«Mentre si moltiplicano le adesioni alla manifestazione del prossimo 7 maggio per l'articolo 9, Italia Nostra prende una posizione forte e chiara sulla 'riforma' Franceschini dei Beni culturali». La Repubblica online.,blog"Articolo 9", 11 aprile 2016
Completata la disarticolazione delle istituzioni di tutela. Un esito che investe la responsabilità del parlamento
Il più recente decreto del ministro di attività e beni culturali e turismo (n. 44 del 23 gennaio) completa il disegno di dissoluzione del compatto sistema della tutela di patrimonio e paesaggio voluto dall'art.9 della costituzione. Portando al parossismo l'assurda scomposizione di tutela e valorizzazione (endiadi inscindibile, essendo la valorizzazione funzione essenziale della tutela), la riforma dell'estate 2014 già ha rotto il nesso organico tra soprintendenze e musei, dimenticando che le soprintendenze sono nate come soprintendenze alle gallerie e che proprio le pubbliche raccolte sono state le attive fucine della tutela del contestuale patrimonio diffuso del nuovo stato unitario. Dichiaratamente per esaltare le attrattive turistiche, è stata operata una arbitraria selezione di qualità dei musei espulsi dalle soprintendenze (secondo due ordini di importanza, di prima e seconda categoria!) riconosciuti degni di autonoma gestione, con reclutamento dei direttori attraverso un concorso internazionale che ha privilegiato le esibite doti manageriali, non certo le specifiche competenze di studio delle singole raccolte maturate negli anni all'interno degli stessi istituti.
Tutti gli altri musei, ritenuti “minori” secondo una assurda gerarchia, sono stati alla rinfusa assemblati in una sovrastruttura burocratica, modellata non certo per riconosciute aree culturali, ma secondo il ritaglio del territorio regionale, il polo museale, mentre tutti, supermusei e no, fanno capo a una apposita direzione generale, concettualmente e funzionalmente ingiustificabile. Mentre il più recente decreto del ministro (art. 7, comma 2) vara la libera circolazione dei beni da un museo all'altro del “polo” o tra i distinti istituti del supermuseo, così definitivamente smarrite le specifiche identità.
All'artificioso accorpamento dei musei “minori” nei poli museali fa riscontro l'assemblaggio di tutte le soprintendenze di merito, con lo sconvolgimento di consolidati assetti funzionali e di servizi. Da ultimo, accorpate anche le soprintendenze all'archeologia fino ad oggi funzionalmente e unitariamente organizzate per vaste aree culturali come efficienti sedi di studio, ora invece frantumate nei più numerosi istituti di approdo. Quando invece il raccordo tra i distinti ambiti di tutela nei non frequenti casi di convergenti competenze di merito è stato ed è agevolmente altrimenti assicurato, essendo un palese pretesto l'addotta esigenza di più pronta determinazione nei confronti dell'attesa dei privati interessati. E anche alle accorpate soprintendenze l'ultimo decreto ministeriale (art. 4, comma 4) estende il criterio di reclutamento dei direttori, aperto al personale amministrativo anche di provenienza esterna alla amministrazione dello stato, con la mortificazione delle competenze di merito maturate nell'esercizio operoso della tutela.
Di fronte allo sconvolgimento del consolidato sistema di diffusa presenza territoriale nel nesso solidale tra istituti museali e cura dei contesti di necessario riferimento, che costituisce la originale caratterizzazione della istituzione della tutela nel nostro paese (indicata come esemplare anche nel panorama europeo), sembra ad Italia Nostra che ne sia investita la responsabilità del Parlamento. Perché necessariamente verifichi se l'esito dei distinti e disorganici provvedimenti legislativi che pur hanno legittimato la recente riforma nella organizzazione del ministero della tutela di paesaggio e patrimonio storico e artistico abbia corrisposto alla esigenza di piena attuazione del precetto costituzionale o non abbia invece gravemente indebolito l'esercizio di una funzione della Repubblica cui è riconosciuto il ruolo di assoluta primarietà rispetto ad ogni altro interesse sia pure di rilevanza pubblica. E sappia quindi adottare le doverose misure, anche nella prospettiva della delegata riforma della pubblica amministrazione (escluse innanzitutto ogni presunzione di silenzio-assenso e la dipendenza delle soprintendenze dalle prefetture), idonee a ripristinare quel ruolo.
«L'analisi contenuta nel progetto CoCoNet, finanziato dall'UE: cosa accadrebbe in caso di un imprevisto in fase estrattiva o di trasporto? A causa dell’andamento delle correnti marine, l'entità monetaria del danno è, secondo gli esperti, non calcolabile». Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2016 (p.d.)
“Un incidente petrolifero? Va messo in conto. E i danni non sarebbero limitati al litorale italiano, ma causerebbero un disastro nell'intero Mediterraneo orientale, con costi ambientali incalcolabili”.
Ferdinando Boero parla con cognizione di causa. È docente di Zoologia e Biologia Marina all'Università del Salento, associato all'Istituto di Scienze Marine del Cnr ed è uno dei massimi esperti italiani di biodiversità marina e funzionamento degli ecosistemi. Mostra una cartina: frecce che si rincorrono, correnti, inabissamenti. In tempi non sospetti, ha svolto simulazioni per dimostrare cosa potrebbe accadere in caso di perdite di idrocarburi da petroliere in transito nel basso Adriatico.
Poi, specie in Puglia, è arrivata la pioggia di richieste di permessi di ricerca dell’oro nero una spanna più avanti delle 12 miglia. Colossi americani, soprattutto. “La realtà che supera l’immaginazione”, sorride il professore. È una battaglia, quella, ancora in corso nell'ambito delle procedure di valutazione di impatto ambientale pendenti. Nel frattempo, restano i rischi legati alle piattaforme già attive al di qua e al di là di quel limite di 12 miglia lungo tutto il mar Adriatico. Lo dice CoCoNet, il progetto coordinato dallo stesso Boero e finanziato con 11 milioni di euro dall'Ue per la realizzazione di reti di aree marine protette nel Mediterraneo e nel Mar Nero, oltre che per lo studio di fattibilità di installazione lì di piattaforme eoliche offshore come fonte di energia pulita. Nell'ambito di CoCoNet, la ricerca pilota sulle perdite di idrocarburi, sconosciuta ai più, si è concentrata sull'Adriatico meridionale, che è lo snodo fondamentale, il luogo in cui si ha il fenomeno di sprofondamento delle acque dense nord adriatiche nella pancia dello Ionio. È quello, insomma, il punto di transito del movimento d’acqua che dà vita agli abissi del Mediterraneo. Cosa accadrebbe in caso di incidenti in fase estrattiva o in fase di trasporto? La risposta è nel gioco di correnti marine.
Da Gibilterra, l’acqua atlantica penetra nel bacino mediterraneo con un flusso superficiale. Attraversato il canale di Sicilia e raggiunta la parte più orientale, vicino al Libano, la corrente torna indietro a circa 500 metri di profondità (corrente intermedia levantina). In questo modo l’acqua del Mediterraneo viene rinnovata nei primi 500 metri. In assenza di altre correnti importanti, al di sotto di quella soglia, non essendo ricambiata, andrebbe incontro a fenomeni di anossia (carenza di ossigeno) dovuti alla presenza di animali, che consumano ossigeno, e all'assenza di vegetali, che lo producono. Questa eventualità sarebbe fatale, dunque, per la vita al di sotto dei 500 metri.
Ciò si evita grazie al rinnovamento delle acque profonde. Avviene tramite i “motori freddi”. Nel Golfo del Leone, per il Mediterraneo occidentale, e nel nord Adriatico, per quello orientale, i venti freddi causano aumenti di salinità e diminuzioni di temperatura. Questo porta alla formazione di acque dense superficiali, che tendono a scorrere verso i fondali più profondi, portandovi ossigeno e spingendo verso l’alto le acque che ne sono carenti, perché possano riossigenarsi. Dall'Adriatico settentrionale, quelle acque seguono due autostrade marine, una prossima alle coste albanesi e l’altra a quelle italiane, attraverso il Canyon di Bari e il Canale d’Otranto. Da lì, si inabissano nello Ionio, raggiungendo le massime profondità, che toccano il picco dei 5 mila metri nella fossa del Peloponneso.
È grazie a questo flusso che, ad esempio, possono prosperare i coralli bianchi ionici e quelli ritrovati di recente nel basso Adriatico. Lo stesso copione si ripete, ma con importanza ritenuta minore, a partire dal nord Egeo. “È chiaro dunque – spiega Boero – che se nell'Adriatico dovesse verificarsi un incidente, il petrolio andrebbe a inserirsi nella corrente che alimenta la parte più profonda del Mediterraneo, che invece di ricevere ossigeno riceverebbe idrocarburi. L’eventualità che questo accada non può essere esclusa. Calcolare l’entità monetaria dei danni causati da una simile eventualità è sterile: non ci sono soldi che possano ripagare gli ambienti che sarebbero gravemente danneggiati”.
Occorre un sì deciso al referendum del 17 aprile, non solo contro la distruzione della bellezza, ma per una uscita progressiva dalla dipendenza dal petrolio, e la crescita di un movimento globale per la salvezza del pianeta. Il manifesto, 10 aprile 2016.(c.m.c.)
«Keep the oil under the soil». Lasciamo il petrolio sottoterra, urlavano gli attivisti di mezzo mondo a Parigi poco prima dell’inizio della Ventunesima Conferenza delle Parti sui Cambiamenti Climatici, la Cop21. È un movimento globale per la giustizia climatica, una realtà reticolare, che lega comunità e organizzazioni del Nord e del Sud del mondo.
L’idea di mantenere il petrolio sottoterra nacque in Ecuador, paese assai dipendente dall’oro nero. «Yasunizzare», dal nome del parco Yasuni, riserva biologica sotto la quale si trovano importanti giacimenti petroliferi, significava lasciare il petrolio sottoterra, optare per un’altra via, quella del riconoscimento del debito ecologico, e della promozione di energie alternative. Quel petrolio non estratto avrebbe rappresentato un patrimonio in termini di emissioni evitate e di protezione della biodiversità, in cambio del quale la comunità internazionale si sarebbe impegnata a versare contributi su un fondo internazionale per la tutela di Yasuni e la promozione di energie rinnovabili. Non se ne fece nulla, ed oggi le compagnie petrolifere straniere stanno accaparrandosi quelle concessioni.
Territori sotto assedio, come quello di Sarayaku, o del popolo Sapara, che hanno già annunciato che difenderanno con i denti la loro terra.
Dall’Amazzonia all’azione di disobbedienza civile contro la megaminiera di carbone di Ende Gelaende, alle mobilitazioni dei Mohawk a Montreal contro la Transcanada Pipeline, è un susseguirsi di azioni, iniziative, mobilitazioni.
Era stato detto a Parigi e fatto seppur simbolicamente: tracciare una linea rossa, oltre la quale sarebbe scattata la disobbedienza civile di massa, per tutelare un bene prezioso, l’equilibrio dell’ecosistema, e la salute delle generazioni a venire. È il riconoscimento dei diritto alla resistenza civile nonviolenta per tutelare i «commons» che ispirerà migliaia e migliaia di attivisti che in ogni parte del mondo si mobiliteranno per un’intera settimana a maggio nell’azione globale «Break Free from Fossil Fuel». Sono previste azioni dirette nonviolente presso siti di estrazione ed infrastrutture petrolifere ed in sostegno a fonti energetiche pulite in Australia, Brasile, Canada, Germania, Indonesia, Israele/Palestina, Nigeria, Filippine, Sudafrica, Spagna, Turchia, e Stati Uniti.
Lasciare il petrolio sottoterra significa mettere sé stessi tra la Terra ed il cielo, prendere posizione dalla parte del cielo e della Terra, e produrre «dal basso» uno shock necessario per invertire la rotta. Come sottolinea in un importante articolo la rivista Nature, per provare a contenere l’aumento della temperatura globale entro 2 gradi centigradi ai livelli preindustriali sarebbe urgente rinunciare ad un terzo delle riserve petrolifere, la metà di quelle di gas e l’80 per cento del carbone entro il 2050. (si noti bene che a Parigi ci si è impegnati «in linea di massima» a contenere l’aumento della temperatura a 1,5 gradi). Invece le imprese transnazionali del settore continuano a investire cifre ingenti nella ricerca e prospezione, spendendo ogni anno qualcosa come 800 miliardi di dollari alla ricerca di nuovi giacimenti contro i 100 miliardi impegnati dalla comunità internazionale in sostegno al Fondo Verde per il Clima. Non tutte però: accanto alla disobbedienza civile dei movimenti è cresciuto progressivamente il movimento per il disinvestimento, al quale di recente si è unita anche la potente famiglia Rockefeller, magnati del petrolio per eccellenza.
E a casa nostra? La crescita del movimento globale per la giustizia climatica, la settimana di azione contro i combustibili fossili, le campagne di disinvestimento dimostrano che anche in Italia ci potrà essere vita dopo il referendum contro le trivelle. Un sì deciso significa quindi non solo un no alla distruzione della bellezza, o delle coste, è un sì alla necessaria ed urgente transizione ecologica, un piccolo passo verso la progressiva uscita dal petrolio, un tassello in più in uno movimento globale che si fa sempre più forte.
La Francia dice stop alla ricerca di idrocarburi in mare e chiederà che il divieto venga esteso a tutto il Mediterraneo. «Troppo alti i rischi ambientali» afferma la ministra dell'ambiente e dell'energia. Il manifesto, 9 aprile 2016 (c.m.c.)
La ministra dell’Ambiente e dell’Energia, Ségolène Royal, ha comunicato ieri la decisione di mettere immediatamente in atto una moratoria sulle ricerche d’idrocarburi nel Mediterraneo. Il provvedimento è stato reso noto nel corso della seconda Conferenza Nazionale sulla Transizione Ecologica del Mare e dell’Oceano, tenutasi a Parigi. Il comunicato della ministra non lascia spazio ai dubbi. «In considerazione delle drammatiche conseguenze che potrebbero colpire tutto il Mediterraneo in caso d’incidente dovuto alle perforazioni petrolifere - si legge nel testo diffuso dal dicastero dell’ambiente - Ségolène Royal decide di applicare una moratoria immediata sulle ricerche di idrocarburi nel Mediterraneo, sia nelle acque territoriali francesi, sia nella zona economica esclusiva». Inoltre, la ministra Royal «chiederà che questa moratoria sia estesa all’insieme del Mediterraneo, nel quadro della Convenzione di Barcellona sulla Protezione dell’Ambiente Marino e del Litorale Mediterraneo».
La conferenza nazionale di ieri costituiva la seconda edizione di quella già tenutasi, sempre sul tema della transizione ecologica del mare, nell’agosto scorso. Come allora, anche ieri erano invitate Ong, accademici e vari operatori ed esperti. In quell’occasione erano state stabilite le cosiddette «dieci azioni per una crescita blu».
Ségolène Royal non è nuova a prese di posizione contro le energie non rinnovabili. Basti ricordare il suo intervento all’Assemblea Nazionale del 12 gennaio scorso, al suo rientro da New York, dove aveva incontrato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, per dare corpo alle decisioni prese alla Cop 21 di dicembre. In quell’occasione, la ministra del governo Hollande aveva affermatoche nessun ulteriore permesso di ricerca d’idrocarburi sarebbe stato accordato dall’esecutivo. «Se bisogna ridurre la quota di energie fossili, perché continuare ad autorizzare ricerche d’idrocarburi convenzionali?» si domandava allora la responsabile dell’ambiente. Secondo i dati del ministero, il 1° luglio 2015 si contavano 54 permessi di ricerca attivi e 130 domande di permesso in corso di valutazione.
Le sue parole non erano rivoluzionarie, ma davano semplicemente seguito agli obiettivi previsti dalla legge sulla transizione energetica dell’agosto 2015. Il provvedimento punta a dimezzare entro il 2050 il consumo totale d’energia della Francia, oltre a diminuire sino alla soglia del 30% entro il 2030 la percentuale di energia prodotta da fonti fossili non rinnovabili. Sempre per il 2030, al contrario, dovrà essere del 32% sul totale nazionale l’energia prodotta da fonti rinnovabili. In questa prospettiva, la ministra sta lavorando per una grande campagna di sostegno al fotovoltaico e all’eolico. Per quel che riguarda l’energia solare, meno di tre settimane fa, Ségolène Royal ha lanciato a Marsiglia il progetto delle «strade solari», cui saranno consacrati, per il momento, 5 milioni di euro, con l’ambizione di arrivare in cinque anni ad avere 1000 chilometri di pannelli fotovoltaici, su tutto il territorio nazionale.
Rispetto all’energia eolica, invece, il documento finale della conferenza di ieri, mostra una determinazione nell’implementare parchi eolici off-shore. Dieci progetti hanno vinto una gara d’appalto in questo settore specifico nel 2015. Un’altra gara d’appalto è stata lanciata per l’anno in corso. La zona individuata per l’installazione degli impianti fissi è a largo di Dunkerque, sul canale della Manica. L’Atlantico davanti alle coste bretoni e il Mediterraneo, ospiteranno, invece. delle fattorie eoliche sperimentali galleggianti, si legge ancora nel documento conclusivo della conferenza.
Al di là della questione strettamente ambientale, quello che sembra, almeno sulla carta, un cambio di passo nell’approccio alla questione della protezione del mare, potrebbe avere ripercussioni interessanti per il settore della pesca. La moratoria, infatti, disinnescherebbe de facto una recente tesi, frutto della bizzarra convergenza tra petrolieri e alcune Ong ambientaliste, in base alla quale la pesca, senza distinzioni, sarebbe dannosa per l’ambiente marino.
Quel che c'è da sapere sul consumo di suolo, attraverso gli articoli e i documenti pubblicati in eddyburg.it. Intervento alla rassegna Leggere la città, Pistoia, 9 aprile 2016.
Premessa
Apparentemente, tutti d’accordo: occorre fermare il consumo di suolo. Alle parole, tuttavia, non seguono fatti concreti. Salvo rare eccezioni, i comuni non rivedono i piani urbanistici, le regioni non modificano le leggi e i programmi infrastrutturali e in Parlamento si trascina l’esame di un disegno di legge dai contenuti farraginosi che, quand’anche approvato, difficilmente consentirà di cambiare rotta.
Intanto il tempo passa: ben undici anni, da quando
eddyburg, per primo, si è occupato del consumo di suolo, cui ha dedicato la
prima edizione della scuola estiva di pianificazione. Da allora, abbiamo pubblicato oltre 170 articoli per descrivere l’entità e gli effetti della dissennata espansione del costruito, per dare voce alle molte iniziative contro la cementificazione ingiustificata e per formulare proposte di legge che, senza indugi, mettano fine al consumo di suolo. Possiamo essere soddisfatti per l’accresciuta attenzione dell’opinione pubblica e per il lavoro fatto dagli esperti, ma siamo ancora ben lontani da provvedimenti efficaci per contrastare il fenomeno. È utile perciò ricordare le questioni salienti, attraverso una visita guidata agli articoli del sito che aggiorna quella
pubblicata dieci anni fa.
Consumo di suolo: quel che c’è da sapere
Il consumo di suolo è la misura dell’espansione delle aree urbanizzate a scapito dei terreni agricoli e naturali. Dieci anni fa non esistevano misurazioni attendibili, mentre oggi almeno questa lacuna è colmata. Ispra redige un
rapporto annuale; Inu, Legambiente e Politecnico di Milano hanno istituito un
osservatorio. Docenti universitari, tra cui
Paolo Berdini,
Bernardino Romano (con il WWF) e
Paola Bonora, hanno coordinato accurati studi e ricerche. Alcune strutture regionali, su tutte quelle di
Piemonte e
Lombardia, sono impegnate in un monitoraggio costante che fotografa con precisione il disastro prodotto negli ultimi trent’anni.
Più di 20.000 kmq, l’equivalente di una regione come l’Emilia Romagna o la Toscana: a tanto ammontano le
superfici urbanizzate nel nostro paese, e il dato è sicuramente sottostimato. Un valore elevato, soprattutto se consideriamo la qualità del territorio compromesso. Le ricerche di Legambiente sulle
coste italiane e sulla
Valtellina e il rigoroso lavoro di
Antonio Di Gennaro ci ricordano che il suolo non è consumato in modo uniforme: il tributo pagato dalle pianure, dalla costa e dai fondovalle ha oltrepassato i livelli di guardia, con la compromissione di ecosistemi naturali, paesaggi storici e terreni agricoli di straordinario valore produttivo.
Casa dopo casa, capannone dopo capannone, l’espansione urbana si diffonde come fosse un virus. La stretta relazione tra consumo di suolo e dispersione insediativa è stata ampiamente documentata su
eddyburg, tra gli altri, da
Edoardo Salzano e
Maria Cristina Gibelli, curatori della pubblicazione
No sprawl per i tipi di Alinea.
Tutti i settori trainanti dell’economia italiana alimentano la bulimia costruttiva, in un perverso intreccio tra rendita fondiaria e conquista di nuovi mercati. Lo testimoniano innumerevoli episodi descritti su
eddyburg, riguardanti
centri commerciali,
strutture ricreative, nuovi
insediamenti turistici. È il segno di un’arretratezza generale del mondo produttivo, ancora restio - con poche eccezioni - a contrastare il declino con un impiego più efficiente delle risorse esistenti. Anche le cosiddette grandi opere giocano un ruolo fondamentale: impegnano direttamente centinaia di ettari e favoriscono la costruzione di nuovi insediamenti, lontano dai centri urbani. Lo spiega su
eddyburg Anna Donati.
Dalla Tav alle autostrade,
dall’aeroporto di Firenze fino all’
Expo di Milano, le storie seguono tutte la stessa trama: decisioni opache, forzature procedurali, privatizzazione dei ricavi e socializzazione dei costi collettivi e, a dispetto di ogni ragionevolezza, unanime sostegno politico degli amministratori di turno.
SOS Consumo di suolo
In tutto il paese, la cittadinanza attiva è impegnata nel contrastare il perverso intreccio tra affari e politica che impedisce di mettere fine al consumo di suolo. Le storie raccolte nel sito rappresentano solo un piccolo campione di un più vasto movimento d’opinione. Solo nel 2008, tuttavia, si è ipotizzata una forma organizzativa più stabile, per mettere in rete le iniziative.
Tutto è cominciato a Cassinetta di Lugagnano, un piccolo comune della pianura milanese, per iniziativa di un giovane sindaco, Domenico Finiguerra. L’approvazione del piano regolatore dimostra la possibilità di soddisfare i bisogni sociali senza previsioni di espansione (su
eddyburg, tra gli altri, articoli di
Giorgia Boca, Francesco Erbani e un’ampia intervista allo stesso Finiguerra).
Il successo mediatico dell’iniziativa è il preludio per diffondere un
appello al quale rispondono centinaia di associazioni che si costituiscono nel movimento
Stop al consumo di territorio. Il movimento e il successivo
Forum Salviamo il paesaggio, sono tuttora attivi e costituiscono un punto di riferimento per le iniziative di contrasto al consumo di suolo, in tutta Italia.
Una legge nazionale ci vuole, ma quale?
Le istituzioni non sembrano però intenzionate a fare proprie le richieste di cittadini e movimenti. Con il tempo aumenta il numero di politici che si dichiarano favorevoli a mettere un freno al consumo di suolo, a sinistra e a destra. Ma è poco più che un flatus vocis.
1. Nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti.
2. Le leggi regionali assicurano che, sul territorio non urbanizzato, gli strumenti di pianificazione non consentano nuove costruzioni, né demolizioni e ricostruzioni, o consistenti ampliamenti, di edifici, se non strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all'estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista, come comprovate da piani di sviluppo aziendali o interaziendali, ovvero da piani equipollenti previsti dalle leggi.
Non occorre aggiungere altro: il recupero dell’esistente ha sempre priorità sull’espansione e – nel territorio non urbanizzato – di norma è vietato costruire se non in funzione delle esigenze di produzione agricola. Eventuali eccezioni devono essere motivate, pena la loro illegittimità.
Nel 2012, il Ministro delle politiche agricole Elio Catania presenta un
disegno di legge specifico sul contenimento del consumo di suolo. L’iniziativa ottiene il
plauso della stampa, ma non appena si rende disponibile l’articolato, si comprende che la via intrapresa è tortuosa, ricca di insidie e
destinata all’inefficacia. Tutto si incentra sulla definizione di una quota massima di territorio potenzialmente urbanizzabile da ripartire tra le regioni e – all’interno di ciascuna di esse – tra i comuni.
L’esame del Ddl prosegue lentamente, interrotto dai sussulti politici: al governo Monti subentra quello guidato da Enrico Letta e, ora, da Matteo Renzi. L’impianto originale si arricchisce di disposizioni sulla rigenerazione urbana, l’impiego degli oneri di urbanizzazione, l’individuazione di compendi agricoli neorurali. Crescono i dubbi che si produca un esito contrario alle intenzioni iniziali, come spiegato su
eddyburg da
De Lucia,
Gibelli,
Agostini e
Lungarella.
A oggi, l’esame procede senza correzioni migliorative. Salviamo il Paesaggio ha formulato una meritoria proposta di modifica e integrazione del disegno di legge, ma, come afferma giustamente Eddyburg, prima si mette una pietra su quel documento meglio è.
Nel 2013, un gruppo di amici di
eddyburg formula una
controproposta, essenziale e rigorosa, nella quale si prevede l’obbligatoria perimetrazione del territorio urbanizzato, al cui esterno sono vietati interventi di nuova edificazione. L’eccezionalità di eventuali deroghe è resa evidente dall’aver subordinato il loro assentimento ad appositi provvedimenti, caso per caso, dei consigli regionali. La salvaguardia del territorio non urbanizzato è considerata parte della «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione quindi della legislazione di competenza esclusiva dello Stato anziché della legislazione di competenza concorrente tra Stato e Regione. Per questo, le disposizioni dettate dallo Stato possono avere immediata efficacia.
Regioni, provincie, comuni: nessuno può tirarsi indietro
La Regione Toscana
segue una strada simile a quella ipotizzata dalla proposta di eddyburg 2006 e affida ai comuni il compito di perimetrare il territorio urbanizzato nel proprio piano urbanistico. Per legge, all’esterno del territorio urbanizzato sono vietate nuove urbanizzazioni residenziali. Altri interventi possono essere consentiti attraverso rigorose procedure che prevedono, in ogni caso, il potere di veto della Regione. La legge urbanistica regionale, promossa dall’assessore Anna Marson, entra in vigore alla fine del 2014, dopo un lungo e teso dibattito che vede
eddyburg schierato a favore della sua approvazione.
