la via dell’identità descrittivo in tono agiografico delle caratteristiche fisiche dell’opera e degli aspetti paesaggistici e naturalistici del territorio valorizzati dalla nuova strada.
[21] Cfr la Validazione del metodo di calcolo dei flussi veicolari attesi nella superstrada pedemontana veneta, commissionata dalla Regione al prof. Pasetto dell’Università di Padova.

[22] Nel sistema free flow i veicoli che percorrono la strada sono riconosciuti automaticamente attraverso dispositivi posti a bordo dei mezzi e portali collocati lungo i percorsi, Il pedaggio, commisurato al percorso e alla tipologia di utente, è scalato senza rallentamento e senza incanalamento attraverso card prepagate o attraverso altri sistemi di pagamento, compreso il pagamento differito mediante addebito al conto corrente del proprietario del veicolo.

[23] Dlgs 50/2016

Si moltiplicano e si estendendo i movimenti popolari per la difesa dell'ambiente ed è sempre più acuta la consapevolezza dell'assenza di una sintesi politica capace di coniugare il contrasto alla crisi con la proposta di un modello alternativo. Qui le date e gli appelli.

Il 30 settembre scorso si è tenuta a Venezia un Assemblea nazionale dei comitati ambientali per fare il punto sulle grandi opere inutili e le nefaste ripercussioni che il modello di sviluppo, basato sulla crescita infinita e sull'unico obiettivo dell'incremento del profitto, sta avendo sui territori.

Con un appello alla giustizia ambientale si sono convocati tutte le realtà di resistenza alle devastazioni e alle violazioni ambientali e non solo, per cercare un percorso comune. Da Taranto alla Val di Susa si sono ritrovati all'assemblea più di trecento persone in rappresentanza di 56 comitati e movimenti, dai No Tap ai No Pfas, da Trivelle Zero a Stop Biocidio, dai No Tav a No Grandi Navi, che hanno ospitato l'incontro e lanciato questo percorso. E' emerso un'inequivocabile dissenso nei confronti del governo non solo contro le grandi opere, ma anche nei confronti del crescente inquinamento dell'aria e dell'acqua, delle privatizzazioni di beni comuni, della dipendenza energetica dal fossile che consente l'intensivo trivellamento e l'investimento sul gas. Qui il link al comunicato sottoscritto dai partecipanti.

ll 6-7 ottobre a Firenze si è tenuta la Conferenza dei territori – Viva l’Italia, l’Italia che resiste, il secondo incontro di questo percorso verso una mobilitazione comune. Qui i link agli interventi e al verbale della conferenza.

A seguito di questi incontri i principali comitati e i movimenti ambientalisti hanno deciso di incontrarsi di nuovo il 17-18 novembre 2018 a Venaus in Val di Susa, per un' Assemblea Nazionale e proseguire il dialogo e l'organizzazione di un fronte comune contro le Grandi Opere e per la Giustizia Ambientale. Qui l'appello e i dettagli.
Per l' 8 dicembre, una data storica per il movimento No Tav, è in programma una mobilitazione diffusa sui tutti i territori.

Queste ulteriori tappe hanno l'obiettivo di moltiplicare il confronto e la condivisione delle lotte e portare nei prossimi mesi ad una manifestazione nazionale a Roma contro le Grandi Opere, per la giustizia ambientale e la difesa dei beni comuni.

Rinnovabili.it, 16 ottobre 2018. Solo fermando lo sfruttamento delle risorse fossili si potrà limitare le emissioni di CO2 e avere ancora qualche possibilità di evitare le preannunciate catastrofi ambientali. Qui una proposta concreta per l'Italia. (i.b.)

Il Coordinamento Nazionale No Triv ha inviato al Ministero dello Sviluppo Economico il Pacchetto Volontà, un documento che racchiude nove proposte di interventi normativi finalizzati alla decarbonizzazione del sistema Italia.

Un pacchetto di misure finalizzate all’accelerazione di quel processo di decarbonizzazione del sistema Italia, che si impone tra le priorità dell’azione di governo. Il Coordinamento Nazionale No Triv riparte alla riscossa e mette a disposizione del Governo e di tutte le forze parlamentari il Pacchetto Volontà, un documento contenente 9 misure di carattere normativo proposte da No Triv per accelerare il processo di decarbonizzazione dell’Italia. Un processo che secondo il Coordinamento dovrebbe essere “tempestivo e risoluto”, considerate anche le conclusioni cui è pervenuto l’IPCC nel rapporto diffuso pochi giorni fa, per difendere i territori e i diritti dei cittadini. In una lettera inviata al Ministero dello Sviluppo Economico, il Presidente del Coordinamento Nazionale No Triv, Francesco Masi, parla di “un fare virtuoso, fattivo e stringente” che dovrebbe essere messo in atto e ricorda le devastazioni ambientali che hanno subito negli anni i territori e le popolazioni: “Il pensiero – scrive Masi nella lettera – corre ai territori e alle popolazioni da decenni vittime di sistematiche campagne di saccheggio e di devastazione ambientale; si pensi, ad esempio, alla Basilicata”.

Nello specifico, le nove misure propongono: l’approvazione di una moratoria riguardante attività di ricerca, coltivazione e stoccaggio ulteriori rispetto a quelle oggetto di titoli già concessi, sia in mare sia sulla terraferma; il ripristino della Previsione del Piano delle Aree, abolito dal Governo Renzi con la Legge di Stabilità 2016 (“Il Piano delle Aree – si legge nel Pacchetto – avrebbe dovuto funzionare da strumento di regolazione, programmazione, razionalizzazione delle attività estrattive nel nostro Paese, ma non ha mai visto la luce. La sua stessa previsione è stata infatti abrogata dal Parlamento in base a un emendamento alla Legge di Stabilità 2016”); il ripristino dello strumento dell’intesa in senso forte tra Stato e Regioni (“Sul piano normativo – si riporta dal documento – si è generata una situazione di dubbia legittimità costituzionale, che sottrae di fatto agli Enti Locali un fondamentale strumento di esercizio e tutela delle prerogative democratiche a garanzia delle ragioni dei territori. Oggi l’Esecutivo dispone infatti del potere di superare l’opposizione delle Regioni, concedendo a suo piacimento la relativa “autorizzazione unica”); l’abrogazione della norma che consente di prorogare i termini temporali delle concessioni petrolifere giunte a scadenza; il rispetto della volontà della maggioranza dei votanti in occasione del referendum No Triv; l’approvazione di un nuovo disciplinare-tipo rispettoso delle prerogative delle Regioni; una revisione delle norme sulla VIA(Valutazione di Impatto Ambientale); nuovi criteri di valutazione per la nomina dei componenti della Commissione Nazionale VIA, allo scopo di prevenire e stroncare il sistema che favorisce il transito nelle varie commissioni ministeriali (Mise e Minambiente) di figure provenienti da società direttamente e indirettamente interessate allo sviluppo delle attività Oil&Gas in Italia, e non solo; infine il varo di un piano di decommissioning degli impianti estrattivi non più produttivi/non eroganti, comprensivo di bonifiche ambientali, che, secondo il Coordinamento No Triv “avrebbe anche una positiva ricaduta sul piano degli investimenti e del mantenimento degli attuali livelli nazionali in un settore in cui il nostro Paese è in grado far valere know-how esclusivo ed eccellenti capacità operative”.

Le misure contenute nel Pacchetto Volontà sono state in parte anticipate in un dossier che è già stato inviato al Ministero dell’Ambiente e che sarà oggetto di discussione in un incontro che ci sarà il prossimo 21 ottobre a Brindisi Montagna (Potenza), con una delegazione di parlamentari eletti in Basilicata.
Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Una proposta concreta per trasformare parte delle affittanze turistiche in affittanze per residenti di medio periodo e arginare la turistificazione di Venezia, restituendo vivibilità e opportunità economiche al di fuori dell'industria del turismo.

L’ultimo fine settimana di settembre di quest’anno hanno attraccato alla Stazione Marittima 17 navi da crociera, di cui 6 superiori alle 70 mila tonnellata di stazza, e ognuna di queste trasporta una media di 2700 passeggeri. Aggiunti i passeggeri delle navi minori, considerato l’imbarco e lo sbarco, si è scaricata in città una ondata di 50.000 crocieristi e membri di equipaggio, un numero pari all’intera popolazione residente nel centro storico. A questo flusso si aggiungono i 50/60.000 escursionisti che visitano la città in un qualsiasi fine settimana di settembre.

In controtendenza è di poche settimane fa l’allarme sul fatto che la spesa del turista medio in città va costantemente declinando e che gli alberghi segnano un calo delle presenze, è il pericoloso segnale di un esito distorto dell’attrattività turistica mondiale di questa città.

Oggi gli escursionisti giornalieri non solo superano i turisti “pernottanti” – di per sé segnale di un deterioramento della qualità del turismo - ma superano l’insieme di questi ultimi e dei residenti. Uno tsunami che deteriora l’offerta di servizi (negozi, ristoro, trasporti) che ad esso si adegua e che soddisfa ormai prevalentemente la domanda del turista di passaggio (e il crocierista è un turista escursionista). E’ senza senso dire che tanti turisti fanno bene all’economia della città perchè rappresentano comunque un aumento della domanda (il “frigorifero pieno” del sindaco) senza interrogarci sulla qualità del contenuto. E’ pieno di patate o di funghi porcini?

In queste condizioni fare una politica che accresca il flusso dei turisti, qualsiasi essi siano, “basta riempire il frigorifero”, equivale a fare il male della città.

Sono necessarie invece delle misure che invertano il trend al declino della qualità del turismo, e salvino i brandelli rimasti di quella coesione sociale della città che pur permane. Ne abbiamo avuto un esempio nei tanti cittadini convenuti sulla riva delle zattere e a bordo del centinaio di imbarcazioni che hanno manifestato nel canale della Giudecca la scorsa domenica contro il passaggio delle grandi navi. Si può pensare a una politica turistica diversa?

Innanzitutto la città ha bisogno di energie giovani e ringiovanire una città “vecchia” si può fare solo immettendo forze fresche dall’esterno utilizzando appieno la sua straordinaria attrattività. Pensiamo agli artisti, agli studenti, ai ricercatori, a coloro che praticano le attività legate al mare, al restauro, all’erosione, alle lagune, a chi lavora nei campi dove la città ha un innegabile vantaggio “storico e naturale”. Pensiamo a una Biennale, che unisca a una meritoria attività espositiva e di documentazione, un’attività di laboratorio d’ arte, che incentivi e aiuti la permanenza di giovani a Venezia; cosa fattibile specialmente oggi che la biennale gestisce una grande parte dell’Arsenale. Pensiamo alle tante università straniere che di frequente guardano a sedi estere per rendere i loro studenti sempre più cittadini del mondo, unendo allo studio la permanenza in un altro paese, l’incontro con altre realtà.

Si deve puntare gradualmente alla trasformazione di parte delle affittanze turistiche in affittanze per residenti di medio periodo, che lavorano in campi nei quali Venezia esercita una specifica attrattiva, e che hanno esigenze e consumi affini a quelli dei residenti. Le risorse per quanto riguarda gli alloggi ci sono. Pernottano oggi a Venezia almeno 30-40.000 persone al giorno in media e gli appartamenti ad uso turistico superano le 5.000 unità. Non si può dirottare il 20% dell’offerta di tali alloggi alla residenza di questi ceti giovanili? Non si possono sperimentare limiti e incentivi sulle locazioni, con accorgimenti che stanno prendendo piede in tutte le principali città? Berlino, Parigi, Madrid, Londra, Amsterdam, NY, San Francisco oltre la solita Barcellona? Si riducano le giornate massime di locazione turistica (come in tutte le città sopra ricordate), si crei la categoria del residente temporaneo con dei vantaggi tariffari e fiscali, si controlli finalmente l’evasione nell’affitto turistico che è altissima e si pretenda la tassa di soggiorno (aumentata) alla fonte, e il dirottamento dell’offerta di alloggi seguirà. Berlino ha limitato l’affitto turistico di “appartamenti interi”, e con questa misura ha riportato sul mercato della residenza 8.000 unità, 1/3 dello stock. Certo tutto questo dopo aver doverosamente messo in locazione le case sfitte del patrimonio pubblico, meglio se in forme di autorestauro, senza esborso di denaro pubblico (che per queste cose manca sempre), e anche qui Venezia può tracciare una strada con forme di autorestauro molto interessanti, già in essere, che vanno valorizzate.

Obiettivo è condividere una diversa idea di città rispetto a quella di oggi. Se distruggiamo la vita della città, distruggiamo il patrimonio che ci è stato consegnato ma distruggiamo anche la esperienza che della vita di Venezia il visitatore può fare, e così rinunciamo alla parte più dinamica, ricca e interessante degli stessi flussi turistici, quella che andrebbe invece attratta e valorizzata in tutti i modi.

Bibliografia di riferimento
Giuseppe Tattara e Gianni Fabbri autori, con R.Bartoloni e F. Migliorini, “Governare il turismo e organizzare la città”, 2018

the submarine, 8 ottobre 2018. Il M5s ha sostenuto in campagna elettorale molte lotte ambientaliste e si è detto contrario alla devastazione dei territori e agli interessi mafiosi. Dopo sei mesi di governo, si può confermare che si trattava di mera propaganda. (i.b.)



Da quando è al governo, il Movimento 5 Stelle — fino a poco tempo fa schierato in prima linea per la difesa dell’ambiente — ha smesso progressivamente di parlare di tematiche ambientali.

Questo sarebbe il governo del cambiamento, secondo chi è al governo. Il cambiamento che in tutto il mondo è più percettibile da chiunque, però, è quello climatico. Ieri l’IPCC ha pubblicato uno studio da cui emerge che la situazione del clima è più grave di quanto previsto: anche se tutti i partecipanti agli accordi di Parigi rispettassero gli impegni presi, probabilmente non si riuscirebbe a limitare in modo decisivo fenomeni catastrofici. Se prima si pensava che esondazioni, aumento del livello del mare e strage di coralli e pesci si sarebbero verificati col raggiungimento di due gradi centigradi di riscaldamento rispetto all’era preindustriale, il nuovo studio certifica che si verificheranno anche con un aumento di un grado e mezzo. Che è molto difficile da evitare.

Nel nostro paese dovrebbe esserci qualcosa di diverso, però, che dovrebbe far vedere un minimo di speranza in fondo al tunnel: per la prima volta un partito che tra i suoi primi punti identificativi ha sempre avuto la tutela dell’ambiente, il Movimento 5 stelle. Addirittura, le cinque stelle nel simbolo del partito dovrebbero rappresentare la tutela dell’acqua pubblica, della mobilità sostenibile, dello sviluppo, della connettività e dell’ambiente. Ma questa è archeologia politica: la simbologia risale agli albori del partito.
Cosa sta facendo per la tutela dell’ambiente il Movimento 5 stelle, ora che è alla guida del paese?

Poco più di niente: non quanto ci si aspetterebbe da un partito che si era mostrato così schierato sui temi ambientali. Ha fatto di più durante la scorsa legislatura, quando ad esempio ha firmato con LeU una legge per la sostituzione dell’amianto e incentivo al fotovoltaico, o una legge sugli ecoreati firmata con il Pd. Ci sono una serie di cose che dovrebbero essere all’ordine del giorno ora che il partito è al governo, e che invece stanno venendo ignorate, rimandate, o affrontate in modo incompleto, in molti casi in aperto spregio di cose dette o scritte dagli esponenti del movimento negli scorsi anni. Vediamone qualcuna.

No carbon tax
In un post del blog di Beppe Grillo del 4 luglio del 2017, si proponeva una “revisione organica delle imposte sussidi procedendo alle eliminazioni di quelle risultate non efficaci per la tutela ambientale e conseguente introduzione di misure che, attualmente, ancora mancano nel nostro ordinamento. Ad esempio la carbon tax.” [la pagina del blog è stata rimossa. ndr]

La carbon tax è uno dei metodi più efficaci per agire sul consumo di energie non rinnovabili, e come avevamo spiegato questo giugno, sarebbe il momento di implementarla anche in Italia. Al momento però il governo non sembra avere la minima intenzione di implementarla, essendo a quanto pare più orientato sulla flat tax del suo alleato Salvini.

No chiusura trivelle
In una recente visita a Potenza, Di Maio è stato contradditorio. Prima ha dichiarato di non essere favorevole a un’eccessiva espansione di “sterminati” campi dedicati all’energia eolica e fotovoltaica. Poi di non volere dare priorità al petrolio che “minaccia la salute dei lucani.” Però poi ha anche sostenuto di essere “pragmatico” e che non firmerà concessioni per trivelle a meno che non ci sia un ritorno anche per i cittadini della Basilicata. Insomma, darà le concessioni per nuove trivelle. Tutto questo dopo che il Movimento è stato in prima linea per il referendum antitrivelle sulla riviera adriatica, e anche nella stessa Basilicata.

No eliminazione sussidi combustibili fossili
L’Italia spende ogni anno 16 miliardi in sussidi diretti e indiretti ai combustibili fossili. La loro eliminazione è tra gli obiettivi degli accordi di Parigi. Al momento non sembra essere però tra le priorità del governo. Nel dicembre del 2017, era apparso in proposito un articolo sul blog di Beppe Grillo.

Questi tre sono forse gli argomenti più macroscopici sui quali il governo si è mostrato reticente. Ma ce ne sono altri, che pur essendo meno importanti o gravi, meritano comunque una citazione, e che dovrebbero essere all’ordine del giorno di un partito che vorrebbe garantire in modo così cristallino la difesa dell’ambiente.
Cose di cui il Movimento 5 Stelle non parla nemmeno più:
No inizio procedure partecipate per decidere localizzazione costruzione impianti rinnovabili — manca un piano dell’energia rinnovabile nazionale.
No sussidi a industrie rinnovabili.
No finanziamento su tecnologie di accumulo energia.
No incentivi a impianti rinnovabili domestici.
No piano installazione impianti rinnovabili in piccole isole.
No incentivi edifici basso impatto energetico e geotermia a bassa entalpia.
No piano per la transizione del Sud Italia a fotovoltaico.
No dibattito sul building integrated fotovoltaico.
No stretta elettrificazione su industrie, ad esempio sull’ILVA.
No piano di protezione degli habitat della biodiversità marina.
No piano sostituzione distribuzione combustibili fossili automobili con infrastruttura elettrica.
No piano eliminazione automobili a combustibili fossili.
No piano trasformazione ambiente urbano da auto a trasporti pubbico+bici.
No piano mobilità ciclabile nazionale.
No piano potenziamento ed estensione ferrovie.
No piano trasmigrazione trasporto merci da gomma a ferrovie.
No piano sostituzione grandi navi con elettriche.
No piano utilizzo biocombustibili negli aerei che partono da aeroporti italiani.
No stretta contro deforestazione, anzi.
No normativa per la tutela del suolo.
No regolamentazione contro overfishing.
No stretta su inquinamento climalterante.
No stretta su inquinamento climalterante marino.
No normativa regolamentazione e virtuosismo ambientale della filiera del cibo biologico .
No legge contro cementificazione.
No ricerca per studiare effetti cambiamento climatico sul paese – anzi, chiusura di Italiasicura.
No incentivo al dibattito pubblico in tv sul cambiamento climatico.

