Rassegna sindacale, ottobre 2013
Mi siedo sulle rive del Piave - il corso d’acqua più artificializzato del mondo, un deserto di ghiaia - e apro la mia copia, piena di sottolineature, di Sulla pelle viva, il libro di Tina Merlin di denuncia sul Vajont. Leggo il suo ineguagliabile epitaffio sulla tragica serata del 9 ottobre 1963:
«Sono le 22,39. Un lampo accecante, un pauroso boato. Il Toc frana nel lago sollevando una paurosa ondata d’acqua. Questa si alza terribile centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull’abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte della diga un’altra ondata impazzisce violenta da un lato all’altro della valle, risucchiando dentro il lago i villaggi di San Martino e Spesse. La storia del “grande Vajont” durata vent’anni, si conclude di tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime».
Il mio pensiero corre a Tina, questa straordinaria giornalista dell’Unità che ho avuto il privilegio di conoscere. Al suo coraggio di affrontare da sola il colosso SADE, subendo processi per aver raccontato della diga.., per aver lanciato l’allarme due anni e mezzo prima della tragedia. Per aver denunciato l’arroganza di troppi poteri forti. L’assenza di controlli. La ricerca del profitto a tutti i costi. La complicità di tanti organi dello Stato. I silenzi stampa. L’umiliazione dei semplici, la sua gente, alla quale lei cerca in ogni modo di dare voce.
Per decenni il Vajont è rimasto un ricordo vago nella memoria nazionale. Se negli ultimi anni siamo tornati a parlarne lo si deve alla ristampa del suo libro e, soprattutto, all’orazione civile di Marco Paolini perché, come egli scrive,«le storie non esistono finché non c’è qualcuno che le racconta».
Ma se l’Italia dimentica – scrive Paolo Rumiz – «l’Enel ha la memoria lunga. L’acqua del Vajont c’è ancora nel bilancio idrico nazionale. Come se non fosse accaduto niente. S’inaugurano monumenti alle vittime dell’onda assassina, ma quei centocinquanta milioni di metri cubi servono ancora. Sono il lago di carta che giustifica la devastazione del Piave, disidratato dalle sorgenti alla foce.(…) Come dire che la tragedia ha accelerato, anziché frenarlo il dissesto idrogeologico».
Si è dato via libera al saccheggio. Risultato: se dovesse tornare l’alluvione degli anni sessanta, i danni sarebbero «dieci volte maggiori». Parola di Luigi D’Alpaos, ordinario d’idraulica all’università di Padova. Troppi detriti, troppi ostacoli sulla strada del fiume sacro della Patria.
A cinquant’anni di distanza è cambiato qualcosa? Finalmente salgono a Longarone il Presidente della Repubblica, Ministri e “governatori” per il “mea culpa” dello Stato, per chiedere scusa ai cittadini. Le parole pronunciate dal Ministro Orlando sono sagge: «Le resistenze delle popolazioni locali e dei comitati non si possono liquidare come localismi dei no, ci sono esperienze di chi vive nei luoghi che meritano altrettanto rispetto delle perizie tecniche».
Ancor più decise e autocritiche suonano le parole del “governatore” del Veneto, Zaia: «In questo Paese abbiamo bisogno di costruire meno strade e di realizzare più opere di prevenzione idrogeologica». Che il nostro Presidente sia rimasto folgorato sulla via di Damasco di fronte al ricordo della strage del Vajont? Non è la prima volta che egli pronuncia condivisibili parole che facevano presagire a una svolta ambientalista. L’aveva già fatto nel 2010 di fronte all’alluvione che ha colpito mezzo Veneto e l’ha ripetuto anche nella torrida estate del 2012: «Basta cemento. Serve una moratoria in piena regola!. Peccato però che nel frattempo la sua Giunta abbia dato il via libera a tutti i progetti voluti dagli immobiliaristi e dalla finanza.
Un diluvio di autostrade, bretelle, tangenziali, tunnel, camionabili; una costellazione di new Cities e il lasciapassare alle nuove lottizzazioni dei comuni in cerca di oneri di urbanizzazione. In un Veneto che già negli ultimi vent’anni ha visto diminuire la superfice agricola del 21,5%, un’estensione superiore a quella di tutta la provincia di Vicenza: con un ritmo di 38 ettari al giorno, corrispondenti a più di 53 campi di calcio! Mentre la Metropolitana di superfice è al palo da vent’anni e si taglia il trasporto pubblico locale, la Giunta del Veneto sembra affetta da bulimia autostradale.
Cambiano le Giunte, si avvicendano in carcere e agli arresti domiciliari i vertici dei consorzi, delle imprese e delle società che monopolizzano le “grandi opere”, la Guardia di Finanza documenta l’infiltrazione mafiosa nel mercato immobiliare del Veneto, il dissesto idrogeologico provoca danni in continuazione, la qualità dell’aria è la peggiore d’Europa ma la musica che suonano sul Canal Grande non cambia: cementificare e asfaltare. Lasciare mano libera ai progetti che le varie lobby finanziarie e del mattone hanno in programma e che “concerteranno” con i soliti assessori. Sui tavoli degli uffici regionali sono già pronte decine di “progetti strategici”: mentre si lasciano deperire i 2000 ettari già infrastrutturati di Porto Marghera si spreca altro suolo veneto con svariati milioni di metri cubi di volumetrie e centinaia di chilometri di nastri d’asfalto. Progetti che vanno approvati con le norme “semplificate” della Legge Obiettivo, degli Accordi di Programma, dei famigerati Project Financing “sporchi”. Si dice che costeranno poco. In realtà pagheranno molto i cittadini: nell’immediato con l’aumento dei pedaggi (il Passante di Mestre è l’autostrada più cara d’Italia) e per il futuro si costruisce un debito occulto che graverà sulle spalle delle prossime generazioni. Per i privati proponenti rischi zero. Per i cittadini oneri sicuri.