Le altre Regioni nicchiano, o peggio, fanno
ammuina, come la Lombardia guidata dal
gattopardo leghista, dove i
movimenti ambientalisti, gli
urbanisti e persino il
partito democratico (ma solo perché all’opposizione) denunciano il tradimento delle promesse. E come il Veneto, dove ci si guarda bene dal mettere in discussione le espansioni previste nei PRG, sebbene comportino un incremento del 40% dell’attuale urbanizzato, e si consentono deroghe ai piani e aumenti di volumetria generalizzati, spacciandole per interventi di rigenerazione urbana (nel sito, vedi l
'eddytoriale n. 168).
Non sono casi isolati, purtroppo. Il quadro complessivo delle iniziative regionali, la maggioranza delle quali è governata dal cosiddetto centrosinistra, è desolante. Qualcosa in più è stato fatto dalle provincie, e sarebbe lecito pretendere iniziative incisive dalle città metropolitane, per ora in stallo dopo l'approvazione della riforma Del Rio.
Infine, i comuni. Nonostante siano l’ultimo anello di una lunga catena decisionale, ulteriormente indebolito dalle controriforme degli ultimi trent’anni, conservano il potere di decidere le trasformazioni ammissibili nel territorio. Per tutti quelli che domandano se esista un “diritto di costruire”, incomprimibile senza costosi indennizzi, valgono le risposte di insigni giuristi come
Vincenzo Cerulli Irelli e
Paolo Maddalena. Motivatamente, i piani possono essere
modificati in senso restrittivo. Volendo, quindi, si possono tagliare le previsioni di espansione, come ha fatto la coraggiosa Isabella Conti, sindaco di
San Lazzaro di Savena, suscitando molto clamore nell’area bolognese. Ma anche altri comuni come Cassina De’ Pecchi e Budrio, sconosciuti alle cronache, hanno imboccato lo stesso percorso virtuoso. Continueremo a documentare su
eddyburg queste iniziative, affinché siano d’esempio per l’urbanistica e la politica.
Chi oggi comanda in Italia, in Europa e nel resto del mondo obbedisce agli interessi dei petrolieri e perciò ci sta portando alla catastrofe. Ecco una ragione in più per votare contro le trivelle. Il manifesto, 8 aprile 2016
Al vertice sul clima di Parigi i “capi” di 192 paesi hanno preso degli impegni enormi: mantenere l’aumento della temperatura del pianeta sotto 2 e possibilmente vicino a 1,5 gradi centigradi. Per questo bisogna evitare di disperdere nell’atmosfera più di mille miliardi di CO2 equivalente di qui al 2100 (ne produciamo 35 miliardi all’anno). Per raggiungere l’obiettivo i contraenti hanno presentato dei piani nazionali (detti Indc) molto generici, perché non ne viene indicato il “soggetto attuatore” che, per il pensiero unico dominante, non può che essere “il mercato”; non gli Stati né i loro governi, né tantomeno il “popolo sovrano” e le sue comunità, ma la finanza.
Il non detto di quei piani è questo: gli interessi dell’industria petrolifera sono talmente grandi che a metterli in forse in tempi rapidi, anche oggi che il prezzo del petrolio è ai minimi, si rischia il tracollo dell’economia mondiale. Solo a lasciare sottoterra le riserve di idrocarburi che non dovrebbero essere più bruciati per non superare la quantità di emissioni climalteranti che ci separano dai due gradi in più di temperatura si mandano in fumo decine di migliaia di miliardi già quotati in borsa. Poi ci sono gli impianti (trivelle, pipelines, miniere, flotte, raffinerie, centrali termiche, ecc.): altre decine di migliaia di miliardi ancora da ammortizzare (e quando lo sono già, vere mucche da mungere per fare profitti, anche se vanno in pezzi).
Quei piani sono comunque insufficienti a raggiungere l’obiettivo; per cui si è già stato stabilito che nel 2020 dovranno essere rivisti al rialzo. E lo si dovrà fare per forza, perché il clima sta già precipitando verso un disastro irreversibile per il pianeta e per la vita umana su di esso, cioè per tutti noi, i nostri figli, i nostri nipoti. Niente sarà più come prima (“This changes everything”) come ha scritto Naomi Klein: sia che si cerchi di proseguire sulla strada del business as usual (BAU), facendo precipitare la crisi climatica; sia che si decida di perseguire una vera transizione energetica verso efficienza e fonti rinnovabili: che può essere realizzata solo cambiando radicalmente consumi, prodotti, processi di produzione e soprattutto sistemi di governo dell’economia: nella forma di una vera democrazia partecipata.
“Una rivoluzione”: la scelta obbligata che, seguendo il titolo che è stato data alla traduzione italiana del libro della Klein, “ci salverà”. Le tecnologie per realizzarla sono già disponibili, e potrebbero moltiplicarsi se si dedicasse loro l’attenzione e le risorse che meritano. I costi sono perfettamente affrontabili e i risparmi che ne possono derivare li ripagherebbero in tempi ragionevoli. Quello che manca è l’organizzazione, che non è la green economy (investire dove i ritorni sono immediati e lasciar perdere tutto il resto), ma la democrazia economica: il controllo delle comunità sulle attività che le vedono impegnate. In termini sintetici: tutto ciò che prolunga in qualsiasi forma la dipendenza dai fossili non fa che ritarare la transizione e renderla più costosa domani, in termini economici, ambientali, umani.
Alcuni driver di una transizione del genere sono peraltro già all’opera: le assicurazioni sono a mal partito per i danni creati dagli eventi estremi provocati dai mutamenti climatici; è in corso un processo di disinvestimento dalle risorse fossile da parte degli organismi più avvertiti: dai Rockfeller alla Norvegia, il paese con la popolazione più ricca del mondo grazie al petrolio. I costi impiantistici delle rinnovabili scendono a picco mentre quelli dell’inquinamento da petrolio e carbone vanno alle stelle…
Per questo appare paradossale che, appena rientrato da Parigi, dove come al solito aveva spiegato che nel campo della conversione energetica l’Italia, cioè lui, è più avanti di tutti (tesi ripetuta pochi giorni fa), Renzi e il “cerchio magico” del suo Governo si siano dati da fare per spremere fino all’ultima goccia il petrolio che sa sotto i mari e il suolo dell’Italia. Cercando prima di eludere i referendum contro le trivelle a mare, per poi aprire uno scontro frontale contro i suoi promotori. E riconfermando e peggiorando il progetto, messo a punto a suo tempo dall’ex ministro Passera, di trasformare il nostro paese in terminale e deposito in conto terzi (cioè per tutta l’Europa) del gas importato dalla Russia e dal Nordafrica; anche a costo di scassare il territorio con un gasdotto e degli stoccaggi che minacciano l’Italia nelle sue zone più sismiche, come l’Aquila e l’Emilia.
D’altronde si tratta di quello stesso Renzi che adora Marchionne (quello che ha assunto 1000 nuovi operai dopo averne messo alla porta 20.000 in meno di dieci anni) invece di spiegargli che né l’Italia né il resto del mondo hanno bisogno di una jeep per andare a fare la spesa o portare i bambini a scuola; e che prima o poi quei mastodonti dovranno rimanere fermi. E con loro gli operai che li fabbricano. Insomma, più si sbraccia a presentarsi ed esaltarsi come innovatore e più Renzi si abbarbica alla più superata e nociva delle opzioni economiche: tenere in vita, in tutti le forme possibili, l’economia del petrolio e delle fonti fossili.
Questa è la vera posta in gioco del referendum del 17 aprile: non le misere royalties ricavate dal petrolio, che non valgono il costo che Renzi fa pagare agli italiani per non aver accorpato referendum ed elezioni amministrative; non i pochi, sporchi e insalubri posti di lavoro che verranno a mancare quando arriveranno a scadenza le concessioni che lui vorrebbe confermare a tempo indeterminato; bensì le decine di migliaia di nuovi occupati che un programma di riconversione energetica potrebbe creare – e che in parte avevano cominciato a esser creati prima che Renzi spostasse le sue fiches dalle energie rinnovabili al petrolio, facendone già perdere quasi 80mila – oltre a tutti quelli (turismo, pesca e agricoltura) che il petrolio distrugge; ma, soprattutto, il ritardo e il danno che l’attaccamento alle risorse fossili finirà per imporre a un paese escluso da una riconversione energetica ormai irrinunciabile.
Questo è il tema di fondo, quello che fa della campagna contro le trivelle un momento di informazione, di riflessione e di auto-educazione su una questione ineludibile su cui il governo – ma non solo lui – ha steso un velo mentre avrebbe dovuto metterlo al centro di tutto il suo operato. Poi viene il resto, che non è poco: cioè il modo in cui petrolio e risorse energetiche vengono estratte e sfruttate, il seguito di inquinamento, di degrado ambientale, di danni alla salute, di vite distrutte, di corruzione e di deficit democratico che l’economia degli idrocarburi si porta dietro. Non solo in Italia. Il petrolio, come è noto, è la merda del diavolo: che ha fatto piombare tutti i paesi dove viene estratto e lavorato in uno stato di degrado ambientale, sociale e istituzionale tanto maggiore quanto più è consistente la finta ricchezza di cui dovrebbero beneficiare: che è ricchezza per chi se ne appropria, non per chi vive su quei territori. Guardate il golfo persico, l’Arabia Saudita, l’Iraq, l’Iran, la Nigeria, la Libia, il Texas e le regioni del Canada devastate dall’estrazione delle sabbie bituminose; ma anche la fatica del Venezuela per cercare di liberarsi dal cappio politico del dominio degli Stati uniti sulle sue riserve; e vedrete quasi soltanto distruzione di interi dei territori e dei paesaggi più belli del mondo, miseria e oppressione delle comunità che hanno la sfortuna di abitarli, prepotenza di che si avvantaggia di quelle risorse a loro spese.
Così anche l’Italia, nonostante che le sue riserve siano infime, è riuscita a importare – cercando beninteso di tenerle nascoste – buona parte delle disgrazie che accompagnano lo sfruttamento degli idrocarburi in tutto il pianeta: in quel campo “il mercato” è questo; e la “concorrenza” si fa così: corrompendo, inquinando e massacrando cittadini e lavoratori. Perché quando in gioco ci sono “scambi di favori” un’impresa vale l’altra: Eni e Total pari sono; e quella ricchezza nazionale che il governo dice di voler mettere a frutto può tranquillamente defluire verso le raffinerie e le reti di un concorrente: l’importante è che gli amici degli amici - o i coniugi dei ministri - ne ricavino il loro tornaconto.
«
Più che mai è importante andare a votare per questo referendum per dimostrare che non si abbandona il paese in mano a chi vuole mercificare qualsiasi cosa senza rispetto e che esiste ancora la volontà e la forza di cambiare rotta». Il manifesto
, 8 aprile 2016 (c.m.c.)
L’attuale vuoto politico, che rischia di diventare catastrofico, e di cui la cosiddetta sinistra è al tempo stesso vittima e corresponsabile, fa emergere con forza la valenza probabilmente decisiva delle prossime consultazioni referendarie.È sempre più evidente che dal loro esito dipenderanno (per dirla in modo un po’ enfatico) le sorti del paese. In questo quadro, è difficile non prendere atto del fatto che quella fra loro che riguarda il problema delle trivellazioni marine (17 aprile) stenta a decollare, quasi che il quesito fosse di significato e dimensioni minori.
Io penso che non sia così, almeno per due buoni motivi.
Il primo è più specifico, anche se presenta anch’esso valenze generalissime. Questo governo, e il partito che in questo momento esso rappresenta, esprimono la posizione più risolutamente antiambientale (attenzione: antiambientale, non semplicemente antiambientalista), che nel nostro paese sia stato dato di vedere da molti decenni (forse da sempre?). L’ambiente, il paesaggio, il territorio, i beni culturali sono considerati, nel migliore dei casi, come degli oggetti o realtà morte, in cui investire più che si può, per ricavarne più che si può (spesso, però, sbagliando anche il calcolo dei rapporti fra investimenti e ricavati). Se una società petrolifera o un consorzio di palazzinari glielo chiedesse, pianterebbero trivelle o edificherebbero ecomostri anche di fronte a Piazza San Marco a Venezia o in Piazza della Signoria a Firenze.
Il caso lucano è ormai sotto gli occhi di tutti, non si può più girare la testa dall’altra parte.
Osservo che, della stessa natura del caso delle trivelle, sono altri casi clamorosi come quelli del sottoattraversamento ferroviario di Firenze e dell’ampliamento sconsiderato e dissennato dell’aeroporto di Peretola, anch’esso a due passi da Firenze (la quale rischia di diventare la “città martire”, e come tale meriterebbe d’esser proclamata, di questa fase produttivistico-ambientale). Del resto, in ambedue questi casi basterebbe scavare appena più a fondo (non dico «più a fondo»; dico: «appena più a fondo»), per arrivare a scoprire le stesse logiche che hanno sovrainteso alle operazioni speculative lucane.
Per cui: chi vota sì al referendum sulle trivellazioni marine, vota contemporaneamente contro tutto questo, – contro tutto questo, e contro il suo probabile, anzi, facilmente e assolutamente prevedibile, peggioramento. Anche a tremila metri c’è dunque un interesse profondo (è il caso di dirlo) a votare al prossimo referendum sulle trivelle sottomarine.
Il secondo motivo è di carattere politico generale Non s’è mai visto in questo paese un governo che inviti la cittadinanza a non andare a votare a una forma di qualsiasi consultazione elettorale. Questo governo conta sulla stanchezza, la disaffezione, lo scontento, persino sull’incazzatura («vadano tutti al diavolo, non voglio più saperne!»), per continuare a governare.
Qui, a proposito delle trivelle, – tema, come ho già detto, apparentemente marginale e interesse di pochi, – si manifesta la stessa linea, non soltanto politica, ma ideologico-culturale, che si manifesta a proposito della materia dei referendum d’autunno, e cioè: quanto più si restringe la base del potere, tanto meglio è per chi governa. Può governare meglio, con meno impacci e più libertà di movimento e di azione. Per esempio: fare quel che si vuole dell’ambiente italiano, se petrolieri, palazzinari e costruttori di strade e autostrade glielo chiedono (oppure, magari, prendere l’iniziativa di andarglielo a chiedere, se il giro dei soldi, degli investimenti e delle ricadute di potere, dovesse troppo abbassarsi). Ma di più, molto di più: fare quel che si vuole in ogni ganglio dell’azione di governo, accantonando o eliminando del tutto controlli, verifiche, inutili discussioni (perdite di tempo, gufismi d’altri tempi).
Di fronte a questo stato di cose, e a questa prospettiva, più si vota meglio è. Nonostante tutto, perdura qualcosa di vivo anche nella stanchezza, nella disaffezione, nello scontento, persino nell’incazzatura. Bisogna che venga fuori, per riprendere la strada comune, comune per noi, certo, ma, a pensarci bene, persino per gli altri che non la pensano come noi.
Renzi annuncia la rimozione della colmata. Che dovrebbe già fare il suo governo». Articoli di Andrea Fabozzi, Vincenzo Iurillo, Adriana Pollice e Marco Palombi, il manifesto e il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2016 (m.p.r.)
Il manifesto
RUOLO DEI PRIVATI
E TRUCCHI DI RENZI PER IL DOPO ILVA
di Andrea Fabozzi
«Il cemento non lo aumentiamo, anzi togliamo anche la colmata che ha segnato come simbolo negativo Bagnoli». Dopo quasi un quarto di secolo si può dire di tutto su Bagnoli. E così Renzi, sbarcato in elicottero, promette come grande successo della «sua» gestione commissariale quello che una legge dello stato impone da anni al ministero dell’ambiente di fare.
Spetta al suo governo, dunque, al suo ministro «petroliere» Galletti, ripristinare la linea di costa e sbancare la colmata. Da qualche parte al ministero dovrebbero esserci ancora i progetti esecutivi, i disegni. Anni fa c’erano. Però il Renzi da sbarco ha un vantaggio. Anche sul destino della colmata può farsi forte degli anni di indecisioni, compromessi e autosmentite delle diverse amministrazioni comunali. Persino di quella attuale che, se non ricordiamo male, fresca vincitrice delle elezioni, immaginò di riciclare quei terreni inquinati per la coppa America di vela, per fortuna poi cambiando idea.
Bagnoli precipita ancora una volta nelle campagne elettorali. Il presidente del Consiglio non cerca di nasconderlo. A Napoli, così si rivolge ai progettisti: «Vedo che le infrastrutture partiranno a inizio 2018. Sarebbe bene che sia almeno la fine del 2017. Capisco far di tutto per non far le cose in piena campagna elettorale, ma questa cosa la facciamo prima».
Davanti a sé ha i responsabili di Invitalia, l’agenzia per lo sviluppo che il commissariamento - imposto con il famoso decreto «Sblocca Italia» - ha messo al centro della bonifica. Affidandogli la responsabilità della trasformazione urbanistica e insieme la proprietà dei suoli.
Nella versione originaria si trattava di una società aperta ai privati, verosimilmente gli stessi che hanno inquinato per anni (la Cementir di Caltagirone, Fintecna) ai quali il commissariamento può regalare nuove occasioni. L’ultimo decreto «Milleproroghe» ha «cambiato le carte in tavola», come ha detto il sindaco De Magistris, che così si è visto respingere il ricorso al Tar contro il commissariamento.
Adesso gli «sbloccatori» sono formalmente una società «in house» dello stato. Per sbloccare bisogna anche un po’ truccare. E così bisognerà capire quanto di veramente realizzabile c’è nelle slide proiettate ieri durante la cabina di regia.
A prima vista il piano contiene anche sorprese positive, ad esempio lo spostamento di Città della Scienza dalla linea costiera all’interno del futuro parco, come chiedono da tempo gli abitanti di Bagnoli e i movimenti per la spiaggia libera.
Resta però il difetto ineliminabile del commissariamento, che allontana dalle istituzioni rappresentative e dal controllo dei cittadini le decisioni sul futuro dell’area. E lascia spazio alla propaganda, nella quale Renzi sguazza. «Consulteremo i napoletani», ha promesso il presidente del Consiglio andando via. Il sito internet delle meraviglie, tra le slide, informa che la campagna di ascolto (chi l'ha vista?) si è chiusa a fine marzo.
Eppure chi ieri è sceso in piazza è riuscito a farsi sentire.
Il Fatto Quotidiano
SCONTRI SU BAGNOLI:
DE MAGISTIS FURIOSO PER IL PIANO DI RENZI
di Vincenzo Iurillo
Annunciati, previsti, evocati, temuti o minacciati, gli scontri di piazza anti Renzi e anti commissariamento della bonifica di Bagnoli si sono puntualmente concretizzati nel primo pomeriggio sul lungomare liberato di Napoli, il luogo simbolo dell’amministrazione di Luigi de Magistris. Qui tra piazza Vittoria e via Partenope, una parte del corteo della manifestazione organizzata da comitati e centri sociali, circa 2000 persone (tra cui due assessori comunali) partite da piazza Dante con in testa lo striscione “Napoli sfiducia il governo Renzi”e un Pinocchio con la maglietta del Pd, ha provato a forzare il cordone di protezione della polizia.
I manifestanti puntavano alla sede del Mattino, dove di lì a poco il premier avrebbe tenuto un forum con la redazione del quotidiano edito dal gruppo Caltagirone, titolare nell’area ex Italsider dei resti della Cementir oggetto di un’ordinanza del sindaco che intima loro e alla Fintecna di ripristinare a loro spese la sicurezza delle rispettive aree di competenza. Le forze dell’ordine hanno usato manganelli, lacrimogeni e idranti per disperdere facinorosi e incappucciati. Turisti spaventati, bus in fuga per il fumo. Quattro agenti feriti, uno in ospedale.
Da giorni de Magistris aveva annunciato di voler disertare la riunione della cabina di regia su Bagnoli convocata in Prefettura con Renzi e con il sottosegretario e coordinatore Claudio De Vincenti. E poche ore prima degli scontri aveva ‘accolto’ il premier con parole durissime: «La cabina di regia non è luogo in cui ci si abbraccia, ma è luogo in cui si crea una torbida saldatura tra presunto interesse pubblico e ben individuato interesse privato. Non ci andiamo a sedere in luoghi in cui accadono cose che nulla hanno a che fare con l’interesse della città». Ed ancora: «Sorprendente che il premier non abbia ritenuto di incontrare il sindaco della terza città d’Italia».
Valeria Valente, candidata sindaco del Pd, ha valutato queste esternazioni come una istigazione: «La rabbia non si accarezza e non si fomenta mai! De Magistris prenda immediatamente le distanze. Napoli non è questo, Napoli non merita questo». Il sindaco non l’ha accontentata. De Magistris gioca su Bagnoli una partita in cui incrocia il futuro dei 300 ettari di fronte a Nisida con il destino di una campagna elettorale per le imminenti amministrative che affronta da favorito, ma senza un partito alle spalle. E in chiave anti Pd e antirenziana, sta aggregando intorno a una riconosciuta leadership sul territorio, una variopinta galassia di movimenti, centri sociali, comitati, sinistra estrema. Tutti d’accordo con de Magistris che si autodefinisce «il Che Guevara di Napoli».
Dimenticata la stretta di mano con Renzi del 14 agosto 2014, il giorno dell’accordo di programma tra Comune e Governo finito nel nulla con lo Sblocca Italia e la decisione di commissariare la bonifica di Bagnoli, il sindaco di Napoli ha aperto contro Renzi un fronte politico-giudiziario culminato in un ricorso al Tar contro la nomina del commissario Salvo Nastasi (perso in primo grado, ha proposto appello) e contro «gli interessi speculativi dei grandi gruppi di potere che vogliono mettere le mani sulla città». Anche ieri Renzi ha replicato rimandando la palla nel campo avverso: «Siamo qui perché altri non hanno fatto. Ma la seggiola del comune di Napoli è lì in cabina di regia e dopo ci sarà in commissione dei servizi. E sottolineo che non mi permetterei mai di cambiare i progetti urbanistici». Il piano annunciato dal premier prevede 272 milioni di euro per ripulire Bagnoli, subito ribattezzata «la più grande bonifica d’Italia», che si concluderà entro il 2019. Renzi ha citato il Prg di Vezio De Lucia e ad alcuni è sembrata una citazione mirata per provare a sbollire Antonio Bassolino, ancora infuriato per aver perso le primarie dei presunti imbrogli ai seggi, e che ieri ha incontrato “a lungo” il premier.
Il manifesto
BAGNOLI, UN'EXPO DA 270 MILIONI
di Adriana Pollice
Napoli. Il premier in elicottero viene contestato: «Mi sto affezionando alle proteste, tornerò». Lanciata la gestione commissariale. Polemiche per due assessori ai cortei. Il sindaco: cabina di regia? È un luogo pericoloso. Nel blitz del presidente del Consiglio c’è spazio per i tormenti del Pd alle amministrative: non incontra Bassolino, ma gli lancia un appello
Matteo Renzi è arrivato a Napoli ieri pomeriggio, la città blindata fin dalla mattina: la polizia in assetto antisommossa ha completamente chiuso l’area intorno alla prefettura fino alla sede della redazione del Mattino, dove il premier era atteso per un forum, prima di partecipare alla cabina di regia su Bagnoli.
I manifestanti, oltre duemila, si sono radunati alle 11 a piazza Dante, tra loro anche gli assessori comunali Sandro Fucito e Carmine Piscopo. In testa al corteo un enorme pinocchio con il volto del premier, la manifestazione ha sfidato i divieti per arrivare fin quasi al portone del quotidiano del gruppo Caltagirone, tra le cui proprietà c’è anche la Cementir cioè un pezzo di Bagnoli mai bonificato. Ed è lì che la polizia ha azionato idranti e lacrimogeni disperdendo il corteo con i manganelli. Un ragazzo è stato ferito alla testa, dieci poliziotti si sono fatti refertare.
Quali sono gli interessi in gioco lo spiega l’Assise di Bagnoli: «Fintecna pronta a costruire sul mare. Caltagirone autorizzato a fare della ex Cementir residence di lusso. I costruttori napoletani, che puntano su Nisida». Ed è proprio a Nisida che il premier è sbarcato in elicottero per incontrare i ragazzi del carcere minorile. L’associazione dei costruttori da tempo spinge per spostare il penitenziario altrove in modo da mettere le mani sul bellissimo isolotto, facendone anche la sede del porto turistico di lusso.
I manifestanti, riuniti nella sigla «Bagnoli libera», nel pomeriggio si spostano in galleria Umberto: «Il problema di ordine pubblico lo ha creato il ministero dell’Interno. L’unica cosa che il governo doveva fare è la bonifica e non l’ha fatta, mentre la gente muore di tumore». Da lì il corteo è avanzato verso la prefettura ma la polizia l’ha bloccato all’altezza del San Carlo, schierando ancora gli idranti.
Alle 18 Renzi avrebbe dovuto presiedere in prefettura la cabina di regia, ma alle 17.50 si è accomodato nella redazione del Mattino per il suo show personale: «Il Sud ha straordinarie opportunità ma deve essere messo in grado di correre» ha spiegato. Ma all’ad di Apple, Tim Cook, Renzi aveva consigliato di investire a nord di Roma. «Qualcuno racconta che facciamo operazioni di cementificazione - prosegue -, ma il piano regolatore per Bagnoli non lo fa il commissario, è quello di Vezio De Lucia. Eliminando le ecoballe e pulendo Bagnoli (272 milioni previsti) bonifichiamo la Campania».
Le norme dello Sblocca Italia affidavano alla cabina di regia il potere di derogare al piano regolatore e anche superare i vincoli delle soprintendenze, ma i ricorsi dell’amministrazione hanno evidentemente spinto l’esecutivo su posizioni più prudenti.
Duro con il sindaco Luigi de Magistris: «Siamo qui perché altri non hanno fatto. La seggiola del sindaco in cabina di regia sta lì. Poi ci sarà la conferenza dei servizi, anche lì c’è la sua sedia. Tutte le volte che vengo a Napoli ho contestazioni veementi, ormai ci sono affezionato, verrò più spesso».
Un’ora di storytelling senza freni: l’emendamento per Tempa Rossa è un’operazione legittima; la magistratura lavorasse se è capace. E ancora: «Le elezioni che mi riguardano sono le politiche nel 2018. Per le comunali, la candidata del Pd a Napoli si chiama Valeria Valente, vincitrice dalle primarie. Dopo le polemiche, faccio il mio appello a partire da Antonio Bassolino, il Pd ha le carte in regole per provarci».