A questo articolo ha collaborato Tommaso Sansone.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile

Per ricordare questo disastro (9.10.1963) e la perversa logica degli interessi industriali che lo determinò ripresentiamo gli articoli di Paolo Cacciari, Toni De Marchi, Oscar Mancini e della straordinaria giornalista Tina Merlin che denunciò gestori e tecnici, che sapevano di costruire su terreno argilloso e franabile, quindi pericoloso. (i.b.)



Qui anche il link allo spettacolo di Marco Paolini racconta tutta la storia del Vajont costata la vita a 1910 persone, facendo (ri)scoprire al grande pubblico questo disastro ambientale e umano, in quanto poteva essere evitato. Lo spettacolo andò in onda su Rai2 la sera del 9 ottobre del 1997 in diretta dalla diga.

Rete SET - Italia, 07 Ottobre 2018. Si consolida in Italia la costruzione di una rete di città unificate dalla volontà di costruire una voce critica ed una forma attiva di resistenza contro l'attuale modalità di gestione dello sviluppo turistico nel nostro Paese. (c.z.)

Si terrà a Napoli, tra il 18 ed il 20 Ottobre 2018, il secondo incontro della rete SET nazionale, dopo la presentazione iniziale del progetto che ha avuto luogo a Venezia in Aprile. La rete nasce in sinergia con le mobilitazioni di collettivi e comitati che hanno interessato in questi anni la penisola iberica, dove lo sviluppo rapido e massivo del turismo ha determinato fenomeni acuti di overtourism, favorendo la diffusione di un pensiero critico capace di contestare la retorica dominante del turismo come indiscussa "gallina dalle uova d'oro" con un'analisi attenta e puntuale dei suoi reali costi ambientali, sociali, antropologici. Il ramo italiano, in via di costruzione in questi mesi, si avvia quindi a sua volta a elaborare in maniera collettiva e plurivoca una tramatura di narrazioni e pratiche condivise che dal basso, a partire dagli abitanti delle città, possa porsi come alternativa reale al modello di sviluppo che oggi ci viene imposto. Infatti, nonostante ogni luogo sia connotato da specificità e contraddizioni proprie, la turistificazione rimane un fenomeno globale, sistemico, diretta emanazione del capitalismo contemporaneo, e come tale richiede uno sforzo comparativo e connettivo tra lesingole realtà che possa produrre un orientamento comune ed unasinergia tanto nella teoria quanto nelle prassi. E' in questa direzione che si muoverà l'incontro di Ottobre, di cui qui pubblichiamo l'invito pubblico e il programma, riunendo le voci di alcune tra le principali mete turistiche italiane (Napoli, Venezia, Firenze, Roma, Bologna, Genova...) in un momento di scambio e ideazione comune.

Qui il manifesto fondativo della rete pubblicato da Eddyburg in Aprile.



INCONTRO DELLA RETE SET – ITALIA

CITTÀ ITALIANE DI FRONTE ALLA TURISTIFICAZIONE

Napoli 18 - 19 - 20 ottobre 2018

Il 24 aprile 2018 è stato pubblicato il manifesto fondativo della rete SET – Sud Europa di fronte alla Turistificazione. Un’iniziativa nata in particolar modo dall’esperienza di alcune città europee, tra cui Venezia e Barcellona, che prima di altre hanno dovuto affrontare gli effetti deleteri del turismo di massa. In Italia, nel giro di pochissime settimane la rete si è ampliata raccogliendo adesioni da parte di associazioni, movimenti, attivisti, ricercatori e cittadini che si sono mobilitati e uniti in molte città, a dimostrazione dell’urgenza di porre con forza la questione della turistificazione anche laddove il processo non ha ancora raggiunto i devastanti effetti dell’overtourism. Questo perché la trasformazione della scena urbana, all’aumentare del flusso turistico mondiale, avviene oggi ad una velocità tale che lascia ben poco spazio alle realtà locali per negoziare un proprio modello sostenibile di ospitalità e gestione del flusso. L’impatto del turismo si materializza in modo dirompente investendo l’abitare, il commercio, lo spazio pubblico, il lavoro, l’ambiente, non solo a Venezia e a Firenze, ma anche a Napoli, Bologna, Genova, Roma, Rimini e in molti altri luoghi di un Paese che vanta da sempre numeri da record nel settore turistico. Le ricadute sono complesse e non è sempre facile prevederne i rischi. Per queste ragioni SET sta creando uno spazio di confronto e di approfondimento continuo tra città e territori investiti dal processo di turistificazione, operando nell’Europa del Sud e in particolar modo contrastando l’idea, al momento egemone, che per alcune città non ci sia altra fonte di ricchezza economica se non il turismo di massa. La vita e la morte di questi luoghi sembra quindi giocarsi sulla sottile soglia tra il vivere anche di turismo e il vivere solo di turismo. Ma sappiamo bene che svendere la città e allontanare da essa il suo elemento costitutivo, la cittadinanza, non è la soluzione.

Il manifesto SET dello scorso aprile ha pertanto inquadrato gli aspetti critici comuni alle diverse esperienze locali: l’aumento della precarizzazione del diritto all’abitare, l’aumento del costo della vita, la trasformazione delle attività commerciali locali e dei servizi per i residenti in attività turistiche, la precarizzazione delle condizioni lavorative, l’ampliamento costante e spesso nocivo delle infrastrutture, la massificata occupazione di strade e piazze da parte del flusso dei visitatori, l’aumento dei tassi di inquinamento (rifiuti urbani, aerei, navi da crociera ecc.), fino alla trasformazione del centro storico in parco tematico. Tutto questo adesso diventa materia di discussione e di confronto in una densa tre giorni di incontri, dibattiti e tavole rotonde organizzata a Napoli dall’assemblea locale e dalla rete SET italiana. Giovedì 18, venerdì 19 e sabato 20 ottobre, discuteremo le varie modalità attraverso le quali il processo di turistificazione si declina nelle città italiane coinvolte, condividendo esperienze, strumenti e proposte da mettere in campo. Con noi ci saranno Salvatore Settis, Tomaso Montanari e Filippo Celata.

PROGRAMMA DELL'INCONTRO SET – ITALIA

Napoli 18-19-20 Ottobre 2018

GIOVEDì 18 POMERIGGIO Stato dell’arte

Sede: Ex-Asilo Filangieri – Vico Giuseppe Maffei 4

Ore 17.30_ Presentazione rete SET e assemblea plenaria

VENERDì 19 MATTINA Tavoli tematico-propositivi

Sede: Santa Fede Liberata - Via S. Giovanni Maggiore Pignatelli, 2

Ore 10.30_ Inizio lavori

Tavolo 1: Piattaforme locazioni brevi e questione casa

(inasprimento del mercato immobiliare, difficoltà di accesso alla casa, espulsione di popolazione)

Tavolo 2: Lavoro e commercio

(che genere di attività porta la turistificazione, che condizioni di lavoro connesse, quali attività locali stiamo perdendo)

Tavolo 3: Spazio pubblico tra turismo e militarizzazione

(in che modo le geografie della militarizzazione, l’operazione strade sicure dell’esercito italiano, l’arredo urbano anti-sfondamento e anti-sosta, interagiscono con la costruzione delle enclave turistiche all’interno della città)

Tavolo 4: La narrazione tossica dell'industrializzazione turistica

(confronto tra le narrazioni, ruolo degli attori strategici, processo di specializzazione del territorio e retoriche connesse)

Ogni tavolo sarà coordinato da due persone e produrrà un report per il dibattito del pomeriggio, cercando di inquadrare azioni, proposte e strumenti da consolidare/sperimentare/adottare/confrontare (se già adottati altrove).

VENERDÌ 19 TARDO POMERIGGIO/SERA Dibattiti

Sede: Cortile di Santa Chiara – angolo Via Santa Chiara/Via Benedetto Croce (in alternativa cappella di Santa Fede Liberata - Via S. Giovanni Maggiore Pignatelli, 2)

Ore 16.30_ Report e discussione dei diversi tavoli al Santa Fede

A seguire_ Dibattito e assemblea pubblica nel cortile di Santa Chiara

SABATO 20 MATTINA

Sede: Santa Fede Liberata - Via S. Giovanni Maggiore Pignatelli, 2

Ore 11.00_ Come comunica SET (al suo interno e con l’esterno)

A seguire passeggiata nei luoghi simbolo della trasformazione in corso a Napoli.


















casa della cultura, 5 ottobre 2018. Riprendiamo la replica del nostro opinionista alla posizione di Marco Romano e Francesco Ventura su Salvatore Settis. Un excursus che documenta come Settis prosegua la battaglia di Cederna.

Chi non ha potuto conoscere il territorio italiano prima che la classe dirigente e quasi un intero popolo adulto si apprestassero a «distruggere il bel paese - sventramento dei centri storici, lottizzazione di foreste, cementificazione di litorali, manomissioni del paesaggio» (A. Cederna, Brandelli d’Italia, Newton Compton Editori, Roma 1991), non sa di aver perduto un paradiso, per giustezza e bellezza di città e campagne, di paesaggi marini e montani; per stupefacenti lasciti della storia archeologica e artistica, integri o restituiti all’autenticità grazie al lavoro di pochi specialisti o amatori. Chi, ora vecchio, lo ha potuto, dunque ne ha vissuto le sensazioni mentali spirituali fisiche, ha rinunciato al ritorno e quando non lo ha fatto ha provato dolore disgusto e rabbia dinnanzi alle devastazioni di ogni sorta. I giovani, invece, se non aiutati a comprendere il presente mediante il racconto storico, accettano le profanazioni come dato oggettivo.

Quando andai a Paestum per la prima volta, il paesaggio archeologico era intatto, la pianura agraria e la foce del Sele incontaminate. Ma bastarono pochi anni per accertare in un secondo viaggio che dovevo cancellare il luogo dai programmi di futuri ritorni. Era stato avviato uno sconquasso con lo sviluppo edilizio-turistico. Davanti al quale il giovane neo-laureato architetto non reagisce sdegnato. Ciò che vede è normale, è l’esistente indiscusso, è in regola; non prova turbamento perché al tempo della sua adolescenza il paese, come un gigante brutale con gambe d’elefante, aveva percorso buona parte del tragitto che avrebbe condotto man mano alla rovina del territorio. Così le generazioni da me distaccate accettano ignari il paradiso perduto, pezzi di limbo o di inferno come cittadelle assediate, infine violate e distrutte dall’opera dell’uomo inumano. (Questo passaggio trova maggior ampiezza di trattazione nel libro dello scrivente Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri, Unicopli, 2000, cap. Il viaggio in un senso).

Il 10 febbraio 1970 la Domenica del Corriere presenta la Carta dei tesori d’Italia, ovvero l’Italia da salvare, risultato di un lavoro instancabile di Antonio Cederna (collaboratore il pittore Gianbattista Bertelli), aggiornamento di una versione di tre anni prima pubblicata nella rivista Abitare. Sarebbero ottantatré (dai cinquantatré precedenti) i luoghi di altissimo valore paesistico selezionati, ma già s’intravedono le minacce di deturpamento. Cederna stesso definisce il parco nazionale del Circeo «una beffa», tanto è esteso il massacro costiero apportato dalla speculazione edilizia. Negli anni successivi proseguirà l’aggiornamento della Carta, ma quando in un «Quaderno» dell’Espresso apparirà un nuovo aggiornamento (febbraio 1987), Cederna dovrà schedare numerosi beni a rischio di annientamento. Fra essi (decine) anche la Paestum di «Templi lottizzati»! Persino i più lontani dei suoi scritti statuiscono al momento una realtà di rovinio paesaggistico, urbanistico e storico architettonico che distinguerà l’intera vicenda nazionale futura. Le parole dei titoli appaiono scolpite come reductio ad unum di una critica incontrovertibile: «Brandelli…» si è visto, «I vandali in casa» (dal 1949 al 1956), «La distruzione della natura in Italia» (1975). Se è per questo, altrettanta verità (riportata nel mio incipit) trasmettono le parole di Leonardo Borgese nel titolo L’Italia rovinata dagli italiani (articoli nel Corriere della Sera dal 1946 al 1970, in Edizioni Rizzoli, 2005).

Il giornalista di Repubblica Giovanni Valentini inventa il termine Malpaese, per contrastare l’abuso di Bel Paese ormai locuzione menzognera rispetto alla condizione dell’ambiente italiano. È il 2003. Il secolo breve si è concluso lasciando diversi mucchi di macerie: concreti nel paesaggio marino, collinare, montano, urbano…; astratti nella disciplina urbanistica discesa a mera indecente contrattazione dominata dai privati, concreti in un’architettura (separata per sempre dall’urbanistica) dai conici mucchi quali figurazione di future accozzaglie edificatorie, da avviare per lo più secondo la novità milanese (City Life, inizio ante 2004) del liberismo ultrà in forma di grattacielo: la più insensata e violenta nell’in-appartenenza ai contesti storici e sociali. Non per accidente sarà proprio Salvatore Settis a dedicare un capitolo di Se Venezia muore (Einaudi, 2014) alla Retorica dei grattacieli: «Come il vestito della domenica del villano inurbato nella commedia di un tempo, così l’orpello dei grattacieli di cui Milano ha voluto agghindarsi… non mette in scena il successo ma traveste l’insicurezza, occulta la cattiva coscienza di chi si sente “arretrato” e adotta frettolosamente, indossandoli come una maschera, modelli forestieri e posticci. L’antico centro storico ne viene sopraffatto e svilito».

Il 2003 è anno di Premio Viareggio. Il vincitore sarà il nostro storico dell’arte e archeologo con Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale (pubblicato da Einaudi l’anno prima). Di fronte ai tentativi berlusconiani di alienare il patrimonio culturale pubblico, di indebolire la tutela dei beni, di privatizzare i musei, questo «libro di fuoco […che] riguarda tutti noi» (Cesare Garboli, presidente della giuria) dimostra che il compito dei beni culturali e paesaggistici risiede nella Costituzione e nell’identità nazionale; la tutela del patrimonio artistico, archeologico, architettonico, paesaggistico è stata vanto del paese e ogni tentativo della politica reazionaria di demolirne l’importanza è: un crimine (dice lo scrivente).

La Costituzione sarà ancora riferimento imprescindibile nel saggio di Settis diventato da subito testo sacro per coloro che non rinunciano a contrastare le aggressioni in ogni dove e di ogni tipo al paesaggio, da intendersi lato sensu, come nelle parole di Cederna introduttive del presente articolo. Paesaggio Costituzione cemento, pubblicato da Einaudi nel 2012 non è certo un libro superato, anzi è da rileggere adesso giacché sono passati sei anni invano, se mai si coltivassero valide speranze in un cambiamento delle politiche nazionali regionali comunali riguardo al territorio. (E ancora, la Carta della nazione rappresenterà l’intero oggetto del saggio edito da Einaudi nel 2016, non per caso il titolo consisterà nella locuzione solitaria dotata di punto esclamativo, Costituzione! Lo metto da canto e proseguo).

Esistono, in quell’anno 2012, numerose recensioni d’autore, in gran parte condivisibili. Gian Antonio Stella per il Corriere, Francesco Erbani per Repubblica…(et al.). Il tema cruciale è quasi sempre quello della tutela (del paesaggio, del territorio in generale e dei centri urbani) che nel nostro paese è oggi una specie di cane senza padrone abbandonato sull’autostrada. Eppure Settis ci ricorda, circa la tutela e le istituzioni necessarie, la sorprendente continuità di pensiero fra Croce, Bottai e la Costituzione del 1948; non diversamente si muove la strana coppia Nitti e Croce, per i quali la difesa del paesaggio non poteva reggere senza la sconfitta dei grandi proprietari e degli antiquari disonesti, né senza esaltare la concezione di interesse pubblico.

Tale chiarezza nella posizione del grande storico dell’arte è Paolo Leon ad averla segnalata in «L’Indice dei libri del mese». Un critico che merita un’ampia citazione: «Sembra che Settis colga il punto di rottura che caratterizza la fuga dalla tutela nella divisione del paesaggio tra i nuovi ministeri (Beni culturali, Ambiente), nella diversificazione giuridica dei termini (territorio, ambiente, paesaggio) nella moltiplicazione delle autorità responsabili (Regioni, Comuni Province): dissennati divorzi, come li definisce brillantemente». Eppure «ci fu un non infelice inizio degli anni Ottanta quando la mobilitazione dei soprintendenti, della società civile, degli stessi partiti politici sembrava poter aprire le porte a una stagione di tutela e valorizzazione non a servizio degli interessi della rendita. […] Tutto finì col governo del «Caf» […]. Chi ha ucciso quella stagione aveva dalla sua la nuova civiltà economica: dopo Thatcher e Reagan tutto è denaro, il nodo scorsoio del liberismo è andato stringendosi intorno a ogni diritto sociale e ambientale: il paesaggio e i beni culturali sono le vittime di una pessima cultura, non solo del semplice degrado della politica. Consola, tuttavia, che Settis ricordi i nuovi movimenti per i beni comuni».

