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Una rivista sulla polis che vuole diventare, essa stessa, spazio pubblico di confronto sulle idee e di proposte per la città. Noi la seguiremo con tutto l’interesse che merita, perché Genova ci riguarda. (m.b.)
Quello che accade a Genova riguarda tutti noi. Il discorso pubblico, come si sa, è polarizzato sulla ricostruzione del ponte sulla val Polcevera, collassato il 14 agosto scorso, ed è dominato dall’urgenza: ogni minuto che passa è tempo perso. Ma sotto e attorno al ponte c’è una grande città - la quarta per popolazione e il primo porto d’Italia. Un territorio che attraversa una lunga e incerta transizione produttiva per il quale non basta il ripristino infrastrutturale. Le risposte che si daranno e, soprattutto, quelle che non si daranno - per convenienze tattiche o per inettitudine - alle sue domande sociali ed economiche segneranno le traiettorie future. Con questo pensiero fisso è nata una nuova rivista che si è voluto chiamare La città. Una rivista sulla polis che vuole diventare, essa stessa, spazio pubblico di confronto sulle idee e di proposte per la città.
Quello che ci proponiamo - si legge nella presentazione on line - è di costruire uno spazio che esca dai luoghi comuni, dalla propaganda, dal diffuso conformismo del verde pesto e del rosso carpet. Che contribuisca a raccontare ciò che da tempo non è più guardato: dal lavoro alla scuola, ai quartieri, all’innovazione sociale. La diffusione delle povertà. Con l’obiettivo di contribuire alla definizione di un nuovo progetto per Genova. Senza nessuna aspirazione a definire una “linea” della rivista o un gruppo di consenso elettorale, ma a essere strumento di una sinistra plurale, anche disomogenea, che ha voglia di capire e misurarsi con il reale. Potremmo dire quella “sinistra che non c’è” e di cui in molti sentiamo la mancanza. O quella sinistra che ha compreso che la sconfitta è stata prima sociale e culturale e solo dopo politica.
Chi è interessato può leggere sul sito della rivista gli editoriali del direttore, Luca Borzani, e può abbonarsi. Noi seguiremo con tutto l’interesse che merita, perché Genova ci riguarda.
il Manifesto, 6 dicembre 2018. Dire no a una infrastruttura non prioritaria, significa dire sì a un'altra visione dell'Italia del futuro. Un'intervista a Salvatore Settis (m.b.)


Dire no al Tav significa dire molti sì. «Dalla urgente messa in sicurezza di un territorio fragilissimo alla visione, mancante, dell’Italia del futuro, come grande protagonista europea». Lo sostiene Salvatore Settis, storico dell’arte, già direttore della Scuola Normale di Pisa, autore di alcuni capisaldi sulla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, già enunciata dall’articolo 9 della Costituzione. Da Italia S.p.A.: l’assalto al patrimonio culturale (Einaudi, 2002) a Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile (Einaudi, 2012).

Professor Settis, in un intervento del 2012, descrisse l’Italia come vittima e ostaggio, da decenni, di un pensiero unico, spacciato per ineluttabile. È ancora così?
Per il solo fatto che non sia cambiata è peggiorata, non vedo indizi del cambiamento di cui si parla tanto. Non dico e mai ho detto che non si debbano fare grandi opere ma bisogna controllarle una a una. E, ripeto, che l’opera cruciale e prioritaria è la messa in sicurezza del territorio, iniziativa che darebbe molto lavoro a imprese e a singoli cittadini.
È giunto il tempo di contestare «la retorica della crescita senza fine»?
È stata contraddetta da eventi cruciali del nostro tempo. L’attuale presidente degli Stati Uniti la predica, riducendo l’estensione dei parchi nazionali, e sostiene che non ci siano cambiamenti climatici; basta vedere il clima di oggi a Roma per contraddirlo. Purtroppo prosegue una logica di rapina nei confronti del territorio. Si dovrebbe ricordare una saggezza comune in molte civiltà che afferma che noi siamo i custodi e non i padroni della Terra. E lo siamo in funzione delle prossime generazioni. Quindi non dovremmo ragionare sul domani ma sull’eredità del mondo che vogliamo lasciare ai figli dei nostri figli.
Perché, alla luce di tutto ciò, pensa che la Torino-Lione sia inutile?
Da cittadino, ho letto una quantità impressionante di documenti di diverso segno. Per prima cosa, rispetto a quanto pensano in molti, si tratta di una linea rivolta alle merci e non ai passeggeri. Inoltre, i calcoli fatti all’epoca risultano, a distanza di anni, fallaci: tutto è cambiato, anche la tecnologia. Recandomi sul posto, in Val di Susa, ho, poi, potuto constatare come ci siano forze dell’esercito che insistano su zone archeologiche con scarso rispetto delle stesse. Questa vicenda è diventata uno scontro ideologico. Dire no al Tav non significa dire no a grandi opere, ma dire no a una infrastruttura non prioritaria.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, consacrato da un accordo politico bipartisan quasi quindici anni fa prevede tra le misure congiunte Stato-Regioni per la pianificazione paesaggistica prevede espressamente «il minor consumo del territorio», «la riqualificazione delle aree compromesse o degradate».
Come mai questi principi non trovano applicazione?
Purtroppo nella tradizione giuridica italiana è capitato di scrivere leggi molto belle ma anche di aggirarle. Il codice fu promosso da Urbani, poi migliorato con Buttiglione e Rutelli e indebolito da alcune piccole correzioni del governo Renzi che hanno tolto pietra a questo edificio di difesa dei beni culturali. Solo tre Regioni hanno elaborato il piano paesaggistico (Toscana, Puglia e, in parte, Piemonte), lo Stato non ha esercitato il potere sostitutivo, anzi le riforme di Franceschini hanno depotenziato le Soprintendenze. Un governo che si definisce del cambiamento dovrebbe dare un segno opposto, il ministro Bonisoli si è dimostrato sensibile all’argomento ma per ora non c’è stato nulla di concreto.
Si aspettava questo atteggiamento ben più che ondivago da parte del M5s al governo nei confronti del tema grandi opere?
Me l’aspettavo da questo governo, essendo un ibrido, un coacervo di due partiti che si sono combattuti in campagna elettorale e che ora insieme nei primi sei mesi hanno prodotto molte meno leggi di tanti altri esecutivi. Non mi aspetto nulla di buono dalla consociazione di entità così diverse: da un lato i Cinque stelle più lontani dai compromessi col passato ma ingenui, dall’altro la Lega al governo con Berlusconi per decenni.
Cosa pensa della levata di scudi pro Tav che protagonista il cosiddetto «partito del Pil», come è stata definita l’assise di imprenditori riunitisi a Torino?
Non conosco queste persone, le loro ragioni possono essere molto diverse. Sono preoccupati di interrompere un processo che coinvolgerebbe tante imprese, ma la vera risposta è dire no a qualcosa e sì a qualcos’altro. Sono stati, infatti, fatti conti su quanto tanto costi allo Stato la mancanza di prevenzione e quanto converrebbe mettere in sicurezza il territorio. Per farlo si potrebbero spendere i soldi per il Tav.
L’articolo 9 della Costituzione dice che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Come può venire in appoggio alla mobilitazione No Tav?
La Costituzione afferma che la tutela deve essere identica in qualsiasi centimetro dell’Italia. Dovremmo vergognarci di quanto poco è stata attuata e quanto grave sia che i partiti che sono stati al governo non abbiano fatto dell’articolo 9 la propria bandiera.
Quanto è importante la manifestazione dell’8 dicembre a Torino?
Dipende da come si svolgerà e da quanta gente ci sarà, da come i giornali ne parleranno. Mi stupisce, però, che quel poco che resta della sinistra in Italia non sia riuscito a utilizzare i media e i social per costruire una piattaforma in cui i cittadini, per esempio, di Trapani capiscano che le loro battaglie sono simili a quelle di Mestre. Se no le lotte politiche tenderanno a essere sempre locali. Abbiamo bisogno di afflato nazionale.