Con un’ora e mezza di ritardo il premier arriva alla famosa cabina di regia, dando la dimostrazione di come tutto sia stato deciso in altri luoghi.
Al premier restano le telecamere per la presentazione del piano di bonifica, da ultimare entro il 2019, e del progetto di sviluppo: funivia Posillipo-Nisida, dove ci sarà il porto turistico da 700 posti e lo stadio della vela; il parco urbano; terrazze attrezzate e piscine; moduli commerciali; siti di archeologia industriale accanto a incubatori di impresa, start up e centri di ricerca. Insomma un affare per i costruttori con un occhio al turismo e un altro al mondo digitale.
Il sindaco in prefettura non è andato ma ha commentato: «La cabina di regia è un luogo pericoloso, in cui si crea una torbida saldatura tra presunto interesse pubblico e ben individuato interesse privato. Il comune ha smascherato un’operazione illecita. Non ci faranno mai diventare complici di qualcosa di indecente a livello politico e istituzionale».
Il Fatto Quotidiano
UN EQUIVOLO LUNGO
(PER ORA) VENTICINQUE ANNI
di Marco Palombi
Venticinque anni, 360 milioni di euro e un equivoco. È di questo che parliamo quando diciamo Bagnoli. L’equivoco in realtà sono molti: quello del Mezzogiorno industriale e della fabbrica che spazz ’o vico sostituendo l’educata tuta blu alla plebe dei bassi; poi c’è l’equivoco delle bonifiche, quello del campare di turismo, quello della primavera napoletana.
Oggi Bagnoli, nel senso dell’area Bagnoli-Coroglio, sono mille ettari: erano quelli in cui sorgevano gli impianti Italsider (oggi Fintecna, cioè Cassa depositi e prestiti), l’industria del cemento che ne sfruttava le scorie (Cementir, controllata dal gruppo Caltagirone), più le zone limitrofe e ovviamente il mare. Oggi - come da 16 anni - Bagnoli è un Sin, un sito di interesse nazionale, nel senso che va bonificato. Ma la storia inizia prima. È l’inizio degli anni ’90 quando si spegne l’altoforno. La Bagnoli di cui parliamo oggi inizia allora e sopravvive sopra quella che esiste da sempre dentro i Campi Flegrei e corre tra la collina di Posillipo e il Golfo di Pozzuoli.
Il piano urbanistico a cui Matteo Renzi oggi dice di volersi conformare nasce 22 anni fa, nel 1994, per merito di Vezio De Lucia, assessore all’Urbanistica di Bassolino: all’ingrosso prevede che i 3/4 dell’area vada destinato a verde pubblico attrezzato. È il Progetto Bagnoli, quello “del verde, del sapere e del loisir ”, il tempo libero. C’è un problema. Bagnoli, dopo un secolo di industria, è un disastro. Va bonificata e le bonifiche costano.
Nel 1996 il Parlamento decide che pagherà lo Stato e stanzia 20 miliardi di lire per la neonata Bagnoli Spa: quando verrà chiusa, nel 2002, ne avrà spesi 300 e senza aver nemmeno cominciato a pulire. Il 2002 porta con sé un’altra società: Bagnoli Futura Spa, partecipata da Comune, Provincia e Regione. Chiuderà nel 2013 tra scandali e inchieste della magistratura: a quel punto, se ne sono andati un decennio e altri 200 milioni di euro con risultati rivedibili. In alcuni lotti, diceva Bagnoli Futura, la bonifica è al 60% con tanto di certificati ufficiali della Provincia. Solo che, fecero notare i pm di Napoli, controllore e controllato sono la stessa cosa: le analisi effettuate dai magistrati segnalavano addirittura un peggioramento delle condizioni ambientali di lotti che risultavano puliti.
Il simbolo di Bagnoli è la “colmata a mare”. Una montagna di rifiuti industriali prodotti da Italsider e Cementir che sta lì dagli anni Sessanta e ha modificato persino la linea della costa: 200mila metri quadrati che, dicono le analisi, continuano a inquinare il mare ancora oggi. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, a fine 2013 aveva emesso un’ordinanza che intimava a Fintecna e Cementir di rimettere tutto a posto. “Chi inquina paga”, dice la legge. Era la terza ordinanza simile e come le precedenti non è stata rispettata. Stavolta a bloccarla ci ha pensato il decreto Sblocca Italia.
E adesso? Bisogna capire cosa c’è da fare. Ispra, ente del ministero dell’Ambiente, ha concluso a febbraio la “caratterizzazione” del sito: una suddivisione per dimensioni e problematicità degli agenti inquinanti. Ma per sapere cosa c’è davvero a terra e in acqua bisogna aspettare l’estate. Scrive Ispra: “Nonostante la grande accuratezza nella definizione delle potenziali sorgenti di contaminazione può accadere di trovarsi di fronte a situazioni di criticità ambientale non prevedibili dal modello concettuale”. Pure la conoscenza a volte è un equivoco.
Riferimenti
Vedi i numerosi articoli nella cartella "Città oggi">"Napoli". Tra gli altri, quelli di Vezio De Lucia del 2010, C’era una volta il rinascimento napoletano e del 2013, Da emblema del rinascimento a feudo dei partiti, l'appello dei Comitati e dell'Assise cittadina per Bagnoli, e l'articolo di Marco De Marco del 2015, Bagnoli, De Lucia e il voto
«Ad una cosa non ci siamo abituati: a non poter avere le prerogative di una normale comunità, a cominciare dalla possibilità di incontrarsi senza essersi dati appuntamento. Mancano i luoghi per questo; non luoghi costruiti ad hoc, ma i luoghi del quotidiano. E per gli aquilani questi luoghi si trovavano nel centro storico». Il manifesto, 6 aprile 2016 (m.p.r.)
L’istantanea del centro storico dell’Aquila è un cielo ammantato di gru. Con lo sguardo che si paralizza, ancor più silenzioso, tra palazzi puntellati e vie interdette. Con la scritta, che comincia a sbiadire, «Zona rossa», ovvero off limits al passaggio, anche pedonale. I bracci dei mezzi meccanici sono una selva, svettano un po’ ovunque, quasi si litigano un pezzetto d’azzurro, fissando dall’alto fabbricati sbrindellati; sovrastando squarci di edifici signorili, tapparelle deformate e scardinate e pezzi di water e armadi che sonnecchiano, tra mucchi di polvere, dentro appartamenti sventrati, ma con portoni chiusi da catene e lucchetti.
Solitamente, è un brulichio di operai. A sette anni dal terremoto che alle 3.32 del sei aprile 2009 devastò il capoluogo d’Abruzzo e il suo circondario, provocando 309 vittime e oltre 1.500 feriti, è una città disorientata.
Tempi ancora lunghi
La ricostruzione, era stato promesso, sarebbe terminata entro il 2017. Ma i tempi previsti sono ancora lunghissimi. In centro diverse attività commerciali hanno timidamente riaperto e con esse anche alcuni uffici pubblici, tra cui la sede del Comune. Ma, rispetto a prima del disastro, sono una minima parte. E ciò che si coglie, negli occhi di quanti qui sono tornati ad operare e ad investire, è la rassegnazione. «Si lavora soprattutto con gli operai - affermano i commercianti -. Gli incassi languono, ma dobbiamo andare avanti. E quando i muratori staccano, è come se scattasse una sorta di coprifuoco».
«Il terremoto, quando arriva, non si limita ai pochi secondi della scossa. Continua fino a che non si esaurisce la scia dei danni che ha provocato. Quelli materiali e quelli sociali, mentali e psicologici. Perché il terremoto ti entra dentro e non ti molla. Per questo - riflette il giornalista Enrico De Pietra – non parlerei tanto di 7 anni dal sisma, ma di 7 anni di sisma. Sette anni per certi versi surreali, durante i quali, almeno apparentemente, ci siamo abituati a tutto: ai nostri morti, alla diaspora, al ritorno, alla precarietà, alla provvisorietà, alla desertificazione del centro storico, alle beghe e al malaffare. Ad una cosa non ci siamo però abituati: a non poter avere le prerogative di una normale comunità di provincia, a cominciare dalla possibilità di incontrarsi gli uni con gli altri senza essersi dati appuntamento. Mancano i luoghi per questo; non luoghi costruiti ad hoc, ma i luoghi del quotidiano. E per gli aquilani questi luoghi si trovavano nel centro storico. I quartieri tutt’intorno sono ricostruiti e ripopolati, quasi per intero, ma, non c’è verso, non sono nati per essere autonomi e aggreganti. Oggi - evidenzia - si entra nel cuore della città, la si osserva da lontano, e si capisce che si sta lavorando a pieno regime».
Sono poco più di 420 i cantieri attivi. «Sta di fatto, però, che resta un luogo… sospeso. Le stime ufficiali - aggiunge - dicono che nel 2022 il cuore dell’Aquila sarà totalmente ricostruito. Ma nessuno, nemmeno chi queste stime le ha prodotte, può onestamente dire con certezza se la previsione sarà rispettata».
Periferia «privilegiata»
La vita si concentra nelle periferie, nei pochi centri commerciali che, non essendoci alternative, sono diventati punto privilegiato di aggregazione. La vita è dislocata soprattutto nelle 19 new town, la cui nascita venne annunciata lo stesso giorno della tragedia. Mentre si piangeva, mentre si scavava sotto le cataste di macerie, sotto i rimasugli di stanze, mentre si allineavano le bare. E mentre alcuni imprenditori ridevano per gli affari che il disastro prospettava.
Sono 8.351 i cittadini ancora assistiti - quelli che hanno le proprie abitazioni inagibili -, sistemati tra i progetti Case, palazzoni antisismici ecocompatibili sorti in piena emergenza e a firma di Berlusconi e dell’allora capo della protezione civile Guido Bertolaso, e nei Map (Moduli abitativi provvisori), le cosiddette casette di legno. Ma il disagio è anche tra i banchi, per gli studenti: ci sono ancora 17 Musp (Moduli ad uso scolastico provvisorio) che ospitano circa 6 mila alunni.
«Nonostante i numerosi problemi di gestione sorti negli anni - commenta Fabio Pelini, assessore all’Assistenza alla popolazione - queste strutture sono state un punto di riferimento nelle fasi calde del post tragedia (quando ci furono 16 mila sfollati, ndr) ma, successivamente, hanno anche permesso di rispondere alle molteplici esigenze abitative emerse con l’acuirsi della crisi economica. Oggi – aggiunge – la fase più difficile ce la lasciamo alle spalle e il prossimo obiettivo è di razionalizzare l’utilizzo di questo patrimonio immobiliare, conservando gli alloggi ben fatti e smantellando quelli malconci».
Già perché gli edifici del progetto Case, per la cui realizzazione fu speso quasi un miliardo di euro, con l’operazione gestita interamente dalla Protezione civile, stanno mostrando i propri limiti. Formano sostanzialmente quartieri dormitorio, privi di servizi, che cadono a pezzi, tranne alcune eccezioni. Infiltrazioni negli appartamenti e nei garage, umidità e muffe che favoriscono pure la crescita dei funghi, perdite dagli scarichi, allagamenti, pavimenti che si scollano, problemi fognari.
Nel settembre 2014 è crollato un balcone nella frazione di Cese di Preturo e la magistratura e la Forestale hanno posto sotto sequestro 800 balconi in cinque di questi insediamenti: oltre che a Preturo, anche ad Arischia, Collebrincioni, Sassa e Coppito. E così, in queste case, le famiglie sono costrette a stare ‘sigillate’ tra le mura domestiche, senza potersi affacciare. Il 3 aprile scorso un altro balcone è crollato, sempre «per cedimento strutturale», sempre nella frazione di Cese di Preturo, dove alcune palazzine erano fortunatamente già state evacuate. A dare l’allarme è stato un signore che passeggiava con il cane. L’uomo ha sentito il tonfo e ha allertato le autorità.
Ieri dal municipio, per questa faccenda, è partita un’ordinanza con cui si dispone, per motivi di pubblica incolumità, lo sgombero di altri appartamenti.
Case nuove, crollano balconi
Per il crollo di Cese c’è un’indagine aperta, per difetti di costruzione e fornitura di materiali scadenti, con 39 indagati. Il legno, per balconi e alloggi, era stato fornito dalla Safwood, sotto inchiesta a Piacenza per crac finanziario.
«Se la Procura dovesse accertare che non solo i balconi ma anche i solai degli appartamenti sono a rischio a causa della stessa pessima fornitura, avrò 700 famiglie cui dare un altro tetto - dichiara il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente -. Inoltre le imprese che nel 2009 hanno costruito le new town dovrebbero, per contratto, intervenire sulle manutenzioni per 10 anni ma molte di esse sono fallite e quindi il Comune non sa su chi rivalersi». Nei casi più gravi e onerosi, dove il risanamento costerebbe milioni, il primo cittadino ipotizza il possibile abbattimento di questi complessi, costati 2.700 euro al metro quadrato e che sono esempio di «spreco di denaro e infiltrazioni mafiose».
Senza dimenticare l’inchiesta sugli isolatori sismici, installati in gran numero sotto le piastre delle new town: durante alcune prove di laboratorio in California, invece di resistere al terremoto simulato, si sono spezzati.
Va così, in una città vuota e smarrita, freneticamente a caccia di occasioni e in cerca di giustizia… Perché sette anni dopo si cerca ancora la verità su quanto accaduto quella funesta notte. C’è una ferita che s’infila e s’aggrappa, sdegnosa, ai numerosi processi spuntati dal dramma.
Tra essi, a generare più d’ogni altro rabbia e scandalo, c’è quello alla commissione Grandi Rischi. Solo pochi giorni fa la Cassazione ha depositato le motivazioni del verdetto con cui ha assolto i luminari finiti alla sbarra . «I sei esperti della Commissione - recita la sentenza 12478 - convocati a L’Aquila dalla Protezione civile, nella riunione del 31 marzo 2009, non erano al corrente del fatto che la seduta aveva la finalità di fornire alla popolazione un messaggio di rassicurazione». Allora la Protezione civile era guidata da Guido Bertolaso, attualmente candidato a sindaco di Roma.
Per la Suprema Corte, «gli scienziati - Franco Barberi, Enzo Boschi, Giulio Selvaggi, Michele Calvi, Claudio Eva e Mauro Dolce - nella riunione confermarono motivi di allarme per la situazione e negarono la teoria della prevedibilità dei terremoti».
Bertolaso «latitante»
Secondo la Suprema Corte fu solo Bernardo De Bernardinis, l’allora vice di Bertolaso, ad «aver calcato la mano» e ad aver tranquillizzato una città impaurita. «Non accadrà nulla». Ed invece fu una strage. De Bernardis fu imbeccato da Bertolaso? Ci sono telefonate, interviste e intercettazioni che lo provano ma… Bertolaso, per questo, ha due procedimenti aperti, uno penale, in cui è accusato di omicidio colposo plurimo e che il 7 ottobre si prescriverà, e l’altro civile.
«I familiari delle vittime - spiega il consigliere comunale Vincenzo Vittorini - stanno chiedendo a Bertolaso di lasciarsi processare, rinunciando all’imminente prescrizione». In tal senso c’è anche una petizione. “Che la magistratura faccia il proprio corso nell’accertare eventuali responsabilità: questo si pretende. E’ un coro di migliaia di voci a volerlo”.
Per quanto concerne il processo civile, l’ultima udienza è saltata perché Bertolaso risulta essere «irrintracciabile». Quindi niente citazione.
«Vive al quartiere Parioli - dichiara Antonietta Centofanti, referente del comitato “Familiari delle vittime del crollo della Casa dello studente” -, è visibile all’intero Paese con comparsate in tutte le reti televisive pubbliche e private, ma non è rintracciabile da un messo giudiziario che gli deve consegnare una convocazione affinché si presenti in aula. E’ una grave mancanza di rispetto, anche nei confronti dei nostri morti. Che poi quel che è accaduto riguarda tutti e questi sono i morti di tutti».
La Repubblica, 5 aprile 2015 (m.p.r.)
VIiggiano (PZ). Un documento rassicurante. Distribuito a sindacati, funzionari regionali, esponenti della politica, il 22 febbraio scorso, in occasione della riunione del Tavolo regionale della trasparenza sull’industria petrolifera della Basilicata e in particolare sull’inquinamento al centro oli di Viggiano. Un documento che stride con i dati che si leggono nell’ordinanza di 800 pagine alla base dell’indagine della procura di Potenza. «Tutti e cinque i dirigenti Eni che avevano partecipato a quella riunione - osserva il segretario della Fiom lucana, Emanuele De Nicola - oggi sono agli arresti».
Il documento presentato da Eni poco più di un mese fa riporta dati tranquillizzanti. Sintetizza così i «risultati del monitoraggio ambientale» effettuato dei tecnici della società. «La qualità dell’aria è buona - si legge - con dati da 5 a 10 volte inferiori ai limiti normativi » e addirittura «migliori che nella maggior parte delle città italiane». In particolare, sempre secondo l’Eni, i flussi delle emissioni in atmosfera «si attestano intorno al 25-30 per cento dei valori autorizzati dall’Aia», l’autorizzazione integrata ambientale valida nell’Unione Europea. Un dato certamente soddisfacente. Ma proprio su questo punto il documento della società petrolifera differisce in modo clamoroso da quanto è stato accertato dai pm di Potenza. A pagina 27 dell’ordinanza si legge che le emissioni in atmosfera, nel solo periodo tra dicembre 2013 e luglio 2014 «hanno superato per ben 208 volte i limiti di legge». In particolare la tabella allegata all’indagine sottolinea il caso delle emissioni di biossido di zolfo (So2) del termodistruttore contrassegnato con la sigla E 20. Secondo la perizia affidata dai pm e la tabella conseguente l’So2 nel punto E20 ha superato i limiti di legge per 29 volte nel periodo aprile2013-marzo 2014. Tanto da spingere il gip a commentare: «Tale elevata frequenza di superamenti indica in maniera chiara che l’assetto impiantistico e i sistemi di controllo per tale punto di emissione non sono in grado di assicurare in maniera stabile il rispetto dei limiti».
Eppure proprio sul termodistruttore E20 la narrazione del documento consegnato da Eni alla riunione del 22 febbraio è completamente diversa. A pagina 21 del dossier sulle migliori pratiche per la riduzione delle emissioni si legge che nell’impianto sono state adottate le procedure migliori «per evitare o, dove ciò si riveli impossibile, ridurre in modo generale le emissioni e l’impatto sull’ambiente nel suo complesso ». Dunque in uscita dal termodistruttore, di fronte a un limite Aia di 200 milligrammi per metro cubo di So2 la tabella indica quantità «inferiori a 180 milligrammi». Ampiamente al di sotto dei limiti, altro che «elevata frequenza dei superamenti». Siccome il termodistruttore è lo stesso e l’inquinante anche, le due ipotesi possibili sono comunque inquietanti. Sia che ad affermare il falso per nascondere i problemi sia stata una multinazionale come l’Eni sia che, al contrario, a forzare la situazione siano stato i periti che hanno redatto la consulenza per il tribunale.
Quella sulle emissioni del termodistruttore è solo una delle contraddizioni più stridenti tra quanto si legge nel documento Eni e quanto sta scritto nell’ordinanza del gip di Potenza. La stessa Eni dichiara che non esiste alcun problema relativo alle acque di reiniezione così come sulla salubrità della falda e dei fiumi. Per quanto riguarda le acque sotterranee ci sarebbe «il costante rispetto dei limiti normativi» mentre il lago artificiale del Pertosillo, al centro delle preoccupazioni delle popolazioni locali per le morie di pesci, «soddisfa tutti gli standard imposti dalla normativa». Toccherà ora al processo stabilire chi ha scritto la verità.
Critica
Marxista
, 1, 2016 (m.p.g.)
Avanti che il governo Renzi mettesse mano, prima col ministro Dario Franceschini e poi con la ministra Madia, a tutta una serie di "riforme" che investono in pieno il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, si pensava che quel corpo stremato e indebolito dai ripetuti tagli di risorse andasse anzitutto rivitalizzato subito con un piano graduale che prevedesse:
a) una congrua ricostituzione delle risorse per la cultura, divenute infime, e che ci ponevano, secondo l'Istat, al 22° posto, dopo Malta, Cipro e Bulgaria e prima delle sole Grecia e Romania;
b) la riduzione del "testone" centrale di direttori centrali e regionali, con il ripotenziamento delle Soprintendenze diffuse sul territorio e del personale divenuto drammaticamente insufficiente a fronte delle aggressioni portate al paesaggio, a partire da quello tecnico-scientifico, sottoretribuito e mediamente sui 50-55 anni di età;
c) l'organizzazione sollecita di autentici concorsi di merito coi quali rinsanguare gli ormai anemici quadri tecnico-scientifici e lo stesso personale di custodia del Mibact arricchendolo di nuove competenze e professionalità;
d) uno status giuridico ed una autonomia funzionale per i musei maggiori ai quali destinare una parte delle somme oggi lucrate dalla società oligopolistiche di servizi aggiuntivi;
e) un rapporto coi privati che privilegiasse i mecenati veri e che non avviasse alcuna ambigua privatizzazione delle gestioni museali.
Era una linea, questa, che ancora ricomprendeva la cosiddetta valorizzazione nella tutela stessa. Due valori scissi dal sciagurato pasticcio del Titolo V della Costituzione (Bassanini-Fassino), ricuciti a fatica, bisogna riconoscerlo, dai ministri Rocco Buttiglione e Francesco Rutelli.
Renzi e per lui Franceschini ha invece puntato sulla netta scissione fra valorizzazione e tutela al punto che si parla soltanto della prima e la seconda è praticamente sparita dal lessico ministeriale e governativo. In perfetta coerenza del resto con quanto aveva scritto nel suo libro "Stil novo" Matteo Renzi nel 2011 da sindaco di Firenze: "Sovrintendente (con la V e non con la P) è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. E' una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia sin dalla terza sillaba. Sovrintendente (sic) de che?" "Potere monocratico che non risponde a nessuno". Che "non può essere al centro di un sistema organizzativo dell'800" (Renzi non sa che dal punto di vista programmatico risale addirittura a Raffaello e alla famosa lettera-manifesto inviata nel 1519 a Leone X). Una bellicosa dichiarazione di intenti, più volte ripetuta nel tempo. Una strategia di guerra a competenze e controlli tecnico-scientifici a tutela del patrimonio archeologico, storico-artistico e paesaggistico.
Le leggi Franceschini e Madia col corollario del decreto Sblocca Italia configurano infatti due sistemi distinti: un sistema museale con 20 musei di eccellenza, 17 Poli museali incaricato della valorizzazione del patrimonio, della sua "messa a reddito" (possibilmente) da privilegiare e un sistema territoriale da lasciare in secondo piano con le Soprintendenze archeologiche, Belle arti e paesaggio, archivistiche+archivi e biblioteche, delle quali viene ridisegnata nella maniera più sbrigativa la stessa geografia culturale. Una scelta che travolge quell'idea geniale del "contesto" affermata fra '700 e '800 da Quatremère de Quincy o anche del "palinsesto millenario" del paesaggio in cui tutto si tiene e si lega riaffermata nella discussione al Senato per la legge Galasso da Giulio Carlo Argan.
Al fondo dell'ebbrezza "valorizzatoria" c'è probabilmente l'illusione provinciale che i Musei siano "macchine da soldi" sin qui scioccamente trascurate e lasciate impolverare. Ignorando che lo stesso Grand Louvre con le entrate proprie copre sì e no il 50 % dei costi e altrettanto accade al Metropolitan Museum. Ignorando il modello inglese che ha reso gratuiti gli ingressi ai maggiori Musei puntando anche così ad incrementare il turismo culturale e riuscendoci. Perché non sono i musei a far soldi bensì il loro indotto, cioè il turismo culturale debitamente organizzato e promosso.
Scindendo la valorizzazione dalla tutela si è tagliato di netto il rapporto fra Musei e Territorio, una delle acquisizioni più apprezzate della nostra cultura della tutela e della conservazione, un vero "modello italiano". Ognuno può constatare come oggi, nonostante le quotidiane razioni di lodi alla bellezza italiana, un'altra parola sia uscita dal lessico ministeriale: il paesaggio. Il valido Codice per il Paesaggio nell'ultima redazione Rutelli/Settis ha racimolato a fatica 3 soli Piani paesaggistici, in Sardegna, meritoriamente, ai tempi della Giunta Soru, in Toscana, fra roventi polemiche. e in Puglia, la regione più seminata di grandi pale eoliche.
Del resto gli stessi Parchi Nazionali - formidabile, insperata acquisizione degli anni '80 e '90 - sono oggi abbandonati a se stessi (alcuni, come lo Stelvio, già smembrati), affidati ad amministratori e ad interessi locali, a commissari e sub-commissari, senza direttori spesso e con fondi miseri in grado di garantire solo la più stentata sopravvivenza. E non stanno meglio i numerosi Parchi Regionali come ci confermano le notizie recenti del primo di essi, quello del Ticino, minacciato da autostrade insensate e da nuove piste aeroportuali, e dell'Appia Antica dove sulla componente archeologica pende la minaccia continua di essere sacrificata ad altre logiche, anche qui "valorizzatorie".
Con gli archivi e le biblioteche, tesori culturali strepitosi, siamo lontani dall'idea della turbo-cultura e quindi è logico che siano abbandonati all'inedia e agli sforzi eroici di archivisti e bibliotecari con un 66 % dei "funzionari archivisti di Stato" che ha già superato i 60 anni. Siamo all'estinzione fisica progressiva. Il corpo dunque gracile. spossato, invecchiato dei Beni Culturali e Ambientali (riprendo la mirabile dizione spadoliniana), invece di essere oggetto di cure ricostituenti, è stato squassato da una terapia tanto violenta quanto affrettata, priva di una idea generale, strategica che non fosse la mitica "valorizzazione".