Invito a considerare una particolarità del titolo sfuggita a tutti, mi pare. Il termine cementificazione (probabilmente impiegato per la prima volta da Antonio Cederna) è sostituito da cemento, seccamente e duramente. Come non pensare a un rapporto, benché filtrato attraverso diversi strati mentali, con il libro Cemento (SE, 1990, orig. 1982) autore Thomas Bernhard, il più grande scrittore austriaco del trentennio 1960-1990? Un’opposizione irrefutabile al potere; un attacco alla corruzione che infesta l’aria; «un capestro infinito da secoli è stretto al collo di questo popolo cieco, nel quale la verità viene calpestata e la menzogna santificata». La cementificazione è un meccanismo di continuità, è un procedere verso un obiettivo di totalità non ancora raggiunta. Cementificare è un piacere, un godimento; una violazione, nel caso di paesaggi, per gratificare, con l’esperienza, sé come Moloch. Il quale infine provvede al Saoc (Sviluppo a ogni costo) riguardo al territorio, vale a dire facendogliene di tutti i colori, travolgendone i paesaggi, odiati e vilipesi se nudi d’abiti cementizi come la storia materna li ha lasciati. A ogni costo, appunto colate su colate fino a alla realizzazione finale di una nuova realtà paesistica di morte perenne, territorio in puro cemento di spessore e durezza inusitati. Così vige il Malpaese, del Bel Paese resta solo il formaggio.

Questo testo è una replica ai commenti di Marco Romano, Memoria e bellezza sotto i cieli d'Europa (8 giugno 2018) e Francesco Ventura, Sapere tecnico e etica della polis (28 settembre 2018).

Re:common, 25 settembre 2018. Recensione e radio intervista all'inchiesta di Marina Forti sull'impatto ambientale dell'industrializzazione del "miracolo italiano". Come allo sviluppo economico siano stati sacrificati la terra, l'acqua, l'aria e la salute dei lavoratori. (i.b).

Mala Terra, scritto dalla giornalista Marina Forti e pubblicato da Laterza, è un libro prezioso, fondamentale, imprescindibile per capire quali sono i pesantissimi strascichi lasciati dal processo di industralizzazione condotto nel secolo scorso nel nostro Paese. Soprattutto spiega alla perfezione come si stia gestendo, molto male, questo pesante lascito.

Grazie a una minuziosa ricostruzione storica e una costante presenza sul campo, uno stile asciutto e incisivo, Forti ci racconta di territori martoriati, comunità che non si arrendono, di una classe imprenditoriale sempre pronta a “socializzare” problemi e difficoltà e di istituzioni spesso assenti, a volte maldestre, non di rado complici.
Sulla scorta di un’esperienza decennale in giro per il mondo anche come inviata del Manifesto, per il quale ha curato a lungo la rubrica Terra Terra, l’autrice riesce a trattare con la giusta sensibilità alcuni passaggi fondamentali della recente storia italiana, in primis il ruolo chiave svolto dal comparto chimico, considerato per anni la panacea di tutti i mali e una fonte inesauribile di posti di lavoro.
Mala Terra è così un susseguirsi di storie ben conosciute, come il dramma di Taranto o la saga infinita di Porto Marghera, di altre scomparse troppo presto nei media nazionali, come i casi di Bagnoli o Portoscuso, o di altre ancora di cui si sa pochissimo, per non dire nulla, perché hanno avuto un po’ di eco solo sui quotidiani a tiratura locale, come la vicenda Caffaro a Brescia.
Certo, nell’età dell’oro dell’industria italiana questi luoghi erano una sorta di oasi felici, come Colleferro, la città-fabbrica della Valle del Sacco, dove la classe operaia locale aveva raggiunto un discreto benessere anche perché tutto era pensato in funzione della produzione aziendale. Non va dimenticato che, per esempio, per il petrolchimico di Priolo sono spariti agrumeti di gran pregio o che a Bagnoli un’embrionale vocazione turistica è stata cancellata dallo sviluppo industriale che ha lasciato solamente macerie.
Per molto tempo i lavoratori sono rimasti beatamente ignari dei rischi per la salute legati a quanto maneggiavano o respiravano in fabbrica. Ma già nella seconda metà degli anni Settanta per molti dei casi esaminati nel libro si iniziò a capire quali erano le conseguenze dell’avere a che fare con sostanze come Pcb o diossine, mercurio o solventi clorurati. E che lo smaltimento di quelle sostanze era e sarebbe sempre stato un grosso problema. Si sono sfiorate immense tragedie. A Porto Marghera, quando un incendio è arrivato a 20 metri da un deposito dove c’erano 12 tonnellate del letale fosgene, si è sfiorata una nuova Bhopal.
Sono stati commessi errori sistemici: alla fine del loro ciclo queste industrie assicuravano pochi posti di lavoro, eppure nessuno ha pensato a pianificare un giusto processo di riconversione, come accaduto con esiti più o meno positivi in altri paesi. Meglio spremere il più possibile l’esistente, senza uno straccio di visione di medio e lungo termine.
Il tutto “scordandosi” poi delle bonifiche, che invece chiedono a gran voce i mille comitati, associazioni e organizzazioni nate nei territori dove si continua a morire e a soffrire per uno sviluppo industriale fuori controllo. Per ripulire l’Italia servirebbero almeno 30 miliardi di euro. Tanti soldi che avrebbero dovuto in buona parte sborsare le compagnie private, che troppo spesso si sono guardate bene dal riparare i danni causati dal profitto a ogni costo.
Tratto dalla pagina qui raggiungibile.
Qui l'intervista all'autrice su radio articolo 1.

Il 6-7 ottobre a Firenze la seconda tappa degli incontri nazionali dei comitati ambientalisti, pronti a scendere in campo in un fronte unico contro il governo attuale, le grandi opere, e la deriva distruttiva del modello di sviluppo neoliberista. Con riferimenti (i.b.)

Conferenza dei territori – Viva l’italia, l’italia che resiste
Firenze, 6-7 ottobre 2018

Il degrado ambientale dei territori è crescente, la vivibilità presente e futura dei residenti è visibilmente minacciata. Le soluzioni, note da anni, sono la cura e il risanamento dei territori, la pianificazione degli investimenti delle infrastrutture, la prevenzione per evitare i danni provocati da ogni evento naturale o derivante da opere infrastrutturali.

La drastica riduzione delle riserve di materie prime e fonti energetiche, evidenziata dal raggiunto picco del petrolio convenzionale, impone di ripensare alla radice il sistema dei trasporti e delle infrastrutture,così come le trasformazioni edilizie ed urbanistiche del territorio e delle città.

Siamo convinti che la mobilitazione dei cittadini sia indispensabile per affermare dal basso le iniziative per contrastare questa deriva distruttiva quasi sempre descritta come conseguenza inevitabile del “progresso” e/o delle “catastrofi naturali”.

Cura, risanamento e messa in sicurezza del territorio hanno bisogno di nuove ‘geografie mentali’ e progettuali costruite dal basso e insieme agli abitanti, capaci di considerare il territorio come ecosistema complesso e vitale, arrestandone la morte ambientale, ecologica ed in fin dei conti economica.

Le associazioni e i movimenti che si oppongono contro le Grandi Opere Inutili e Imposte – riconosciuti come soggetto politico, e quindi fortemente contrastati - hanno indicato da tempo che per il raggiungimento degli obiettivi per la difesa e il risanamento dei territori è indispensabile che i Governi e ogni altra istituzione preposta ad assumere decisioni diano ascolto ai cittadini ed esaminino i loro argomenti, come richiesto dalla Convenzione di Århus, che è legge dello Stato.

Il Comitato No Tunnel TAV e il Movimento No TAV promuovono la Conferenza dei Territori del 6-7 ottobre 2018, un evento al quale contribuiranno le associazioni e i movimenti che lottano da anni contro le GOII – Grandi Opere Inutili e Imposte, con l’obiettivo di:

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Riferimenti
Sul programma e obiettivi dell'assemblea nazionale che si terrà a Firenze il 6-7 ottobre si veda il sito di notavfirenze. In merito a questo percorso si consiglia l'articolo scritto per eddyburg di Paolo Baldeschi "Politica e grandi opere inutili".
Sulla precedente assemblea a Venezia del 29 settembre 2018, la prima tappa di questo percorso, si legga il "Report assemblea nazionale contro le grandi opere e per la giustizia ambientale".

Sul sito Nograndinavi l'appello dell'assemblea di Venezia del 30 settembre con l'elenco dei comitati e movimenti che hanno aderito.

No grandi navi, 29 settembre 2018. Un'inequivocabile dissenso nei confronti del governo da parte di comitati ambientalisti che da anni si battono contro grandi opere, inquinamenti, privatizzazioni di beni comuni e più in generale contro un modello di sviluppo neoliberista e predatorio. Con riferimenti (i.b.)

Parte da Venezia un percorso di mobilitazione contro le grandi opere e contro il governo del cambiamento che, attraverso il coinvolgimento aperto e partecipato di tante istanze territoriali, porterà a una data nazionale.

Ci siamo incontrati in tante e tanti, in centinaia, qui a Venezia. Trovarsi è sempre importante, lo è ancora di più farlo in un momento come questo. Siamo di fatto alla chiusura del primo semestre di vita di questo nuovo governo. Il primo, come amano dire “i vincitori eletti dal popolo”, dopo anni di governi tecnici. Tanti proclami elettorali, tante promesse, tanti slogan. Ad oggi non pare però cambiare molto nella vita delle persone e del paese, lavoro e reddito che mancano, povertà, diritti, salute, ambiente. Si riempiono però i telegiornali di slogan e di decreti, come quello sicurezza, che poco cambiano la vita delle persone. Un governo che gioca più sulle paure che sulla sostanza. Una utile guerra tra poveri per far stare tranquilli i ricchi.

“Abbaiare” contro i migranti è utile a nascondere uno degli aspetti per cui il cosiddetto governo del cambiamento sembra invece allinearsi a tutti quelli che l’hanno preceduto: ci riferiamo alle politiche in tema di modello di sviluppo e grandi opere. Ecco il voltafaccia del Movimento Cinque Stelle che ha promesso lo stop alle grandi opere ed ora si rimangia la parola. Lo fa a partire dalle Grandi Navi e dal Mose a Venezia, le prime avrebbero dovuto scomparire e invece rimangono in Laguna, il secondo avrebbe dovuto essere bloccato e invece pare ormai inarrestabile. Procedono spedite anche le altre grandi opere regionali, tutte benedette dal Presidente Zaia e dalla Lega.

Il TAV avrebbe dovuto essere cancellato, invece si balbetta di costi e benefici (e la stessa cosa vale per il Terzo Valico). Il TAP è stato “blindato” dal Presidente della Repubblica e dal ministro degli Esteri. Taranto è stata tradita sull’ILVA. Le zone terremotate del centro Italia sono di fatto abbandonate a loro stesse. I progetti di trivellazione vanno avanti come se nulla fosse e la lista potrebbe continuare ancora a lungo.

Il tragico crollo del ponte Morandi a Genova è l’emblema del collasso del sistema infrastrutturale italiano, fondato sul cemento, appaltato ai privati, gestito con inumana negligenza.

In questa situazione ci pare chiaro che non esistano governi amici e che tutti i comitati e i movimenti territoriali siano chiamati ad un salto di qualità, cioè alla costruzione di un fronte unito che, da subito, sappia mettersi in movimento, da sud a nord, per ottenere finalmente lo stop alle grandi opere, in nome di una giustizia ambientale che passa per la fine della corruzione e per l’investimento in messa in sicurezza di tutti i territori, e che porti alla costruzione di una manifestazione nazionale a Roma entro l’autunno.

Questo è il nostro impegno. E’ un’assunzione di responsabilità che nasce a partire dalla consapevolezza della nostra forza, della diffusione capillare dei nostri comitati. Noi non manifestiamo “solo” contrarietà a singole opere, non proponiamo “solo” alternative per singoli territori, ma oggi ci riconosciamo come forza collettiva che esprime modelli di convivenza sociale ed ambientale diametralmente opposti a chi ci governa. Alla distruzione del territorio, alla corruzione, alla mancanza di democrazia, al patriarcato ed al razzismo noi contrapponiamo modelli di convivenza che si basino sul rispetto reciproco tra natura umana e non umana, tra provenienze geografiche e generi.

In tutto questo i cambiamenti climatici ci pongono davanti alla sfida urgente di pensare e agire insieme per costruire un modello diametralmente opposto a quello del sistema neoliberista basato sulla crescita infinita e sull’estrattivismo.

Spezzare il meccanismo perverso delle grandi opere non è un’urgenza tra le tante, nemmeno afferisce al solo ambito dell’ambientalismo. Questa è una sfida cruciale per tutte e tutti coloro che vogliono cambiare il clima politico generale di questo paese, per battere Salvini e, al tempo stesso, per non ritornare al passato.

Per questa ragione Venezia ha rappresentato la prima tappa di un percorso che vorremmo portasse ad una grande mobilitazione nazionale dei movimenti contro le grandi opere, per la giustizia ambientale e per i beni comuni. In questa idea non vi è nulla di scontato, ma sappiamo che la prima condizione per il suo successo è quello di dare vita ad un processo aperto e partecipato, in grado di accogliere realmente le tante istanze territoriali e di trasformarle in forza collettiva.

Per questo abbiamo scelto di non lanciare immediatamente una data di mobilitazione, ma di costruire alcuni appuntamenti intermedi, uno dei quali sarà in Val di Susa a breve.

Vogliamo così gettare le basi per un percorso che non si esaurisca in una data di mobilitazione ma sia capace di costruire l’alternativa di cui parliamo.

Nella intensa giornata di assemblea, i comitati veneti hanno espresso la volontà e la necessità, a partire dal movimento No Pfas, di riunire e intrecciare le lotte regionali che si battono in diversa forma per il bene comune, per costruire una giornata di mobilitazione comune da fare a Venezia per puntare il dito contro il sistema che da Galan a Zaia ha permesso la devastazione e il biocidio nel nostro territorio.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Riferimenti

Sull'assemblea si legga anche "Ambiente e democrazia. A Venezia si sono riuniti i movimenti contro le grandi opere per la giustizia climatica" di Riccardo Bottazzo su ecomagazine.

Sul sito Nograndinavi l'appello dell'assemblea di Venezia del 30 settembre con l'elenco dei comitati e movimenti che hanno aderito.
Sul programma e obiettivi dell'assemblea nazionale che si terrà a Firenze il 6-7 ottobre si veda il sito di notavfirenze.
In merito a questo percorso si consiglia l'articolo scritto per eddyburg di Paolo Baldeschi "Politica e grandi opere inutili".

Una rassegna di articoli, video e comunicati per spiegare da dove deriva il "No alle Grandi navi" di comitati, movimenti e associazioni di Venezia che da diversi anni scendono in "piazza" e in "acqua" per protestare contro le politiche territoriali locali e nazionali.

Il mondo non lo sa, ma Venezia e la sua laguna stanno scomparendo. La tacita alleanza tra i gestori delle grandi navi e dello sfruttamento turistico, i forti poteri economici, l'Autorità Portuale e un'amministrazione locale impegnata a dilapidare il patrimonio accumulato con sapienza nei corso dei secoli dalla Repubblica Serenissima stanno distruggendo una città e un territorio che sono unici al mondo.

Non ancora proporzionate alla posta in gioco, ma lungimiranti e determinate, le forze sociali e culturali di Venezia sono impegnate a contrastare i poteri e le scelte responsabili di questa devastazione. Queste forze dopo la grande "Marcia per la dignità di Venezia" del 10 giugno scorso scendono di nuovo in acqua il 29-30 settembre (qui il link al programma), per difendere la laguna non solo dalle grandi navi, ma anche dalle grandi opere come il Mose, in favore di una giustizia ambientale capace di instaurare una gestione dei territori equa e rispettosa dell'ambiente e non al servizio degli interessi della rendita e del profitto. Ad organizzare l'evento il Comitato NOGrandiNavi, protagonista dal 2006 di numerose manifestazioni, mobilitazioni ed eventi.

Qui sono raccolti alcuni articoli per illustrare la devastazione causata dalle grandi navi. I primi due testi, di Tantucci e Favarato riportano i dati numerici delle navi e dei visitatori croceristi mordi e fuggi che entrano a Venezia in un anno e in un week end, emblematici di come viene scelleratamente gestita questa fetta di turismo. Qui il link ad un articolo di Clara Zanardi sul turismo generato dalle grandi navi, che non è il solo responsabile, ma è certamente quello con più evidenti negatività.

Il terzo testo, un comunicato dell'Associazione AmbienteVenezia, introduce le distruzioni previste dai progetti in cantiere per allargare e scavare nuovi canali in laguna e quindi far continuare a passare le navi in questo fragile ecosistema. Ci sono link ad alcuni filmati interessanti, a un Dossier con immagini e un articolo sulle devastanti conseguenze del progetto di portare le grandi navi a Marghera. Sulla delibera nefasta del Comitatone - il Comitato interministeriale per la salvaguardia di Venezia - del 7 novembre 2017 si legga anche l'articolo di Lidia Fersuoch.

Il quarto testo è una lettera inviata il 25 giugno 2018 dal Comitato NOGrandiNavi – Laguna Bene Comune ai Nuovi Ministri competenti dove sono sintetizzati le analisi condotte, i problemi riscontrati e le proposte avanzate dal Comitato per togliere le navi da crociera dalla laguna e ricominciare a pensare alla sua salvaguardia.

Infine, un brevissimo articolo sull'Assemblea cittadina che si è tenuta il 22 settembre 2018 in preparazione delle mobilitazioni del 29-30 settembre, con indicazione anche di come partecipare alla manifestazione per terra e per acqua di domenica 30 settembre. (i.b. e e.s.)

La Nuova Venezia, 23 settembre 2018

INCUBOWEEKEND QUATTORDICI NAVI TRENTAMILA ARRIVI,
CITTÀ SOTTO STRESS

di Enrico Tantucci

Pienone in Marittima, ieri calli ingolfate da comitive e guide Van der Borg: «Questi visitatori non servono a Venezia»

Venezia invasa dai crocieristi nel penultimo weekend di settembre, con un “carico” aggiuntivo di circa trentamila turisti che si aggiunge alla già consistente presenza di quelli pernottanti e soprattutto dei “giornalieri”.