Su eddyburg
Informazioni essenziali e una breve bibliografia sulla Torino-Lione, raccolte da Ilaria Boniburini, sono disponibili qui.

Intervento al Convegno Nazionale "Luigi Mara e Medicina Democrazia: la stagione del modello operaio di lotta alle nocività", Milano, 20 ottobre 2018: Per non dimenticare il ruolo importante di Medicina Democratica e di quelle lotte operaie nella difesa della salute umana e dell'ambiente. (i.b.)

Prima di tutto voglio riproporvi il messaggio del 14 maggio2016 di Franco Rigosi di Medicina Democratica di Venezia e Mestre checondividiamo in toto:
«Luigi Mara, fondatore di Medicina Democratica nel 1976 conGiulio A.Maccacaro, ci ha lasciato, inesorabilmente colpito da un improvvisomalore nel pomeriggio del 12 maggio 2016. Impossibile, a caldo, esprimere oltreal dolore di tale perdita quanto Luigi rappresentasse per il nostro Movimento,per l’ambientalismo scientifico e il movimento operaio. Un oramai raro esempio di intellettuale incui il rigore scientifico e la chiarezza di intenti si univano a una integra (eintegrale) scelta di classe. Esigente in primo luogo con sé stesso,instancabile e incredibilmente capace di lavorare contemporaneamente sumolteplici argomenti ed iniziative, ha caratterizzato la storia quarantennaledi Medicina Democratica con un autentico umanesimo: a favore dei più deboliaffinché si risvegliasse la coscienza e l’auto-organizzazione dal basso (la nondelega). Ha inoltre portato nelle aule dei Tribunali la richiesta di giustiziae di riconoscimento della dignità per le vittime dell’organizzazionecapitalista dei luoghi di lavoro svelando la scienza (e gli scienziati) alservizio del profitto, Si è battuto per una giusta condanna dei responsabilidei tanti ecocidi sparsi per l’Italia e non solo (da Porto Margheraall’Eternit). A tutti gli appartenenti a Medicina Democratica il compito diraccogliere il testimone e proseguire, a barra diritta, nella lotta perl’affermazione della salute a partire dal diritto ad un ambiente salubre.»
La morte di Luigi Mara anche per tutti noi di Venezia,Mestre e Marghera è una perdita enorme. Io ho conosciuto Luigi nel 1986 graziead un incontro promosso da Gabriele Bortolozzo a Marghera e da allora LuigiMara è stato un punto di riferimento costante ed un aiuto per me e per tuttiquei pochi lavoratori del Petrolchimico di Porto Marghera che per moltianni hanno denunciato i molti danni cheproduceva l’industria chimica all’ambiente, che lottavano contro le produzioni cancerogene e pericolose, che lottavano per condizioni di vita e dilavoro più salubri, che lottavano perchéi diritti fossero realmente riconosciuti e garantiti. Ricordo una bellissimafrase sentita ad uno dei primi convegni di Medicina Democratica ai quali hopartecipato e che abbiamo subito “rubato” e sempre inserita nei nostridocumenti e fogli di controinformazione:
«Non è mai esistito, né mai esisterà, un posto di lavorosicuro perché nocivo ed inquinante. Dovenon si affermano sicurezza e protezione, dell’uomo come dell’ambiente, non sicostituiscono certezze occupazionali. Inogni caso, le produzioni di morte devono essere bandite ed eliminate.»
Porto Marghera: il lavoro, le lotte, la ristrutturazione, lafine di una storia
Nel 2017 il polo industriale di Porto Marghera compiva 100anni. Porto Marghera è stato uno dei poli industriali più grandi d’Italia. Nasce nel 1917 con lavori di bonifica di unaparte della Laguna di Venezia.