In chiave mediatica e turistico-commerciale. La stessa creazione dei 20 Musei di eccellenza con un concorso internazionale (che però non era un vero concorso), uno solo dei quali affidato ad un funzionario del Mibact, ha forse portato in Italia grandi esperti di management museale o promosso italiani di autentico spessore specifico? Alla napoleonica Pinacoteca di Brera è stata accorpata anche la teresiana Biblioteca Braidense storicamente antecedente e da sempre autonoma e il nuovo titolare James Bradburne si è affrettato a rassicurarci che a lui "piacciono molto anche i libri". Dopo qualche mese, fra l'altro, lo stesso Bradburne ha dichiarato pari pari che "valorizzazione e tutela devono marciare di pari passo", smentendo quindi il suo ministro e Renzi. Agli Uffizi, dove tanto si era prodigato in condizioni decisamente difficili Antonio Natali, il suo successore Eike Schmidt, un esperto di scultura, arti applicate e tessili (del Minnesota), ha enunciato due linee strategiche: accrescere le aree museali da affittare per eventi commerciali e "abbattere le code e le attese troppo lunghe". Come? Non si sa. Poi, per la verità, è tornato sui suoi passi negando di voler concedere spazi museali agli "eventi" commerciali, semmai grandi terrazze (Loggia dei Mercanti, Boboli, ecc.). A Paestum è andato un giovane tecnico svizzero il quale per primo dichiara di non avere alcuna esperienza gestionale e che ora però si è messo alla testa della lotta agli abusivi riconfermando con ciò l'indissolubile legame fra musei, siti archeologici e territorio, l'unitarietà di tutela e valorizzazione. A Taranto Museo mirabile della Magna Grecia una archeologa del Medio Evo. A Napoli straordinario Museo della classicità greco-romana un etruscologo dalla bibliografia disarmante per pochezza e a Caserta, la "Versailles italiana", un laureato in marketing con due pubblicazioni sui...cimiteri monumentali.
Come non avvertire un qualche profumo di antiche spartizioni "politiche"? Tutti messi a capo di strutture con pochi custodi demotivati e con ancor meno tecnici. Per cui il Mibact nei giorni scorsi ha avuto l'idea geniale di allestire - "alla chetichella" secondo il coordinatore toscano del sindacato Confsal Unsa Learco Nencetti - un helpdesk , una sorta di Telefono Amico "esclusivo" che soccorrerà i supermanager in tutte le materie strategiche: bilancio, personale, spesa, valorizzazione e tutela, prestiti per mostre, sponsorizzazioni e erogazioni liberali ecc. ecc. Qualcuno si chiede: ma sono davvero supermanager esperti della materia? Anche quelli già in carica, come Anna Coliva alla Galleria Borghese (unico funzionario del Mibact confermato alla guida di un grande museo) hanno dovuto constatare che la nuova situazione non crea miracoli, che i soldi per ora sono pochi, come i custodi disponibili, per cui la stessa Galleria Borghese, affollata di prenotazioni, ha dovuto chiudere alcune sale.
In realtà questi 20 superdirettori retribuiti con 145.000 euro lordi all'anno contro i circa 35.000 lordi dei loro predecessori agli Uffizi, a Caserta o a Brera - come del resto le decine di direttori (assai meno remunerati) andati ai musei non autonomi e ai Poli museali - si devono essere accorti che la cura radicale cui è stato sottoposto il vecchio nobile malnutrito, debilitato destriero dei Beni culturali lo sfianca e confonde non poco. Essa prevede che le Soprintendenze, le quali spesso gestivano direttamente Musei e Pinacoteche, si tengano le loro sedi e, quando possono, il loro personale tecnico-amministrativo, i loro, per quanto antiquati computer, i loro archivi, inclusi quelli fotografici, ecc.
E ai Musei cosa va? Maggiori fondi, ma quando? C'è stato inoltre un certo travaso di tecnici, per esempio di storici dell'arte (già rari), ai musei, magari archeologici, per cui nella Soprintendenza accorpata Belle Arti e Paesaggio sono rimasti soltanto architetti (pochi pure loro). E' successo che ad una importante Soprintendenza sia stata chiesta l'expertise su una certa pala d'altare e che nessuno fosse in grado di esaudire la richiesta. Da tempo in certe Soprintendenze, per carenza di personale, lo stesso Ufficio all'Esportazione ha funzionato a scartamento ridotto o rimane chiuso per giorni fra le proteste degli spedizionieri. Figuriamoci ora.
Intanto i direttori dei Poli museali dovrebbero correre come disperati per la regione con stipendi insufficienti e senza i rimborsi (almeno teorici) per le trasferte previsti fino a che erano nei ranghi della Soprintendenza. E va malissimo anche a quei funzionari divenuti direttori di musei o siti diversi in città o cittadine differenti. Stipendio medio: 1.650 euro al mese.
Ancor più problemi pone ovviamente nella gestione dei musei archeologici la scissione fra museo e territorio che in questo caso è l'area di scavo con cui sono stati sin qui, logicamente, un tutt'uno. Guai molto pesanti provoca la separazione dei musei, parlo ovviamente di quelli archeologici, dalla Soprintendenza. Infatti musei nazionali, a parte quelli di tradizione ottocentesca che hanno raccolto vecchie collezioni, come quelle borboniche, nella prevalenza dei casi sono strettamente legati al territorio, sono di formazione recente ed hanno saputo coniugare e promuovere tutela, conoscenza, promozione costituendo veri presidi permanenti sul territorio.
La riforma Franceschini però altera o sconvolge gli equilibri di questo rapporto virtuoso e condanna alla impotenza le Soprintendenze e alla staticità i musei archeologici privandoli dell'apporto continuo di nuovi restauri e nuovi scavi. La separazione tra magazzini e musei, tra nuove acquisizioni di materiali provenienti dalla ricerca e nuovi progetti espositivi, causerà problemi a non finire. Al vertice del Ministero evidentemente ignorano che l'intensa attività di tutela degli ultimi decenni per fronteggiare l'espansione edilizia speculativa, opere pubbliche fortemente invasive e distruttive ha determinato l'accumulo di quantità impressionanti di materiali di grande interesse, ma tuttora da schedare, da conoscere.
I rischi sono facilmente intuibili, aggravati dall'ormai vicino pensionamento di molti validi funzionari tecnici, privati di riconoscimenti e impossibilitati a trasferire ad altri le loro conoscenze. Archivi umani che saranno persi a breve. Il personale al momento appare disorientato, stanco, spaventato, spesso anche con l'angoscia di possibili trasferimenti paventati volutamente dalle strumentali propagande di alcuni gruppi interni. In Calabria, musei prestigiosi e lontani come Sibari con relativo parco archeologico e Vibo Valentia con il parco di Ipponion verrebbero assegnati in modo analogo allo stesso funzionario. In Puglia il medesimo funzionario dovrebbe curare l'importante museo di Manfredonia nel Foggiano, noto per le sue stele daune e per le presenze pre-protostoriche, e contemporaneamente l'altro importante museo di Gioia del Colle posto all'interno del castello federiciano e con annesso parco archeologico. Nel Lazio sono state sospese le nomine dei direttori di musei archeologici importanti come Palestrina e Civitavecchia. Ci si rende conto al Collegio Romano che il sistema non funziona? Non ci voleva molto a capirlo.
Per ora si divide il poco personale smarrito, stanco e sfiduciato tra uffici del polo e direzione della Soprintendenza archeologia. I magazzini-deposito perdono i punti di riferimento conoscitivo. Le risorse finanziarie già ridotte, prima condivise, devono essere ripartite tra gli uffici. Gli archivi storici delle Soprintendenze, come quelli fotografici e documentari, sono contesi tra i dirigenti e rischiano una pericolosa frammentazione che somiglia e si avvicina molto alla loro distruzione. Il personale tecnico-amministrativo, ormai anziano, frustrato da anni di politiche che sovente hanno mortificato il merito e premiato le clientele, rischia l'implosione.
E di conseguenza, tutto il sistema della tutela pazientemente costruito negli anni, sostenuto dalla passione e dalla generosa attenzione di tanti funzionari, si appresta a scomparire. Contemporaneamente, le numerose Università italiane che hanno prodotto laureati in Lettere Classiche o Beni Culturali vedono con grande mortificazione la fuga all'estero dei loro prodotti migliori o, in alternativa, la loro utilizzazione in lavori che non richiedono necessariamente un percorso di studi universitari.
Le nuove piante organiche non sembrano destinate a risolvere il problema neanche in prospettiva, visto che le dotazioni delle Soprintendenze restano enormemente al di sotto delle necessità effettive e a poco potrà valere, sempre se verrà messo in pratica, l'annunciato concorso per 500 posti per funzionari tecnici. Esso probabilmente coprirà a malapena i pensionamenti. Mentre i 150 milioni in più promessi per il 2016 con la legge di stabilità riportano, sì e no, il bilancio del Mibact ai livelli già depressi del 2008-2009 recuperando un po' di più dell'inflazione. Comunque denari benvenuti dopo anni di tagli (sempre che la legge di stabilità regga sino alla fine).
Ma veniamo al territorio, al paesaggio. La riforma, pur sollevando le Soprintendenze dalla gestione dei siti museali e monumentali assegnati ai poli regionali, prevede il raddoppio delle competenze su tutti i territori (tutela architettonica e paesaggistica + storico artistica e etnoantropologica). In alcuni casi particolari tale raddoppio è ulteriormente aggravato dalla ridefinizione territoriale: in Calabria sono stati accorpati i territori, quindi il carico di lavoro nel settore della tutela tende a quadruplicarsi, mentre la nuova Soprintendenza unica dell'Aquila, pur relativa ad un territorio limitato, assomma anche le competenze della tutela archeologica e quelle di stazione appaltante della ricostruzione post-sisma, in un ambito territoriale in cui si concentrano criticità e complessità enormi, che ad oggi vengono gestite con pochissime unità di personale tecnico (ad oggi solo 8 architetti, 2 storici dell'arte e 2 archeologi di altro istituto in collaborazione temporanea...in attesa dei nuovi organici).
Il potere salvifico della (pur doverosa) informatizzazione e modernizzazione degli uffici con la costituzione di sistemi di banche dati non basterà, laddove si stanno perdendo competenze, esperienze e saperi specifici per i quali non viene previsto un ricambio né tantomeno un adeguato percorso di affiancamento tra nuovi assunti e funzionari anziani. Ma quale sarà l'impatto che deriverà - sugli uffici così indeboliti e, ovviamente, sull'intero sistema della tutela sul territorio - dalla progressiva attuazione delle novità normative introdotte dal governo negli ultimi 18 mesi in ordine alle grandi opere e all'edilizia residenziale e non residenziale? Primo: è stata anzitutto concessa alle amministrazioni la possibilità di richiedere il riesame di tutti i pareri rilasciati, attraverso l'operato delle commissioni regionali (introdotto dal decreto art bonus e definitivamente reso operativo dalla riforma Mibact di cui al DPCM 171/2014 e successivi decreti attuativi. Secondo: le disposizioni contenute nella legge Madia e i suoi primi decreti attuativi del 25 gennaio 2016 hanno confermato che la "velocizzazione" dei pareri, la semplificazione delle procedure producono effetti sciagurati, a partire dal famigerato silenzio/assenso che il governo Renzi ha esteso per la prima volta (dopo anni in cui la sinistra si opponeva fieramente e con successo ad analoghi tentativi da parte dei governi di centro destra) alla materia dei beni culturali e del paesaggio. Terzo: le modifiche delle norme sul funzionamento della conferenza dei servizi, già introdotte,col decreto Sblocca Italia per alcune categorie di interventi e rese permanenti ed estese con la legge Madia. In tal modo si istituisce una sorta di livello superiore decisionale quando permangano diversità di vedute nei pareri degli enti preposti alla tutela e delle amministrazioni locali. Esaminiamoli nel dettaglio. Ecco che allora la commissione regionale, composta dai dirigenti Mibact della regione, può ricevere la richiesta di pubbliche amministrazioni di riesaminare qualunque parere o atto emanato dalle Soprintendenze entro 3 giorni dal ricevimento. La commissione deve esprimersi entro 10 giorni.
Considerando che la riforma attribuisce alla commissione gran parte dei compiti che prima spettavano al direttore regionale (conclusione dei procedimenti) e che per questo la commissione deve naturalmente prevedere riunioni molto frequenti, è evidente che gli obblighi connessi al riesame dei pareri richiederebbero convocazioni ravvicinatissime, con carico di lavoro soprattutto per i dirigenti che operano in città diverse (e costi di missioni). Quindi: un ufficio lavora per settimane o mesi per produrre un parere o un atto (p.es. un vincolo), il Soprintendente lo firma e lo inoltra alla commissione per l'emanazione del provvedimento finale, la commissione si riunisce, lo approva ed emana il decreto, il comune lo riceve e entro tre giorni chiede il riesame, la commissione deve nuovamente riunirsi entro dieci giorni per valutare la richiesta e confermare o sconfessare se stessa ed emanare di nuovo l'atto (uguale o modificato). Tutto ciò moltiplicato per tutti in pareri o atti che possono risultare in contrasto con le volontà delle amministrazioni locali.
Il silenzio assenso della legge Madia, operativo dallo scorso mese di agosto, si riferisce ai soli pareri "endoprocedimentali", cioè quelli in cui gli uffici Mibact sono chiamati ad esprimersi nell'ambito di procedure tutte in capo alle amministrazioni locali. Salvo pochi casi (cartelli pubblicitari o occupazioni di suolo pubblico nei centri storici) esse riguardano essenzialmente la tutela paesaggistica e comprendono (attenzione!) tutte le procedure che pervengono ai Comuni da parte dei privati e che i Comuni trasmettono alle Soprintendenze per il nulla osta. Quindi si tratta di un silenzio/assenso che non mira, come si è detto, a semplificare e velocizzare i rapporti tra amministrazioni, ma di fatto apre un percorso preferenziale agli interessi dei privati.
Non basta. Infatti le autorizzazioni paesaggistiche "ordinarie" - quelle dei cittadini che correttamente presentano i progetti e chiedono il previsto nulla osta prima di costruire - già godono di una forma di silenzio/assenso, addirittura più "conveniente", visto che il codice prevede che se la Soprintendenza non si esprime, già al 60° giorno il Comune può procedere autonomamente. V'è di più e di peggio. La nuova norma risulterebbe avvantaggiare realmente, con un automatismo difficile da controllare, soltanto coloro che devono/vogliono regolarizzare una illegittimità che prima d'ora poteva essere sanata unicamente con un espresso parere positivo della Soprintendenza. Nessuna abdicazione alla tutela, è stato detto, ma solo la previsione che la tutela venga esercitata in tempi certi e rapidi, ma perché ciò viene introdotto proprio per i reati edilizi? E quale rapidità si può ragionevolmente invocare da uffici ridotti ai minimi termini, sepolti sotto montagne di pratiche molto complesse che richiedono ricerche e sopralluoghi, normalmente 5-10 pratiche a testa per giorno lavorativo, addirittura 79 pratiche al giorno (parola dell'ex direttore generale Roberto Cecchi) alla Soprintendenza di Milano?
Le norme della legge Madia prevedono anche un "estremo appello", se tutti gli espedienti dei punti precedenti dovessero fallire e/o trovare una Soprintendenza "pronta ed efficiente" e una commissione compatta del difendere i pareri espressi: è il passaggio che prevede, in caso di mancato accordo tra amministrazioni statali, l’intervento del Presidente del Consiglio – su deliberazione del Consiglio dei Ministri - nel definire le modifiche al provvedimento. Infine, le nuove norme in materia di conferenza dei servizi prevedono la partecipazione di una sola figura in rappresentanza di tutti gli uffici statali. E' ovvio che tale unificazione in un solo rappresentante riduce ad uno anche il peso di un eventuale voto nella conferenza dei servizi. Qui emerge una evidente anticipazione del previsto progetto (riforma Madia della P.A.) di unificare sotto le Prefetture tutti gli uffici delle amministrazione statali sul territorio, a partire dalle Soprintendenze.
Una proposta storicamente e culturalmente scandalosa, una regressione complessiva mai vista a ben prima delle leggi della Repubblica (articolo 9) e seguenti, a ben prima delle stesse leggi bottaiane del 1939, per non parlare di quelle giolittiane. Le Soprintendenze come Sottoprefetture alla antica e autoritaria maniera sabauda. E pensare che la rete delle nostra tutela era ammirata e "copiata" da altre importanti Nazioni. Dunque, le disposizioni della legge Madia, presentate come norme moderne volte a perseguire obiettivi di semplificazione e velocizzazione delle procedure amministrative per garantire “il diritto dei cittadini ad avere risposte certe nei tempi previsti dalla legge” e “costringere le amministrazioni a prendersi la responsabilità delle proprie decisioni”, in realtà per quanto attiene al campo dei beni culturali e paesaggistici finiscono per agevolare quegli interventi realizzati (più da soggetti privati che da amministrazioni pubbliche) in aree tutelate in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica. Situazioni di illegittimità che a volte finora non sarebbero neanche sanabili per legge. Allarme "rosso".
Si pensi che fra 1996 e 2005, cioè prima dell'ultima lunga recessione, i Comuni hanno autorizzato bel 3,2 miliardi di metri cubi di nuova edilizia, con consumi pazzeschi di suoli e di paesaggi. Continuiamo infatti a "mangiarci" 8 mq di suoli liberi al secondo, cioè un'area grande come quella di Napoli in solo cinque mesi. Siamo esattamente al triplo del consumo medio di suolo in Europa: 6,8% contro 2,3%. In sostanza si potrebbe paradossalmente affermare che il Ministero si trasformerà in una grande (speriamo) Agenzia Viaggi per il Turismo Culturale, mentre la tutela o quel po' che ne rimane sarà affidata alla mano prudente dei Prefetti sotto i quali andranno a collocarsi le Soprintendenze ridotte - secondo la riforma Madia - a Sottoprefetture. Difatti Franceschini è subito passato con una "normetta" nascista nelle pieghe della legge di stabilità (ormai si "riforma" così") all'accorpamento delle varie Soprintendenze - archeologia, belle arti e paesaggio - in un solo organismo.
Riforma tentata nel 1923 e poi abbandonata dallo stesso fascismo che per bocca del ministro Giuseppe Bottai sostenne che in tal modo venivano frustrate e sacrificate le competenze specifiche degli archeologi, degli storici dell'arte, degli architetti e varò nel 1939 le leggi n. 1089 sul patrimonio artistico e 1497 sul paesaggio, ottime leggi, molto centraliste certo, che però, rese costituzionali, sono servite per anni a tutelare il Belpaese. Così accorpate e depotenziate (in un autentico caos per l'attribuzione degli uffici, degli archivi cartacei e fotografici, ecc.), le Soprintendenze potranno rientrare più docilmente sotto i prefetti e magari sotto il Ministero dell'Interni dove del resto è già allocato il Fondo per l'Edilizia di Culto, l'unico organismo che ha soldi e che si occupa delle centinaia di chiese (pochi lo sanno) di proprietà dello Stato dall'Unità d'Italia, soltanto a Roma SS Apostoli, Chiesa Nuova, Sant'Ignazio, Gesù, Caravita, Sant'Andrea al Quirinale, San Marcello al Corso, Santa Sabina e tante altre.
Questi accorpamenti avvengono per aree oltretutto disegnate nel modo più improvvisato: Bologna si vede staccata dalla Romagna e da Ferrara alle quali è sempre stata storicamente e culturalmente legata, per essere collegata con Modena e Reggio Emilia con le quali non ha grandi rapporti. Una follia che sta suscitando la protesta generalizzata degli archeologi soprattutto, giustamente orgogliosi della loro "specificità", i quali formarono la prima divisione generale (delle Antichità) nel corpo del Ministero della Pubblica Istruzione a fine Ottocento. Ma un sia pur sintetico passaggio devo dedicarlo al capitolo da anni doloroso del personale del Ministero che in certe inchieste giornalistiche dilettantesche viene in partenza considerato "pletorico". Esso in realtà deve tutelare, conservare, custodire, gestire direttamente o avere sotto controllo indirettamente circa 2 mila aree e siti archeologici (dei quali 740 statali), 95 mila fra chiese e cappelle di cui 85.000 vincolate e circa 2500 "nazionalizzate" (e nel Sud le chiese sono i veri musei di pittura e scultura), più di 7o antiche sinagoghe, oltre 4 mila musei dei quali 700 statali, 1500 civici e 700 ecclesiastici, 40 mila fra torri e castelli, migliaia di archivi, pubblici e privati (25mila parrocchiali e altri 3 mila fra diocesani, seminariali, capitolari, di congregazioni) e di biblioteche antiche, oltre 20 mila centri storici dei quali almeno mille straordinari, circa 141 mila Kmq di territorio vincolato in forza delle leggi Bottai e Galasso (il 47 % del territorio e del paesaggio italiani) e via elencando.
Nel 2010 i dipendenti del Mibact erano 21.242. Alla fine del 2011 se ne contavano 19.545 con un calo generalizzato di 1.697 unità (- 8 %) fra esodi e pensionamenti non ricoperti. Alla fine del 2014 il numero dei dipendenti dal Mibact è sceso ancora: esattamente a 18.209 (- 1.636 unità - 8,3 %). Nel quadriennio in esame i dipendenti si sono ridotti di 3.033 unità con una calo percentuale del 14,3 %. Neppure dove gli introiti sono da primato come al Colosseo dove si incassa un terzo di tutte le entrate dei Musei statali: dalle ingenerose polemiche contro i custodi è emerso che gli stessi sono 27 a pieno organico per un pubblico ordinario sulle 10-12.000 unità che diventano anche 25-30.000 nelle tanto vantate domeniche gratuite. Con lo sconvolgimento portato dalle "riforme" renziane le forze in campo per la tutela si riducono ancor più. Comunque già prima di esse avevamo 487 architetti in tutta Italia per vigilare sul territorio vincolato che si è appena detto, cioè un architetto ogni 290 Kmq. Nei nostri archivi statali c'erano 2.761 addetti di cui 365 archivisti di Stato-direttori. Il solo Royal Archive di Londra può contare su 90 archivisti e su un personale complessivo di 530 unità. Nel 2000 il bilancio consuntivo del Mibac registrava risorse pari allo 0,39 % del bilancio dello Stato.
Nel 2013 le risorse costituivano lo 0,19 %, con un pratico, disastroso dimezzamento delle risorse in tredici anni. Cali continuati inesorabilmente. Per il prossimo esercizio, in extremis, il governo ha operato una prima inversione di tendenza riportando la spesa prevista quasi ai livelli del 2000 (governi D'Alema e Amato). In termini assoluti, non in percentuale sul bilancio dello Stato e senza recuperare l'inflazione. Tuttavia è prevedibile che i milioni di euro previsti in più rispetto agli ultimi esercizi vengano dirottati sulla valorizzazione e quindi soprattutto sui Musei di eccellenza a discapito della tutela e dei piccoli e medi musei. Per il progetto - tipico della cultura-spettacolo o turbo-cultura - del ripristino dell'Arena Colosseo voluto con grande energia dal ministro - si prevedono (senza contare, temo, le spese indispensabili per regimare le acque del sottosuolo, impetuose, anzi irrefrenabili, per ora, con le grandi piogge) ben 18 milioni di euro coi quali si potrebbero, ad esempio, acquisire e restaurare tanti siti e monumenti oggi non curati della mirabile Appia Antica ancora privata al 90 e più per cento. Per l'Appia poi, la "normetta" Franceschini, ha previsto di creare un Parco archeologico che non avrebbe (il condizionale è d'obbligo) funzioni di tutela bensì di valorizzazione del comprensorio. Per trasformarlo in una sorta di "parco ludico-sportivo-turistico" magari a pagamento? E' probabile.
E contro di esso si è svolta sabato 13 febbraio una grande marcia alla quale hanno partecipato 500 persone. Potevano e dovevano dunque razionalizzare, modernizzare, potenziare il Ministero e le sue articolazioni territoriali a beneficio di tutti, del Belpaese. Hanno invece sconvolto l'esistente, già debole e povero di mezzi e di tecnologie, introducendo non il "nuovo", ma il caos. Da anni ci aspettiamo il peggio, fin dalla Giornata di protesta nazionale che organizzammo - Bianchi Bandinelli, Assotecnici e Comitato per la Bellezza - con l'indimenticabile Beppe Chiarante esattamente dieci anni fa, l'11 novembre 2005 in pieno berlusconismo. Ma non pensavamo che sarebbe sopraggiunta questa slavina a sconvolgere tutto e a scomporre il Ministero, già tanto indebolito, in una sorta di Agenzia Viaggi e Turismo e in tante Sottoprefetture soggette ai prefetti, cioè al Viminale.
Con tutto ciò, continueremo instancabilmente a denunciare guasti e a proporre ragionevoli soluzioni, come ci hanno insegnato a fare i nostri maestri e fratelli maggiori. Come Beppe Chiarante appunto.
«La vittoria del SÌ al referendum del 17 aprile potrebbe dare una spallata ad un castello di bugie e mostrare che la strada verso la democrazia energetica, verso una promozione sostenibile dei talenti sani dei nostri territori è segnata e che non si torna più indietro», Sbilanciamoci.info, newsletter 467, 31 marzo 2016
Pensavo fosse incompetenza o mancanza di visione. Fresca di laurea, folgorata sulla via dell’energia come “madre di tutte le battaglie” da combattere (contro le crisi internazionali, i ricatti dei potenti detentori delle risorse, contro le crisi sociale, ambientale e poi anche economica), ero ingegneristicamente innamorata dell’idea che sole, vento, biomassa, maree e calore della Terra, assieme alle intelligenti evoluzioni della tecnologia, avrebbero mostrato di lì a poco la via per costruire una nuova “democrazia energetica” e, ingenuamente, pensavo il freno fosse causato “solo” dalla manifesta incapacità strategica di un apparato politico/burocratico stanco, cinico e clientelare.
E invece sbagliavo di grosso. La strategia esiste. Esiste e appare dettata da un potere apartitico (evidente se si analizza l’assoluta continuità nelle scelte fossili degli ultimi 4 governi, dalla destra di Berlusconi/Romani, ai tecnici Monti/Passera, passando per la “sinistra” di Letta/Zanonato, fino al governo del partito della “nazione” di Renzi/Guidi, il più fossile di tutti) gestito attraverso schiere di azzeccagarbugli che usano la normativa contro i cittadini, contro la partecipazione, contro le migliori idee ed energie del Paese.
L’ascolto è riservato esclusivamente ai soliti noti, per i quali un varco nel ginepraio della burocrazia si riesce sempre ad aprire (le autostrade, gli inceneritori, il cemento, le trivelle dello “sbloccaItalia” ne sono la manifestazione plastica).
La “strategia” esiste, e ci sono almeno due campi di gioco.