Sono complessivamente ben quattordici le navi da crociera, in base al calendario reso noto dalla Venezia Terminal Passeggeri, presenti in Marittima da ieri fino a domani mattina, per una presenza potenziale complessiva che sfiora appunto le trentamila presenze. Si va infatti dagli oltre 4 mila crocieristi della Norwegian Star o dai quasi 3.500 della Rhapsody of The Seas - con i «colossi» di Costa Crociere anch’essi intorno ai 3 mila passeggeri, ai 120 della Marella Celebration, che si fermerà lunedì solo per una decina di ore.

In tempo, però, per “scaricare” la sua pattuglia di turisti giornalieri sulla città storica. Già ieri, soprattutto nella prima parte della giornata, nelle calli intorno a Rialto e San Marco erano intasate dalle comitive di crocieristi preceduti dalla loro guida, che talvolta anche si incrociavano nei due sensi di circolazione pedonale.

Un fenomeno che si acuisce in questo periodo dell’anno e non a caso per domenica prossima, quando è attesa un’altra invasione di croceristi, è prevista la manifestazione di protesta in acqua del Comitato No Grandi Navi, che ieri ha tenuto la sua assemblea preparatoria (ne riferiamo a parte). Un’invasione che non produce neppure particolari beneficio economici per la città, almeno ad ascoltare un esperto come il docente di Economia del Turismo di Ca’ Foscari Jan Van Der Borg.

«La quota di spesa giornaliera dei crocieristi» spiega «e pressoché equivalente, in base alle stime, a quelle dei turisti giornalieri contro cui tutti protestano, e cioè tra i 50 e i 60 euro. Non si giustificano su questa base i massicci investimenti in programma per difendere e sostenere la crocieristica in città».
La spesa media invece dei turisti pernottanti a Venezia, in base alle più recenti statistiche, risulta essere invece più che doppia, superando i 130 euro al giorno. Dopo un paio d’anni di flessione il mercato crocieristico anche a Venezia sembra in risalita, spiegando così anche il «pienone» di questi ultimi weekend.

Secondo i dati dell’Autorità portuale veneziana, infatti, nel primo semestre i passeggeri sono cresciuti del 16 per cento: in valore assoluto una crescita di più di 80 mila crocieristi più, dai 480 mila del 2017 ai 561 mila del primo semestre dell’anno in corso. Un fenomeno però che preoccupa anche una parte consistente dei residenti, anche sulla base di quanto il presidente della Municipalità di Venezia Giovanni Andrea Martini (ne riferiamo a parte) è andato a riferire nella sua relazione al Congresso del Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) che si è svolto a Seoul, in Corea, in riferimento soprattutto all’inquinamento dei fumi e quello acustico.

La stessa Autorità Portuale ha deciso di recente di mettere sotto controllo i livelli di inquinamento acustico provocati nel Porto di Venezia dalle Grandi Navi, soprattutto nelle ore notturne, con l’uso di altoparlanti o amplificatori in occasione, ad esempio, di feste a bordo delle navi da crociera. Avviato infatti per la stagione in corso il monitoraggio acustico delle navi all’ormeggio nella banchine di Santa Marta e San Basilio nella Stazione Marittima, per la stagione crocieristica in corso.

L’incarico è già stato assegnato allo Studio Pro.Tecno srl. Previsti monitoraggi di lunga durata, per capire quanto rumore viene prodotto mediamente da una nave crociera che attracca e sosta alla Marittima. Ma anche di breve durata, relativi ad esempio ai periodi di imbarco e sbarco dei passeggeri o ad altri eventi legati alla presenza delle navi, sarà infine stilato un rapporto per valutare che i limiti di decibel nelle aree confinanti al Porto siano effettivamente rispettati, anche se non è mai stato emesso, come previsto dalla legge, un decreto che regola le emissioni acustiche nelle aree portuali.

Non è la prima volta che il Porto si occupa di questo problema, perché già quattro anni fa, l’allora presidente dell’Autorità Portuale Paolo Costa aveva emesso un’ordinanza per il contenimento e la riduzione delle emissioni sonore, anche in seguito alle reiterate le proteste e in qualche caso anche gli esposti presentati dagli abitanti di Santa Marta e San Basilio.

CROCIERE,2019 DA RECORD PREVISTO BOOM DEL 5,5%

VENEZIA IL PORTO PREFERITO

di Gianni Favarato

Nel 2017 le grandi navi hanno portato in città ben 1.466.635 passeggeri con un calo dell'11 % rispetto all'anno precedente.

Ma è poi vero che la crocieristica a Venezia è in grave pericolo per le eccessive regole che limiterebbe l'accesso delle grandi navi, a discapito degli operatori e dei lavoratori coinvolti?

Le compagnie di navigazione che organizzano le crociere in transito o in partenza-arrivo a Venezia siedono anche nel consiglio d'amministrazione del terminal passeggeri (Vtp) di Santa Marta che ha presentato un ennesimo ricorso al Tar del Veneto, contro l'ordinanza della Capitaneria di Porto che applica un algoritmo matematico che permette alle navi da crociera di entrare in laguna sulla base del combustibile usato, la forma dello scafo e l'idrodinamica, nonché lo spostamento d'acqua, l'onda generata, il dislocamento e gli apparati di sicurezza per la navigazione.
L'ordinanza, secondo i ricorrenti, limiterebbe l'attività crocieristica in laguna, ma se si vanno a guardare i numeri Venezia resta il secondo "porto crocieristico" d'Italia, dopo Civitavecchia, dove nonostante l'algoritmo della Capitaneria arrivano ancora grandi navi sopra le 90 mila tonnellate di stazza. Nel 2017 le crociere hanno portato a Venezia ben 1.466.635 passeggeri, con un calo dell'11 % (179 mila passeggeri in meno) rispetto all'anno precedente. La stagione crocieristica del 2018 non si è ancora conclusa ma stando ai primi dati diffusi dal sito di Informare, dovrebbe chiudersi con un recupero, seppur modesto, di passeggeri, rispetto al 2017. Uno studio realizzato da www.crocierissime.it, il primo sito italiano interamente dedicato al mondo delle crociere, sottolinea, inoltre, che Venezia è stato il porto crocieristico di partenza più richiesto dagli italiani nel 2017. E l'anno prossimo potrebbe andare ancora meglio: secondo l'agenzia marittima e turistica genovese Cemar prevede che il 2019 sarà un anno record per il traffico crocieristico nei porti italiani, nei quali - secondo le stime dell'azienda - giungeranno oltre 11, 5 milioni di passeggeri a bordo di navi da crociera, con un incremento a livello nazionale del +5,5% rispetto al totale previsto per il 2018. Lo studio della Cemar, presentato dal presidente della società Sergio Senesi, include anche le ultime previsioni relative all'anno in corso: il 2018 si chiuderà con 10.862.000 passeggeri movimentati nei porti italiani (+7,32% rispetto al 2017) nell'ambito di un totale di 4.641 approdi di navi (+1,13% rispetto al 2017). Anche quest'anno Civitavecchia si confermerà il principale porto croceristico italiano, al secondo posto ci saròà ancora il porto di Venezia, seguito da quelli di Genova, Napoli, Savona e Livorno. La stagione crociere del 2018, a livello nazionale, ha visto il coinvolgimento complessivo di 47 compagnie di navigazione, 145 navi e 80 porti italiani.

18 settembre 2018
COMUNICATO DI AMBIENTEVENEZIA E LINK A VIDEO

Dal 2013 in diversi Dossier di AmbienteVenezia abbiamo documentato con foto, documenti scientifici, nostre elaborazioni, filmati, i danni causati alla Laguna di Venezia dal passaggio delle grandi navi nei canali Lagunari.

In particolare abbiamo dimostrato quali devastazioni e distruzioni avrebbero causato i vari folli progetti presentati in questi anni dal cosiddetto “Partito Trasversale che vuole mantenere le grandi navi da crociera in Laguna” facendole entrare in Laguna dalla Bocca di Porto di Malamocco e facendole transitare attraverso il canale dei Petroli…

... c’è chi le vuole a Fusina, chi le vuole a Porto Marghera, chi le vuole portare in Marittima attraverso il canale Contorta o attraverso l’isola delle Tresse, o attraverso il canale Vittorio Emanuele.

Per realizzare qualsiasi di questi devastanti e folli progetti si dovrebbero scavare diversi milioni di metri cubi di fanghi più o meno contaminati.

Lo scavo del canale dei Petroli e il passaggio delle navi commerciali e industriali in questi anni ha creato danni irreversibili a tutta la Laguna centrale…. Allargare il canale dei Petroli e scavare vecchi e nuovi canali per far transitare anche le grandi navi da crociera porterebbe negli anni alla totale distruzione di quanto è rimasto nella Laguna centrale e farla diventare un braccio di mare con profondità di diversi metri.

Qui il link a un'interessante critica del prof. Gianni Fabbri sul progetto di portare le maxi navi a Marghera e del relativo scavo del canale dei petroli.

Qui alcuni video interessanti su onde e danni causati dal passaggio di navi nel canale dei Petroli:

"Ship Traffic and shoreline erosion in the Lagoon of Venice"

Realizzato da CNR – ISMAR e Università Ca’Foscari di Venezia, pubblicato nella rivista scientifica PLOSONE del 31 ottobre 2017

"Grande nave MSC in Canale dei Petroli"
Realizzato da Venezia Viva

"Onde: provocate dal passaggio di una nave mercantile dal porto di Marghera al canale dei petroli"
Realizzato da Loredana Spadon

Venezia 25 giugno 2018
LE GRANDI NAVI DA CROCIERA A VENEZIA: TEMPO DI CAMBIAMENTO
Lettera inviata dal Comitato NOGrandiNavi – Laguna Bene Comune ai Ministri Competenti

Mentre continuano le mobilitazioni popolari che pretendono l’estromissione definitiva dalla laguna di Venezia delle grandi navi crociera si auspica che su tale questione sia condotta una reale azione di cambiamento rispetto al governo precedente, con particolare riferimento all’azione ostativa del ministro delle Infrastrutture, che ha dimostrato subordinarietà agli interessi delle lobby crocieristiche.

Richiamiamo il nuovo Governo alla piena applicazione del decreto Clini-Passera (2012) al fine di garantire la tutela ambientale e la sicurezza della navigazione nella Laguna di Venezia.

Sollecitiamo in particolare il Presidente del Consiglio, che presiede il Comitato dei Ministri per Venezia, e il Ministro delle Infrastrutture:
a individuare il Progetto con Valutazione di Impatto Ambientale positiva (VIA positiva), come la soluzione alternativa al transito della Grandi Navi per il Bacino di San Marco, estromettendo del tutto le Grandi Navi dalla Laguna,
a dare seguito all’esito delle procedure attivate secondo la normativa vigente, (CS LL.PP. -Conferenza dei Servizi - CIPE)
ad autorizzare la rapida realizzazione della soluzione individuata , secondo l’Intesa Stato Regione dell’ 14 aprile 2014 e la Delibera del Comitato dei Ministri per Venezia del 8 agosto 2014.

Va radicalmente cambiato l’andazzo della situazione che si è venuta a creare con il vecchio governo tramite la Autorità Portuale con l’aver messo in campo sempre nuove irrealistiche proposte (scavo del canale Contorta, poi del canale delle Tresse, poi del terminala Marghera e scavo del Canale Vittorio Emanuele) per mantenere nel frattempo il transito delle grandi navi crociera attraverso il bacino di San Marco ed il canale della Giudecca.

Segnaliamo che il vecchio governo non ha tenuto in nessun conto la salute dei cittadini, esposti alle emissioni atmosferiche e al rumore delle navi a ridosso del centro abitato; nessuna cura è stata posta alla tutela dell’ inestimabile valore storico-artistico e del paesaggio della Città di Venezia; sul lato ambientale invece del ripristino della morfologia lagunare si è previsto lo sconquasso della Laguna e la stessa sicurezza della navigazione è stata messa a dura prova, mentre con l’ipotesi del terminal a Marghera si è attivata l’aspirazione ad una gigantesca speculazione immobiliare dalle aree industriali dismesse di proprietà dei privati all’area dei Pili.

IL CAMBIAMENTO ATTESO E AUSPICATO va collocato nel contesto normativo speciale vigente di tutela e salvaguardia di Venezia e della sua laguna, e nella cornice della forza di resistenza della popolazione che ha reagito fermamente con la protesta popolare tenendo conto:

-del decreto Clini-Passera, emesso nel 2012 subito dopo la tragedia del Concordia, che protegge la particolarissima sensibilità e vulnerabilità ambientale della Laguna di Venezia, laddove dispone il divieto di transito delle grandi navi crociera del bacino di S. Marco e di individuare una soluzione alternativa per poter garantire elevate condizioni di sicurezza marittima e la tutela dell’ecosistema lagunare;

- della mobilitazione di migliaia di cittadini, delle petizioni, del referendum popolare autogestito con oltre 18.000 firme, delle interrogazioni parlamentari, delle prese di posizione di osservatori mondiali, di Associazioni nazionali e dell’Organismo internazionale UNESCO, che chiede all’Italia di allontanare le grandi navi da crociera e da trasporto dall’intera laguna.

Per ultimo vanno respinte le indicazioni (peraltro non assunte e non deliberate, emerse nel corso dell’ultimo inconcludente Comitato dei Ministri per Venezia del 7 novembre 2017) di spostare il transito delle Grandi Navi alla Bocca di Malamocco verso Marghera e il Canale Vittorio Emanuele per i molteplici aspetti negativi già evidenziati dalle valutazioni del Ministero dell’Ambiente e della Capitaneria di Porto :

-un impatto ambientale devastante per le dimensioni ed il dislocamento delle grandi navi crociera che comporterebbe l’ulteriore erosione dei canali di accesso portuali con la mobilitazione di milioni di metri cubi di fanghi, per lo più inquinati, mettendo a rischio il già delicato equilibrio idrodinamico e morfologico della laguna. Recenti ricerche evidenziano una drammatica erosione del canale Malamocco-Marghera per il passaggio delle navi mercantili, di cui la Autorità Portuale ipotizza e persegue dimensioni sempre maggiori che sarebbe ancora più aggravata se si dovessero sommare anche le grandi navi crociera. Problematica peraltro, questa dell’erosione, che deve costituire comunque parte fondamentale del piano morfologico.

- una commistione di traffici diversi, crocieristici, commerciali, petroliferi attraverso la navigazione del canale dei Petroli (canale Malamocco-Marghera), con conseguenze negative per la sicurezza della navigazione e per gli stessi milioni di passeggeri obbligati ad attraversare il polo chimico di Marghera, dichiarata sito a Rischio di Incidenti Rilevanti ( RIR).

- aspettative speculative legate al cambio di destinazione d’uso delle aree dismesse: da industriale a turistico-commerciale, che rischiano di pregiudicare il futuro e lo sviluppo di attività industriali e manifatturiere della prima zona industriale (es. Fincantieri e bio-raffineria Eni) mettendo a rischio l’occupazione che ha già visto la perdita di migliaia di posti di lavoro; tutto ciò in aperto contrasto con il riconoscimento legislativo di Porto Marghera come “ area di crisi complessa “

Va invece preso formalmente atto, nel prossimo Comitato dei Ministri per Venezia ( vulgo Comitatone) che, a seguito della comparazione di diversi ipotesi progettuali e della procedura di valutazione dei Progetti presentati da parte della Commissione Nazionale di Valutazione di Impatto Ambientale, un unico progetto (denominato, Venis Cruise 2.0 , Duferco DP Consulting) ha superato la valutazione di impatto ambientale ed è pronto , dal punto di vista tecnico e giuridico, per essere individuato, in base al Clini Passera, quale soluzione alternativa subito realizzabile.

Il progetto è stato bloccato arbitrariamente dal ministro delle infrastrutture del precedente Governo e ha impedito l’avanzamento della procedura prevista dalle norme vigenti. Nel maggio di quest’anno il progetto Venis Cruise 2.0 ha ottenuto la sentenza favorevole del Tar in cui i giudici hanno respinto tutti i profili di illegittimità sollevati dal ricorso dell’Autorità Portuale ,( ricorso presentato dall’Autorità Portuale contro il Ministero dell’Ambiente e contro il Ministero delle Infrastrutture suo stesso Ministero di appartenenza!) e dal comune di Cavallino sugli aspetti procedurali, autorizzativi e progettuali.

Il Progetto denominato, Venis Cruise 2.0, soddisfa tutti i requisiti del Clini Passera come specificati e confermati anche dall’ODG del Senato ( 6 02 2014 Endrizzi, Casson ed altri): sposta il terminal delle grandi navi crociera alla bocca di Lido, è dichiarato dalla VIA positiva, del tutto compatibile con le esigenze di salvaguardia e tutela della laguna, non interferisce con il Mose, è a distanza di sicurezza dai centri abitati, utilizza la Marittima come home-port, conferma la tutela dell’occupazione e risponde pienamente alle raccomandazioni dell’Unesco votate dall’assemblea generale di Istanbul ( luglio 2016).

Alla luce di quanto sopra considerato si ritiene realistico poter affermare che per una forza politica di maggioranza esistono tutte le condizioni “di cambiamento” per realizzare in breve tempo quella soluzione alternativa praticabile che garantisce l’estromissione definitiva delle grandi navi crociera dalla laguna e che assicura nel contempo l’occupazione ed il mantenimento della crocieristica a Venezia.

Una rappresentanza del Comitato No Grandi Navi riterrebbe opportuno, e richiede al Presidente del Consiglio e ai Ministri competenti, un incontro da tenersi quanto prima.