Il numero dei lavoratori riportato nella tabella, è quellodei lavoratori diretti, ma se si considerano anche i lavoratori delle imprese,il periodo di maggior occupazione è quello relativo agli anni 1965-1975, quandosi stavano costruendo nella seconda zona industriale i nuovi impianti,prevalentemente chimici e si stima che tra personale diretto e personale diimprese lavorassero circa 40.000 lavoratori.
Nel settore della chimica e raffinazione petrolio nel 1976,anno di punta della massima occupazione, c’erano circa 8.800 lavoratoridiretti.
Nel 2016 nell’area del petrochimico (chimica) e dellaraffineria erano occupati complessivamente circa 1.700 lavoratori diretti. Nelpolo industriale di Porto Marghera gli unici settori che sembrano tenere sonoquelli delle attività legate alla Portualità e quelle legate alla cantieristicanavale. In questo ultimo settore (Fincantieri) lavorano meno di 1.000 lavoratori diretti ed un esercitodi 3.000 lavoratori di imprese, che operano in sub-sub appalto e in condizionidi lavoro paurose, di sfruttamento e retributive da terzo mondo.
La ristrutturazione del polo industriale di Porto Marghera èiniziata nel 1981 (come in altri poli industriali italiani) e parte dallostabilimento Petrolchimico dove per la prima volta viene introdotta la cassaintegrazione speciale e il prepensionamento per un numero massimo di 616persone, ma una volta raggiunto questo numero invece di decadere rimane erimarrà in vigore sino al 1991 e tramite questo meccanismo verranno espulsi2751 lavoratori. Al Petrolchimico in questi 10 anni fiorisce un vero e propriomercato con l’istituzione di vere e proprie figure di mediatori (sindacalisti)che accompagnano i singoli lavoratori all’ufficio del personale per ottenerebuonuscite, incentivazioni all’esodo, favori, e nascono tutta una serie diclientele e giochi sporchi; su questo ci sarà anche un’indagine dellamagistratura e un’indagine interna del sindacato. Dal 1981 in poi, grazie alleorganizzazioni sindacali CGIL CISL UIL e i referenti dei partiti della“sinistra” PCI e PSI, in un vortice pauroso vengono man mano svendute esmantellate tutte le conquiste delle lotte degli anni ’60 e ’70.
Viene introdotta la nuova organizzazione del lavoro – con lacogestione della ristrutturazione continua. Vengono altresì introdotti: i“Circoli di qualità” su modello giapponese; i “nuovi contratti di FormazioneLavoro” (nuove assunzioni tramiteclientelismo politico-sindacale); la Terziarizzazione e la Lottizzazione ditutte quelle attività considerate non strategiche (queste attività vengonosubito “rilevate” da prestanomi che erano ex sindacalisti che avevano dietro aloro strutture politiche e sindacali). Vengono poi svenduti reparti e lineeproduttive ad altre società e a multinazionali che dopo un certo periodo ditempo li ristruttureranno ulteriormentee poi man mano li chiuderanno.
Questa purtroppo è la triste storia della lunga agonia diquesti ultimi anni della storia di Porto Marghera dal punto di vistaoccupazionale.
Ma nel polo industriale di Porto Marghera si sono visteanche storie molto belle
Gli anni ’60 e ’70 sono il periodo delle lotte per i dirittidei lavoratori, dei Consigli di Fabbrica, delle lotte per la sicurezza neireparti e luoghi di lavoro, delle lotte contro le fughe di gas e gli incidenti,del Sapere Operaio, dei Comitati Operai – i Comitati dei Lavoratori. Essivedono anche la nascita di un “ambientalismo operaio”, la presa di coscienzache bisognava difendere l’ambiente nel quale si lavorava e nell’ambiente nelquale si viveva.
Negli anni ’80 e ’90 emergono le esperienze di gruppi dilavoratori che facevano controinformazione e che denunciavano sia le condizionidi lavoro, che gli incidenti, le malattie, le morti sul lavoro e ladevastazione dell’ambiente e del territorio (inquinamento dell’aria, delleacque, del territorio, traffico di rifiuti, discariche abusive).
Dal 2000 in poi, si assiste alla nascita di gruppi dicittadini che lottavano per la difesa della loro salute e dell’ambiente controla chimica di morte e le lavorazioni nocive.
Porto Marghera Archivio AmbienteVenezia
Perché non si perda la memoria storica di quanto è successoin questi anni, nel 2017, centenario di Porto Marghera, abbiamo aperto unapagina facebook (qui il link) dedicata a Porto Marghera con molti materiali raccoltiin questi ultimi decenni. Sono a disposizione di tutti coloro che utilizzanofacebook e che vogliono vedere una parte molto importante della storia e dellelotte per i diritti sul lavoro e sul diritto a vivere e lavorare in un ambientesalubre.
Chi visiterà questo vero e proprio archivio troverà: foto,volantini, documenti, manifesti, interpellanze, dossier, libri e molti articolidei giornali locali e nazionali che raccontano la nostra storia e le nostrelotte. [1]

In particolare vi segnaliamo:

Troverete momenti della storia e delle lotte operaie per la difesa dei diritti e della salute, del "Sapere Operaio" e dei ragionamenti che facevamo in quegli anni:

Sono cose e storie di cui oggi molti dei vecchi protagonisti ha rimosso dalla memoria e che le nuove
generazioni non conoscono. Sono documenti che possono far capire che un altro tipo di mondo sarebbe possibile e che se si vuole si può tentare di cambiarlo veramente.

Tutti i documenti cartacei raccolti sono stati depositati e sono consultabili presso l’IVESER (Calle Michelangelo 54 P, Zitelle, Giudecca, Venezia) all'interno del Fondo Porto Marghera costituito da 28 raccoglitori di cartone.
Il materiale raccolto è stato ordinato per data, documentazione varia che va dal semplice volantino o articolo di giornale a documenti più consistenti come libri, giornali e opuscoli di fabbrica, verbali dei Processi Petrolchimico e Breda Fincantieri e documenti anche tecnici che affrontano anche problematiche produttive.
Presso l’IVESER troverete anche altri fondi con documenti sulla storia di Porto Marghera: Fondo Franco Bellotto, Fondo Luigi Scatturin, Fondo Emanuele Battain, Fondo Cesco Chinello.