Il primo campo è quello del sistematico affossamento di uno dei settori economici più promettente del nostro Paese, quello delle fonti rinnovabili, che hanno l’enorme colpa di aver iniziato a dimostrare di essere pronte, da subito, a fare la propria parte (il 40% dell’energia elettrica prodotta in Italia nel 2014 deriva da fonti rinnovabili), senza restare confinate nella nicchia che si era pensata per loro. Lungi dal considerare un successo questa straordinaria progressione, ci si è immediatamente preoccupati per la progressiva inutilità delle turbo-gas a metano, installate come funghi nel recente passato.
Ne è seguita una campagna mediatica impressionante che punta il dito sul “costo delle rinnovabili in bolletta”, che sarebbero le responsabili della pesantezza della spesa energetica sulle famiglie italiane; si tace però sul fatto che le risorse fossili ricevono dallo Stato agevolazioni di ogni genere e finanziamenti diretti/indiretti stimati in circa 14 miliardi di euro/anno, e che il grande beneficio delle rinnovabili sul prezzo dell’energia all’ingrosso rimane spartito nel mercato dei grossisti, a causa di un complicatissimo meccanismo con il quale tale prezzo viene stabilito.
Alla campagna mediatica si sono associate azioni gravissime:
- sistemi di incentivazione di respiro breve/brevissimo (in primis il conto energia per il fotovoltaico), modificati “in corsa” senza interlocuzione con gli operatori e poi troncati (persino sugli interventi che consentivano le bonifiche di coperture in eternit),
- normative monche che paralizzano per anni settori promettenti (solare termo-dinamico e bio-metano, ad esempio),
- incapacità del sistema di tenere sotto controlli i tempi per le autorizzazioni (eolico o idroelettrico), anche per la presenza di interlocutori multipli e ridondanti, con procedure variabili nei diversi territori.
Come se non bastasse, grazie al governo Renzi, è arrivato lo “spalmaincentivi” che ha ritoccato retroattivamente al ribasso, su impianti già attivi, il valore dell’incentivo previsto; poi i bastoni tra le ruote all’autoconsumo, poi gli attacchi all’efficienza energetica, poi il nuovo decreto sulle rinnovabili non fotovoltaiche in cui spicca un contributo esplicito per gli inceneritori. Poi una lista che potrebbe continuare per pagine di rabbia, il cui effetto si può facilmente sintetizzare con un paio di numeri: investimenti passati dai 31 miliardi di dollari del 2011, a meno di un miliardo nel 2015, decine di migliaia di posti di lavoro persi (con un nucleo attualmente resistente di circa 75.000 addetti, ma un potenziale occupazionale incredibilmente maggiore, che non aspetta altro di essere liberato da trappole e trucchi, per poter correre correttamente sul mercato).
Sul campo numero due si gioca la partita che interessa più direttamente il referendum: la costruzione del miraggio della irrinunciabilità, per il nostro sistema Paese, dell’utilizzo delle fonti fossili (metano e petrolio) presenti nel sottosuolo.
Il governo Monti, con il decreto sviluppo, riaprì la strada a permessi di ricerca e coltivazione (estrazione) entro le 12 miglia marine dalla costa, che la Prestigiacomo, sull’onda del terribile incidente nel golfo del Messico, aveva bloccato; più recentemente, nello sbloccaItalia di Renzi, sono arrivati una serie di “semafori verdi” per rilanciare lo sfruttamento degli idrocarburi (attività con una filiera ad altissimo impatto ambientale e a bassissima densità lavorativa), agendo pesantemente anche sulla possibilità delle Regioni di partecipare almeno “alla pari” alle decisioni relative ai permessi.
Il tutto per favorire lo sfruttamento di risorse fossili che darebbero all’Italia una “indipendenza energetica” complessiva di alcune settimane, in un reale “accanimento terapeutico” contro l’ambiente (espressione di Leonardo Maugeri, per 10 anni direttore delle strategie di ENI), per cercare di prolungare di qualche anno un sistema per il quale molti territori italiani hanno già pagato e stanno pagando un prezzo altissimo (come la Basilicata: 80% della produzione nazionale di petrolio, il PIL tra i più bassi d’Italia, zone spopolate a causa dei gravissimi danni ambientali e preziosissime falde acquifere a rischio; Regione in prima linea contro il governo).
Si vuole, cioè, insistere con un sistema che si inchina alle compagnie a svantaggio dei territori, con le royalties tra le più basse al mondo drogate da agevolazioni che prevedono che le prime 20.000 ton di petrolio e 25 milioni di Smc di gas estratti in terraferma, come le prime 50.000 ton e 80 milioni di Smc in mare, siano esenti dal pagamento di aliquote.
Stiamo parlando, attualmente, di un introito complessivo nelle casse dello Stato che oscilla tra i 300-400 M€/anno (più o meno la stessa cifra che il governo ha “bruciato” in un solo giorno, per evitare l’accorpamento del referendum con le elezioni amministrative).
Quello che il governo non si aspettava è stato il trovarsi sbarrato il passo da una corposissima azione su più livelli (campagne di associazioni ambientaliste, comitati spontanei e organizzati, raccolte firme per attivare referendum popolari, cortei nazionali come quello di Lanciano con 60.000 persone in strada) che è confluita nella decisione di ben 10 Regioni (in molti casi a guida politica del medesimo colore del governo) a ricorrere all’estrema ratio del referendum.
Grazie a quest’onda d’urto, il governo ha dovuto rimangiarsi gran parte delle scelte fatte (in particolare circa la strategicità delle opere e circa la possibilità di riaprire il campo a moltissime concessioni entro le 12 miglia), scegliendo però un’azione legislativa all’interno della legge di stabilità molto poco trasparente, che, di fatto, nel cedere su più punti alla pressione #NOTriv, ha creato le condizioni per un vero e proprio condono alle concessioni già attive entro le 12 miglia.
Le compagnie concessionarie, improvvisamente e contro ogni principio di gestione dei beni pubblici e della concorrenza, in barba ad ogni considerazione relativa al rispetto dei parametri ambientali concordati (il 70% delle piattaforme operano in gravissimo sforamento dei parametri) vedrebbero cambiare i termini del contratto, avendo la possibilità di gestire le concessioni “fino ad esaurimento dei giacimenti”.
Un regalo che si tradurrebbe in una pericolosa incertezza circa gli obblighi di messa in sicurezza delle aree e di ripristino delle condizioni ambientali a fine concessione, in una riduzione ulteriore delle royalties (nel combinato disposto di tempi più lunghi e della citata “franchigia” sui primi quantitativi estratti), e che farebbe rientrare dalla finestra, potenzialmente, persino la realizzazione di nuovi impianti di estrazione, in barba al divieto entro le 12 miglia, purché previsti dalle concessioni già attive.
Il voto del 17 aprile sarà centrato sulla richiesta di annullare i benefici di tale condono. Ma la partita che si gioca, nell’ottica della strategia complessiva qui sinteticamente descritta, è di tutt’altro livello.
Il cavallo di battaglia dei promotori del “no” (o, peggio, dell’astensione), sarebbe quello dell’inutilità di questo quesito, descritto come il suicidio di un popolo che rinuncia al proprio futuro: in pochissimi, però, ricordano che una scelta del genere arriverebbe in assoluta coerenza con i recentissimi impegni che il nostro governo ha sottoscritto assieme ad altri 194 Paesi durante la COP21 di Parigi, che a dicembre scorso ha messo per sempre le fossili “dalla parte sbagliata della storia”.
Per contenere i cambiamenti climatici entro una soglia sostenibile per il pianeta (2 gradi centigradi di innalzamento della temperatura media, ma meglio se 1,5), il processo strategico di decarbonizzazione dell’economia deve vedere un’immediata e importantissima accelerazione che prevede, tra le altre cose, che i 2/3 delle risorse fossili (metano compreso) debbano restare nel sottosuolo, senza “se” e senza “ma”.
La vittoria del si bloccherebbe progressivamente, in circa 10 anni, la produzione di quantitativi di gas metano pari al 3% del consumo nazionale e di petrolio di meno dell’1%: in un tempo decisamente minore si può compensare tale perdita con interventi minimi di efficientamento energetico (di strutture pubbliche, di processi produttivi, di abitazioni), potenziando un settore strategico, perfettamente in grado di riassorbire le eventuali perdite di posti di lavoro “oil&gas”.
Davvero un Paese che dovrà, assieme all’Europa, ridurre le proprie emissioni almeno del 60-70% entro il 2050 può temere un impegno così contenuto?
Davvero, in un Paese che ha pagato lo scorso anno il prezzo di 84.400 morti premature per inquinamento, si vuole credere che esista ancora una possibilità di cedere al ricatto salute-lavoro?
Davvero si pensa che il lavoro o l’indipendenza energetica verranno da un’industria fortemente sovvenzionata, destinata inesorabilmente ad esaurirsi, mentre si sceglie di riempire di zavorra i percorsi di costruzioni delle filiere industriali nazionali legate alle rinnovabili, all’efficienza energetica e si dimentica sistematicamente di investire su quei sistemi di mobilità nuova e sostenibile che ridurrebbero i consumi e gioverebbero a salute e benessere?
Questo referendum, dalla gittata apparentemente contenuta, ha invece un potere dirompente, perché la vittoria del SI può dare una spallata ad un castello di bugie, può mostrare che la strada verso la democrazia energetica, verso una promozione sostenibile dei talenti sani dei nostri territori (paesaggio, cultura, turismo, pesca e agricoltura sostenibili, eccellenze agro-alimentari) è segnata e che non si torna più indietro.
Un “sì” fermo e collettivo può essere il sasso che Davide scaglia contro Golia. Può essere la mossa del cavallo, che balza fuori dal piano della discussione su cui fittiziamente vuole tenerti l’avversario, e vince la partita intera.
«Referendum trivelle. Lo stato dell’arte è il seguente: ad oggi nessuna società petrolifera può chiedere nuovi permessi e nuove concessioni. Ma quel che la legge non consente non significa che venga impedito. Ad alcune condizioni». Il manifesto, 29 marzo 2016
Il prossimo 17 aprile i cittadini italiani si recheranno alle urne per decidere se cancellare la norma che attualmente consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo. Lo stato dell’arte è il seguente: ad oggi nessuna società petrolifera può chiedere nuovi permessi e nuove concessioni. Ma quel che la legge non consente non significa che venga impedito. Ad alcune condizioni.
I procedimenti amministrativi che erano in corso al momento dell’entrata in vigore della legge di stabilità 2016, finalizzati al rilascio di nuovi permessi e di nuove concessioni, sono stati chiusi; le attività di ricerca e di estrazione di gas e petrolio attualmente in essere sono state tuttavia procrastinate dalla legge di stabilità 2016 senza limiti di tempo, ossia per tutta la “durata di vita utile del giacimento”. Ciò significa che quelle attività cesseranno solo in due casi: qualora le società petrolifere concluderanno che sia ormai antieconomico estrarre oppure qualora il giacimento sarà esaurito.
Dal punto di vista normativo, aver procrastinato senza limiti di tempo quelle attività non può dirsi del tutto coerente con la ratio che informa la decisione legislativa, in quanto il divieto di effettuare nuove ricerche e nuove estrazioni si giustificherebbe sulla base di “gravi ragioni di carattere ambientale”; così almeno si leggeva nella relazione illustrativa al decreto sviluppo adottato dal Governo Monti, con il quale si introduceva il limite delle 12 miglia marine. Eppure, tertium non datur: o quelle ragioni sussistono sempre o quelle ragioni non sussistono mai.
Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi – che ha definito il referendum “inutile” – è però di altro avviso: egli sostiene che l’attuale quadro normativo sia perfettamente coerente, in quanto, nonostante le attività di estrazione già autorizzate e ricadenti entro le 12 miglia marine potranno continuare ad essere esercitate, non sarà più possibile installare nuove piattaforme e perforare nuovi pozzi. In altre parole, non sarà più possibile “trivellare”.
Questa affermazione è, però, inesatta: attualmente, la legge non consente che entro le 12 miglia marine siano rilasciate nuove concessioni, ma non impedisce, invece, che a partire dalle concessioni già rilasciate siano installate nuove piattaforme e perforati nuovi pozzi. La costruzione di nuove piattaforme e la perforazione di nuovi pozzi è, infatti, sempre possibile se il programma di sviluppo del giacimento (o la variazione successiva di tale programma) lo abbia previsto. Questa conclusione è avvalorata anche da un parere del Consiglio di Stato del 2011, reso al Governo Berlusconi, che chiedeva lumi sulla portata del divieto di ricerca ed estrazione di petrolio entro le 5 miglia marine introdotto l’anno prima nel Codice dell’ambiente. La risposta del Consiglio di Stato è stata la seguente: il divieto non riguarda i permessi e le concessioni già rilasciati e non ricomprende le seguenti attività: l’esecuzione del programma di sviluppo del campo di coltivazione come allegato alla domanda di concessione originaria; l’esecuzione del programma dei lavori di ricerca come allegato alla domanda di concessione originaria; la costruzione degli impianti e delle opere necessarie, degli interventi di modifica, delle opere connesse e delle infrastrutture indispensabili all’esercizio; i programmi di lavoro già approvati con la concessione originaria; la realizzazione di attività di straordinaria manutenzione degli impianti e dei pozzi che non comportino modifiche impiantistiche.
Ora, è sufficiente andare a verificare quali siano le concessioni tutt’ora vigenti (e ricadenti entro le 12 miglia marine) e leggere l’originario programma di sviluppo del giacimento per capire che nuove trivellazioni ci saranno eccome. Basti pensare alla concessione C.C 6.EO nel Canale di Sicilia, che interessa le 12 miglia marine per circa 184 kmq: rilasciata nel 1984, essa ha ottenuto una proroga il 13 novembre scorso, con scadenza al 28 dicembre 2022. Ebbene, in base a tale proroga, la società Edison potrà costruire una nuova piattaforma – denominata Vega B – e perforare 12 nuovi pozzi.
Se vincerà il “no” (o se il referendum non raggiungerà il quorum) la piattaforma potrà essere realizzata, i pozzi perforati e l’estrazione potrà darsi senza limiti di tempo, fino a quando la società petrolifera lo vorrà; se, al contrario, vincerà il “sì”, potrebbero profilarsi due differenti epiloghi: o si riterrà – come sarei propenso a ritenere – che la piattaforma Vega B non potrà essere realizzata, i pozzi non potranno essere perforati e l’estrazione non potrà essere avviata (e questo in quanto il quesito originariamente proposto dalle regioni aveva ad oggetto anche l’abrogazione della norma sui “procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi” e sulla “esecuzione” delle attività relative); oppure dovrà ritenersi che la Edison potrà comunque completare la sua attività, ma fino alla scadenza della proroga, e cioè fino al 2022; il che, per ragioni di mero calcolo economico, potrebbe anche comportare una rinuncia preventiva da parte della società petrolifera alla realizzazione degli impianti e all’estrazione del greggio. Ma quale che sia l’epilogo, una cosa sembra certa: che il referendum del 17 aprile proprio inutile non sarà.
«Venezia, un’invasione. Paralisi a piazzale Roma senza che nessuno pensasse ad attivare quelle misure - come appunto il blocco del traffico sul ponte della Libertà se non per le auto dei residenti e per i mezzi pubblici - che pure sono teoricamente previste in caso di grave intasamento». La Nuova Venezia, 27 marzo 2016 (m.p.r.)
Venezia. Weekend di Pasqua come quello dei giorni “caldi” del Carnevale. Invasione di turisti in laguna quella di ieri - favorita anche al dal bel tempo e dal clima mite - che ha comportato, soprattutto nella prima parte della giornata, momenti di paralisi per il centro storico, a cominciare dall’area di piazzale Roma. Già in mattinata esauriti rapidamente i posti-auto nei garage comunale e San Marco, e riempito anche quello del Tronchetto. Il risultato è stato il formarsi di una coda di circa due chilometri lungo il ponte della Libertà, che ha bloccato anche i tram e gli autobus in arrivo a Venezia. Le auto sostavano in coda all’ingresso dei garage - senza possibilità di entrare - e dunque creavano l’effetto “tappo” lungo il Ponte, bloccandolo.
I pochi vigili urbani in servizio assistevano sostanzialmente impotenti alla situazione, senza che nessuno pensasse ad attivare quelle misure - come appunto il blocco del traffico sul ponte della Libertà se non per le auto dei residenti e per i mezzi pubblici - che pure sono teoricamente previste in caso di grave intasamento. Per i veneziani che dovevano rientrare in centro storico è stata perciò un’odissea, con almeno un’ora e mezzo di tempo di attesa prima di poter scendere dall’auto e parcheggiare dopo aver imboccato il Ponte.
Presi d’assalto anche i vaporetti, oltre che per raggiungere l’area marciana, anche per le isole, in particolare Murano e il Lido, nonostante l’Actv avesse anticipato l’entrata in vigore degli orari primaverili proprio per aumentare il numero delle corse. Messe comunque in funzione diverse corse bis e registrate code agli imbarcaderi, in particolare a piazzale Roma, alla Ferrovia e anche per il rientro da Murano. Ma anche per le calli del centro storico l’intasamento è stato massimo, in particolare a Rialto, perché la viabilità ridotta anche per i lavori in corso di restauro del ponte, ha comportato il formarsi di un’autentica muraglia umana per salire e per scendere. Stessa situazione intorno a Piazza San Marco, in particolare per il ponte della Paglia.
Notevoli problemi di viabilità anche lungo la Strada Nuova, con la massa di turisti in arrivo a piedi dalla Stazione e da piazzale Roma e diretti verso San Marco, perché il gran numero di bancarelle consentite per il periodo pasquale lungo la via ha complicato notevolmente la circolazione pedonale, creando anche qui veri e propri “tappi” al normale passaggio. Ottimi affari in compenso per bar e ristoranti e anche per i numerosi banchetti di souvenirs. Ancora una volta, però, la gran massa delle presenze turistiche si è concentrata nell’area realtina e in quella marciana, con file lunghissime - che arrivavano sino al Molo - anche per entrare in Basilica di San Marco e per accedere al Campanile, dove è ormai imminente l’introduzione dei tornelli.
Demistificare le frottole, criticare l’uso perverso dei fatti ridotti a luoghi comuni, fare insomma controinformazione è parte del lavoro di eddyburg. Il problema della Campania non è l’agricoltura inquinata ma la mancanza di una politica decente per l’area metropolitana di Napoli
Un po' di tempo fa Salzano mi ha chiamato da Johannesburg, per chiedermi come stavo, e come andavano le cose in Campania. Nel tempo ho imparato che le imbeccate di Eddy, da qualunque parte del mondo provengano, giungono di solito al momento giusto. Con gli amici di eddyburg vorrei allora condividere una riflessione, probabilmente non scontata, sulla lezione appresa con la crisi della Terra dei fuochi, una faccenda che ho dovuto seguire da vicino.
Sebbene il tema fosse all'attenzione pubblica da un decennio (l'espressione "Terra dei fuochi" appare per la prima volta in un rapporto Legambiente sulle ecomafie del 2003, nel 2006 la usa Saviano come titolo dell'ultimo capitolo di "Gomorra") la tempesta mediatica scoppia nell'estate 2013, con l'intervista rilasciata a SkyTG24 da Carmine Schiavone, il faccendiere del clan dei Bidognetti, che racconta in prima persona i seppellimenti dei rifiuti speciali, tossici, radioattivi. L'impatto sull'opinione pubblica è enorme, con il flusso ininterrotto di reportage giornalistici che veicola, per lo più in forma implicita, un racconto che potremmo riassumere così: nella piana campana, per un quarto di secolo, sono arrivati rifiuti da ogni dove, che sono stati interrati un po' in giro. I suoli e le acque si sono contaminati. Le colture agricole praticate su quei suoli e irrigate con quelle acque si sono contaminate anch'esse. Il consumo di quei prodotti ha causato un aumento delle malattie tumorali nelle popolazioni locali. Questo schema viene dato per scontato, non è il caso di metterlo in discussione, pena l'accusa infamante di "negazionismo". Così, il capro espiatorio diventano gli agricoltori della piana campana, o più precisamente dell'intera regione. Nei negozi iniziano a comparire cartelli del tipo "Qui non si vendono prodotti campani". Il governo emana l'ennesima legge speciale per l'area napoletana, il decreto "Terra dei fuochi", un dispositivo barocco il cui obiettivo è l'individuazione delle aree agricole contaminate, da sottoporre a interdizione.
In questi tre anni, con un gruppo di lavoro di un centinaio di persone, ho lavorato anch'io al sistema dei controlli, che hanno impegnato Università, Servizio sanitario nazionale, Istituto superiore di Sanità, Istituto Zooprofilattivo per il Mezzogiorno. La piana campana è stata passata al setaccio - acqua, suoli, prodotti agricoli - migliaia di campioni, un enorme data base territoriale, che non ha in questo momento riscontro in nessuna pianura d'Europa. Lo stato di salute dei suoli agricoli della piana campana, è risultato simile a quello delle altre pianure italiane ed europee a comparabile grado di antropizzazione (sulla piana campana vivono quattro milioni di persone, è la terza area metropolitana del paese). I livelli più elevati di berillio, arsenico, manganese, sono legati al valore naturale di fondo, alla natura vulcanica dei suoli. Dei circa seimila campioni di prodotti agricoli esaminati, non uno è risultato contaminato, difforme dai severi limiti di legge. Il gruppo di lavoro governativo, istituito con il decreto Terra dei fuochi, ha identificato alla fine una quarantina di ettari che non andavano, sui centomila monitorati.
Certo l'acqua della prima falda, come in pianura padana, non è proprio pulita, ma le ricerche rigorose dell'Istituto superiore di sanità hanno confermato che l'uso agricolo di quelle acque non crea nessun problema alle produzioni. Come accade da dodicimila anni, l'agricoltura e il sistema suolo-pianta continuano a funzionare come "filtro" della società, grazie meccanismi efficienti di bloccaggio, detossificazione, assorbimento selettivo. D'altro canto, a scala mondiale, la FAO da vent'anni promuove la campagna per l'uso irriguo delle acque reflue, considerato che l'acqua pulita serve per far bere gli uomini.
Sul fronte sanitario, si scopre poi che, grazie al lavoro valoroso di Mario Fusco, epidemiologo dell'ASL Napoli 3, la piana campana ha uno dei registri tumori più longevi d'Italia, con le serie storiche di dati che dicono una cosa diversa dallo schema ufficiale. L'incidenza (il numero di nuovi casi che si verificano ogni anno su 100.000 abitanti) delle principali malattie tumorali nella piana campana, come avviene nelle altre parti d'Italia è in discesa, ed è in linea con le medie nazionali. All'opposto, la mortalità è di alcuni punti superiore. Insomma, nella cosiddetta Terra dei fuochi ci si ammala allo stesso modo, ma si muore di più, ed allora il discorso è completamente diverso, e chiama drammaticamente in causa le prestazioni del servizio sanitario nazionale e le politiche di assistenza alla persona.
Insomma, il teorema che giornali e telegiornali di mezzo mondo hanno propagandato come fatto certo, non ha retto sino ad ora la prova delle verifiche, si è rivelato del tutto infondato. Sia chiaro, nessuno intende negare la verità dei fatti giudiziari accertati. Stiamo solo dicendo che le conseguenze ecologiche di quei fatti non sono corollari, deduzioni letterarie che è possibile fare a tavolino. Lo stato di salute degli ecosistemi si misura sul campo, con le tecniche e i metodi appropriati, altrimenti è medioevo. Dopo tre anni di clamore, scopriamo quello che sapevamo già: i venti milioni di tonnellate di rifiuti giunti nella piana campana, sono finiti nelle 6 grandi discariche che in questo quarantennio hanno funzionato tra Napoli e Caserta. La loro superficie è di 400 ettari scarsi, comprese le pertinenze e le zone tampone, sui 140.000 ettari della piana. La loro perimetrazione è stata fatta a scala catastale da un decennio, nel piano regionale delle bonifiche, che ne prevedeva la messa in sicurezza, e che è rimasto lettera morta.
La cosa che ho cercato di far comprendere in questi anni, alla fine, è che il problema non sono le bonifiche (che in Italia vanno a finire male, sarebbe meglio puntare alla messa in sicurezza), ma il governo dell'area metropolitana: questo mosaico rur-urbano sconnesso nel quale vivono come possono quattro milioni di persone, e all'interno del quale lo spazio agricolo, seppur frammentato e intercluso, costituisce ancora, nonostante tutto, la porzione dominante, il sessanta per cento della superficie territoriale complessiva. In questo spazio precario attorno alla città, operano quasi quarantamila aziende agricole, che producono, su una assai limitata porzione del territorio, metà quasi del valore aggiunto agricolo regionale. La mortificazione immotivata di questa agricoltura di presidio, che ha dovuto svendere nell'anonimato in questi ultimi anni le sue pregiate produzioni, la chiusura di queste aziende, creerebbe un immane deserto economico e sociale, ed è proprio quello che i poteri criminali si augurano.
Insomma, il motore dell'agricoltura campana, una delle più importanti del paese, è ancora qui. Certo, si tratta di un'agricoltura invisibile, non considerata dalle politiche e dai programmi istituzionali, perché in fondo la sua funzione deve rimanere quello di spazio disponibile per l'espansione urbana, area di risulta per tutte le attività che la città respinge. Su queste terre nere, le più fertili dell'universo conosciuto, il consumo di suolo in epoca repubblicana non ha conosciuto requie, con le città della piana che dalla metà del '900 hanno sestuplicato la loro superficie, in un processo che non conosce fine, se le aree urbanizzate sono ancora raddoppiate nell'ultimo trentennio, come effetto dell'onda lunga della ricostruzione seguita al sisma del 1980.
Insomma, se veramente vogliamo agire, dobbiamo partire da una lettura completamente differente della crisi. Aprire gli occhi su un'area importante, il terzo sistema metropolitano del paese, nel quale nonostante l’immane spreco di suoli e paesaggi si concentra larga parte del disagio abitativo nazionale, mentre mancano all'appello attrezzature collettive e aree verdi per un'estensione pari a seimila campi di calcio . Un colossale deficit di cittadinanza, che si concreta nella drammatica carenza di tutti i servizi essenziali dai quali dipende la qualità del vivere quotidiano, dall'acqua, ai rifiuti, all'istruzione, alla mobilità, all'assistenza e alla cura della persona. Anche di tutte queste cose, alla fine, si muore.