La Nuova Venezia, 23 settembre 2018
DOMENICA UN NUOVO CORTEO ACQUEO IN BACINO

L'assemblea pubblica in Pescheria a Rialto, convocata ieri pomeriggio dal Comitato No Grandi Navi, ha deciso per il prossimo fine settimana nuove iniziative di mobilitazione e protesta a Venezia. Per sabato prossimo, 29 settembre, è stata convocata una "Assemblea nazionale dei comitati e movimenti contro le grandi opere e per la giustizia ambientale" alle ore 15 ai Magazzini del Sale a Dorsoduro.
Domenica 30 settembre è stata confermata una grande manifestazione nazionale a Venezia con «giochi d'acqua contro le grandi navi da crociera» e una marea di imbarcazioni (barche a motore a remi a vela, canoe, kayak, pedalò) nel Bacino di San Marco per «dire basta alle graandi navi a Venezia». «Sarà una grande festa per il rispetto della nostra laguna e della nostra città «spiegano gli organizzatori del Comitato «per chi partecipa alla protesta senza barca appuntamento alle Zattere dalle ore 16 al presidio organizzato con gazebi e la distribuzione di materiali vari e punti di ristoro.
Per chi viene in barca appuntamento di fronte Villa Heriot Giudecca alle ore 15.30, la parata di barche partirà da Villa Heriot e raggiungerà il presidio all'altezza delle Zattere dove saranno allestiti degli ormeggi galleggianti per garantire momenti di pausa ai vogatori e dei punti di ristoro in acqua».«Passano i governi, ma le navi da crociera restano» dicono i portavoce del Comitato No Grandi Navi «Chi era dalla nostra parte durante la campagna elettorale ora si comporta come il peggiore degli ignavi, a cominciare dal ministro Toninelli»

europatoday. Liberare la città dal potere dell'automobile e restituirla ai cittadini. Un progetto che richiede una costante volontà politica. O cedere all'automobile e trasformare le città in un inferno. Quattro articoli esemplificativi. (a.b.)


EuropaToday, 18 settembre 2018
“SEI IN MACCHINA? QUI NON ENTRI”.
IL CASO DELLA CITTÀ 'SENZA AUTO' TORNATA A CRESCERE
Mezza città, dal centro storico alla vecchia periferia, completamente "car-free". E negli altri quartieri, limite fissato a 30 km orari. Cosi' l’amministrazione di Pontevedra, comune galiziano di 80mila abitanti, ha attuato a partire dal 1999 una delle maggiori opere di pedonalizzazione urbana in Europa, con l'obiettivo di far fronte al traffico continuo che paralizzava il centro storico. Da allora, il sindaco è stato rieletto tre volte, il piccolo commercio cittadino si è ripreso e il numero di abitanti è cresciuto. Il successo del progetto ambizioso e ambientalista ora fa scuola nel resto del Vecchio Continente.

Riappropriarsi dello spazio pubblico
Prima di guadagnarsi il primo mandato, il sindaco Miguel Anxo Fernández Lores era rimasto per dodici anni all’opposizione. Il suo programma politico è semplice, ma trova poco spazio per i compromessi: possedere un’auto non ti da diritto ad occupare uno spazio pubblico. Nel mese successivo alla vittoria elettorale del ‘99, Lores ha pedonalizzato 300mila metri quadrati nel centro storico.

Niente più vittime della strada
L’area medievale era il problema principale di Pontevedra, come spiega il primo cittadino al quotidiano inglese The Guardian: “Circolava molta droga, era pieno di macchine ed era una zona emarginata”. Anche il resto della città era “in declino, inquinata, e gli incidenti stradali erano frequenti”. Nelle vie più pericolose persero la vita 30 persone nel decennio 1996-2006. Il numero di vittime è dapprima calato, per poi azzerarsi completamente dal 2009 ad oggi.

Piccolo commercio
Anche l’economia locale dei negozietti in centro è risorta grazie alla politica “zero auto”, che ammette ancora il passaggio dei veicoli solo nelle zone periferiche e con un limite di velocità fissato a 30 km/h. Mentre altre città della Galizia perdono residenti, oltre 12mila persone si sono trasferite a Pontevedra negli ultimi anni, attratte anche dalla qualità dell’aria migliorata sensibilmente. Le emissioni di Co2 sono infatti diminuite del 70%, e la gran parte degli spostamenti che avvenivano in auto ora si fanno in bici o a piedi.

A dimensione umana
A rendere praticabile la politica contro le macchine sono anche le dimensioni modeste del centro abitato. Come nota l’architetto e residente di Pontevedra Rogelio Carballo Soler, “si può attraversare l’intera città in 25 minuti. Ci sono alcune cose che si possono criticare, ma non c’è alcun motivo per sbarazzarsi di questo modello (di mobilità ndr)”.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.



EuropaToday, 19 settembre 2018
CRESCE IL NUMERO DEI VEICOLI INQUINANTI
IN EUROPA: OLTRE 5 MILIONI SONO IN ITALIA

Il numero di veicoli diesel inquinanti che emettono fumi tossiche sulle strade europee è ancora in aumento tre anni dopo lo scoppio dello scandalo Dieselgate e oltre 5 milioni di questi veicoli sarebbero in Italia. Sono i risultati di uno studio pubblicato da Transport & Environment (T&E), la federazione europea delle associazioni per la mobilità, nel terzo anniversario dello scandalo che ha scosso l’industria delle automobili. Il report sottolinea che i motori inquinanti sulle strade europee continuano ad aumentare e solo una ridotta porzione dei diesel Euro 6 rispettano davvero i limiti previsti per le emissioni di ossidi di azoto. Per quanto riguarda invece i modelli definitivamente obsoleti, questi anziché essere rottamati, vengono esportati nei paesi dell’Est o in Africa, dove continuano a causare danni alla salute e all’ambiente.


I veicoli soprattutto in Francia
“Quando lo scandalo è scoppiato nel 2015 - si legge nella ricerca - c'erano 29 milioni di automobili diesel gravemente inquinanti in strada. Dopo tre anni, il numero di auto ‘sporche’ sulle strade europee è ancora in aumento. Questo rapporto stima che ammontino ora a 43 milioni di veicoli. Fra questi: 8,7 milioni in Francia; 8,2 milioni in Germania; 7,3 milioni nel Regno Unito e 5,3 milioni in Italia”. Secondo gli esperti il numero di auto diesel inquinanti continuerà a salire fino a settembre 2019, quando i nuovi regolamenti Ue imporranno di vietare la vendita dei modelli obsoleti. I lunghi tempi del cambiameno sono stati decisi per consentire ai produttori che fabbricavano molti di questi modelli di mettersi al passo con le nuove regole.

"Dati sconfortanti"
“I dati mostrati nel nuovo report sono sconfortanti. Le auto diesel sporche in circolazione continuano ad aumentare e la qualità dell'aria a peggiorare di conseguenza. Le nuovissime diesel Euro 6 in circolazione non sono pulite come i costruttori automobilistici vorrebbero farci credere. Uno shift verso la mobilità a zero emissioni è indispensabile ed urgente”, ha dicharato Veronica Aneris, rappresentante italiano di Transport & Environment .

Auto progettate per superare i test
Per quanto riguarda i modelli Euro 6 conformi al nuovo standard RDE (Real Driving Emissions), si legge ancora nel report, “i nuovi test di T&E mostrano che una Honda Civic diesel del 2018 rispetta il limite per i NOx [ossidi di azoto, NdR] quando viene guidata nel contesto dei test previsti dalla legge, ma le emissioni tossiche aumentano di 9 volte quando viene guidata su strade di collina, o con accelerazioni più tipiche e velocità più rapide che sono rappresentative di una guida normale”. Allo stesso modo, le emissioni di particolato di una Ford Fiesta “sono risultate più che doppie rispetto al limite durante la guida tipica di un automobilista, nonostante l’auto fosse dotata di un filtro antiparticolato per benzina. Anche una Opel Adam a benzina è risultata avere emissioni di monossido di carbonio molto più elevate del limite”. Secondo lo studio “le auto vengono progettate per superare un test normativo piuttosto che per avere emissioni ridotte in strada”.

Filtri anti-particolato
Le emissioni medie di NOx delle auto diesel da Euro 2 a Euro 5 sono comprese tra i 1.000 mg/km e i 1.150 mg/km. L'introduzione del regolamento Euro 6 nel settembre 2014 ha oltre che dimezzato le emissioni di NOx che in media sono pari a 450 mg/km, “ma queste sono, comunque, ancora 5 volte oltre il limite consentito” . Lo studio presenta inoltre un'indagine su oltre 1.300 taxi diesel in 8 città dell'Ueper vedere quanto realmente utili siano i FAP [filtri anti-particolato], ai quali si attribuisce la capacità di eliminare la fuliggine dalle emissioni dei diesel. La ricerca avrebbe dimostrato che circa il 4% delle auto Euro 5 e 6 produce emissioni di particolato elevatissime, nonostante i FAP siano obbligatori. Il solo 4% delle auto con emissioni di particolato non adeguatamente limitate comporta un aumento del 75% delle emissioni di particolato complessive dei veicoli diesel.

"Il governo intervenga"
“È indispensabile che il Governo italiano si attivi effettuando al più presto le necessarie verifiche e i richiami dei veicoli in circolazione dato che, fra l’altro, il motore risultato più inquinante in assoluto in base all’elenco dei test effettuati a livello europeo e che vengono riportati da TRUE Initiative è un motore Fiat Chrysler che ha emissioni pari a 1485 mg/km. Questo motore è montato, per esempio, sulla FIAT 500X, sull’Alfa Romeo Giulietta, e la Jeep Renegade, veicoli omologati in Italia e dei quali pullulano le nostre strade”, ha chiesto Anna Gerometta, presidente di Cittadini per l’aria Onlus.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

EuropaToday, 18 settembre 2018
AUTO, NUOVO SCANDALO: I BIG TEDESCHI

AVREBBERO BLOCCATO LA DIFFUSIONE DI VEICOLI "PULITI"

Avrebbero creato un cartello per impedire lo sviluppo e la diffusione di auto meno inquinanti e con consumi ridotti. E' questa l'accusa che ha spinto la Commissione europea ad aprire un'indagine formale sulla possibile collusione tra Bmw, Daimler e il gruppo Volkswagen sulla tecnologia delle emissioni pulite.

L'indagine Ue
La Commissione ha avviato un'indagine approfondita per valutare se tali società abbiano colluso, in violazione delle norme antitrust dell'Ue, decidendo di non competere l'una con l'altra sullo sviluppo e la diffusione di importanti sistemi per ridurre le emissioni nocive delle autovetture a benzina e diesel. E di conseguenza anche per ridurre i loro consumi.

La commissaria Margrethe Vestager, responsabile della politica di concorrenza, ha sottolineato che"queste tecnologie mirano a rendere le autovetture meno dannose per l'ambiente: se provata, questa collusione potrebbe aver negato ai consumatori l'opportunità di acquistare automobili meno inquinanti, nonostante la tecnologia sia disponibile"

La cerchia dei cinque
Nell'ottobre 2017 la Commissione ha effettuato ispezioni presso le sedi di Bmw, Daimler, Volkswagen e Audi in Germania nell'ambito delle prime indagini in merito a possibili collusioni tra costruttori automobilistici sullo sviluppo tecnologico delle autovetture. L'indagine approfondita si concentra sulle informazioni che indicano che Bmw, Daimler, Volkswagen, Audi e Porsche, anche denominate "cerchia di cinque", avrebbero partecipato a riunioni in cui si sarebbe discusso tra l'altro lo sviluppo e la diffusione di tecnologie per limitare le emissioni nocive delle auto.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

EuropaToday, 29 agosto 2018
L'INQUINAMENTO RENDE ANCHE STUPIDI

L'inquinamento atmosferico non fa male soltanto al corpo, ma anche alla mente, riducendo le sue capacità cognitive. Lo afferma uno studio di ricercatori cinesi e statunitensi che hanno monitorato per quattro anni le capacità matematiche e verbali di 20mila persone in Cina, dai 10 anni in su e di entrambi i sessi.

I livelli di inquinamento cui ciascun partecipante era esposto sono stati misurati in base al suo indirizzo di residenza. I ricercatori hanno tenuto conto di diverse molecole inquinanti e del particolato fine, quello che penetra più facilmente nelle vie respiratorie. Tutto il campione è stato sottoposto a una serie di test per valutarne le abilità matematiche e linguistiche. È emerso che queste abilità erano tanto più inferiori quanto maggiore era l'esposizione ad agenti inquinanti. Inoltre è emerso che l'impatto negativo dello smog aumenta con l'età dell'individuo. "Abbiamo prova che gli effetti dell'inquinamento dell'aria sui test verbali diventano più pronunciati con il passare dell'età, specialmente per gli uomini e quelli con un livello di istruzione più basso", ha spiegato uno degli autori del lavoro, Xi Chen della Yale School of Public Health.“

Secondo lo studio, pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, uno dei motivi di questo sbilanciamento potrebbe essere il fatto che i maschi con minore scolarizzazione tendono a fare più spesso lavori manuali all'aperto. L'esposizione ad alti livelli di inquinamento atmosferico, ha detto Xi Chen, "può provocare una riduzione del livello di educazione di un anno, che è enorme". Studi precedenti avevano rilevato un impatto negativo dell'inquinamento atmosferico sulle capacità cognitive degli studenti. "Le nostre scoperte sugli effetti dell'inquinamento dell'aria sulla cognizione, particolarmente sui cervelli che invecchiano, implica che gli effetti indiretti sul welfare sociale potrebbero essere più ampi di quanto non si ritenesse precedentemente", conclude lo studio."
Tratto dalla pagina qui raggiungibile.



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comune-info, 17 settembre 2018. Il più grande aeroporto dell'emisfero occidentale alla 'consultazione popolare', ma che valore ha questo strumento quando non tutte le informazioni necessarie per prendere una decisione ragionata sono condivise? (i.b.)

"È assai probabile che il nuovo governo di Andrés Manuel López Obrador decida di sottoporre la prosecuzione dei lavori di costruzione del mega-aeroporto di Città del Messico, che avrebbe un impatto devastante sul suolo, l’acqua e l’aria della capitale, a una consultazione nazionale vincolante. Siamo talmente abituati all’arbitrio assoluto di poteri politici ed economici dispotici che la prima reazione di chi legge una notizia del genere non può che essere positiva. Gustavo Esteva ci spiega invece, in modo oltremodo convincente, perché non è così. La democrazia plebiscitaria può provocare disastri se tutti non hanno accesso alle informazioni indispensabili. Si crea l’illusione che la gente prenda nelle proprie mani importanti decisioni di governo, mentre non fa altro che ballare al ritmo di una musica suonata da altri. Avrebbe senso che tutte e tutti i messicani partecipassero a questa consultazione se il quesito venisse posto in termini corrispondenti ai loro interessi e all’informazione di cui dispongono. Si dovrebbe decidere, per esempio, se dedicare considerevoli risorse pubbliche all’aeroporto più fantasioso, più grande e capriccioso del mondo, oppure alle molte altre opere necessarie, come scuole e ospedali"

La settimana comincia male se al lunedì ti impiccano. Oppure ti danno la possibilità di scegliere se essere impiccato lunedì o venerdì.

La consultazione vincolante relativa alla costruzione del Nuovo Aeroporto di Città del Messico potrebbe essere la prima delle grandi decisioni del nuovo governo, che ha cominciato a governare il primo di luglio, con l’intensificarsi dell’abbandono delle funzioni di governo dell’attuale amministrazione, iniziato molto prima. Ma questa sarebbe una delle sue prime decisioni importanti. Così come è impostata, è un pessimo modo per iniziare la gestione.

Raúl Zibechi ha inquadrato correttamente consultazioni e plebisciti (“Plebiscitos y movimientos antisistémicos”, La Jornada, 31/8/18). Sono diventati di moda e possono essere utili strumenti di lotta, nel contesto molto limitato della democrazia rappresentativa, ma sono anche molto rischiosi. Creano l’illusione che la gente prenda nelle proprie mani importanti decisioni di governo, mentre non fa altro che ballare al ritmo di una musica suonata da altri. Tutto dipende da ciò che è sottoposto a consultazione e dal modo in cui la consultazione viene fatta, il che dipende dal governo.

La California e la Svizzera sono i paesi che più utilizzano la procedura. L’esperienza è ambigua. Sembra utile la consultazione che ha permesso agli svizzeri di limitare i salari dei dirigenti delle grandi imprese, ma ormai solo il 40% della popolazione risponde alla chiamata. Anche i votanti della California sono stufi. Nel mese di novembre del 2016 hanno dovuto rispondere a più di 30 domande su questioni locali, regionali e statali. Quelli che l’hanno fatto in maniera responsabile da casa loro, votando per posta, hanno dovuto dedicarvi diverse ore. In molti casi non sapevano che cosa pensare; dovevano decidere su cose che non conoscevano, e quindi reagivano emotivamente, non sulla base di argomentazioni ben fondate. Hanno ormai la sensazione che le consultazioni chiedano loro di assumersi i compiti tecnici per i quali hanno eletto un funzionario.

Dobbiamo discutere seriamente sul valore della consultazione vincolante. I popoli originari devono essere consultati in tutto ciò che li riguarda, specialmente quando sono in gioco i loro territori. In questo caso è importante prestare attenzione alle condizioni in cui si compie la consultazione. Anche in altri casi la consultazione può essere utile. Ma lo strumento deve essere utilizzato con cura. Può essere non solo inutile, ma anche controproducente.

Non è sensato sottoporre a una consultazione nazionale la decisione sull’ubicazione dell’aeroporto; sarebbe impossibile che tutta la gente possa avere accesso alle informazioni che permetterebbero di mettere a confronto in maniera adeguata il progetto in corso con l’ubicazione a Santa Lucía (ndt – Base militare a ovest di Città del Messico). Avrebbe senso che tutte e tutti i messicani partecipassero a questa consultazione se il quesito venisse posto in termini corrispondenti ai loro interessi e all’informazione di cui dispongono, come quelli recentemente proposti dal nuovo titolare del Ministero delle Comunicazioni e dei Trasporti. Si dovrebbe decidere se dedicare considerevoli risorse pubbliche all’aeroporto più fantasioso, più grande e più capriccioso del mondo, oppure ad opere necessarie, come scuole e ospedali (La Jornada, 7/9/18).

Perché la gente si pronunci in base a un’informazione adeguata, dovrebbe risultare chiaramente dal quesito che il nuovo aeroporto avrebbe un impatto devastante sul suolo, l’acqua e l’aria di Città del Messico, sia per la costruzione stessa che per il continuo aumento del traffico aereo, altamente inquinante. Dovrebbe inoltre essere chiaro che si danneggerebbero gravemente i territori e le condizioni di vita di molte comunità della zona. Che ci sarebbe un impatto negativo sulla vita di tutti gli abitanti dell’area metropolitana. Per tutti questi motivi, la consultazione deve offrire la possibilità di dire di no.