Presso il Centro di Documentazione di Storia Locale di Marghera (Biblioteca di Marghera, Piazza Mercato, Marghera) troverete: Fondo AmbienteVenezia – Luciano Mazzolin, Fondo Associazione Gabriele Bortolozzo; Fondo Augusto Finzi.

Nel sito di https://www.medicinademocratica.org/wp/ sono consultabili e facilmente scaricabili i documenti di due archivi di AmbienteVenezia: Porto Marghera e Ambiente Laguna e Territorio, con documenti fino a dicembre 2011.

Qui i link alle schede di dettaglio allegate all'intervento, relative a tre esperienze (con link per accedere al documento pdf):

Scheda 1:Agenzia di informazione COORLACH
Scheda 2: Assemblea Permanente Contro il Rischio Chimico
Scheda 3: Il processo petrolchimico

Note

[1] L’archivio AmbienteVenezia è curato da Luciano Mazzolin. Email: luciano.mazzolin@libero.it

Contropiano, 27 novembre 2018. Anche Potere al Popolo l'8 dicembre scende in piazza per sostenere la mobilizzazione nazionale contro le grandi opere e per la giustizia ambientale, organizzata dai comitati e movimenti ambientalisti di tutta Italia. Con riferimenti (i.b.)

Come già anticipato in una segnalazione di qualche settimane fa (qui il link) l'8 dicembre prossimo si terranno una serie di manifestazioni ambientaliste in tutta Italia.

Potere al Popolo ha deciso di dare supporto, e sostegno a questa iniziativa (legga qui il comunicato nazionale) e sarà presente in tre piazze italiane:

A Torino con i NO TAV;
a Niscemi con i NO MUOS;
e a Padova con "Siamo Ancora in tempo": raccogliendo l'invito dei collettivi dei cittadini francesi per il clima a una mobilitazione internazionale durante i negoziati sui cambiamenti climatici COP24 (Polonia 3-14 dicembre 2018) i comitati e movimenti del veneto hanno indetto una giornata per dire che "siamo ancora in tempo a cambiare rotta".

Si legga qui il comunicato di Potere al Popolo Veneto "Contro veleni e grandi opere", che l'8 parteciperà alla manifestazione sul clima.

Di recente in eddyburg abbiamo aperto una nuova sezione "Invertire la rotta" proprio per seguire questa onda di nuove mobilitazioni per la difesa dell'ambiente e per una giustizia ambientale, che mostrano anche una sempre più acuta consapevolezza dell'assenza di una sintesi politica capace di coniugare il contrasto alla crisi con la proposta di un modello alternativo. In questa sezione, oltre a seguire e dare testimonianza dello svolgersi di queste mobilitazioni (appuntamenti, appelli, contenuti) cercheremo di dare conto dei conflitti ambientali in corso per comprendere meglio la necessità di INVERTIRE LA ROTTA e uscire dal modello di sviluppo corrente. Cercheremo anche di cogliere le alternative che provengono dai territori e dalle varie comunità di sapere che si sono formate attorno a queste importante lotte. (i.b.)

AmbienteVenezia, 19 novembre 2018. Le propensioni del governo a spostare le navi a Porto Marghera sollevano forti preoccupazioni. Sono scelte frutto di iniziative lobbistiche, interessi particolari, visioni settoriali e non sulla conoscenza della laguna. Con riferimenti (i.b.)

Il Ministro Danilo Toninelli chiede una integrazione di documenti sulla questione delle grandi navi crociera a Marghera, ipotesi emersa nell’ultimo Comitatone di un anno fa.


Qualunque sia l’approccio che il neo Ministro alle Infrastrutture Toninelli intenda assumere sul tema veneziano (che auspichiamo essere coerente con la campagna elettorale del suo movimento che indicava le grandi navi crociera fuori dalla laguna) dovrà comunque prendere atto di un contesto della ricostruzione procedurale in cui:
Oggi esistono tutte le condizioni per estromettere dalla Laguna le grandi navi crociera, smarcandosi da quegli interessi di parte predatori del bene pubblico, in coerenza con la dichiarazione comune del’ottobre scorso dei Ministri Toninelli, Costa e Bonisoli: “garantiremo piena tutela ambientale, culturale e paesaggistica, mantenendo Venezia quale primario polo crocieristico italiano”.
Perseverare con manovre dilatorie o con altre ipotesi che dovessero profilarsi all’interno della Laguna il “governo del cambiamento” si renderebbe responsabile di creare una inaccettabile situazione di stallo che, a distanza di oltre 6 anni dal decreto Clini-Passera, consentirà di fatto per ancora tanti anni il transito delle grandi navi crociera attraverso il bacino di S. Marco ed il canale della Giudecca.

Riferimenti

Qui una sintesi della lunga vicenda delle grandi navi, dal 2012 con l'emanazione del decreto Cini-Passera alla vigilia dl nuovo governo Lega-5 Stelle: "La soap opera delle grandi navi" di Giulio Marco (Febbraio 2018).
Sulla gravità delle ripercussioni ambientali del progetto di Marghera, a favore del quale sembra essere anche il governo oltre che l'Autorità Portuale e gli interessi del crocerismo si legga "Grandi navi a Porto Marghera, progetto ad alto rischio" (Luglio 2017) di Andreina Zitelli
Sul famoso Comitatone del 7 novembre 2017 si legga "Grandi navi. Le voci per il bene comune e quelle degli interessi privati" di Lidia Fersuoch.
Vogliamo inoltre ricordare lo straordinario risultato del referendum popolare autogestito del 18 giugno 2017, a cui hanno votato 18.105 persone (80% per veneziani), il cui 98% si è espresso contro le grandi navi in Laguna. Qui il comunicato stampa a cura di Cittadini per l’aria onlus con Ambiente Venezia, e Comitato No Grandi Navi-Laguna bene comune, Ecoistituto del Veneto Alex Langer, Italia Nostra (Venezia), Movimento dei consumatori (Venezia) e We are here Venice. E anche un articolo di Giuseppe Pietrobelli "Venezia, in 18mila al referendum contro le grandi navi: “Risultato inatteso, porteremo i voti alle istituzioni”.
Segnaliamo inoltre perchè eddyburg ritiene fondamentale contrastare tutti i progetti che mantengono le navi nella Laguna di Venezia: "Venezia: perchè "No alle grandi navi" di Ilaria Boniburini e Edoardo Salzano (Settembre 2018).
Infine, sulle negative ripercussioni delle grandi navi e del turismo che esse portano si legga l'articolo di Clara Zanardi "Oltre la Nave. Sull'impatto antropico del crocerismo" (Geennaio 2018). (i.b.)