Nella sua dimensione di spazio di vita, questo territorio scombinato, fatto di spazi agricoli e poveri pezzi di città, è l'ambiente nel quale vivono i due terzi della popolazione metropolitana, che ha oramai identificato proprio in questo disordine, nella fatica del vivere quotidiano che esso comporta, la principale minaccia alla propria esistenza e al futuro. La crisi della Terra dei fuochi sta tutta qui, nell'atteggiamento di complessivo rifiuto di un habitat percepito come ostile, a partire proprio dalle sue componenti rurali, considerate in un simile contesto alla stregua di insidiose fonti di rischio.
Così come in maniera ostile viene vissuto il rapporto con il capoluogo, ritenuto storicamente incapace di esercitare una leadership e una rappresentanza di scala territoriale, e piuttosto accusato di aver sacrificato ai propri interessi la green belt della piana, alla stregua di uno spazio di risulta, privo di valore autonomo, nel quale disordinatamente collocare funzioni ingrate, pesi molesti, scarti indesiderati
Risulta evidente come, a fronte di questa difficile eredità, la città metropolitana che stentatamente si costituisce al posto della vecchia provincia, debba a questo punto funzionare come spazio istituzionale e obbligato di confronto, l’ultima chance per mettere mano ad un’agenda seria e urgente di riequilibrio territoriale ed ambientale, a un’alleanza nuova tra il capoluogo e i territori dell’hinterland. Il progetto è chiaro: se in altri contesti nazionali ed europei la costruzione di istituzioni metropolitane è funzionale all’armonizzazione di scala superiore di una dotazione comunque congrua di servizi e funzioni, qui nell'area napoletana la cosa è diversa, e alla città metropolitana è assegnato il compito, verrebbe da dire la missione impossibile, di restituire dignità ai contesti, di dotare finalmente un sistema territoriale congestionato e sofferente degli standard minimi di cittadinanza e civiltà, che un cinquantennio di non-governo, centrale e locale, non è riuscito a garantire. E, naturalmente, mettere in sicurezza le ferite localizzate che un irrisolto ciclo dei rifiuti ha inferto al territorio e ai paesaggi.
La dimensione del problema è evidente, e vale ancora purtroppo l'esortazione del vecchio Nitti, a considerare «.. il problema di Napoli non altrimenti che come un grande problema nazionale, come un problema che tutta la nazione ha il dovere di affrontare e dichiarando lealmente che se sacrifizi occorrono, occorrono pure da ogni parte».
La succosa introduzione a un libro collettaneo che racconta come nelle città italiane (non a caso l'esempio scelto è Firenze, cavia dello stregone Renzi) i declina l'idea di città del neoliberismo e come un pugno di urbanisti può animare una molteplice attività di resistenza
Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista, perUnaltracittà 2004-2014, a cura di Ilaria Agostini, AIÒN edizioni 2016, €18,00
UN'ALTRA IDEA DI CITTÀ
L’urbanistica neoliberista provoca resistenza popolare. Alla rappresentazione ufficiale delle politiche urbane si contrappone, in queste pagine, il racconto corale e antagonista di cittadine e cittadini, comitati ed esperti critici, uniti a Firenze nel “Gruppo Urbanistica” che ha fornito il sostegno tecnico alla lista di cittadinanza “perUnaltracittà”
[1], per due legislature all’opposizione in Consiglio comunale.
Due legislature, dal 2004 al 2014: anni in cui, a livello planetario, si accresce per poi deflagrare, la “bolla” edilizia. Favorita, in Italia, dalla diminuzione dei trasferimenti statali ai comuni e dall’opera demolitoria di Franco Bassanini che, a cavallo del millennio, da una parte incrementava a dismisura il potere nelle mani dei sindaci, mentre dall’altra rendeva possibile riversare gli oneri di fabbricazione nella spesa ordinaria dei comuni. Lo scivolamento progressivo dal welfare state al real estate si traduce in una nuova fase di cementificazione, interpretata a livello nazionale come unica risposta alla penuria di cassa dai comuni sempre più poveri. In epoca di dismissione industriale conclamata, l’economia peninsulare si orienta francamente sul mattone. La città diventa un grosso affare economico, i valori immobiliari aumentano e sulla loro crescita si fonda il consenso politico.
Il «lucido disegno derogatorio» perseguito dagli anni Novanta[2], corrobora l’attività speculativa nell’edilizia. La contrattazione pubblico-privato nel decennio è prassi consolidata che immediatamente si trasforma in arbitrio e che sistematicamente – e legalmente – piega l’interesse comune a quello dei particolari. Il mestiere dell’urbanista, puntualizzava recentemente Edoardo Salzano, si trasforma in «facilitatore delle operazioni immobiliari». Dal canto loro, strette nella morsa del sistema finanziario, le imprese edili – che accedono al credito sulla base del capitale fisso (ossia del costruito) – costruiscono per poter continuare a costruire: è un circolo vizioso. Con un milione di nuovi alloggi invenduti[3], il consumo di suolo in Italia doppia generosamente la media europea. Lo scenario muta quando nel 2008, facendo seguito alla crisi dei mutui subprime, il mercato immobiliare crolla e i prezzi al metro quadro arrivati alle stelle, cadono in picchiata.
Firenze è per l’intero decennio il banco di prova per il grande cantiere politico nazionale. Nel 2004, alla Provincia è eletto presidente in quota democristiana (Margherita) Matteo Renzi, ignoto trentenne, che diventerà sindaco nel giugno 2009 raccogliendo il testimone da Leonardo Domenici (Ds-Pd) ma cedendolo per occupare Palazzo Chigi, pochi mesi prima della naturale scadenza. Nella città toscana sono messe in atto le politiche che dal febbraio 2014, in qualità di presidente del Consiglio dei ministri, il “sindaco d’Italia” estenderà dalla scala urbana all’intero paese[4]: concentrazione del potere e svilimento del ruolo degli organi collegiali, velocità decisionale e forzatura delle norme, propaganda in luogo della pianificazione, obliterazione del dato sociale in nome del nuovo, del brand e dello smart. E apologia della tabula rasa.
La città iniqua
Nel decennio, la pianificazione urbanistica rinuncia ai suoi compiti statutari ed è diffusamente percepita come anacronistica limitazione al finanzcapitalismo fondato sul «mattone di carta». Le politiche urbane si allineano al paradigma neoliberista che vuole l’1% arricchito a spese del restante 99%. Sintetizzato da Joseph Stiglitz nel 2011 nella formula fatta propria dal movimento di Occupy Wall Street («We are the 99%»), il paradigma produce “centri” – cittadelle del potere, fortificate e interconnesse da comunicazioni ad alta velocità – e “periferie” sempre più estese e distanti dai luoghi della politica[5], nelle quali i cittadini, lo registra in queste pagine Maurizio De Zordo, sono espropriati del naturale «diritto alla città»[6].
Non solo. L’urbanistica si rende “mezzo politico” capace di trasformare i quartieri in territorio di conquista da parte di quel segmento finanziario che non intrattiene «alcun legame con i luoghi in cui la ricchezza si produce»[7]. L’urbanistica diventa «qualcosa che può essere quotato in borsa, giocato con la stessa logica dei “derivati” su proiezioni del futuro»[8]. Si fa tossica. Alligna tra la debolezza dell’amministrazione e la miopia della speculazione finanziaria. Acceca i politici cui offre scenari a prospettiva raccorciata. In questa temperie si generano i disastri dei fallimenti comunali che alcuni critici denunciano da tempo[9].
Così, le «città infelici del neoliberismo» diventano sempre più estese e più ingiuste. All’aumento della superficie urbana segue infatti l’incremento delle spese – a tempo indeterminato – per la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture di servizio e per i trasporti. Più la città cresce, più si indebita facendo ricorso agli strumenti finanziari che deliberatamente rompono il patto sociale su cui si fonda la vita civile (i debiti a lunga scadenza intaccano peraltro anche il patto generazionale). I bilanci comunali vacillano. Il rientro dal debito – nel segno dell’“austerità” – crea nuove sofferenze urbane nelle «periferie dolenti». A Firenze la polarizzazione delle risorse economiche nell’1% dello spazio urbano, tirato a lucido e usato come mero strumento di accumulazione e finanziarizzazione, ha valenza didascalica: a dispetto della propaganda renziana basata sulla necessità di un ribaltamento del vecchio sistema economico-politico che erodeva risorse a danno dei “giovani”, il «restyling» di via Tornabuoni fortemente voluto dallo stesso Renzi, è stato finanziato con un mutuo a lungo termine. Proprio il contrario di quanto sbandierato nei salotti televisivi.
«Tutto quello che vedi è in vendita», ricordava uno striscione sulla ringhiera del piazzale Michelangelo da cui si offre la vista di una città ridotta a puro valore di scambio. La mercificazione si attua prioritariamente attraverso la svendita del patrimonio edilizio pubblico e l’abdicazione al controllo della trasformazione di quello privato. La cittadinanza viene espropriata del fondativo diritto alla proprietà collettiva, osso della società civile e speranza per la sua rifondazione come avverte da anni Paolo Maddalena[10].
L’alienazione degli edifici pubblici rientra tra i principali elementi di pauperizzazione delle città italiane. Nel solo centro storico fiorentino sono centinaia di migliaia i metri quadri in vendita e in trasformazione, spesso in edifici di valore monumentale dei quali è negata la disponibilità sociale, come illustra Daniele Vannetiello nel saggio dedicato alla Firenze intramuros. La loro vendita vede tra i maggiori acquirenti una compiacente Cassa depositi e prestiti Spa (su cui ritorna Berdini nel capitolo che segue) e nel post-Renzi assume i toni grotteschi del “Florence, city of the opportunities” (sic): operazione propagandistica che vede il neosindaco Nardella vestire l’abito dell’agente immobiliare per promuovere edifici pubblici (ma anche privati) presso le fiere internazionali del real estate. È la parodia della politica urbana, che si sovrappone al mercato immobiliare, e con esso coincide.
I servizi alla cittadinanza, mercificati e privatizzati, drenano enormi ricchezze pubbliche. Rappresentano un non secondario aspetto della città iniqua: forniscono servizi peggiori ai cittadini più “periferici”, mentre costituiscono uno dei favoriti finanziamenti occulti della politica. La privatizzazione dell’Ataf, il servizio comunale di autotrasporti pubblici fiorentini, ha avuto forti ripercussioni sulla qualità della vita cittadina. Ma il presidente della società, privatizzata nel 2012, è ora amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato. Mobilità sociale.
Sulla mobilità veicolare si concentra in effetti il progetto “pubblico” della città, più futurista che moderno. Sottolineava Enzo Scandurra, in un recente dialogo, che l’urbanistica fiorentina si riduce ormai a due soli elementi: l’aeroporto e il sottoattraversamento Tav. Il nuovo aeroporto, fortemente voluto da Renzi presidente del Consiglio[11], adombra per mole di affari il grande nodo irrisolto della lottizzazione di Castello, come spiega nel suo saggio Antonio Fiorentino. Della resistenza civile e dei controprogetti “dal basso” al passaggio sotto Firenze del treno ad alta velocità parlano in questo libro Tiziano Cardosi e Alberto Ziparo, dando testimonianza, l’uno, del lavoro di costruzione corale del sapere critico nel comitato No Tunnel Tav, e l’altro, dell’impegno di un docente di urbanistica organico al movimento.
La città desacralizzata
A Firenze – palcoscenico del “nuovo” nazionale – è fatto abuso dei concetti di città creative e smart, invenzioni strumentali all’urbanistica «ossessionata dal marketing». Le une, le creative cities, ridicolizzano l’autorappresentazione urbana tramite un “brand”, creato espressamente per la competizione globale tra città che aspirano a collocarsi in classifiche di attrattività internazionale (per sedi di expó, olimpiadi o capitali della cultura, e per gli agognati “investimenti stranieri”). In esse, eventi e grattacieli sono icone che uccidono i simboli autocostruiti. Ognuna singolarmente, ognuna alienata dal contesto, le nuove icone sono messe in campo per mascherare l’obliterazione del dato sociale nelle politiche urbane. La civitas è sostituita con un simulacro vendibile: in questa logica, nel 2012, l’affitto del Ponte vecchio ad un sodale politico del sindaco, prima dell’arrampicata a palazzo Chigi, passa come atto di normale amministrazione.
Dal canto loro, invece, le smart cities – città furbette più che intelligenti, stigmatizzava Franco Farinelli[12] – incarnano il sogno delle città informatizzate: i problemi del traffico, della “sicurezza” o quelli ambientali, ognuno a sé stante, sono rimandati agli esperti di settore. Urbanisti e piani possono essere buttati al macero. In fondo, lo si è già detto, gestire la città secondo i principi neoliberisti, comporta la «de-significazione» del piano urbanistico. Nel caso fiorentino, il Piano strutturale (2011) e il Regolamento urbanistico (adottato nel 2014) – ormai privi del significato di “progetto comune sullo spazio comune” – eludono la materia pianificatoria e, infarciti di proclami, rifuggono una “narrazione” che possa contribuire al disegno della città futura.
Gli strumenti approvati o concepiti nel decennio si inviluppano nella triade «mixité sociale-governance-sviluppo sostenibile»[13], valida per lenire tutti i mali della città globale, che a Firenze si declina: nel «mix di funzioni» (funzioni che tuttavia sarà il privato a determinare, come approfondiamo nel saggio dedicato ai Piani neoliberisti); nella partecipazione (risolta nella farsa dei «facilitatori del consenso»); negli ammiccamenti a una “natura in città” (lo studio delle relazioni profonde dell’ecosistema urbano è tuttavia accuratamente evitato). In contrapposizione alle “scelte” di piano del tutto avulse dal contesto ambientale e impermeabili ai suggerimenti morfologici offerti dai luoghi, Roberto Budini Gattai offre in queste pagine soluzioni convincenti e non prive di fascino. Mentre Giorgio Pizziolo costruisce l’ipotesi a scala territoriale della «città/paesaggio» nella quale le relazioni ecologiche – ambientali, soggettive, sociali – guidano il progetto futuro di una città come «luogo vivente».
Il «bacio mortale»[14] dell’Unesco – che dal 1982 ha inserito nel world heritage il centro storico di Firenze – completa il quadro della desacralizzazione urbana nel segno della monocultura economicista. Il turismo, inesauribile «cash machine», estrae beni territoriali e li reinveste nelle cittadelle della finanza mondiale. Il tessuto della città storica è sottoposto a una pressione insostenibile che, ancora una volta, produce risultati nel segno dell’iniquità. La città dell’1% si realizza prioritariamente sull’espulsione dei residenti. Il centro da offrire ai media come immagine del successo del sindaco e della riuscita della città nella “competizione globale” è stato – da tempo – sterilizzato: via residenti e luoghi di aggregazione, via le bancarelle e via anche le macchine (oggi l’espulsione si attua anche attraverso una pedonalizzazione cui non faccia seguito un buon servizio di trasporto pubblico). Nei quartieri storici limitrofi al “salotto buono”, il processo di imborghesimento – nella letteratura di settore, processo definito «gentrificazione» – è in atto, e si realizza nella formula che fa coincidere il rinnovamento dei settori urbani con il rinnovamento dei residenti[15]. Laddove invece la concentrazione di popolazione migrante impedisce l’innalzamento di rango e di valore immobiliare dei quartieri centrali, la risposta dell’amministrazione risiede nell’adozione di soluzioni securitarie: l’illuminazione violenta di stile carcerario e le videocamere periferizzano alcuni settori della Firenze duecentesca (quartiere di San Lorenzo, via Palazzuolo). È l’altra faccia del modello centro-periferico che relega l’«umanità eccedente»[16] in aree non necessariamente remote.
La città felice?
Il capitalismo dalle nuove fattezze, del money by money, ha una sua precisa idea di città e di governo delle cose urbane. Una città mercantil-proprietaria che, individualista, indifferente alle relazioni ecosistemiche, nega la presenza attiva della cittadinanza che si autodetermina, ne nasconde i corpi, cancella le pratiche urbane con cui «gli abitanti usano e vivono lo spazio, e al contempo [...] gli attribuiscono un significato e un valore simbolico»
[17]. Nel capoluogo toscano un esempio, forse minore, è tuttavia indicativo: il Mercato centrale, trasformato in una batteria di ristorantini bobó (
bourgeois-bohème), non risponde alla richiesta diffusa nel quartiere di luoghi di assemblea e di riunione, di cui la città di Renzi-Nardella è sempre più avara.
La città comune – lo spazio urbano, le strade, le piazze, gli edifici collettivi, il suo paesaggio e la sua corona agricola – è gestita in stile privatistico, “valorizzata” con i metodi classici della produzione capitalista e i più moderni del turbocapitalismo. L’urbanistica neoliberista cala la maschera. Si accanisce sui luoghi di sperimentazione creativa, sociale e di «welfare dal basso», su ogni pratica di appropriazione collettiva di luoghi dismessi e oggi nuovamente appetiti. La sua fisionomia autoritaria si tratteggia nitida ogni volta che la legalità di un vuoto piano urbanistico viene a prevalere sulla legittimità di usi pluridecennali, autorganizzati, a servizio di quartieri poveri di luoghi di aggregazione.
Le autrici e gli autori dei saggi contenuti nel presente volume sono, oltre che narratori, protagonisti di quella decennale sperimentazione di ipotesi teoriche ed operative che abbiamo definito “urbanistica resistente”: un complesso di azioni animate dalla riflessione critica – di segno politico-tecnico, ecologico ed antropologico – sull’involuzione neocapitalista della città e sullo smantellamento in atto delle basi stesse della civiltà urbana. La loro esperienza dà linfa alla convinzione che sia ancora possibile progettare una città della gioia, una città felice. Un progetto che implica la costituzione di una nuova civitas avvertita delle relazioni col territorio, che dia spazio al mutualismo senza soffocare i conflitti, che incoraggi l’autorganizzazione e l’autogoverno delle risorse naturali, economiche e demiche[18]. In questo progetto tutti sono chiamati all’impegno in prima persona, ad essere il corpo vivo della città, presente nelle piazze e nei luoghi di rinascita collettiva, e a sostenere pratiche di cura e di accoglienza per rafforzare le convivenze possibili e ricostruire il legame sociale indebolito. Impegno non limitato, come talvolta accade, a mantenere «vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro», ma capace – sono ancora parole di Simone Weil – di rifondare «città umane [che...] avvolgono di poesia la vita di coloro che vi abitano»[19]. A partire da questa resistenza corale si invera l’altra idea di città.
Il libro è stato discusso e progettato collettivamente dal Gruppo Urbanistica della lista di cittadinanza perUnaltracittà (Puc). I suoi capitoli descrivono il quadro teorico e politico, le vicende urbanistiche, l’impegno e il lavoro di opposizione, le ipotesi progettuali condivise. Ma il libro non mira a raccontare dieci anni di storia urbanistica. Esso registra i modi della resistenza vissuta e ne delinea quelli futuri, raccoglie i risultati di una ricerca-azione di durata decennale che ha favorito e messo a frutto capacità relazionali e competenze nell’ascolto, abilità pratiche e organizzative con attenzione al calendario politico etc. Così la narrazione, da una parte, affonda nella memoria personale e collettiva, mentre dall’altra attinge alle fonti documentarie consentanee alla ricerca in urbanistica. Ossia alla produzione del Comune (delibere, atti, determine etc.) e ai piani urbanistici (studiati con attenzione e puntualità anche per la loro traduzione alla cittadinanza attiva “non esperta”); all’informazione a stampa; alla controinformazione. E, infine, sui materiali autoprodotti per l’opposizione in Consiglio: dai comunicati stampa alle pubblicazioni cartacee e digitali, disponibili sul sito della lista consiliare.
Il sito è tutt’oggi attivo e costantemente aggiornato dal “Gruppo Comunicazione”: nelle pagine del libro, Cristiano Lucchi ne rivela i segreti che non di rado hanno permesso di far breccia nel muro di silenzio dell’informazione ufficiale. Maurizio Da Re, segretario “in palazzo”, estrae dalla mole documentaria prodotta quegli atti consiliari, interrogazioni e domande di attualità che hanno avuto maggiori ripercussioni sull’andamento della politica cittadina, dando talvolta vita a vicende trasposte nelle aule del tribunale. Infine, lo spirito dell’azione politica della lista è illustrato dalla consigliera Ornella De Zordo che ha instancabilmente intessuto relazioni tra il palazzo, i quartieri cittadini e il territorio metropolitano, mettendo in rete l’esperienza fiorentina con le analoghe che cominciavano a dispiegarsi a scala nazionale.
Note
[1] Per agevolare la lettura, con “perUnaltracittà” (o con la relativa sigla Puc) denominiamo la lista consiliare nell’intero periodo in esame, benché nella prima legislatura (2004-2009) essa assumesse il nome di “Unaltracittà/Unaltromondo”.
[2] Cfr. Sergio Brenna, La strana disfatta dell’urbanistica pubblica. Breve ma veridica storia dell’inarrestabile ma controversa fortuna del «privatismo» nell’uso della città e del territorio, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2009. Sulla perdita della titolarità pubblica nel governo del territorio si veda anche Edoardo Salzano, Vent’anni e più di urbanistica contrattata, in Maria Pia Guermandi (a cura di), La città venduta, atti del convegno (Roma, 6 aprile 2011), Italia Nostra, Gangemi, Roma, 2011, pp. 24-38.
[3] Cfr. Paolo Berdini, Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano, Donzelli, Roma, 2014.
[4] Cfr., oltre al mio Pianificar twittando, “il manifesto”, 3 aprile 2014, la prefazione di Ornella de Zordo a Riccardo Michelucci, Guida alla Firenze ribelle, Voland, Roma, 2016.
[5] «Più l’economia si internazionalizza, più le funzioni centrali si concentrano: è la dinamica della città globale» (Saskia Sassen, La ville globale, “Le Débat”, n. 80, 1994), cfr. anche Jean-Pierre Garnier, Un développement insoutenable. Sécuriser o rassurer?, “L’homme et la société”, 2005, n. 155, trad. it. in Ilaria Agostini, Daniele Vannetiello (a cura di), La conversione dell’abitare. Comunità, fertilità, sapienza, “L’Ecologist italiano”, Lef, Firenze, 2015, pp. 68-83.
[6] Il riferimento è al classico Henri Lefebvre, Le droit à la ville, Anthropos, Paris, 1968. Un’analisi marxista degli effetti del neocapitalismo sull’ambiente urbano è in David Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città. Neoliberismo, urbanizzazione, resistenze, Ombre Corte, Verona, 2012.
[7] Paolo Berdini, Quali regole per la bellezza della città?, “Casa della cultura”, 22 gennaio 2016, http://www.casadellacultura.it/paglaboratorio.php?id=257
[8] Franco La Cecla, Contro l’urbanistica, Einaudi, Torino, 2015, p. 41.
[9] Ad esempio in Berdini, Le città fallite
cit.; cfr. anche il mio La borsa valori dell’urbanistica,
“il manifesto”, 22 aprile 2015.
[10] Cfr. Paolo Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico
, Donzelli, Roma, 2014.
[11] Cfr. Ilaria Agostini, Le dieci cose da sapere sull’aeroporto di Firenze
, “La Città invisibile”, 8 luglio 2015, n. 24.
[12] Franco Farinelli, Bologna che ha perso la memoria,
“il manifesto”, 13 marzo 2014, di prossima ripubblicazione in un libro collettivo a cura di Piero Bevilacqua e della scrivente.
[13] Jean-Pierre Garnier, Une violence éminemment contemporaine. Essais sur la ville, la petite bourgeoisie intellectuelle & l’effacement des classes populaires
, Agone, Marseille, 2010, p. 11.
[14] Cfr. Marco D’Eramo, Unescocide
, “New Left Review”, 2014, n. 88, pp. 47-53.
[15] Così in Anne Clerval, Paris sans le peuple. La gentrification de la capitale
, La Découverte, Paris, 2013. Sul tema si veda anche il più recente Giovanni Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?
, il Mulino, Bologna, 2015.
[16] Enzo Scandurra, Un paese ci vuole. Ripartire dai luoghi, Città aperta,
Troina, 2007, p. 108.
[17] Carlo Cellamare, Autorganizzazione e vita quotidiana. Storie di città, a Roma,
in Id., Roberto De Angelis, Massimo Ilardi, Enzo Scandurra, Recinti urbani. Roma e i luoghi dell’abitare
, manifestolibri, Roma, 2014, p. 69.
[18] Rimando alle pagine dedicate a La città in Vandana Shiva (a cura di), Manifesto Terra Viva. Il nostro suolo, i nostri beni comuni, il nostro futuro
, Navdanya International, Firenze, 2015, consultabile su www.navdanyainternational.it.
[19] Risp. Simone Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano
(1949), SE, Milano, 1990, p. 39 ed Ead., Attesa di Dio
(1950), Adelphi, Milano, 2008, p. 138.
«La morte, purtroppo, sembra scelta con cura, decisa a tavolino da amministrazioni inefficienti, stabilita dall’ignavia o dalla mediocrità o soltanto dalla incompetenza (comunque colpevole) delle classi dirigenti». Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2016
Cadono come foglie morte in autunno. I paesi che vanno scomparendo, afflitti da un abbandono che sembra non avere fine, supereranno, a dicembre 2016, la triste soglia di 1650. È un quinto dei comuni italiani che è in cammino verso il nulla, un sesto della superficie nazionale che viene colpita dall’abbandono e lasciata inselvatichire. Il quattro per cento della popolazione migrerà e due sono le destinazioni possibili: o il cimitero oppure i grandi centri urbani. Due anni fa, in un bel rapporto curato per Confcommercio da Legambiente su dati del Cresme, furono definite ghost town, città fantasma, le mille piazze sempre più desolate e afflitte, le case vuote, le mura sbrecciate, campanili cadenti. Comunità colpite al cuore che lentamente, e nella più assurda e colpevole distrazione collettiva, si avviano all'eutanasia.
Gli studiosi lo chiamano “disagio”, anzi “l’Italia del disagio”. Poco alla volta chiudono i battenti i servizi elementari ed essenziali. Naturalmente prima gli ospedali, trasformati in lunghi e penosi comparti di geriatria, poi le scuole, con l’accorpamento delle distinte classi elementari e la sistemazione delle medie in luoghi distanti anche dieci chilometri dalle poche abitazioni in cui vivono ragazzi in età scolastica, poi l’ufficio postale.
L’anno scorso le Poste hanno iniziato a “razionalizzare”: un grande programma di ammodernamento che toglierà ai cittadini italiani che ancora si attardano a voler campare nei paesi che li hanno visti crescere, le essenziali relazioni civili ed economiche. Nei municipi il segretario comunale è già a “scavalco”, nel senso che si presenta al lavoro a giorni alterni, coniugando le funzioni in due o più uffici. Così anche il tecnico, in genere l’unico geometra o ingegnere di cui è dotata la pianta organica. Le chiese da tempo sono lasciate senza parroci perché la fede è grande ma i preti si fanno sempre più piccoli nel numero.