La cosa più importante sarebbe presentare con chiarezza le opzioni. Tutti possono capire che invece di continuare a concentrare il traffico aereo in Città del Messico bisogna allontanarlo da lì. È possibile fornire informazioni su come sarebbe facile e a buon mercato far questo, se gli interessi della gente contassero più di quelli delle grandi imprese. Non ha senso che quelli che volano da una città all’altra del paese debbano passare per la capitale, ad esempio che debbano passare di qui quelli che vanno da Oaxaca a Tuxtla. È irrazionale che si mantenga sottoutilizzato il sistema aeroportuale metropolitano, che collega gli aeroporti di Cuernavaca, Puebla, Querétaro e Toluca con la capitale, il cui utilizzo potrebbe ridurre almeno di un quinto i voli attuali per Città del Messico. Per decidere, la gente dovrebbe sapere che a fronte degli ingegneri e delle grandi imprese che si pronunciano a favore del progetto in corso, molti altri esperti lo criticano per fondati motivi. Dovrebbe anche sapere che meno del 2 per cento degli abitanti di Città del Messico usa il trasporto aereo.

Il nuovo governo deve ripensare la sua proposta. Partire con un esercizio ingannevole e ciecamente autoritario è un pessimo modo di iniziare un’avventura che vuole essere democratica. Se ha già deciso di sottoporre la decisione a una consultazione, deve ripensare la sua formulazione.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile.

I comitati che si oppongono alle opere, grandi, inutili e dannose, si riuniranno prima a Venezia il 29 settembre e poi di seguito a Firenze il 6 e 7 ottobre, per condividere conoscenze e consolidare alleanze. Segue

I comitati che si oppongono alle opere, grandi, inutili e dannose, si riuniranno prima a Venezia il 29 settembre e poi di seguito a Firenze il 6 e 7 ottobre, per condividere conoscenze e consolidare alleanze. E’ scontato che movimenti come quello No Tav della Val di Susa o il Coordinamento dei comitati della piana fiorentina-pratese e molti altri, abbiano già una forte valenza politica, tuttavia, per lo più, locale e individuale; ma ora che la battaglia si sta trasferendo ai “piani alti” del potere, anche a seguito degli impegni elettorali del Movimento 5 Stelle, vi è consapevolezza che le lotte in corso dei tanti gruppi che difendono non solo il loro territorio ma il territorio di tutti, debbano acquisire una dimensione politica più generale.

La lotta contro le grandi opere inutili, tenacemente volute dal Pd e da Fi, rappresentanti degli interessi di banche e imprese costruttrici, prigionieri di una coazione ripetitiva che vuole traffici sovrastimati e costi sottostimati contro ogni evidenza economica e di buon senso, non può avere una valenza soltanto negativa e, di fatto, molte idee in proposito sono state avanzate e talvolta fatte proprie dai movimenti. Prima fra tutte la proposta di una grande opera (questa sì) di risanamento del territorio, a partire dal contenimento del rischio sismico e idrogeologico, all’interno di uno scenario in cui la cura dell’ambiente e del paesaggio prenda il posto di uno sfruttamento miope e distruttivo, che ha l’aggravante di non portare alcun vantaggio economico se non ai suoi promotori.

Questo scenario e la sua realizzabilità è stata più volte argomentata in varie sedi, tra cui eddyburg, e non occorre tornarci sopra, se non per notare che il “Contratto per il governo del cambiamento”, siglato tra Movimento 5S e Lega, prevede “una serie di interventi diffusi in chiave preventiva di manutenzione ordinaria e straordinaria del suolo, anche come volano di spesa virtuosa e di creazione di lavoro, a partire dalle zone terremotate…” e azioni di prevenzione che comportino interventi diffusi di manutenzione ordinaria e straordinaria del suolo su aree ad alto rischio, oltre … interventi di mitigazione del rischio idrogeologico. (Contratto, paragrafo 5).

Tuttavia, la manutenzione e la cura del territorio, per quanto possano essere utili, non sono ancora sufficienti a delineare una vera e propria alternativa politica. La vera novità sarebbe porre l’ambiente (e il paesaggio) al centro di un programma che porti l’Italia sulla linea dei paesi che stanno riconvertendo il proprio apparato produttivo verso settori economicamente e socialmente più avanzati, un programma che, tra l’altro, sia all’altezza delle sfide poste dal cambiamento climatico. Qui non si tratta di fuoriuscire dal capitalismo, ma semplicemente di non seguire pedissequamente la vulgata neoliberistica – riforme strutturali intese come compressione dei salari e diritti dei lavoratori, privatizzazione delle risorse pubbliche, deregolamentazione del mercato, attacco al welfare, ecc. – il tutto condito da corruzione e inefficienza.

Ambiente e territorio, come un patrimonio centrale per la qualità della vita, costituiscono perciò il lato materiale di una politica cui deve corrispondere una controparte culturale e sociale all’altezza: l’una componente tiene l’altra e entrambe sono reciprocamente necessarie. La cura del territorio e la centralità dell’ambiente non hanno bisogno solo di strumenti e risorse finanziarie, ma di creatività e imprenditorialità che, a loro volta, richiedono conoscenze specifiche e innovative. Richiedono, perciò, investimenti nella scuola, nell’università, nella ricerca, oltre che una riorganizzazione dell’intero sistema dell’istruzione.

A questo proposito, i dati del rapporto Ocse Education at a glance del 2017 che riguardano il nostro paese sono sconfortanti. In Italia, solo l’1% del Pil è destinato alla formazione di terzo livello, due terzi della media europea; non vi è da stupirsi, perciò, che la percentuale dei nostri laureati sia tra la più bassa dei paesi Ocse (il 18% - peggio di noi fa solo il Messico), contro il 37% di media; e se i giovani (25-34 anni) fanno un po’ meglio con il 26% di titoli universitari, siamo ancora ben lontani dalla media Ocse (43%): Coerentemente (nel peggio), la spesa pubblica dell'Italia per l'istruzione (nel 2014) è stata pari al 7,1% di quella totale, all’ultimo posto tra i paesi Ocse.

La dimensione politica dei movimenti contro le grandi opere, trascende perciò il qui ed ora e la settorialità, anche se le lotte in corso ne costituiscono il propellente e il “nocciolo caldo”. La dimensione politica reclama a sua volta una politica alternativa a livello centrale, qui sta il vero cambiamento e su questo si dovranno misurare i programmi di governo se non vogliono rimanere solamente un flatus vocis di promesse elettorali.

Il programma completo delle mobilitazioni che si terranno a Venezia il 29-30 settembre 2018, organizzate dal Comitato NOGrandiNavi – Laguna Bene Comune.


PROGRAMMA DELLE MOBILITAZIONI
CONTRO LE GRANDI NAVI E LE GRANDI OPERE



Sabato 22 settembre 2018, ore 18.00
Pescheria-Rialto, Venezia
Assemblea pubblica per fare il punto sulle grandi navi e per costruire assieme le giornate di mobilitazione.








Sabato 29 settembre 2018, ore 15.00
S.a.l.e. docks (magazzini del sale), Dorsoduro 265, Venezia
Assemblea nazionale dei comitati e movimenti contro le grandi opere, per la giustizia ambientale
Qui link all'appello.



Domenica 30 settembre 2018, dalle 15.30

Zattere, Venezia
Manifestazione, giochi d’acqua contro le grandi navi da crociera. Una grande festa per il rispetto della nostra laguna e della nostra città.
Partecipazione con ogni tipo d’imbarcazione; barche a motore a remi a vela, canoe, kayak, pedalò, etc.
Per chi viene senza barca appuntamento alle Zattere dalle ore 16 in poi al presidio, dove si trovano vari gazebi con materiali vari e punti di ristoro.
Per chi viene in barca appuntamento di fronte villa heriot giudecca alle ore 15.30.
La parata di barche partirà da villa heriot e raggiungerà il presidio all'altezza delle zattere dove saranno allestiti degli ormeggi galleggianti per garantire momenti di pausa ai vogatori e dei punti di ristoro in acqua.

Il 29-30 settembre 2018 si terranno un' Assemblea nazionale dei comitati ambientali per fare il punto sulle grandi inutili opere e la manifestazione "Giochi d'acqua contro le grandi navi e le grandi opere" organizzate dal Comitato NOGrandiNavi Laguna Bene Comune. Qui il programma e invito all'Assemblea.

Qui il testo dell'Appello per l'assemblea nazionale dei comitati contro le grandi opere e per la giustizia ambientale, che si terrà il 29 settembre 2018, ore 15.00 a Venezia. Per difendere i nostri territori da opere inutili e ambientalmente devastanti e da governi irresponsabili, ciechi e mascalzoni.



Invito Assemblea Nazionale

29 settembre 2018, h. 15.00
S.a.L.E. Docks (Magazzini del Sale), Dorsoduro 265, Venezia
Il balbettio sul TAV del nostro Ministro delle infrastrutture secondo cui l'opera andrebbe ora "migliorata" e non più cancellata, la visita in Azerbaijan di Mattarella e Moavero Milanesi per "blindare" il TAP, le recenti dichiarazioni dello stesso Toninelli sulla necessità di mantenere le grandi navi in laguna dimostrano che, in merito a grandi opere e giustizia ambientale, il governo del cambiamento è in realtà il governo della continuità.

Il fatto è ancora più grave se pensiamo a quanto il Movimento 5 Stelle abbia politicamente lucrato, in campagna elettorale, sulla contrarietà di tante e tanti nei confronti di un modello di sviluppo che calpesta i territori, rapace e generatore di malaffare. A proposito, anche sul MOSE (opera obsoleta che è già costata alle nostre tasche oltre 5 miliardi, "bruciandone" uno e mezzo in corruzione) la solfa del Ministro è la solita: "Noi l'opera non l'avremmo fatta, ma adesso che c'è non può essere messa in discussione".

E così la giostra continua a girare, del resto a Genova non è crollato "solo" un ponte, quel fatto ci interroga tragicamente sul crollo di una stagione di sviluppo territoriale neoliberista che trascina con sé anche quei pezzi di paese che sono stati costruiti prima degli anni '70, è il caso del "Ponte Morandi". Una stagione fatta di cementificazione e consorterie, secondo uno schema che si è affermato diventando sistema, al sud come al nord, ad ovest come ad est. Dobbiamo continuare ad insistere: prima di grandi investimenti infrastrutturali, un serio lavoro di messa in sicurezza dei territori è necessario. Ancora una volta, in questa battaglia non ci sono governi amici.

Se ci cimentassimo (come va di moda in questo periodo) in un'analisi costi/benefici dell'azione di governo svolta sinora, diremmo che i benefici sono andati tutti a Salvini, a noi rimangono i costi, non solo in termini di sfacelo ambientale, ma anche in termini di clima sociale che si respira nel paese.

Vorremmo cogliere l'occasione dell'assemblea veneziana per confrontarci anche su questo aspetto. I comitati e i movimenti per la giustizia ambientale sono oggi tra gli esempi migliori di resistenza contro la presa del discorso reazionario, contro il nazionalismo e l'incitamento alla guerra tra poveri, una guerra utilizzata come arma di distrazione di massa, mentre imperterrita continua la rapina dei nostri territori. Una rapina che, guarda caso, in Veneto è proprio a trazione leghista.

Al contrario, i territori dei comitati e dei movimenti per la giustizia ambientale non sono segnati dalla paura, non chiedono la guida dell'uomo forte, rigettano la tentazione identitaria. Le nostre identità le abbiamo costruite nel corso di anni di lotta, rinforzando il legame sociale contro il primato dei rancori individuali, pretendendo democrazia contro il binomio sicurezza/repressione, costruendo con i territori un rapporto di reciproca rigenerazione e non di unilaterale estrazione.

Attorno a questa forza vogliamo aprire un dialogo, senza l'ansia della costruzione di strutture formali, ma con la convinzione di dover rinforzare l'azione comune. Possediamo un patrimonio di forza che dobbiamo ancora esprimere pienamente, abbiamo la possibilità di farlo. Bisogna scegliere se assumersi collettivamente la responsabilità di fare un passo in più rispetto al già importante lavoro che quotidianamente portiamo avanti.

Sullo sfondo dell'attuale situazione politica, il valore dei comitati emerge con ancora maggiore chiarezza, un valore che va ben oltre i confini dei singoli territori. Al tempo stesso il prevedibile voltafaccia del governo dimostra che non si vince la battaglia contro le grandi opere se non dentro la lotta per una radicale e complessiva svolta democratica che investa il piano economico, politico, sociale e culturale.

Ripartiamo da qui! Incontriamoci a Venezia.

Hanno già comunicato la partecipazione:

Movimento NoTav
Movimento NoMuos
Movimento No Tap
No Tav terzo valico Alessandria
Stop Biocidio Napoli
Terre in Moto Marche
No Dal Molin Vicenza
Comunità Salviamo la Val D'Astico - NO A31
Comitato No Pedemontana
Opzione Zero
Ambiente Venezia
Eco-Magazine
COBAS Scuola del Veneto
Assemblea permanente contro il rischio chimico Marghera
Associazione Eddyburg
Movimento Salviamo le Apuane
Medicina Democratica Onlus
Città Plurale - Matera
Trivelle Zero Molise
No Hub del Gas Molise
Fondazione "Lorenzo Milani" Onlus Termoli
Comitato No Tunnel TAV di Firenze
PCI federazione di Venezia e Treviso
Comitato Diritto alla Città di Rovigo
Comitato popolare Lasciateci Respirare Monselice
Comitato Acqua Bene Comune Belluno
Associazione Medici di Famiglia per l'Ambiente di Frosinone e provincia
Associazione Ya Basta Edi Bese
Adl Cobas
Comitato No Terza Corsia A13 Padova – Monselice

Per adesioni scrivere a nobigship@gmail.com

Nena-news, 13 settembre 2018. Il gasdotto East Med, che correrà sotto il mediterraneo e che approderà in Italia, potrebbe avere un nuovo protagonista, Israele, che si giocherà questa carta per avere un ruolo ancor più centrale nella politica internazionale. (i.b.)

«In questi giorni si sta svolgendo a Salonicco l’83esimo International Trade Fair. Il 9 settembre si è svolto un incontro tra i Ministri ‎dell’Energia di Grecia, Israele, Bulgaria, Serbia e Stati Uniti per discutere della possibile ‎espansione nei Balcani del gasdotto sottomarino East Med»

La scoperta di enormi giacimenti di gas vicino le coste di Haifa ha trasformato Israele in uno dei principali produttori di gas di tutto il Mediterraneo, aumentando ulteriormente il suo peso politico nella regione. La strategia israeliana sembra essere quella di rendere l’Europa più ‎dipendente nel settore energetico e di creare nuove alleanze con i, possibili, futuri membri ‎balcanici.‎

In questi giorni si sta svolgendo a Salonicco l’83esimo International Trade Fair (8-16 Settembre), ‎considerato tra i più importanti eventi fieristici di tutto il Sud-Est Europa. Il tema principale di ‎quest’anno è quello dell’energia, con la partecipazione degli Stati Uniti in veste di “Paese ospite ‎d’onore”. Tra gli eventi in programma si è svolto, il 9 settembre, un incontro tra i Ministri ‎dell’Energia di Grecia, Israele, Bulgaria, Serbia e Stati Uniti per discutere della possibile ‎espansione nei Balcani del gasdotto sottomarino East Med. Sia il Ministro bulgaro Temenuzhka ‎Petkova che quello serbo Aleksandar Antić hanno sottolineato l’importanza del progetto che ‎garantirebbe loro un ruolo centrale nel mercato dell’energia nella regione balcanica. ‎

Nello specifico, Antić ha messo in risalto come la Serbia manchi di infrastrutture energetiche e come ‎l’attuale offerta di gas proveniente dal Mar Caspio non riesca a soddisfare pienamente la domanda ‎interna, accogliendo con grande entusiasmo il nuovo progetto East Med. La Bulgaria punta ad ‎allentare la sua dipendenza, pressoché totale, dal gas russo prodotto da Gazprom che fornisce circa il ‎‎90% del fabbisogno annuale del paese. Dal canto suo il Ministro israeliano Yuval Steinitz ha ‎garantito che lo sviluppo dei giacimenti di gas offshore israeliani renderanno Israele un ‎fornitore affidabile. L’incontro è avvenuto alla presenza del Sottosegretario all’Energia degli Stati ‎Uniti Mark Menezes a dimostrazione dell’importanza strategica del nuovo gasdotto per il ‎protagonismo statunitense nell’area.‎

Nel dicembre dello scorso anno Italia, Cipro, Grecia e Israele avevano firmato un Memorandum ‎d’intesa per la creazione di una joint venture, Ig Poseidon, tra Edison e la società greca Depa per la ‎costruzione dell’Eastern Mediterranean pipeline (EastMed), un gasdotto sottomarino che ‎trasporterà verso l’Italia il gas prodotto dalle enormi riserve recentemente scoperte a Cipro e in ‎Israele, nel cosiddetto “Leviathan field” a circa 130 chilometri dalla costa di Haifa. In occasione del ‎summit di dicembre, il Ministro Steinitz ha voluto tranquillizzare i partner mettendo in risalto come ‎la costruzione sottomarina del gasdotto riduca al minimo la possibilità di atti di sabotaggio. Il valore ‎complessivo dell’investimento è stimato in oltre 6 miliardi di euro e una volta concluso, nel 2025, ‎sarà in grado di trasportare fino a 16 miliardi di metri cubi di gas all’anno su una rete di circa 2 mila ‎km.‎

Dal punto di vista politico questo progetto persegue almeno tre obiettivi principali. Il primo è ‎quello di espandere il mercato energetico dell’Unione Europea riducendo così la sua dipendenza ‎dalla Russia. L’allargamento di East Med verso Serbia e Bulgaria, i due principali importatori di gas ‎russo nella regione, serve proprio a questo. Non a caso l’UE ha incluso il progetto nella lista dei ‎progetti di interesse comune in quanto incrementa la sicurezza e la diversificazione delle forniture.‎

Il secondo obiettivo è quello di accrescere il peso di Israele nel sempre più importante settore ‎dell’approvvigionamento energetico considerato tra i più profittevoli nel prossimo futuro. In questo ‎modo Israele si garantirebbe, contemporaneamente, un notevole vantaggio rispetto ai competitors ‎mediorientali e una sempre maggiore dipendenza energetica dei palestinesi. Infine, l’inclusione di ‎Serbia e Bulgaria servirà a evitare l’isolamento di Tel Aviv attraverso la creazione di nuovi ‎partenariati commerciali, in un momento delicato per i rapporti tra Israele e la comunità ‎internazionale.‎

Non è la prima volta che Israele stringe accordi nel settore energetico con i paesi dei Balcani. ‎Ne è dimostrazione l’avvio dei lavori per la costruzione di un impianto eolico a Kovačica, città a 60 ‎km a Nord di Belgrado. Il progetto, dal valore di 190 milioni, è stato finanziato dalla società ‎israeliana Enlight Renewable Energies, dall’agenzia di credito tedesca Erste Group Bank AG, ‎dall’Erste Bank Serbia e dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. La stessa società ‎israeliana ha inoltre acquisito, nel 2016, il 90% del progetto di costruzione dell’impianto eolico di ‎Lukovac, nelle vicinanze di Spalato, per un totale di circa 7,5 milioni di euro. Infine, nel marzo di ‎quest’anno, ha annunciato l’acquisto dei diritti per la costruzione di un impianto eolico in Kosovo. ‎

Nei prossimi anni Tel Aviv giocherà un ruolo centrale nella fornitura di energia per l’Europa e ‎questo potrebbe portare a ulteriori consistenti investimenti anche nella regione balcanica che in ‎futuro non troppo lontano, secondo le intenzioni dell’UE, dovrebbe essere integrata nel mercato ‎unico. I paesi dei Balcani sono alla continua ricerca di investimenti esteri per migliorare le proprie ‎performance economiche e sopperire alla mancanza di capitali. Israele, in questo campo, potrebbe ‎essere quindi un importante alleato.