Dalla grande acqua alta del 1966, che minacciò di distruggere Venezia e la sua Laguna, si è compreso che una delle cause principali della catastrofe era costituita dal Canale dei Petroli, e perciò il parlamento decise che andava dismesso e i fondali ripristinati. Mezzo secolo dopo, ci si propone addirittura di raddoppiarlo per far passare le grandi navi che entrando dalla bocca di Malamocco si dirigono a Marghera, dove il nuovo governo pensa di spostare il crocierismo! Non a caso questo passaggio è chiamato l'autostrada del mare, per le colate di cemento che saranno necessarie. Per saperne di più sull'importanza strategica della dismissione del Canale dei Petroli nell'equilibrio della Laguna e sulle opere di allargamento e irrigidimento che si ritornano a proporre si legga la lettera di Stefano Boato "Dal canale dei petroli".Fonte: Nell'immagine le Draghe per lo scavo del canale dei petroli anni ‘60 (qui il link da dove è stata presa la foto).




perUnaltracittà, 20 novembre 2018. L'acqua alta di ottobre, la quarta più alta dopo quella del 1966, è usata per rilanciare il sostegno al MoSE, un'opera che contravviene tutte le regole ed è stata criticata ad oltranza per la sua incapacità di risolvere il problema di Venezia. Qui il link all'articolo. E riferimenti. (i.b.)

Per un' approfondimento sull'alternativa al Mose si veda l'articolo "Venezia, progetto MOSE: la vera alternativa" di Armando Danella, di Ambiente Venezia, uno dei maggiori conoscitori critici della folle avventura del progetto MOSE.

Ricordiamo inoltre l'eddytoriale 174, nel quale abbiamo raccontato la storia vergognosa del MoSE, degli errori clamorosi che furono compiuti nella scelta di quella soluzione, delle ragioni perverse per cui altre soluzioni, migliori da tutti i punti di vista, furono scartate, del gigantesco edificio corruttivo che ha permesso di realizzarsi. E dei costi che la collettività aveva pagato e avrebbe continuato a pagare per un’opera che giù allora appariva inutile e dannosa. Armando Danella, nell'articolo sopracitato riprende e completa la narrazione della triste vicenda. La arricchisce con un suggerimento che condividiamo pienamente, e che qui riprendiamo testualmente:
«Dal momento che la sua [del MOSE] non funzionalità si potrà constatare solo in futuro ad opera ultimata, bisogna prefigurare un danno erariale a fecondità ripetuta mettendo sotto sequestro cautelativo il patrimonio di tutti quei soggetti, politici e tecnici, che con la loro firma su specifici documenti (documentazione depositata dal Comune di Venezia presso tutte le istituzioni interessate all’iter procedimentale del Mose) hanno contribuito a far sì che il Presidente del Consiglio Prodi e parte del suo governo respingessero le proposte alternative indicate dal Comune di Venezia nel 2006».
Per un'ampia analisi dell'ideologia, delle strategie, degli strumenti amministrativi e tecnici, grazie ai quali la salvaguardia della Laguna di Venezia si è tradotta nella sua distruzione (e in un gigantesco affare per una banda di pescicani) si legga l'articolo di Paolo Cacciari "MOSE. L’ingegnerizzazione della salvaguardia di Venezia".

Qui il link alla cartella dedicata al Mose, con tutti gli articoli raccolti dopo il 2013. Per quelli precedenti purtroppo occorre attendere un paio di mesi, quando saremo in grado di metterli a disposizione di nuovo.
Alcuni articoli per informarsi su questa grande inutile opera, che l’establishment affaristico, finanziario e politico, con la complicità di alcuni media, continua a sostenere nonostante i numeri e i fatti dicono che non conviene, economicamente, socialmente e da un punto di vista ambientale. (i.b.)
Sono numerosi gli articoli che spiegano come quest'opera sia un saccheggio nei confronti degli abitanti e delle comunità, perché gli unici che in queste opere traggono beneficio sono le imprese di costruzioni, i produttori di cemento e i politici che in cambio di approvazioni e assensi ricevono favori. Ne riportiamo qui una selezione.
Per sapere chi ci metterà i soldi per costruire la TAV si legga l'articolo di Attilio Giordano (2006) "Che siate pro o contro la TAV, forse volete sapere chi la paga" nel quale si chiarisce che c'è un grande equivoco sul fatto di che la TAV sarà il risultato di investimenti pubblici (al 40 per cento] e privati (al 60 per cento). Infatti di quel 60% di investimenti di "privato" non c'è ombra: vengono erroneamente considerati privati gli investimenti di una Spa, formalmente privata, le Ferrovie, che tuttavia ha un unico azionista, il Tesoro! Non solo, è lo Stato che si addossa gli interessi sui prestiti fatti alla società e li paga alle banche di anno in anno. Sugli alti costi della Tav, gonfiati dai costi di mazzette, tangenti e più in generale corruzione si legga e sul deficit che provocherà si legga "Treni e tangenti, quanto ci costa l'alta velocità" (2015) di Gloria Riva e Michele Sasso.
Sulla repressione e blocco mediatico che da oltre un ventennio oscura la verità, confonde i fatti, divulga falsità si leggano gli articoli di Pierluigi Sullo e Ugo Mattei del pubblicati sul manifesto il 27 gennaio 2012, quello di Giovanni Vighetti "TAV: quello che i media non dicono" (08.11.2018) e infine l'articolo di Guido Viale "Non è un treno" (14.11.2018) che denuncia la complicità della stampa nel sostenere le scelte sbagliate, le giustificazioni insostenibili e la dissennata politica delle grandi opere, inutili e dannose.
Per quanto riguarda la drammatica incapacità della classe dirigente italiana di governare i nostri territori attraverso scelte ambientalmente, socialmente ed economicamente oculate, rispondenti a bisogni concreti - i cosiddetti "costi e benefici" - e non per scambio di favori, retorica della modernità e progresso si possono leggere gli articoli di Luca Clementi "L’analisi costi-benefici boccia la Torino– Lione" (La voceinfo, 2007), Tomaso Montanari "Il Parlamento approva il Tav: non ha capito il trionfo dei No" (29.12.2016). Infine "Verità e bufale sul Tav Torino Lione" (22.10.2018) di Paolo Mattone e Livio Pepino e Angelo Tartaglia che smonta le più ricorrenti giustificazioni adoperate per sostenere questa opera che "non ha alcuna utilità economica o necessità giuridica e si spiega solo con gli interessi di gruppi finanziari privati e con le esigenze di immagine di un ceto politico che sarebbe definitivamente travolto dal suo abbandono".
Sull'impatto ambientale della Tav si legga "Un altro buon motivo per il No: il tunnel danneggerà il clima" di Luca Mercalli (18.11.2018).