Questa è l’Italia che se ne va. Naturalmente va scomparendo di più, molto di più al Sud, massimamente nelle aree interne del Mezzogiorno con segni acuti nelle isole; di meno, molto di meno al Nord. In un rapporto fondamentale e accurato su Paesaggio e patrimonio culturale l’Istat ha raccolto una imponente mole di informazioni, le ha stese per iscritto (ma al governo le leggono?) e ha spiegato che non esiste un destino obbligato. La morte, purtroppo, sembra scelta con cura, decisa a tavolino da amministrazioni inefficienti, stabilita dall’ignavia o dalla mediocrità o soltanto dalla incompetenza (comunque colpevole) delle classi dirigenti.
I soldi sono importanti certo, e la massa di finanziamenti che si dirige in alcune porzioni d’Italia sono assai più cospicue rispetto ad altre. Ma i soldi non spiegano tutto. In Italia c’è una montagna che produce benessere, come le rocce altoatesine e quelle trentine, e per affinità le bellunesi e le lombarde, e una montagna che invece mangia la vita. La catena dell’Aspromonte è selvaggia, lussureggiante e spettacolare quanto il profilo alpino. Eppure è morente, prossima all’inselvatichimento, all’abbandono “per erosione”. E come l’Aspromonte l’appennino lucano, le Serre di San Bruno in Calabria, il cuore del Gennargentu in Sardegna, la vasta, bellissima piana nei dintorni di Enna.
Ma perfino nel Sud, scrive l’Istat nel rapporto di cui la geografa Alessandra Ferrara è una delle curatrici, c’è un altro Sud, sistemi locali persistenti e resistenti, a volte vincenti, attività produttive che danno prova di avere una capacità, un mercato, un futuro perché sono oggetto di un piano, hanno ottenuto attenzione e cura da parte di chi governa quei territori. Prima di stilare la lista delle croci, i nuovi cimiteri dentro i quali sarà purtroppo sepolta la metà del territorio italiano, riguardiamo la tabella preparata da Legambiente che offre la dimensione della progressione. Nel 1996 il “disagio” riguardava 2.830 comuni, imponendo una migrazione prospettica alle nuove leve della popolazione residente, pari a cinque milioni. Nel 2001 i comuni divengono 3.292, nel 2006 fanno 3.556, nel 2011 sono già 3.959, quest’anno si arriverà alla cifra record di 4.395.
Sono quattordici milioni gli italiani che vivono in luoghi carenti nei servizi, con prospettive di occupazione più modeste, e una resistenza nelle case che li hanno visti nascere assai più fragile. Partiranno, e se non partiranno accetteranno, dove sarà possibile, un regime di vita e un trattamento sociale iniquo. Sennariolo, nel cuore della Sardegna, è lì lì per morire. Conta 183 abitanti e chiuderà i battenti tra non molto.
Poche settimane fa l'associazione Nino Carrus che tiene il conto dei morituri ha organizzato un convegno e illustrato ai politici regionali la situazione. Entro il 2050 166 paesi saranno vuoti, foglie morte in terra, nei prossimi quattro anni una prima trentina si accomietarà definitivamente. Nell’ultimo decennio 16 mila abitanti hanno fatto le valigie, nei prossimi tre anni, se le proiezioni non barano, altri quattromila saluteranno amici e parenti. L’Unione sarda ha elencato i cari futuri estinti: Bortigiadas, Padria, Giave, Montresta, Sorradile, Nugheddu San Nicolò, Baradili, Soddì, Ula Tirso, Martis, Armungia, il paese di Emilio Lussu.
L’Istat ha invece aggregato i territori per tematiche affini. In quelle abbandonate per erosione ha individuato una piccola capitale. Le comunità siciliane che gravitano intorno a Prizzi (Palermo) hanno perso negli ultimi tre anni il 13,3 per cento degli abitanti. Paesi dai nomi dolcissimi come Contessa Entellina, Campofiorito, Roccamena, Ficuzza vanno incontro alla sepoltura e neppure tanto lentamente. E in Calabria nell’area intorno a Chiaravalle Centrale, appena sopra l’istmo, la popolazione è diminuita del 15 per cento. Che ne sarà di Acquamammone, di Pirivoglia, di San Pietro? Nei pressi dell’ultimo cantiere della Salerno Reggio Calabria, a Mormanno, la flessione è stata del 12,4 per cento.
Tra dieci anni ritroveremo Castelluccio al suo posto? Salendo lo Stivale il baratro demografico si fa ancora più profondo e raggiunge un punto di non ritorno. Stigliano è la capitale di un territorio che dal 2011 al 2014 ha perso quasi il 22 per cento dei residenti. È una fuga amara, ingiusta. Morrà il paese di Carlo Levi, Aliano? Ce la farà Accettura? Nella Daunia pugliese il buco è pari al 16,9 per cento. Castelnuovo, Colletorto, Celenza, Casalnuovo Menterotaro. Nomi che scorrono, campanili che finiscono a terra, piazze conquistate dai cani randagi. Sono pezzi del nostro cuore, segni dell’identità e della civiltà contadina. Nelle campagne in cui si faceva il grano nasce l’ortica, gli ulivi rinsecchiscono, i fiumi conquistano gli orti, le strade statali, oramai senza più manutenzione, si trasformano piano piano in mulattiere. Ponti cadenti, guard rail arruginiti, terrapieni sbrecciati, frane dappertutto.
Il volto ingiusto di un’Italia che spinge sulla costa, si assiepa davanti al mare e lascia il suo cuore, il centro appenninico, vuoto, desolato, inutile. Come un barcone di immigrati, ci sistemiamo tutti ai bordi. Le città si allungano e continuiamo a costruire, mentre esiste un patrimonio abitativo disponibile e accessibile, oltre ogni ragionevole ipotesi, pochi passi più in là. Sono 18mila gli edifici costruiti nelle zone a vincolo, aree di inedificabilità assoluta, e in questi anni di recessione gli abusi, realizzati soltanto per sottrarsi alle tasse, sono raddoppiati. Siamo giunti al principio del fifty-fifty: per ogni nuova casa edificata con licenza, una realizzata all’impronta e senza titolo.
Nell’Italia che muore esiste però la speranza di un altro Paese che resiste e anzi avanza. Ci sono aree, distretti, territori anche al Sud in cui l’economia tiene. Nell’Irpinia, con Sant’Angelo dei Lombardi e Ariano Irpino, a Fonni e San Teodoro in Sardegna, Amantea e Belvedere Marittimo in Calabria, Cassino e Sora nel Lazio, Lauria in Basilicata. La montagna o la collina dà benessere, e invece i soldi, solo i soldi, non bastano a cambiare vita. La via nera del petrolio in Lucania è un caso esemplare. Corleto Perticara è una delle capitali estrattive, dei centri propulsori di una economia texana che ha concesso in royalties ai comuni interessati un miliardo di euro. Eppure gli indicatori non danno speranza, la migrazione verso altri luoghi continua malgrado (o, forse, a causa?) del petrolio. E quanti soldi in fondi europei le aree interne (molte al Sud, ma alcune anche al centro nord) hanno ottenuto nel’ultimo quindicennio? Almeno cento miliardi di euro. Spesi come? Infine una nota estetica. Dove l’impianto urbanistico è meglio tenuto, si fa più attenzione, si è più partecipi e più indisponibili ad accettare il brutto. Il brutto si cura solo con il bello e l’Istat conferma.
Il manifesto e Il Fatto quotidiano, 19 marzo 2016
Il Fatto Quotidiano
ASTENSIONE SULLE TRIVELLE:
LA CEI SCOMUNICA IL PD
di Tommaso Rodano
La scomunica che non ti aspetti ha per protagonisti i vescovi italiani, per oggetto il referendum sulle trivelle e per destinatario, nemmeno troppo implicito, il Partito democratico, che ha invitato i suoi elettori ad astenersi. La Conferenza episcopale non prende posizione per il sì o per il no, ma chiarisce un punto: la gente va coinvolta e informata sull’argomento, non può essere sollecitata ad ignorarlo.
Dopo l’entrata a gamba tesa nel dibattito sulle unioni civili, dunque, i vescovi dicono la loro anche sul voto del 17 aprile, quello che deciderà se cancellare o meno la norma che consente alle società petrolifere di estrarre gas e petrolio entro 12 miglia dalle coste italiane anche oltre la scadenza delle licenze, fino all’esaurimento dei giacimenti. La discesa in campo è stata annunciata dal Consiglio Episcopale Permanente. I vescovi fanno sapere di aver discusso «sulla questione ambientale e, in particolare, sulla tematica delle trivelle» e hanno sottolineato «l’importanza che essa sia dibattuta nelle comunità, per favorirne una soluzione appropriata alla luce dell’Enciclica Laudato si’ di papa Francesco”.
Nel testo di Bergoglio, manifesto dell’ambientalismo cattolico, il Pontefice invita l’umanità a «prendere coscienza della necessità di cambiamenti di stili di vita, di produzione e di consumo, per combattere» il riscaldamento globale. «Perciò - scrive il Papa - è diventato urgente e impellente lo sviluppo di politiche affinché nei prossimi anni l’emissione di anidride carbonica e di altri gas altamente inquinanti si riduca drasticamente». Da qui riparte la Cei.
La posizione è stata ulteriormente specificata dal portavoce, il monsignor Nunzio Galantino: «Non c’è un sì o un no da parte dei vescovi al referendum, ma il tema è interessante e che occorre porvi molta attenzione. Gli slogan non funzionano. Bisogna piuttosto coinvolgere la gente a interessarsi alla questione. Il punto non è esser pro o contro, ma creare spazi di confronto». Esattamente il contrario di quanto indicato dalla maggioranza del Pd, che punta a sabotare il referendum di aprile invitando gli elettori a disertare le urne per far mancare il quorum (il 50%+1 degli aventi diritto).
Anche il mondo laico ieri ha preso posizione sull’argomento. Le voci critiche nel partito di Matteo Renzi non sono esclusiva della minoranza di sinistra (Roberto Speranza ha definito «inaccettabile» la posizione del partito). Tra i più polemici c’è Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia (una delle 9 che hanno promosso il referendum). «Sono pronto ad autodenunciarmi agli organi di garanzia del Pd: se ci sarà un ordine di astensione, sarò costretto a non rispettarlo». Emiliano ha raccontato un retroscena: «Ad agosto io e il presidente della Basilicata Pittella abbiamo incontrato il sottosegretario Vicari, a nome delle regioni critiche sul tema delle trivellazioni. Dopo qualche tempo, lo stesso Vicari ci ha comunicato che il governo non aveva più alcun interesse ad affrontare la questione. È stato solo dopo questa porta sbattuta in faccia che diverse Regioni governate dal Pd, a malincuore, hanno chiesto il referendum».
Sulle trivelle è tornato a parlare anche Romano Prodi. L’ex premier, pur senza appoggiare l’astensione, si è augurato il fallimento del quesito referendario: «Se dovessi votare, voterei certamente per mantenere gli investimenti fatti. Su questo non ho alcun dubbio anche perché è un suicidio nazionale quello che stiamo facendo. Quindi se voto al referendum voto no”.
Intanto però i movimenti referendari sono in fermento. E uniscono le forze per tentare la spallata a Renzi: i No Triv, gli insegnanti contro la “Buona Scuola”, i sindacati contro il Jobs Act, i comitati contro l’Italicum e la Riforma Costituzionale. Giovedì si sono incontrati a Milano, ieri a Roma, in una grande assemblea pubblica a cui hanno partecipato circa 300 persone. C’erano i giuristi Alessandro Pace, Massimo Villone, Domenico Gallo, Stefano Rodotà, e poi Maurizio Landini, Stefano Fassina, Moni Ovadia, Pancho Pardi, Sandra Bonsanti e tante altre personalità della società civile e delle associazioni. “Sarà una vera e propria stagione referendaria sia su temi istituzionali, sia su temi sociali – ha spiegato Villone –. Renzi ha paura: vuole frammentare le forze sociali e restringere gli spazi democratici. Bisogna lavorare insieme, senza dividersi, tutti i referendum sono di ognuno di noi: difendere la Costituzione con il No è cruciale, ma da solo non è sufficiente”.
Il manifesto
I NO TRIV: «SI VUOLE IMPEDIRE AI CITTADINI
DI ESERCITARE UN DIRITTO»
di Serena Giannico
«È stato deciso che questo referendum deve fallire!». Il coordinamento No triv della Basilicata risponde alla decisione del Pd, guidato dal premier Matteo Renzi, di boicottare il referendum, puntando ufficialmente sull’astensionismo. Dicendo, chiaramente agli italiani che non devono andare alle urne, il prossimo 17 aprile, perché inutile. I No triv non lesinano accuse. «La strategia imposta dal Governo centrale a un mese soltanto dal voto, - viene detto in una nota - si caratterizza come una squallida scelta dominante, volta a imporre l’ignoranza e dunque l’indifferenza dei cittadini sui problemi posti dai quesiti referendari e dunque ad impedire l’esercizio dei propri diritti».
Indice puntato, quindi, contro la segreteria Pd e i due vice-Renzi, Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini. Questi ultimi, snobbando la verità, hanno affermato che se il referendum passa, nel settore del petrolio ci sarà un’emorragia di posti di lavoro. «Roboanti falsità - ribattono gli ambientalisti - ai quali fa da contrappasso l’assoluta assenza di contraddittorio riguardo ai posti di lavoro che, con le perforazioni in mare, si perderebbero nei settori della pesca e del turismo». I comitati denunciano il tentativo di oscurare la consultazione: «L’unico modo per far fallire il referendum del 17 aprile, dopo averle tentate tutte per impedirlo e metterlo in ombra, è quello di nasconderlo all’opinione pubblica.
La parola d’ordine del partito della Nazione è... astensione. Astensione degli italiani dal voto e prima di questo astensione delle televisioni, delle radio, dei giornali, dalla discussione e dalla campagna referendaria. Astensione anche da ogni pratica democratica di discussione e consenso. A tanto si è ridotta la democrazia in Italia. Il tutto a discapito della salute, delle bellezze e della ricchezza dei nostri territori».
E tra le Regioni? Che succede? «La Puglia pare sia l’unica, al momento, - affermano i No triv - che con Emiliano ha iniziato, insieme alla campagna elettorale per il Sì, anche una campagna per stanare l’ipocrisia di un partito. Ma cosa sta facendo il “governatore” Pittella per questo referendum? Cosa stanno facendo i politici lucani?». I No Triv della Basilicata si rivolgono anche alla minoranza dem, in particolare a Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza: «Cosa stanno facendo di concreto per il Sì? In che modo si stanno distinguendo da quanti stanno lavorando per il silenzio, per l’ignoranza, per la rassegnazione, per l’astensione di milioni di elettori?».
«La proposta contro il proliferare delle destinazioni alberghiere respinta dalla maggioranza. La richiesta riguardava l’approvazione di una Variante al regolamento edilizio per dare disposizioni finalizzate all’incentivazione dell’uso residenziale degli edifici del centro storico». La Nuova Venezia, 19 marzo 2016, con postilla
Basta con le trasformazioni della città. E con la proliferazione delle destinazioni turistico-alberghiere. Una parola d’ordine che sembrava aver messo d’accordo tutti, maggioranza e opposizione. Per cercare di fermare una deriva che sta trasformando Venezia in Disneyland. Hotel, bed and breakfast e appartamenti per turisti dove erano le case dei veneziani. Botteghe di maschere, pizza, bar e oggetti cinesi a un euro dove erano i negozi di vicinato. Sul principio tutti d’accordo. Ma quando si tratta di votare, le divisioni rispuntano. Così l’altra sera in Consiglio comunale la maggioranza ha bocciato la mozione proposta dalle opposizioni e discussa a lungo in commissione.
«Una cosa incredibile», commenta il capogruppo del Pd Andrea Ferrazzi, primo firmatario del documento, «in commissione avevamo raggiunto un accordo trasversale, dopo la modifica del testo concordata. Nonostante questo, solo il consigliere Pellegrini ha votato a favore, Paolino D’Anna si è astenuto. Gli altri l’hanno bocciata». «Prendiamo atto di questa clamorosa posizione di chi amministra la nostra cittá», continua Ferrazzi, «invece di cogliere l'occasione per una profonda modifica regolamentare e programmatoria per ridare vita alla nostra Cittá hanno deciso che la svendita al turismo mordi e fuggi a danno dei residenti va bene».
«Una brutta cosa», commenta Davide Scano del Movimento Cinquestelle, «che fa il paio con il parere favorevole alla trasformazione in hotel dell’appartamento in calle delle Rasse del marito della consigliera Locatelli». «Mi dispiace, ma il consigliere Ferrazzi ha avuto un atteggiamento un po’ brusco, come se pretendesse che noi votassimo», dice il capogruppo della lista Brugnaro Maurizio Crovato, «tutti siamo per la difesa di Venezia, ma in politica conta anche il modo con cui si fanno le cose».
La mozione era stata presentata da un nutrito gruppo di consiglieri dell’opposizione. Ferrazzi, Sambo e Lazzaro del Pd, Casson, Faccini, Pellicani, Pelizzato e Fiano della Lista Casson, appoggiata anche dai grillini. La richiesta principale riguardava l’approvazione di una Variante al regolamento edilizio, in discussione in questi giorni, per dare disposizioni finalizzate all’incentivazione dell’uso residenziale degli edifici del centro storico». Ma anche una nuova Variante al Piano degli Interventi per modificare, nella sola città antica, le condizioni che determinano la possibilità di concedere i cambi d’uso. Definendo in alcuni casi la destinazione ricettiva come «concorrente alla residenzialità». Una misura difficilmente rinviabile, per ridurre una tendenza che si è fatta massiccia negli ultimi anni. E che ha portato la città al suo minimo storico di abitanti, poco più di 55 mila. Con il record di turisti: nel 2015 27 milioni quelli ufficiali.
postilla
Nessuno sembra ricordare che il piano urbanistico della città storica, elaborato nell'ultimo decennio del secolo scorso e adottato nel 1992, prevedeva già la tutela della residenzialità e regole rigorose per condizionare le modifiche delle destinazioni d'uso, e che le norme furono peasntemente modificate (meglio, stravolte) dalla prima giunta Cacciari, per opera determinante dell'assessore neoliberista Roberto D'Agostino. Si veda in proposito la vicenda riassunta nell'articolo di Silvio Testa del 2015 (La Salvaguardia chiede a Cacciari di limitare le concessioni di cambio d'uso), e i numerosi articoli di Luigi Scano nella cartella Per la sua Venezia , e in particolare il documento Quale piano per la città storica di Venezia? (parte seconda)
«Il ministero delle Infrastrutture lo “raccomanda” a quello dell’Ambiente, autorizzando gli studi d’impatto ambientale», che saranno realizzati dal Corila, lo stesso ente che ha coordinato e portato a termine nel 2010 il nuovo Piano Morfologico della Laguna di Venezia, fortemente critico sull'allargamento delle attività portuali, e probabilmente per questo insabbiato. La Nuova Venezia, 18 marzo 2016 (m.p.r.)
Il ministero delle Infrastrutture apre al progetto Tresse Nuovo, alternativo al passaggio delle Grandi Navi dal Bacino di San Marco e sostenuto dall’Autorità Portuale di Venezia - dopo la “bocciatura” dello scavo del canale Contorta-Sant’Angelo - dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro (che per primo l’ha proposto) e anche dal presidente della Regione Luca Zaia. A dare la notizia è stato lo stesso presidente dell’Autorità Portuale da Fort Lauderdale, negli Stati Uniti, dove è in corso la fiera mondiale della crocieristica.
«In questi giorni» dichiara Costa «è giunto il via libera del Ministero delle Infrastrutture a investire per completare gli studi di impatto ambientale (Sia) del progetto Tresse Nuovo per completare la documentazione presentata alla commissione di Via. Il Ministero ha infatti ribadito il carattere prioritario del progetto Tresse Nuovo rispetto ad altri progetti tenendo conto così della volontà e dei parerei espressi dagli enti locali». La notizia, aggiunge l'Autorità Portuale, è stata comunicata ai partecipanti al Seatrade Cruise Global a Fort Lauderdale, che in più occasioni durante la Fiera e la Conferenza parallela, hanno sollevato il caso Venezia, rilevando che «l'indecisione provoca danni rilevanti all'occupazione in un'industria che altrimenti, anche nel resto d'Europa, si sta sviluppando a ritmi sostenuti».
Il passaggio testuale della lettera del Ministero guidato da Graziano Delrio - inviata per conoscenza anche al Ministero dell’Ambiente - che introduce di fatto una sorta di cortesia preferenziale per il progetto Tresse Nuovo, è il seguente: «Con l’occasione si fa presente al Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare che il carattere prioritario risiede nella circostanza che tale progetto ha ricevuto i pareri positivi di tutte le amministrazioni locali rispetto ad altri in corso di elaborazione». Il riferimento è, evidentemente al progetto “Venice Cruise 2.0”, proposto dalla Duferco e dalla società dell’ex viceministro Cesare De Piccoli, che prevede un nuovo terminal crocieristico alla bocca di porto di Lido, già all’esame della Commissione Via - il parere è atteso per il 25 aprile - e aspramente contestato da Brugnaro.
Il progetto Tresse non è ancora pronto, perché manca appunto ancora la parte dello Studio di impatto ambientale - che sarà realizzata dal Corila (Consorzio di ricerche sulla laguna) - che proprio la lettera delle Infrastrutture ora autorizza. La situazione però è ancora tutt’altro che definita, e lo conferma una dichiarazione del governatore Zaia sul problema Grandi Navi, ribadendo la «piena disponibilità» della Regione a spostarle fuori dal bacino di San Marco. «A me però risulta» ha aggiunto «che ancora i diversi Ministeri stiano litigando tra loro».
Se le Infrastrutture sono a favore, chi non è d’accordo è, evidentemente, il Ministero dei Beni Culturali, con quello dell’Ambiente - che dovrà decidere sul tracciato con i suoi tecnici - nel ruolo teorico di arbitro. «Al di là di qualsiasi corsia preferenziale, ogni progetto alternativo al passaggio delle Grandi Navi da San Marco» ha dichiarato ieri il sottosegretario ai Beni Culturali Ilaria Borletti Buitoni «dovrà comunque essere sottoposto ai criteri di esame della Commissione di Valutazione d’impatto ambientale del Ministero dell’Ambiente, gli stessi per tutti, che tutelino la laguna. Personalmente trovo che la proposta del ministro Franceschini di spostare il polo crocieristico dell’Alto Adriatico a Trieste sarebbe di estremo buon senso, perché porterebbe ugualmente i turisti a Venezia, ma evitando lo scavo di nuovi canali per navi crociera sempre più grandi».
Riferimenti
17 aprile: l'evento che il governo Renzi e i padroni degli affari petrolieri vorrebbero nascondere Domande e risposte sulla consultazione perché tutti comprendano che occorreun SI per salvare i nostri mari. Il manifesto, 17 marzo 2016
Il 17 aprile si andrà alle urne contro le trivelle e la petrolizzazione offshore. Abbiamo chiesto alcuni chiarimenti al coordinamento nazionale «No triv».
Di che si tratta?
E’ un referendum abrogativo, e cioè di uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che la Costituzione italiana prevede per richiedere la cancellazione, in tutto o in parte, di una legge dello Stato. Perché la proposta soggetta a referendum sia approvata occorre che vada a votare almeno il 50% più uno degli aventi diritto e che la maggioranza si esprima con un «Sì». Hanno diritto di voto tutti i cittadini italiani, anche residenti all’estero, che abbiano compiuto la maggiore età. Scrivendo «Sì» sulla scheda i cittadini avranno la possibilità di eliminare la norma sottoposta a referendum.
Dove si voterà e cosa si chiede esattamente con questo referendum?
Si voterà in tutta Italia e non soltanto nelle regioni che hanno promosso il referendum per chiedere di cancellare la norma che consente alle multinazionali del greggio di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia dalle coste del nostro Paese senza limiti di tempo.
Qual è il testo del quesito?
Il testo è il seguente: ’Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ’Norme in materia ambientale’, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016), limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale?’.
È possibile che qualora il referendum raggiunga la maggioranza dei «Sì» il risultato venga poi «tradito»?
A seguito di un esito positivo del referendum, la cancellazione della norma che al momento consente di estrarre gas e petrolio senza limiti di tempo sarebbe immediatamente operativa. L’obiettivo del referendum mira a far sì che il divieto di estrazione entro le 12 miglia marine sia assoluto. Come la Corte costituzionale ha più volte precisato, il Parlamento non può successivamente modificare il risultato che si è avuto con il referendum, altrimenti lederebbe la volontà popolare espressa attraverso la consultazione. Qualora però non si raggiungesse il quorum previsto perché il referendum sia valido (50% più uno degli aventi diritto al voto), il Parlamento potrebbe fare ciò che vuole: anche mettere in discussione la zona offlimits.
È vero che se vincesse il «Sì» si perderebbero posti di lavoro?
Un esito positivo non farebbe cessare immediatamente, ma solo progressivamente, alla naturale scadenza, le attività petrolifere interessate dal provvedimento. Prima che il Parlamento introducesse la norma sulla quale gli italiani sono chiamati al voto, le concessioni per estrarre avevano normalmente una durata di trenta anni (più altri venti, al massimo, di proroga). E questo ogni società petrolifera lo sapeva al momento del rilascio della concessione. Oggi, di fatto, non è più così: se una società petrolifera ha ottenuto una concessione nel 1996 può – in virtù di quella norma – estrarre fino a quando lo desideri. Se, invece, al referendum vincerà il «Sì», la società petrolifera che ha ottenuto una concessione nel 1996 potrà estrarre per dieci anni, ancora e basta, e cioè fino al 2026. Dopodiché quello specifico tratto di mare interessato dall’estrazione sarà libero per sempre.
L’Italia dipende fortemente dalle importazioni di petrolio e gas dall’estero. Non sarebbe, quindi, opportuno investire nella ricerca degli idrocarburi ed incrementarne l’estrazione?