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comune-info, 16 settembre 2018. Cinque governi hanno ignorato la volontà popolare di pubblicizzare l'acqua. Una delle stelle dei 5S è proprio l'acqua, ma passi concreti non ci sono. Occorre riprendere con forza la lotta per la difesa di questo bene comune. Con riferimenti (i.b.)

Questi sette anni dalla vittoria referendaria (2011) sono stati molto duri e deprimenti per chi si è impegnato per la gestione pubblica dell’acqua. Ben cinque governi si sono succeduti in questi sette anni (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni) senza tener conto del risultato referendario. Eppure il popolo italiano aveva deciso a larga maggioranza che l’acqua doveva uscire dal mercato e che non si poteva fare profitto sull’acqua. Una chiara riprova questa che la politica non obbedisce al volere popolare, ma è prigioniera dei poteri economico-finanziari. Inutili anche tutti i tentativi fatti per far discutere in Parlamento la Legge di iniziativa popolare sull’acqua che aveva ottenuto quasi un milione di firme. Questa Legge stravolta è rimasta intrappolata nella Commissione Ambiente presieduta da Realacci (PD) e mai discussa poi in Parlamento. Ma anche i Cinque Stelle, la cui prima Stella fu la gestione pubblica dell’acqua, non sono riusciti a regalarcela in città pentastellate come Roma, Torino e Livorno. L’unica grande città italiana che ha obbedito al Referendum è ancora Napoli.
Nonostante tutto questo il movimento italiano dell’acqua ha continuato a resistere in maniera carsica sui territori. Siamo grati ai comitati locali e ai coordinamenti per la gestione pubblica dell’acqua perché nonostante tutto sono stati capaci di continuare a resistere. Ma ora mi sembra di percepire un’inversione di tendenza. L’ho percepita quando sono stato invitato a Brescia a lanciare il Referendum Provinciale per bloccare la vendita ai privati dell’acqua che, a Brescia, è al 100% pubblica. Il comitato dell’acqua, guidato da uomini impegnati come Marco Apostoli, si è opposto a questo ed ha forzato la Provincia, con l’appoggio di 54 consigli comunali, a indire un Referendum che si terrà il 18 novembre.

L’idea è stata subito ripresa dal comitato acqua di Benevento che ha lanciato un Referendum Comunale per bloccare la vendita di quote acqua ai privati. Altri comitati stanno pensando di seguire questa strada. Un’altra spinta all’impegno ci è venuta dall’incontro a Napoli del 12 giugno (settimo anniversario del Referendum!) organizzato dall’Università Federico II, su spinta del prof. A. Lucarelli. Vi ha partecipato anche il Presidente della Camera, Roberto Fico, che nel suo intervento ha promesso di modificare la normativa e i modelli di regolazione del servizio idrico integrato per ristabilire il ruolo centrale dei comuni e l’uscita dal mercato dell’acqua. Il 30 luglio poi ha convocato alla Camera le realtà di base afferenti al Forum dei movimenti italiani per la gestione pubblica dell’acqua e ha poi promesso che avrebbe introdotto in Parlamento, a settembre, una legge che rispetti il Referendum del 2011. I partecipanti hanno ricordato a Fico che il movimento dell’acqua ha sempre sostenuto che si scrive acqua , ma si legge democrazia.

Per questo non possiamo accettare le politiche razziste del governo giallo-verde, perché il concetto stesso di acqua come bene comune sottintende una società basata sui valori della solidarietà e dell’accoglienza e quindi contro il razzismo e la xenofobia. Ma per essere credibile nelle sua volontà di ripubblicizzazione dell’acqua, il movimento 5 stelle dovrà sottrarre immediatamente i poteri di controllo sull’acqua ad Arera, autorità che ha come fine la gestione dell’acqua nel mercato, per restituirli al Ministero dell’Ambiente. Inoltre dovrà intervenire subito con una modifica delle norme introdotte dai governi a trazione PD nel Testo Unico Ambiente per restituire il governo del sistema idrico alle amministrazioni locali. Questi provvedimenti possono e devono essere fatti subito dal governo, con decreti legge, senza aspettare la conclusione dell’iter di approvazione della legge sull’acqua.

Su questi punti non possiamo che valutare come deludente finora l’azione del Ministro dell’Ambiente Costa che addirittura in una recente intervista televisiva si è chiamato fuori dalla vicenda affermando che “non è importante la gestione pubblica o privata, ma la qualità del servizio”. Per questo il Forum dei Movimenti per la gestione pubblica dell’acqua deve premere con più forza per ottenere un nostro diritto fondamentale: la gestione pubblica dell’acqua. Ma il Movimento nazionale ha bisogno anche di vittorie locali trasformando le gestioni SPA di Torino, Reggio Emilia, Trento, città dove l’acqua è al 100% pubblica, in gestioni Azienda Speciale, con cui non si può fare profitto, ma solo utili da investire sul bene acqua.

Mi appello soprattutto alle comunità cristiane, alle parrocchie perché rafforzino ancora di più questo impegno sull’acqua. Papa Francesco ha dedicato il suo messaggio per la Giornata del Creato 2018 all’acqua :” Ogni privatizzazione del bene naturale dell’acqua- sostiene Papa Francesco- che vada a scapito del diritto umano di potervi accedere, è inaccettabile.” Si tratta davvero di vita o di morte per miliardi di impoveriti che già oggi hanno difficile accesso all’acqua (‘ diritto umano essenziale, fondamentale e universale’ secondo Papa Francesco) e l’avranno sempre meno per i cambiamenti climatici in atto. Diamoci da fare tutti, credenti e laici, per una gestione pubblica dell’acqua, partendo da questo nostro paese. L’Italia diventi un esempio per tutti.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile

Riferimenti

Sulla prevaricazione del voto popolare espresso con il Referendum per l'acqua pubblica si vedano anche i seguenti articoli: "Acqua pubblica, un referendum da applicare", un intervista al portavoce del Forum italiano dei movimenti per l’acqua; "Acqua pubblica, il referendum è stato del tutto inutile" di Sergio Marotta; l'appello al Presidente Mattarella "Acqua pubblica. Lo scandalo costituzionale".



la Nuova Venezia, Antico Teatro di Anatomia-pagina fb, 7 e 11 settembre. La comunità della Vida non demorde e con fantasia e dedizione difende un bene pubblico di Venezia. Ma i poteri forti sanno di avere dalla loro parte "il fattore tempo". (m.p.r.)

la Nuova Venezia, 11 settembre 2018
LETTERA AL MINISTRO BONISOLI
«LA VIDA RESTI SPAZIO PUBBLICO»
di Roberta De Rossi

«I cittadini chiedono un incontro al rappresentante dei Beni culturali, giovedì in città. La proprietà: “Il Comune ci ha dato ragione, sarà ristorante”».

Una lettera per chiedere al ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli - che giovedì sarà a Venezia - un incontro, allargato a Regione e Comune, «per trovare una soluzione condivisa nell'interesse della città e dei suoi abitanti». L'ha inviata la Comunità della Vida, il gruppo di cittadini ed associazioni che da un anno chiede che lo spazio in campo San Giacomo venduto dalla Regione all'imprenditore Alberto Bastianello per un milione di euro, non diventi un ristorante, ma «resti pubblico, per un progetto soci-culturale al servizio dei residenti».La Comunità prende spunto proprio da un'intervista rilasciata dal ministro Bonisoli a la Nuova, nella quale sosteneva che «a Venezia non servono nuovi alberghi, ma politiche per la residenzialità e spazi per la produzione culturale».

Le associazioni non mollano, nonostante la denuncia penale per l'occupazione de La Vida ora sotto sequestro e il processo civile in corso (prossima udienza il 24 settembre)avviato dalla Regione - nei mesi in cui la Vida era stata trasformata dai cittadini in un centro civico - per la "possessoria" dell'immobile. Il Comitato ha organizzato anche un invio massiccio di cartoline all'indirizzo dell'amministrazione comunale per «fermare i cambi d'uso e la privatizzazione del patrimonio pubblico e valorizzare questi beni attraverso un regolamento di uso civico che consenta alle comunità di gestirli».Da parte sua, la proprietà ribadisce il progetto di voler riaprire il ristorante che la Vida fu un tempo e invita i cittadini di togliere il gazebo bianco che da mesi è stato allestito dopo lo sgombero, come "Vida mobile". «Siamo sereni e siamo stati confortati dagli uffici comunali, che ci hanno confermato la nostra interpretazione», spiega l'avvocato Bartolomeo Suppiej, «ovvero che in assenza di cambio di destinazione d'uso a struttura culturale previsto da piano regolatore - ma mai realizzato negli anni - vige tuttora la destinazione preesistente a utilizzo commerciale. Bastianello ha rogitato e pagato un bene del quale non riesce ad entrare in possesso. Il tempo sarà galantuomo e riconoscerà le nostre ragioni: invitiamo gli abitanti a togliere il gazebo».

Antico Teatro di Anatomia - pagina fb
7 settembre 2017

«Oggi abbiamo scritto al nuovo Ministro dei beni e delle attività culturali e al turismo Alberto Bonisoli, al Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, a Brugnaro Sindaco, agli Assessori, ai Consiglieri Regionali e Comunali la seguente lettera che chiede ancora una volta di trovare una soluzione condivisa alla vicenda dell'Antico Teatro di Anatomia. Speriamo che i nostri sforzi vengano finalmente presi in considerazione».

Alla cortese attenzione
del Ministro Alberto Bonisoli

Gentile Ministro,

abbiamo letto le sue parole riportate sul quotidiano la Nuova Venezia di Venerdì 1° settembre 2018 e condividiamo le sue affermazioni: a Venezia non servono nuovi alberghi ma politiche per la residenzialità e spazi per la produzione culturale. A tal proposito le scriviamo in quanto abitanti di Venezia che si stanno impegnando in tanti modi affinché "l'Antico Teatro di Anatomia” (La Vida) resti pubblico attraverso l’applicazione di un regolamento di uso civico per un progetto socio-culturale al servizio della popolazione residente.

L’antico teatro di anatomia (La Vida) si trova in una zona molto particolare che si affaccia su Campo San Giacomo, un’area ancora popolata e vissuta dagli abitanti che usano lo spazio pubblico come luogo d’incontro e ludico per i propri figli, nonostante la continua apertura di nuovi ristoranti ed alberghi e la riduzione dei servizi per la comunità.

Le associazioni culturali About, Omnia e Il Caicio avevano avanzato anni fa un progetto che valorizzava l'immobile alla luce della sua eccezionale storia, ma la Regione Veneto non ha preso in considerazione la proposta preferendo vendere il bene per 911 mila euro a un imprenditore che vorrebbe realizzare un ennesimo ristorante.

A cessione avvenuta molti abitanti della zona e non solo, decisero di dare un segnale forte alla città per salvaguardare il patrimonio pubblico e opporsi alla trasformazione di Venezia in un immenso museo a cielo aperto con annessi alberghi, ristoranti e trattorie più o meno tipiche. Cosi Il 28 Settembre 2017 la Vida veniva riaperta da abitanti, famiglie, anziani, studenti, lavoratori fuori sede e molti altri. Un’azione che in quel momento è sembrata opportuna per dare una scossa e richiamare le istituzioni alle loro responsabilità, i beni pubblici infatti una volta venduti li perdiamo per sempre.

I primi due mesi dell'esperienza sono stati incentrati sul chiedere a tutte le istituzioni pubbliche (Ministero, Regione Veneto e Comune di Venezia) di far valere il diritto di prelazione valido per 60 giorni dall'avvenuta vendita. Al silenzio dal suo predecessore, il Ministro Franceschini e del Comune, sono seguite le accuse di occupazione e l’avvio dei procedimenti legali per sei persone da parte della Regione Veneto.

A questo punto, la comunità della Vida si è quindi sostituita alle Istituzioni pubbliche alfine di garantire la legalità, ovvero il rispetto della destinazione d'uso dell'immobile classificato nel Piano regolatore Comunale come SU (struttura unitaria pre-ottocentesca con destinazioni d'uso compatibili unicamente come: "musei, sedi espositive, biblioteche; archivi; attrezzature associative; teatri; sale di ritrovo; attrezzature religiose") e fornire servizi pubblici gratuiti e completamente autogestiti agli abitanti (ludoteca, archivio del quartiere, mostre, incontri, spettacoli, momenti di socialità e confronto).

Nonostante questo, il 6 marzo 2018, il quartiere viene svegliato da un impressionante dispiegamento di forze dell'ordine, riunite a circondare l'intera zona per sgomberare i locali.

Ad oggi, l'immobile rimane sotto sequestro perché l'acquirente ha avuto risposte vaghe da parte del comune sulla possibilità di cambiare la destinazione d’uso dell’immobile per svolgere la propria attività commerciale e gli abitanti di San Giacomo da l’Orio non si rassegnano. Le attività continuano all'esterno sotto a un gazebo che funge da presidio ed il nostro messaggio è chiaro: “non è possibile che nell'immobile venga fatto un ristorante, non lo permettono le regole e noi saremo garanti di questo”.

Che fare signor Ministro per uscire da questa impasse?

Noi la invitiamo ad incontrarci e ad incontrare la Regione Veneto e il Comune per trovare una soluzione condivisa a questa vicenda nell'interesse della città e dei suoi abitanti. Venezia infatti è conosciuta in tutto il mondo ma la sua vita vera, quella fatta dalle persone che la abitano, è trascurata dalle stesse istituzioni che la dovrebbero difendere e promuovere. La nostra comunità si è stretta intorno a questo luogo, un simbolo della difesa di Venezia contro lo strapotere di chi crede che tutto si possa vendere e comprare, persino una città e i suoi monumenti... La preghiamo di essere con noi in questa battaglia per affermare il diritto costituzionale alla vita di una comunità.

Per questo e proprio in questi giorni, abbiamo indirizzato all'amministrazione comunale un accorato appello per fermare i cambi d'uso e la privatizzazione del patrimonio pubblico ed allo stesso tempo per valorizzare i beni pubblici attraverso un regolamento di uso civico che consenta alle comunità di gestirli.

La gestione amministrativa dei beni pubblici ad opera della Comunità è difatti possibile, come dimostrano le numerose esperienze italiane presentate al convegno nazionale "L'altro uso" svoltosi all'Università Iuav di Venezia il 14 e 15 aprile 2018, sulla base del principio di sussidiarietà definito al quarto comma dell’art. 118 della Costituzione italiana.

Grazie Ministro dell'attenzione e speriamo che voglia ascoltarci.

La Comunità della Vida

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2018. L'ex ministro che incarna perfettamente il "sistema Veneto": grandi opere e profitti privati pagati da noi tutti. (m.p.r.)

Sul blog di Paolo Costa campeggia una bella citazione di Jorge Luis Borges: “A quel tempo, cercavo i tramonti, i sobborghi e l’infelicità; ora, i mattini, il centro e la serenità”. La serenità di Costa non è letteraria ma ha solide radici nel cemento, nel ferro e in tutto quello che sa di costruzione e Grandi opere.

Se negli ultimi giorni è finito sotto i riflettori per la sua presidenza della Spea Engineering, società del gruppo Atlantia, cioè Autostrade per l’Italia, incaricata della progettazione, monitoraggio e manutenzione delle infrastrutture stradali, è in virtù non solo di un curriculum ma di una strutturale dedizione alle Grandi opere.

Nel 1996 diventa ministro dei Lavori pubblici nel primo governo Prodi dopo le dimissioni di Antonio Di Pietro raggiunto dall’avviso di garanzia della Procura di Brescia. Da lì inizia una carriera politica che fa impallidire quella accademica. Costa, classe 1943, era Rettore dell’Università di Venezia, Ca’ Foscari, poi vicepresidente dell’Università delle Nazioni Unite a Tokyo. Ma con Romano Prodi, ai Lavori pubblici, diventa il “padre” della privatizzazione di Autostrade, quella della proroga ventennale della concessione (contestata dalla Corte dei Conti ma poi avallata dalla Commissione europea) e degli aumenti tariffari automatici.

Solo che il governo Prodi cade, Costa lascia e nel giro di un anno segue l’ex premier nell’avventura politica dell’Asinello, la lista che il fondatore dell’Ulivo promuove per fare concorrenza alla sinistra. Viene eletto e rimarrà nel Parlamento europeo per dieci anni, fino al 2009 dove va a presiedere la commissione Trasporti partecipando alle decisioni fondamentali sulle grandi reti di trasporto europeo a partire dal Corridoio 5, quello che fa rima con Tav: “Una grande occasione offerta al nostro Paese”.