Infine segnaliamo un' interessante l'articolo di Marco Aime "No Tav. Fuori dal tunnel" (26.12.2016) sulle ricadute socio-culturali che oltre vent’anni di lotta contro il tunnel hanno provocato in valle di Susa, a partire dal consolidamento di una forte comunità di intenti e di saperi, che ha portato a una profonda riflessione su temi ampi e attuali come il modello di sviluppo, le forme di rappresentanza democratica e i beni comuni.

Per saperne di più, il ricchissimo e sempre aggiornatissimo sito NoTav.info.

Nell'ultimo capitolo del libro di Francesco Erbani “Non è triste Venezia", edizioni Manni, si raccontano le riflessioni, i punti di vista e le emozioni di Edoardo Salzano, che dagli anni Settanta del secolo scorso ha deciso di vivere a Venezia, dove ha insegnato ed è stato assessore dell'urbanistica. (p.d.)

Ora che camminare gli costa tanta fatica, quando non siede alla scrivania davanti al portatile e se non è impegnato ad aggiornare eddyburg, il sito che ha preso il suo nome, Eddy Salzano trascorre parte della giornata in poltrona con le gambe allungate su uno sgabello. Di fronte, oltre una porta a vetri, c’è un canale, il rio di Santa Margherita, e al di là del canale la fondamenta del Malcantòn. Contemplare l’acqua che scorre lentamente, senza l’ansia del moto ondoso, rasserena, come quando si guarda il fuoco che brilla in un camino. E se punta il cancello in ferro battuto che si apre sulla riva opposta, scrutando le abitudini di un signore inglese che salta su una canoa e se ne va vogando in canale, Eddy ricorda James Stewart in La finestra sul cortile.