Gli idrocarburi presenti in Italia appartengono al patrimonio dello Stato, ma questo dà in concessione a società private – per lo più straniere – la possibilità di sfruttare i giacimenti esistenti. Ciò significa che le multinazionali divengono proprietarie di ciò che viene estratto e possono disporne come meglio credano. Allo Stato esse sono tenute a versare solo un importo corrispondente al 7% del valore della quantità di petrolio estratto o al 10% del valore della quantità di gas estratto. Non tutta la quantità di petrolio e gas estratto è però soggetta a royalties. Le società petrolifere, infatti, non versano niente per le prime 50.000 tonnellate di petrolio e per i primi 80 milioni di metri cubi di gas tirati fuori ogni anno e godono di un sistema di agevolazioni e incentivi fiscali tra i più favorevoli al mondo. Nell’ultimo anno dalle royalties provenienti da tutti gli idrocarburi estratti sono arrivati nelle casse pubbliche solo 340 milioni di euro.
Il rilancio delle attività petrolifere non costituisce un’occasione di crescita per l’Italia?
Considerando tutto il petrolio presente sotto il mare italiano, questo sarebbe appena sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale di greggio per 7 settimane. Le riserve di gas per appena 6 mesi.
Cosa ci si attende?
Il voto referendario è uno dei pochi strumenti di democrazia diretta a disposizione degli italiani ed è giusto che i cittadini abbiano la possibilità di esprimersi anche sul futuro energetico del nostro Paese. Nel dicembre del 2015 l’Italia ha partecipato alla Conferenza Onu sui cambiamenti climatici tenutasi a Parigi, impegnandosi, assieme ad altri 194 Paesi, a contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi centigradi e a seguire la strada della decarbonizzazione. Fermare le trivellazioni in mare è in linea con gli impegni presi a Parigi e contribuirà al raggiungimento di quell’obiettivo.
Europa Nostra suona il campanello d’allarme per ricordare al mondo intero che Venezia non può sopravvivere senza la sua laguna. La presidente di Italia Nostra Venezia presenta la lista degli stravolgimenti e delle emergenze ambientali di Venezia. Gli articoli de La Nuova Venezia, 17 marzo 2016 (m.p.r.)
VENEZIA A RISCHIO
UN DISASTRO TOTALE
di Enrico Tantucci
Venezia, con la sua laguna, è il sito culturale e naturalistico più a rischio d’Europa, sotto l’aggressione congiunta del traffico delle grandi navi in laguna, dell’erosione dei suoi fondali, dell’inquinamento, della pressione turistica. Lo ha certificato ieri nell’incontro tenutosi nell’Aula Magna dell’Ateneo Veneto, Europa Nostra, federazione di organizzazione a difesa del patrimonio che riunisce 40 Paesi del vecchio continente e che è sostenuta ora nei suoi progetti di recupero anche dalla Bei, Banca Europea degli Investimenti. Un incontro che è servito ad annunciare i sette siti più a rischio in Europa. Tra cui non c’è Venezia, proprio perché la sua situazione è giudicata talmente grave e importante da sopravvanzare quella di tutte le altre realtà europee.
Il passo successivo - sollecitato anche da Sneška Quaedvlieg-Mihailoviæ, segretario generale di Europa Nostra - e che anche l’Unesco nella sua sessione estiva inserisca la città e la sua laguna tra i siti patrimonio dell’umanità ormai in pericolo. Perché - è emerso chiaramente dal dibattito di ieri - né il Comune, né il Governo italiano sembrano in grado di proteggere efficacemente Venezia e la laguna dall’aggressione a cui è sottoposta e serve, appunto una tutela europea e mondiale per una città la cui salvezza sta a cuore a tutti. Un appello in questa direzione è stato lanciato ieri con un videomessaggio dal grande tenore Placido Domingo, presidente di Europa Nostra.
«Europa Nostra suona il campanello d’allarme - ha detto Domingo - per ricordare al mondo intero che Venezia non può sopravvivere senza la sua laguna. Cinquanta anni dopo che si sono creati i primi movimenti di solidarietà nel mondo per Venezia, l’opinione pubblica internazionale deve ancora una volta alzare la voce per lanciare un appello al Parlamento europeo, al Governo italiano, alle Autorità regionali e comunali e anche agli altri leader politici ed economici». Il presidente di Europa Nostra ha richiamato l’attenzione sui gravi pericoli che Venezia deve fronteggiare. L’innalzamento del livello del mare dovuto ai cambiamenti climatici, gli intensi flussi turistici, l’aumento del traffico delle grandi navi da crociera, gli scavi di canali sempre più profondi, l’erosione dei fondali e delle paludi, l’inquinamento e la pesca industriale.
L’architetto Francesco Bandarin, vicedirettore generale per la cultura dell’Unesco, ha aggiunto: «L’Unesco prende nota con grande attenzione della decisione di Europa Nostra di dichiarare Venezia come il sito in maggiore pericolo in Europa. L’Unesco sta preparando un rapporto sulla situazione di Venezia, che sarà presentato al comitato del Patrimonio mondiale. Il comitato formulerà le sue decisioni e raccomandazioni a luglio». Sostegno anche da Silvia Costa, presidente della commissione Cultura e Istruzione del Parlamento europeo e parole di apprezzamento, ma di circostanza dall’architetto Francesco Scoppola, direttore generale Belle Arti e Paesaggio del ministero dei Beni Culturali e del Turismo.
I rappresentanti di Europa Nostra e della Banca Europea degli Investimenti hanno nell’occasione annunciato i sette siti dichiarati più in pericolo in Europa nel 2016: il sito archeologico di Ererouyk e il villaggio di Ani Pemza in Armenia, la Fortezza a Mare Patarei a Tallinn in Estonia, l’aeroporto di Helsinki-Malmi in Finlandia, il ponte girevole Colbert a Dieppe in Francia, il Kampos di Chios in Grecia, il convento di S. Antonio di Padova in Estremadura in Spagna, l’antica città di Hasankeyf e dei suoi dintorni in Turchia.
TUTTE LE EMERGENZE CHE DETURPANO
LA BELLEZZA DELLA CITTÀ
di Enrico Tantucci
«Sono stati elencate da Fersuoch, presidente di Italia Nostra. «Le Fondamente Nove saranno completamente stravolte”»
Venezia. La lunga lista degli stravolgimenti e delle emergenze ambientali di Venezia. È quella che ha fatto ieri il presidente della sezione veneziana di Italia Nostra Lidia Fersuoch, intervenendo nella seconda parte del dibattito organizzato da Europa Nostra all’Ateneo Veneto, focalizzato proprio sulla nostra città. «Ho appena visto il progetto previsto nell’area degli ex Gasometri di San Francesco della Vigna e autorizzato nel periodo commissariale, modificando la pianificazione urbanistica», ha detto Fersuoch, «che stravolgerà completamente l’aspetto delle Fondamente Nove». Il progetto, curato dall’Immobiliare Del Corso srl, prevede la realizzazione di nuovi alloggi per una superficie di oltre diecimila metri quadri.
Altro motivo di seria preoccupazione posto all’attenzione di Europa Nostra è quello delle sorti dell’Arsenale. «Rischiano di essere abbandonati al degrado i tre magnifici bacini di contenimento in pietra d’Istria», ha ricordato il presidente di Italia Nostra, «usati per l’attività cantieristica, che verrà così a sparire, per lasciare spazio in questa zona alla manutenzione delle paratoie del Mose, con la realizzazione di un enorme capannone e di un depuratore. Una manutenzione che invece che in uno dei monumenti-simbolo di Venezia, potrebbe essere tranquillamente svolta a Porto Marghera».
L’altro allarme lanciato è quello della barriera delle palancole di metallo che non riesce più a tenere i fanghi inquinati delle lavorazioni di Porto Marghera. «Quelle palancole sono ormai un colabrodo», ha sottolineato Fersuoch, «nonostante la spesa di un milione di euro per realizzarle e la laguna rischia di esserne inquinata ogni giorno di più, creando a Porto Marghera una situazione simile a quella dell’Ilva di Taranto». Ultima nota per la laguna, che Europa Nostra vorrebbe tutelare insieme a Venezia. «Il sindaco Brugnaro ha appena abolito il Parco della laguna», ha concluso l’ambientalista, «e questo dice tutto sulla considerazione che si ha in questo momento a Venezia per la tutela del suo ambiente».
il manifesto e Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2016 (m.p.r.)
Il manifesto
I GUARDIANI DELLE TRIVELLE
di Andrea Fabozzi
«La minoranza dem protesta: “Chi ha deciso per l’astensione sul referendum?”. Durissima replica dei vicesegretari Serracchiani e Guerini: «Noi. E vedremo in direzione chi ha i numeri per usare il simbolo del partito”».
«L’astensione è la scelta dei gruppi dirigenti, non dei cittadini, militanti ed elettori del Pd. Che non la rispetteranno». È arrabiato Pietro Lacorazza, presidente del Consiglio regionale della Basilicata e frontman del comitato promotore del referendum sulle trivellazioni in mare. Il quesito è stato voluto da nove regioni, sette delle quali a guida Pd. «In totale sono oltre cento i consiglieri regionali democratici che si sono espressi per il Sì, e sto parlando di gente votata da migliaia di elettori, io ho avuto 11mila preferenze. Chi ha deciso di schierare il Pd per l’astensione? Chi rappresenta?».
«Scontro nel Pd» è più un revival che una notizia, le liti sono magma bollente nel corpaccione del partito, ma questa volta trovano nel referendum del 17 aprile un cono di risalita velocissimo. Anche perché il segretario non fa nulla per limitare l’eruzione. La nota dei suoi due vice dopo le prime proteste della minoranza è durissima. Alla domanda che arriva un po’ da tutti – «chi ha preso questa decisione?» – la risposta è «noi due». Firmata Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini.
I due vice devono dare corpo alla finzione, persino per questo presidente del Consiglio, e segretario Pd, sarebbe un po’ troppo invitare ad andare al mare direttamente da palazzo Chigi. Bettino Craxi quando lo fece, e gli andò male, era solo segretario del Psi; nemmeno Berlusconi osò tanto, disse solo che il referendum sulla legge 40 era «demagogico». «È inutile» dicono adesso i due vice, non il titolare, contraddicendosi un attimo dopo spiegando che il referendum è pericoloso per l’economia nazionale. Dicono poi, loro, che farà sprecare 300 milioni, ma è stato il governo a non volere l’election day per sperare nell’astensionismo.
Le correzioni però sono solo il preludio: «Vedremo lunedì in direzione (ecco dove si deciderà, ndr) chi ha i numeri a norma di statuto per utilizzare il simbolo del Pd». Frase durissima, da frazionismo di maggioranza si sarebbbe detto un tempo. O più da Grillo e Casaleggio che da Serracchiani e Guerini, si potrebbe dire oggi.
Ma mentre la minoranza si sgola - «la segreteria non si riunisce da mesi», dice il senatore Miguel Gotor - Legambiente e Greenpeace condannano la scelta astensionista - «scandalosa», «incoerente» -, su tutto il partito scende una cappa di imbarazzo. Mercoledì sera, richiesto di confermare la notizia apparsa sul sito dell’Agcom, lo sventurato Lino Paganelli (il dirigente Pd già addetto alle feste del partito) al quale era toccata la comunicazione burocratica, rispondeva solo: «È corretto», rifiutando ogni commento. Ieri il presidente della Puglia Michele Emiliano preferiva esorcizzare la notizia, mentre il lucano leader dei bersaniani Roberto Speranza faceva domande che potrebbero essere rivolte anche alla stessa minoranza: «Fino a quando si può andare avanti così?». Già, ma chi ha votato prima lo Sblocca Italia e poi la legge di stabilità contro la quale tenterà di agire il referendum? Lacorazza ha una sua lettura: «I parlamentari del Pd hanno votato tutta la manovra con la fiducia, non un singolo provvedimento, devono sentirsi liberi di votare anche Sì al referendum. Del resto, può un partito che si dichiara democratico fare l’appello all’astensione?».
È giornata di domande senza risposta, ma quantomeno la polemica serve a far parlare del referendum – siamo ormai al sedicesimo giorno di una teorica campagna elettorale. E ieri il direttore per l’offerta informativa della Rai Carlo Verdelli ha risposto alle proteste del movimento 5 Stelle. Promettendo che la tv pubblica darà «sempre maggiore spazio al tema del referendum abrogativo con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale». Come prova di buona volontà le 9 tribune politiche previste diventano 13. E saranno trasmesse non più in orari morti ma a ridosso dei Tg.
Il Fatto Quotidiano
TRIVELLE, IL PD SI ASTIENE. È CONTRO LE SUE REGIONI
di Virginia Della Sala
Perché un partito che porta nel proprio nome il richiamo alla sovranità popolare svilisce così gravemente un istituto fondamentale di democrazia diretta come il referendum? Per una forza nata in risposta al crollo della prima Repubblica, riecheggiare il Craxi che invitava gli italiani ad andare al mare invece di votare non mi pare un bel traguardo”. Domanda e osservazioni sono legittime, poste da Andrea Boraschi, responsabile della campagna clima ed energia di Greenpeace, il primo ad accorgersi della presenza del Partito democratico tra i soggetti politici favorevoli all’astensione per il referendum del 17 aprile.
In effetti, nella giornata di ieri, dentro e fuori dal Pd di democratico c’è stato ben poco. Dentro, perché la decisione di schierarsi per l’astensione non è stata discussa in assemblea né tantomeno era prevista nell’ordine del giorno della direzione nazionale di lunedì prossimo («analisi della situazione economica, ratifica commissariamento Pd provinciale di Caserta, varie ed eventuali» i punti all’ordine del giorno). Fuori, perché per molti parlamentari dem istigare ad astenersi dal confronto elettorale, nato poi dalla legittima richiesta di nove consigli regionali come previsto dalla Costituzione (ne basterebbero cinque) è un atto “fortemente antidemocratico”.
Una cosa è certa: il referendum sulle trivelle sta spaccando il Pd più di quanto non lo sia già. Fratture tra maggioranza e minoranza, tra Roma e Regioni, tra elettori e rappresentanti. Ieri, per tutta la giornata, nelle stanze di governo un po’ tutti chiedevano spiegazioni su quella parola, “astensione”, segnata nell’area Par Condicio dell’Agcom: dai civatiani a Sinistra Italiana, da Roberto Speranza ai parlamentari dem - passando per Stumpo, Cuperlo e Gotor - da Legambiente ai Verdi e fino ai Cinque Stelle (che hanno anche scritto al direttore editoriale Rai Verdelli per segnalare la criticità dell’informazione sul referendum).
Finalmente, un segno di vita nel pomeriggio. A rispondere, i vicesegretari del partito Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini: quello sulle trivellazioni è un referendum “inutile”, la decisione l’hanno presa loro “come vicesegretari”, e lunedì “sarà ratificata durante la direzione”. Poi, il colpo basso della spesa, quei 300 milioni di euro che si spenderanno per la consultazione e che sarebbero potuti essere destinati ad “asili nido, a scuole, alla sicurezza, all’ambiente”. Ma che, è stata la pronta risposta trasversale, si sarebbe potuto evitare di spendere con un election day (ci vorrebbe un decreto legge ad hoc, aveva detto Alfano durante un question time in Parlamento a febbraio) e che in tanti hanno chiesto per settimane ricordando come, nel 2009, fossero state uniti i ballottaggi delle amministrative al referendum in materia elettorale.
«Per evitare i costi del referendum, sarebbe bastato indirlo nella stessa data delle elezioni amministrative», ha detto il governatore della Puglia Michele Emiliano (Pd), che nella sua replica ha sottolineato come le Regioni - sette su nove targate Pd – avessero in origine provato a mediare più volte con il governo sul tema trivellazioni, ricevendo come risposta una comunicazione del sottosegretario Vicari: il governo semplicemente non voleva incontrarle. «Se il governo avesse voluto discutere, avremmo potuto certamente evitare il referendum sin dall’inizio». Conferma del fatto che l’obiettivo è, prima di tutto, togliere potere decisionale alle Regioni in tema ambientale. Come per gli inceneritori.
Tra le motivazioni di Guerini e Serracchiani, quella dei presunti posti di lavoro che si perderebbero se il referendum dovesse abrogare la legge dello Sblocca Italia, che estende le concessioni fino all’esau - rimento del giacimento. Una prima risposta era già arrivata dai comitati No Triv: la prima concessione entro le 12 miglia scadrà tra almeno cinque anni e molte hanno ancora diverse proroghe di cui godere (il referendum chiede che non siano rinnovate alla loro scadenza). Emiliano è stato ancora più preciso. «Ho sentito questa affermazione erronea anche dal Segretario nazionale del partito durante una lezione alla scuola di formazione politica del Pd», ha detto prima di spiegare che, in caso di abrogazione, tornerebbe in vigore la norma precedente (legge 9/91) che non ha mai determinato licenziamenti e che confermerebbe l’iter secondo cui il permesso di estrazione degli idrocarburi dura trent’anni, prorogabili per dieci anni e poi all'infinito di cinque anni in cinque anni senza alcuna interruzione della attività estrattiva. “Un sistema con processi di verifica e controllo migliori di quelli previsti nello Sblocca Italia. Stasera non sono contento del mio partito e del panico in cui cade troppo spesso nei casi in cui la coscienza si divide dalla verità”, spiega Emiliano. E sul fabbisogno? Secondo i comitati per il sì, le riserve di petrolio presenti nel mare italiano basterebbero a coprire solo 7 settimane di fabbisogno energetico e quelle di gas appena 6 mesi.
Il manifesto
EMILIANO: «LA POSIZIONE DEL PD INGIUSTA E STRUMENTALE»
di Serena Giannico
«Referndum No triv. Il governatore della Puglia: “Il partito siamo noi che lottiamo per l’ambiente non gli altri”».
Ci sono tweet e post del governatore della Puglia, Michele Emiliano, a rendere più dura un’altra giornata nero petrolio del Pd. Perché le trivelle, pure le trivelle, spaccano il partito di Renzi. C’è la posizione ufficiale, quella che predica l’astensione al referendum del 17 aprile. Ma ci sono anche le Regioni, quelle che il referendum l’hanno chiesto e ottenuto. E 7 delle 9 regioni che hanno combattuto per il referendum (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) sono amministrate proprio dal Partito democratico.
E allora? Emiliano cinguetta: «Io e Barack Obama siamo contro le trivellazioni petrolifere marine. Il Pd italiano che fa? Il 17 aprile vota Sì». E infila il link di un articolo in cui si parla della decisione del presidente degli Stati Uniti di non approvare le piattaforme e perforazioni nell’Oceano. E poi aggiunge: «Obama vieta le trivellazioni petrolifere nell’Atlantico. E noi in Italia dobbiamo fare un referendum!!!». A chi sul social gli fa notare che la consultazione popolare nasce da precise scelte del Pd, Emiliano risponde: «Il Pd siamo noi che lottiamo per l’ambiente non gli altri». E invita a «non dimenticare che senza il Pd non ci sarebbe stato il referendum: l’opposizione impotente – sottolinea – si sarebbe divertita di più. Nel mio partito – aggiunge – siamo quasi tutti contro le trivellazioni e abbiamo chiesto e ottenuto il referendum». Poi, sul suo profilo Facebook, la faccenda viene trattata approfonditamente. Ed è una risposta al documento dei due vicesegretari del Pd che hanno bollato la consultazione popolare come «inutile» e costosa. «È sbagliata e ingiusta questa posizione – tuona Emiliano -.
Se il Governo avesse voluto discutere la materia con le Regioni avremmo potuto certamente evitare il referendum, sin dall’inizio. Non è certo colpa delle Regioni se il Governo non è tecnicamente riuscito a neutralizzare con il suo intervento legislativo anche il sesto quesito sopravvissuto. Per evitare i costi del referendum il sistema c’era e consisteva nell’indirlo nella stessa data delle elezioni amministrative». Sarebbe bastato un decreto legge, come già accaduto in passato. Quindi Emiliano prosegue: «Addolora molto tutte le Regioni governate dal Pd che il nostro stesso partito sia così disinformato e facile a propagare luoghi comuni come fossero verità assiomatiche. Non ci pare uno stile degno di un grande partito leader della sinistra europea. Altrettanto falsa è la rappresentazione che l’eventuale accoglimento del quesito referendario superstite determinerebbe dei licenziamenti. Rattrista pensare – dice ancora Emiliano – che tutto questo che ho rappresentato possa diventare irrilevante o falso solo perché la maggioranza del Pd lunedì voterà a schiacciante maggioranza in direzione, senza nemmeno aver inserito il punto all’ordine del giorno».
Secondo il governatore pugliese si sarebbe potuto discutere in assemblea «solo pochi giorni fa, per sanare la posizione di astensione del Pd improvvidamente anticipata». Una posizione «anch’essa strumentale perché il vero scopo è impedire il raggiungimento del quorum e negare alla maggioranza del popolo italiano di esprimersi».
«Ambientalisti delusi: “C’è una grande confusione tra strumento e necessità di salvaguardia”». Articoli di Simone Bianchi ed Enrico Tantucci, La Nuova Venezia, 16 marzo 2016 (m.p.r.)
«IDEOLOGIA PIÙ FORTE
DEL TURISMO SOSTENIBILE»
di Simone Bianchi
La possibile perdita di una realtà come il Parco della Laguna Nord a molti sta andando di traverso. Soprattutto tra chi per anni si era battuto per la sua istituzione. La giunta comunale, in realtà, non ha fatto altro che ottemperare a quanto Brugnaro aveva promesso in campagna elettorale. Nella sezione relativa all’ambiente - “Per la tutela dell’ambiente, del paesaggio e degli animali” - il sindaco si impegnava infatti al «blocco e ritiro del progetto del Parco della Laguna Nord». Ora che l’impegno si è concretizzato, però, c’è chi non è affatto contento. «Sicuramente c’erano cose più urgenti da fare rispetto a questa, ma sembra che fosse il primo pensiero del sindaco visto che era nel suo programma di governo», attacca Alessandra Taverna, presidente dell’Istituzione Parco della Laguna Nord. «Ovviamente l’istituzione è sempre stata altra cosa rispetto al Parco, e ci è già però stato chiesto di fare il bilancio preventivo per il 2017. Abbiamo i soldi ma sparisce il Parco? C’è grande confusione tra strumento e necessità di salvaguardia. Si vede il Parco come qualcosa di costoso e problematico, invece dispiace l’abbandono in cui è stata lasciata la laguna in questi mesi. Come Istituzione abbiamo sempre lavorato in modo precario ma lo abbiamo fatto. Non so come finirà, non esprimo giudizi politici, ma decidere questo senza definire nulla sul futuro della stessa Istituzione non lo comprendo. E poi, perché le remiere dovrebbero essere contrarie al parco?». Infine il commento dei Vas (Verdi ambiente e società) veneziani. «Abbiamo fatto una grande battaglia sul Parco, c’era il tempo per capire di più la situazione senza prenderla così di petto. E c’è grandissimo rammarico dopo anni di impegno per portare a casa un Parco che ora con un colpo di spugna si vuole cancellare. Ancora una volta prevalgono le scelte ideologiche sul turismo sostenibile e sulla tutela ambientale».
BRUGNARO ABOLISCE
IL PARCO DELLA LAGUNA
di Enrico Tantucci
«Per il sindaco ci sono troppi vincoli. Cancellata la pianificazione urbanistica e la tutela di oltre 16 mila ettari di ecosistema»
Detto fatto: addio al Parco della Laguna. Già nell’ottobre scorso in consiglio comunale era stata bocciata la mozione del consigliere della Lista Casson, Nicola Pellicani, che chiedeva di discutere del futuro del Parco. «Troppi vincoli», secondo il sindaco Luigi Brugnaro - che aveva fatto dell’abolizione uno dei punti della sua campagna elettorale - con lo strumento di pianificazione urbanistica della laguna nord voluto dalla giunta Orsoni e già in quell’occasione l'assessore all’Urbanistica Massimiliano De Martin aveva annunciato l’intenzione della Giunta di abolire sia il Parco che l'Istituzione. Ora, nell’ultima seduta di Giunta, l’addio al Parco della Laguna con il “governo” degli oltre 16mila ettari di ecosistema lagunare e la relativa tutela, sparisce, con una delibera che cancella la pianificazione urbanistica del Parco e riporta tutto come prima. E fioccano le prime proteste.
«La giunta comunale, secondo quanto promesso da Brugnaro in campagna elettorale - dichiara il presidente della Municipalità di Marghera ed ex assessore all’Ambiente, Gianfranco Bettin - ha cancellato, o sta per cancellare, il Parco della Laguna Nord, istituito dopo molti anni di discussioni dal Comune di Venezia nel 2014, con l’adesione della Municipalità del centro storico e isole, della Provincia e della Regione Veneto, oltre che di fitta serie di associazioni ambientaliste, culturali, di impegno sociale, di categoria economiche. Il Parco avrebbe rappresentato una nuova e solida occasione di sviluppo sostenibile e di tutela delle tradizioni culturali e degli ambienti naturali della laguna, sperimentando modalità dello stesso sviluppo turistico diverse e opposte rispetto al modello invasivo e stravolgente oggi dominante a Venezia. È un’occasione perduta, per l’economia e per l’ambiente. Ora speriamo che la giunta non riapra l’inceneritore di rifiuti, chiuso dal Comune sempre nel 2014».
Per Monica Sambo, consigliere comunale del Pd, «per quanto riguarda il Parco della Laguna oggi si scrive una brutta pagina tutta basata su pregiudizi e per un mero tornaconto elettorale. Cancellando il parco si butta un lungo lavoro di concertazione con categorie e cittadinanza, si tagliano le potenzialità di un progetto che poteva offrire opportunità a questi territori, senza che venga definita una prospettiva utile al rilancio locale. Il parco poteva essere un Ente gestito dai cittadini, strumentale alla tutela ambientale, alla salvaguardia dei lavori tradizionali, alla promozione dei prodotti tipici e del turismo sostenibile, facilitatore per migliorare la vivibilità e la residenzialità dell’area urbanizzata delle isole della Laguna Nord. Un interlocutore autorevole per i cittadini e punto di riferimento amministrativo in grado di portatore le istanze locali nella loro specificità in chiave metropolitana ed europea. Il Sindaco non ha nessuna visione di città e di prospettiva ma prende decisioni “alla giornata” unicamente a fini elettorali. Per rispondere alla scelta del sindaco circa l'eliminazione del Parco della Laguna riteniamo che lo stesso, diversamente da quanto sostenuto, non sarebbe stato un “carrozzone” perché non avrebbe comportato costi aggiuntivi per l’amministrazione, in quanto avrebbe assorbito personale già esistente».