Nel frattempo, siamo nel 2000, la sua carriera compie ancora un salto, con l’elezione a sindaco di Venezia. Batte un concorrente di peso del centrodestra, Renato Brunetta, e inaugura una gestione di centrosinistra che ha tra le prime misure la vendita delle azioni nell’autostrada Brescia-Padova. Come è accaduto con la Società Autostrade, l’obiettivo è quello di fare cassa.

Da sindaco e da presidente della commissione Trasporti europea sponsorizza anche il Ponte sullo Stretto, inserito nella lista delle 30 opere prioritarie della rete transeuropea (Ten). Ma per uno che ha già quel curriculum alle spalle, l’operazione più succulenta si chiama Mose. La sua richiesta di una soluzione “per l’acqua alta” a Venezia viene accolta dal governo Berlusconi con le improbabili bocche meccaniche dal dubbio funzionamento. In compenso funzionano le mazzette e la vicenda si conclude con condanne in primo grado (tra cui il ministro di Berlusconi, Altero Matteoli) e qualche prescrizione (a salvarsi sarà un successore di Costa, Giorgio Orsoni che viene prosciolto nonostante avesse chiesto il patteggiamento).

Avendo avviato il Mose, Costa viene ovviamente premiato. Guarda caso dall’ex ministro del governo Berlusconi, Altero Matteoli, che lo insedia a presidente dell’Autorità portuale di Venezia. A esultare per la scelta sarà il suo ex avversario alla guida della città, nonché berlusconiano di ferro, Renato Brunetta: “Era la scelta migliore possibile”.

Da presidente del porto si contraddistingue per proposte incisive a proposito delle grandi navi che solcano le acque antistanti piazza San Marco: “’La mia proposta è quella di realizzare una sorta di senso unico”. E quando Celentano, che si batte contro lo scempio dei transatlantici in Laguna protesta, lui risponde serafico: “Come penso che qualcuno troverebbe da ridire se fossi io a commentare le tonalità delle canzoni di Celentano, così mi permetto di suggerirgli di non commentare temi che forse non conosce a fondo”.

Su costruzioni e Grandi opere, in realtà, destra e sinistra cantano insieme e quando da sindaco di Venezia deve promuovere il Mose e a capo del governo c’è Silvio Berlusconi, invoca “lo spirito di leale collaborazione tra poteri”. Ricambiato dagli avversari.

Lo scorso anno, l’attuale sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, berlusconiano indipendente, lo coopta nel Consiglio generale della Fondazione Venezia, la struttura di potere di derivazione bancaria che ha azioni di Intesa San Paolo, della Cassa Depositi e Prestiti e di Veneto Banca. Come direbbe Borges, “i mattini, il centro e la serenità”.

A Sud, 8 settembre 2018. Un articolo da non perdere, che riassume la non volontà di affrontare il problema di questa città e la miopia dei nostri governi nel concepire il concetto di sviluppo, progresso e civiltà. (i.b.)



Prologo

È difficile scrivere qualcosa su quello che sta accadendo a Taranto in questi giorni per una ragione molto semplice: non c’è niente di nuovo. Che il popolo tarantino fosse stato sacrificato sull’altare del progresso e del profitto era un dato che avevamo acquisito già da tempo. Che ogni reale tentativo di mettere un freno a questa situazione dovesse cadere nel vuoto, lo avevamo visto nel 2012 con il decreto Salva Ilva, che mandò a farsi benedire il lavoro di indagine della gip Todisco e di fatto violò 17 articoli della Costituzione, imponendo la riapertura e la ripresa della produzione di un impianto sequestrato.

Che i tarantini debbano continuare a morire è una cosa che si dice dall’inizio degli anni ’70, quando appunto divenne palese che erano condannati a farlo. Quando cominciarono le denunce, le accuse di allarmismo e tutto quel teatrino che accompagna la difesa strenua dei territori da parte di chi li vive, e la rivendicazione del diritto a spolparli da parte di chi se ne appropria.

Chi scrive non è mai stato di parte rispetto a questo o quello schieramento politico, ha sempre voluto fare dei conflitti ambientali la lente per guardare a questo paese e alle sue contraddizioni, annoverando tra i buoni quelli che pensavano che chi abita un territorio debba decidere cosa ci accade, e che nulla debba ledere questo suo diritto e quello alla salute, e tra i cattivi quelli che invece si imponevano per sopraffare questi ultimi, per arricchirsi o arricchire qualcuno, sulla pelle di qualcun altro.

Non c’è nulla di complicato in questo, come non c’è nulla di complicato in quello che è accaduto a Taranto, dove si è consumata una scelta in questo senso da parte del governo, e dove si è consumato il tradimento da parte di chi aveva promesso di combattere il mostro e ha deciso poi di lasciarlo vincere, come sempre.

Una suggestione

Scrivere semplicemente di quello che sta accadendo in questi giorni a Taranto sarebbe un’operazione che lascia il tempo che trova; chi vuole sapere sa già, chi non sa, non ci capirebbe molto, senza andare a ritroso nel tempo.

Su youtube sono disponibili molti video della costruzione dello stabilimento accanto al quartiere Tamburi, e sono tutti ugualmente impressionanti. Ci sono enormi macchine che sradicano ulivi millenari e riducono in poco più che calcinacci masserie secolari, per lasciare spazio a “un’immensa prateria senza ombre né segreti, senza più canto di vento”, dove sarebbe dovuto sorgere l’altare del progresso, la più grande acciaieria d’Europa, il tempio della crescita. Sono tutti uguali, una voce cadenzata racconta di una civiltà millenaria rassegnata, lenta e sonnolenta che dal nulla si è risvegliata e come fuoco guizza ansiosa per raggiungere un domani metallico e artificiale. Il progresso è esaltato come un idolo, una divinità vera e propria, di fronte alla quale non battere ciglio nel sacrificare il proprio figlio primogenito, la propria terra.

Nel sangue dell'eroe

Ma se di divinità si trattava, doveva essere una di quelle divinità pagane beffarde, incuranti delle sorti dell’uomo e forse addirittura malvagie nei suoi confronti, vendicative per chissà quale affronto. Sempre su youtube e sempre per gli appassionati del genere si può trovare un documentario del 1962 di Emilio Marsili: “Il pianeta d’acciaio”, dedicato alla nascita delle acciaierie che hanno fatto grande questo Paese, imponendo il proprio contributo al boom economico e lasciando dietro di sé una scia di morti e feriti. La solita voce narrante che racconta le immagini che si susseguono compie esattamente questa operazione: dà corpo e anima all’acciaio e lo presenta come “una creatura tremenda, veramente un mostro e per poterlo domare e trasformarlo in cose l’uomo deve farlo impazzire col fuoco”.

L’unico modo per domare il mostro è il fuoco, ma quello che il documentario di Marsili non ci dice è che il mostro si vendica, e si annida nel sangue dell’eroe che lo doma, e lo avvelena giorno dopo giorno, generazione dopo generazione.

L’acciaio i tarantini ce l’hanno nel sangue, nei polmoni, nel dna. I bambini del quartiere Tamburi hanno quoziente intellettivo inferiore alla media dei loro coetanei, apprendono meno e più lentamente. I problemi respiratori e cardiovascolari e tumorali dei loro genitori, quando non glieli portano via, accrescono il numero di ricoveri e ospedalizzazioni della città in una maniera che è così plateale che nessuno lo nega più. I cittadini di Taranto cadono come soldati in una guerra che nessuno gli ha detto che avrebbero combattuto, in una guerra in cui si sono trovati a loro insaputa, cosa che deve essere decisamente peggiore di quella di sorprendersi a possedere una casa con vista sul Colosseo.

La scelta di Achille

Eppure c’è chi dice che non è così, che i tarantini sono soldati consapevoli e che hanno scelto volontariamente di scendere in battaglia. C’è chi dice che questo è il migliore degli accordi possibile perché rispetta la volontà della città di mantenere lo stabilimento. Uscendo dalla metafora, mandando a casa i mostri e in licenza i soldati, la convinzione diffusa è che questa sia la migliore delle soluzioni possibili, che così la città sarà salva, che è questo quello che volevano gli operai che di Ilva vivono e di Ilva muoiono, che di questo ha bisogno Taranto: che l’Ilva resti in piedi, che sia designato un nuovo custode al tempio.

Del resto, come potrebbe essere altrimenti? Con l’Ilva si mangia, si beve, si va in vacanza al mare e in montagna. Con l’Ilva si compra la tv, si pagano le rette universitarie di quei figli lontani, andati a studiare altrove. Si compra il guinzaglio al cane, si ricarica il cellulare e si paga la bolletta della luce. Si comprano i detersivi, si paga il canone RAI, si prenotano i viaggi per andare negli ospedali al Nord, per curarsi. Con l’Ilva si fanno un sacco di cose, e poco male se tra le tante si muore pure. Tutti dobbiamo morire, ma prima di morire dobbiamo mangiare, bere, andare in vacanza, pagare le rette eccetera.

Perché questa poi sarebbe la scelta, una contemporanea trasposizione sfigata della scelta di Achille: un duplice fato conduce i tarantini alla morte, da un lato una fine prematura e dolorosa, ma una vita vissuta quanto basta a renderla vivibile, dall’altro lasciare il campo, deporre le armi e rinunciare, condannandosi a una salute lunga e vuota, condotta nella terra dei padri, a invocare la morte perché perduto sarebbe il senso della vita.

Pazzo e criminale è chi ritiene che questa sia una scelta libera.

C'è qualcosa che non torna

E però c’è qualcosa che non torna in tutta questa vicenda, e non torna in maniera così plateale che è uno scandalo che chi lo urla non venga ascoltato. Può davvero essere tutto? Può davvero doversi chiudere così la vicenda? Questa è una storia che inizia da lontano e che in teoria è tutta da scrivere, ma ogni volta che qualcuno prende la penna in mano continua a restare invischiato nella stessa vicenda, come se non ci fosse altro modo, come se non avesse strumenti e mezzi per rompere quella narrazione e cominciarne un’altra, inventare un altro mondo. Nessuno resta mai davvero imprigionato in una storia, anche in questo caso si tratta di una scelta: è possibile una Taranto senza Ilva? Forse la risposta è che non è possibile questa Taranto senza Ilva, ma chi lo ha detto che Taranto debba essere questa?

Prima che arrivasse l’acciaio, quando ai Tamburi c’erano le rose e la gente ci andava a respirare l’aria buona per curare i problemi respiratori, quando di sera si vedevano le lucciole, quella non era Taranto? Quando nel mar Piccolo si coltivavano le ostriche, in che città si stava? E l’obiezione è che non c’era lo sviluppo? Non c’era il progresso? In quella città si produce con tecniche così vecchie e lo stabilimento è così in perdita che è un miracolo se arriverà a diec’anni di sopravvivenza da oggi. Se alle cifre che l’Ilva perde ogni giorno (un milione di euro, ogni giorno) sommassimo quelle che di Sanità si spende per curare o seppellire i tarantini, e se a queste aggiungessimo quelle delle cinquecento vite spezzate da quando lo stabilimento è aperto (sì, sono 500 i morti sul lavoro solo in acciaieria da quando esiste), e facessimo una stima di quanto potrebbero portare alla città i contributi di tutti i giovani che, appena possono, fuggono il più lontano possibile, e al calcolo imponessimo anche queste cifre, quanto colossale sarebbe l’investimento che si potrebbe fare per disegnare da capo Taranto?

E allora, in tutta questa vicenda, l'unica scelta libera è quella operata dal governo in questi giorni

L’unica verità che possiamo dire è questa: la soluzione attesa da chi aveva promesso e si era ripromesso di mettere fine al massacro che da decenni silenziosamente si è abbattuto sulla città, al solito meccanismo che arricchisce pochi, ammazza molti e mette sotto ricatto tutti, è stata semplicemente riconfermare quello che negli ultimi sei anni ogni governo, di ogni forma e colore, ha perpetuato. Ogni cosa: il ricatto occupazionale, nessun vincolo reale sulle bonifiche, nessun progetto di riqualificazione, addirittura la vergognosa clausola di immunità penale garantita dal governo Renzi a chiunque avesse ripreso lo stabilimento.

Nessuno chiedeva al governo di mettere per strada oltre 10000 famiglie: quello che si chiedeva era una soluzione politica che spezzasse il ricatto tra lavoro e salute. Si chiedeva una visione ampia, che rispondesse alle esigenze di una città senza condannarla a morte. Si chiedeva una visione altra, che puntasse alla crescita della città sviluppandola secondo le proprie capacità, mettendo fine a quarant’anni di imposizione di una vocazione industriale che Taranto non ha avuto mai. Si chiedeva di non sacrificare ancora una volta i tarantini sull’altare degli interessi politici ed economici di chi se ne sta da un’altra parte a ingrassare sul disastro. Si chiedeva di abbattere il mostro, e non divenire suoi sodali.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

la Repubblica, 9 settembre 2018. Le ultime vicende dell'Ilva, in continuità con il passato, dove il ricatto tra salute e lavoro non viene risolto e i diritti della popolazione di Taranto sono messi sempre per ultimi (i.b.)

Taranto. Da una parte la paura di ammalarsi, dall’altra quella di perdere migliaia di posti di lavoro. Taranto è città dilaniata in questo scorcio d’estate in cui la sua più grande fabbrica si appresta a passare nelle mani del colosso Arcelor Mittal. Le reazioni dei cittadini alla notizia dell’accordo tra il Ministero dello Sviluppo e Am per l’acquisizione Ilva e l’assunzione di 10.700 persone con circa 3.000 esuberi sono contrastanti: rabbia e soddisfazione, timore e sollievo, voglia di fuggire e difficoltà nel restare. L’amarezza dei delusi, che speravano nella chiusura delle fonti inquinanti sbandierata dai Cinque Stelle in campagna elettorale, è tutta convogliata sul Movimento. La deputata Rosalba De Giorgi è stata contestata in piazza, l’europarlamentare Rosa D’Amato su Facebook, i consiglieri comunali Massimo Battista e Francesco Nevoli sono subissati di telefonate e meditano di lasciare la casa grillina. La confusione è grande e la rassegnazione di più.

Alla protesta organizzata a caldo subito dopo l’accordo del 6 settembre, in piazza Della Vittoria si sono presentate almeno 700 persone, il giorno successivo erano meno di 200. Le mamme dei Tamburi urlavano di voler restituire le schede elettorali ma ai tavolini dei bar e a passeggio nella via dello shopping c’era un’altra Taranto. «La città è stanca – spiega il consigliere comunale di Taranto Respira Vincenzo Fornero – non crede più a queste forme di protesta». «Abbiamo perso la forza di manifestare» conferma Aldo Schiedi, operaio 43enne dell’Ilva, tre anni fa vittima di un incidente sul lavoro che stava per fargli perdere la vista. «Ho inalato soda caustica da un tubo che perdeva – racconta – la fabbrica era già in gestione commissariale. All’inizio cercarono di minimizzare, quando presentai le foto della tubatura rotta non poterono più negare». A seguire altre denunce. Alcune molto gravi, come quelle sull’uso dell’acqua di mare per alimentare gli impianti antincendio di alcuni reparti. Segnalazioni in mano alla Procura di Taranto, dal 2012 impelagata nel processo Ambiente svenduto, di cui i Riva sono i principali imputati mentre Regione Puglia, Provincia e Comune di Taranto vivono il paradosso di essere contemporaneamente imputati e parti civili.

La vicenda della più grande acciaieria d’Europa, del resto, è tutta un paradosso. Come questa città, scelta dai discendenti di Eracle per diventare colonia greca, che nei secoli relegò il suo passato in un angolo e negli anni Sessanta scelse quel destino industriale che oggi la sta consumando. A percorrerla in un giorno di fine estate, la sua bellezza nascosta dietro colate di cemento abbaglia. Ma l’aria che si respira ammorba. L’odore acre dei fumi, non solo dell’Ilva, intossica i polmoni a chilometri dalla zona industriale. Chi vive nel quartiere Tamburi, a ridosso delle fabbriche, è abituato a inalare diossina. E ad ammalarsi.

«Ci sono persone che vanno a fare visite mediche e scoprono di avere due tumori contemporaneamente - dice Alessandro Marescotti di Peacelink - Ogni anno si registrano almeno 1.000 ammalati». L’ultima è una bimba nata con il cancro a entrambi i reni. L’ennesimo nome nel registro dei tumori. Come quello di Cosimo Briganti, 50 anni di cui 26 nel siderurgico, che di quei 100.000 euro lordi offerti da Arcelor per l’esodo volontario non sa che farsene. Fatti quattro conti, 77.000 euro netti equivalgono a tre anni di lavoro e poi disoccupazione certa. «Per chi ha moglie, due figli e un mutuo da pagare, è un lusso da non prendere in considerazione» dice. Eppure di quell’accordo con i nuovi padroni, i sindacati vanno fieri: «Mette in sicurezza tutti i lavoratori e accoglie quanto da noi richiesto in tutti questi mesi».

I particolari saranno illustrati da domani nelle assemblee in fabbrica e, a seguire, si svolgerà un referendum, di fatto inutile. Che vinca il sì o il no, infatti, Arcelor Mittal andrà avanti. Di chiusura dell’impianto ormai non se ne parla. Di chiusura delle fonti inquinanti nemmeno nonostante il governatore pugliese Michele Emiliano si ostini a chiedere la decarbonizzazione. Le sue parole, a Taranto, si perdono nel vento. E un po’ anche quelle del sindaco Rinaldo Melucci, che pure assicura di voler «vigilare» sull’operato dei nuovi proprietari dell’Ilva. Se e quando si presenteranno alla città è un mistero. Certo, fare peggio dei Riva sarà difficile ma un tentativo di dialogo va fatto, tanto che pure Confindustria con il suo presidente Vincenzo Cesareo si augura «che venga inaugurata una stagione di maggiore trasparenza e comunicazione». E che il siderurgico smetta di essere un mondo a parte, nel quale tutto è accaduto in silenzio. Anche nei sei anni di commissariamento. «Quelli in cui sono morti 8 colleghi per incidenti sul lavoro», ricorda Mirko Maiorino, altro operaio che bolla il referendum come «una farsa». Come lui anche gli ambientalisti e i cittadini, che chiedono la chiusura delle fonti inquinanti. Le sigle sono tante, forse troppe, gli attivisti ormai pochi. Le manifestazioni del 2013, quando la marea umana invase le strade, per ora sembrano un ricordo.

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