Ma qui, alle spalle di campo Santa Margherita, non ci sono assassini da denunciare. Né voyeurismi da coltivare. C’è una Venezia quotidiana, rilassata e senza eccessi che rinnova in Eddy il gusto dell’osservazione, che è stato, ed è, un requisito indispensabile del suo mestiere di urbanista, il quale disegna, o anche solo immagina, una città a partire da ciò di cui le persone hanno bisogno, di che cosa fanno, di come si muovono e di quali relazioni intrattengono fra loro. «Ho sempre detto ai miei alunni che la città non è un aggregato di case, ma la casa di tutti»: gliel’ho sentito ripetere più volte e ora una volta di più. Lui parlava della città in generale, ma difficile non pensare che valesse per Venezia. Come pure il suo seguito: «L’urbanistica non è solamente una tecnica, ma un mestiere che impone di occuparsi dei tre aspetti racchiusi nella parola città: urbs, la città come ambiente fisico, civitas, la società che quell’ambiente vive, polis, il governo di quell’ambiente».
Eddy Salzano, classe 1930, sei figli, maestro nella sua disciplina, autore di libri tuttora fondamentali per chi ad essa si avvicina e anche di saggi di schietto impatto politico, professore e poi preside allo Iuav, fondatore, animatore e direttore del più seguito e autorevole sito che si occupi di città, territorio, urbanistica e ambiente, eddyburg, appunto, è stato assessore comunale a Venezia per dieci anni, dal 1975 al 1985, nelle giunte di sinistra guidate dal socialista Mario Rigo. Di quel periodo, lui che non è veneziano, conserva tante cose realizzate, tante conoscenze e anche gli insegnamenti che Venezia gli ha trasmesso e che hanno influenzato il suo punto di vista sul modo d’essere di una città e talvolta lo hanno anche modificato. Ne parleremo durante la chiacchierata che gli ho chiesto.
La casa di Eddy è a piano terra, ci si arriva varcato un portale di forme gotiche e attraversata una corte. Un tempo qui aveva il magazzino uno dei più stretti collaboratori dell’architetto Carlo Scarpa, Eugenio De Luigi, un artigiano abilissimo nel realizzare un particolare rivestimento parietale, il grassello, tanto apprezzato e ricercato da Scarpa. Prima che approdasse qui, Eddy abitava a due passi dall’Accademia. Segno di riconoscimento della sua casa era la bandiera arcobaleno, simbolo pacifista, che pendeva da una finestra. Ora nel portone che si apre sul canale è affisso un vessillo del comitato No Grandi Navi. Nella città lagunare Eddy, vezzeggiativo di Edoardo, è arrivato nel 1974. E da Venezia non è più andato via, salvo i periodi trascorsi a Kigali, la capitale del Ruanda, insieme a Ilaria, la sua compagna, che lì ha un insegnamento universitario. Due i motivi che lo avevano portato a Venezia: un incarico universitario propostogli da Giovanni Astengo, a sua volta maestro per generazioni di urbanisti; e la richiesta di Gianni Pellicani, allora dirigente comunista in città, di aiutare l’amministrazione a dirimere una questione di tecnica urbanistica abbastanza ingarbugliata.
Eddy faceva politica nella capitale da tempo. Era comunista e consigliere comunale. Scriveva per l’Unità. La sua matrice culturale era quella di Il dibattito politico e della Rivista Trimestrale, i periodici che raccoglievano le raffinate e anche cerebrali riflessioni di Franco Rodano, Claudio Napoleoni e di altri eminenti intellettuali comunisti provenienti da esperienze di vita e da un credo cattolico. Li chiamavano i cattocomunisti. A Roma era arrivato nel 1952 da Napoli, dove era nato e dove l’infanzia e l’adolescenza erano trascorse in una bellissima casa su corso Vittorio Emanuele e frequentando gli ambienti nobiliari cui la sua famiglia era legata. Suo nonno era Armando Diaz, il generale che ricostituì l’esercito italiano dopo Caporetto, che organizzò la resistenza sul Piave e condusse alla vittoria finale nella prima guerra mondiale. Eddy non lo conobbe, però, perché morì due anni prima che lui nascesse. Dalla famiglia e da quella Napoli, così come lui stesso le racconta, credo abbia ereditato un umorismo garbatamente tagliente e una certa fierezza di sé.
Ho scelto lui per chiudere questo viaggio veneziano perché, non immerso nella cronaca cittadina, Eddy riesce a raccordare il recente passato e il futuro prossimo di Venezia in maniera diversa da chi è coinvolto attivamente nel presente. Possiede uno sguardo vigile, al tempo stesso più dentro le vicende della città e più distante da esse. L’ho scelto anche perché la sua cultura gli detta una propensione a stringere in poche immagini, assai limpide, questioni complesse e a farne emergere l’essenza. Pochi tratti gli bastano per collocare un dettaglio di tecnica urbanistica dentro una scena in cui agiscono la storia e la politica e quel dettaglio si spoglia del proprio gergo e acquista un di più di senso che spiega tanti passaggi, illumina zone d’ombra, coglie la sostanza.
Inoltre lui ha scelto Venezia. E di mestiere fa, appunto, l’urbanista, coniugando una disciplina già di per sé orientata a individuare e a mettere in evidenza gli interessi di tutti con la storia di una militanza radicale. Il sito di eddyburg (cui prestano le loro cure Ilaria Boniburini, Paolo Dignatici, Maria Pia Robbe, Mauro Baioni e altri ancora) ha una sezione dedicata a Venezia che ospita una documentazione imperdibile. Trasparente e orientata, comunque necessaria a chi voglia conoscere la città. Compresi i posti in cui mangiare bene senza farsi turlupinare. Cominciamo a chiacchierare che è mattina. Ho con me il registratore, ma preferisco prendere appunti. Fuori il cielo si è scurito. E anche l’acqua nel canale. Nonostante questo i nostri sguardi sono catturati dai cupi bagliori che la luce di fuori emette. I bollettini annunciano neve. E infatti i primi deboli fiocchi prendono a scendere. Ma l’oggetto più attraente è un grande fotopiano di Venezia commissionato negli anni di assessorato come analisi preliminare di ogni iniziativa urbanistica e affisso a una parete del lungo corridoio che dall’ingresso arriva alla porta a vetri sul canale. Non è solo un omaggio alla città che a un certo punto è diventata la sua: la smisurata cartografia, che coglie Venezia dall’alto, in una foto aerea, sembra un oggetto da scrutare, da consultare ogni volta che gli si passa di fronte, e anche da tenere inquadrato per un po’, cercando di acquisire la lezione che emanano quel groviglio di calli e di canali, quelle coperture dalle forme inusuali, quegli inattesi spazi.
Caro Eddy, gli chiedo, che cos’è per te questa incombente e seducente immagine di Venezia? «Intanto è uno strumento tecnico, in scala 1:500. Serve per la conoscenza esatta delle strutture fisiche della città e da lì occorre partire per definire regole di trasformazione e di conservazione. Era il primo passo di una procedura urbanistica: dalla conoscenza al governo. Ma quando vedemmo le tavole montate, un pannello di 7 metri per 10, Edgarda Feletti e io - Edgarda è un’architetta che dirigeva il settore Centro storico nel mio assessorato - rimanemmo a bocca aperta».
Agli occhi di Eddy quell’oggetto aveva una sua specifica bellezza. «Mi ha fatto capire», aggiunge, «che Venezia è un’opera d’arte nel suo insieme, al di là della bellezza delle sue parti. Anzi, il tutto è più bello della somma delle sue parti. Quella bellezza, che andava oltre l’utilità, non poteva restare nascosta. Scrissi allora a una ventina di editori proponendo che pubblicassero il fotopiano. Si fece avanti Marsilio. Nacque così l’Atlante di Venezia che fu tradotto e pubblicato anche negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia». Ma non c’era solo la bellezza, c’era qualcosa di più attinente alla disciplina urbanistica. «Qualcosa di analogo a quel che ti dicevo della bellezza. Non siamo di fronte a un insieme di oggetti unici, ma al prodotto di un sistema di regole. Qui si esprime la grande sapienza nel conservare la forma e la sostanza dell’acqua».
Questo ci dice molto anche della storia costruttiva di Venezia. «Indubbiamente. Il processo produttivo e materiale di Venezia è uno degli episodi più stupefacenti ed esemplari di tutta la storia urbanistica. Colpisce l’ambizione dei veneziani della Serenissima ad avere il controllo sull’intero ciclo costruttivo. Serve il legno per le fondazioni e per le galee? Si cercano in terraferma i boschi, si conquistano e, se non ci sono, si impiantano».
Mi pare un modello poco seguito in altri casi. Dunque non si può parlare di un modello. «Non sono d’accordo. È vero che non si edificavano così la gran parte delle città. Ma sono convinto che invece si tratta di un modello replicabile, perché insegna a partire da quello che c’è, umilmente. E non uso questo avverbio a caso: umilmente viene da humus, la terra. I veneziani partono umili e diventano orgogliosi».
A questo punto nel quaderno dove ho annotato le questioni da porre, occorre il tema dell’unicità di Venezia, un tema che si ripropone nella storia della città: c’è chi vuole preservarla a ogni costo, l’unicità, chi invece vuole annullarla in nome di un’omologazione necessaria. Tu da che parte stai? La domanda è troppo secca, Eddy prende il tempo necessario per una risposta argomentata: «L’omologazione non è sempre un evento negativo. Dipende molto dalla relazione che si instaura fra i luoghi, le persone e le loro scelte. L’omologazione comincia nella testa delle persone. Si può decidere di vivere in un posto in cui le connessioni sono lente oppure prediligere un luogo in cui queste procedono rapidamente. In entrambi i casi avremo delle conseguenze. Si tratta di stabilire quali conseguenze prediligiamo, se una vita a ritmi poco sostenuti o se vogliamo il moto ondoso. A Venezia e in Laguna fino a non molti decenni fa si navigava solo a remi, eccetto che per i mezzi pubblici, i vaporetti, introdotti a fine Ottocento. Poi si è consentito l’uso dei motori. E da allora sono iniziati i problemi».
Il moto ondoso qui, nel rio di Santa Margherita, sembra oggi un affare lontano, ma è la neve che rallenta tutti i ritmi. Quando questi si fanno frenetici, anche dalla porta a vetri di Eddy si vede lo scroscio dell’acqua sulle rive. «Problema non da poco per la Laguna e per l’edilizia veneziana», aggiunge Eddy. «Si poteva scegliere di fare altrimenti? Si poteva evitare che Venezia diventasse una città come le altre dal punto di vista della mobilità? Non darei una risposta secca. Forse si poteva graduare l’avvento dei motori, limitarlo, contenerlo, evitando la disastrosa situazione di oggi».
Insisto sul quesito dell’omologazione, perché questo si pose, già nel corso dell’Ottocento, a proposito dello sviluppo industriale. «Con la fine della Repubblica, per molti politici, opinionisti, intellettuali Venezia deve diventare una città come le altre sia ospitando industrie sia stravolgendo il suo impianto urbanistico. Ciò accade lungo l’intero Ottocento con un incremento nella parte finale del secolo. Quasi a metà dell’Ottocento vengono realizzati il ponte e la stazione ferroviaria, Venezia non è più un’isola e l’accesso alla città non è più distribuito, ma concentrato in un’unica direzione. Direzione che verrà poi confermata con la realizzazione di via Vittorio Emanuele, subito battezzata Strada Nuova, che dalla stazione porta a San Marco. È un asse viario analogo a quelli che si aprono in altre città nella seconda metà dell’Ottocento. Queste vicende sono state ampiamente studiate da storici come Giandomenico Romanelli e le leggiamo in uno dei volumetti di “Occhi aperti su Venezia”, Delendae Venetiae, scritto da Massimo Favilla. Delendae Venetiae riprende il titolo di un celebre articolo di Pompeo Gherardo Molmenti che, nel 1887, sulla Nuova Antologia si scagliava contro le trasformazioni in atto».
Eddy s’interrompe, forse lo sto stancando. Invece sta solo raccogliendo le idee. Le trasformazioni per rendere Venezia una città come le altre sono la spia di una storia che va allargata. «Venezia doveva svolgere un ruolo funzionale al sistema di produzione capitalistico. Sorsero insediamenti industriali a Sant’Elena, il Mulino Stucky e altri impianti alla Giudecca, il Cotonificio a Santa Marta nei pressi della nuova Stazione Marittima, edificata nel 1883. Si praticarono, come a Roma o a Napoli, gli sventramenti e così nacquero il bacino Orseolo, dietro a San Marco, la strada dei Santi Apostoli, il campo Manin, la via XXII marzo. Si interrarono rii e si procedette con imbonimenti, sottraendo superficie alla Laguna. Come documenta Gigi Scano nel suo Venezia: terra e acqua, una commissione municipale avrebbe voluto procedere ancor più radicalmente di quanto in effetti si fece. L’importante, scrissero i commissari, è che si conservasse il “carattere pittoresco” della città. Per il resto, Venezia poteva, anzi doveva diventare simile a tutte le città moderne. Una delle conseguenze fu che l’acqua, da insostituibile risorsa, venne percepita come un ostacolo da superare».
L’industrializzazione di Marghera, nel 1917, rappresenterà poi un evidente salto di scala. «Certo. Venezia, non più isola, vedrà spostato il proprio baricentro verso la terraferma e dunque la sua diversità subirà un’ulteriore limitazione. Io credo però che sarà il turismo a cancellare la specificità di Venezia, sia perché la città entrerà in un circuito globale, con regole che non tollerano eccezioni e che non sarà lei a fissare, sia perché il turismo modificherà il tessuto cittadino».
Interrompiamo per un attimo. Di questo torneremo a parlare. Ma nelle vicende novecentesche di Venezia a un certo punto s’innesta la storia personale di Eddy. Ed è sulla sua voce di dentro che vorrei fermarmi. Metà anni Settanta: arriva a Venezia ed è subito impegnato nella vita politica e amministrativa della città. «A Venezia come in altre città nel 1975 vince la coalizione di sinistra, Pci-Psi. Sindaco sarebbe dovuto diventare il comunista Gianni Pellicani, che invece fu retrocesso a vice del socialista Mario Rigo. La decisione fu presa a Roma e teneva conto del quadro nazionale, ma le leve del governo erano in mano a Pellicani. Io entrai in giunta. Partii con una serie di propositi, ma con il trascorrere del tempo, quasi alla fine del primo mandato, mi accorsi che erano impraticabili e devo a due persone, che ho già citato, Edgarda Feletti e Gigi Scano, il merito di avermi messo sulla giusta strada».
Vale a dire? «Occorreva puntare direttamente sulla pianificazione del centro storico adottando lo strumento culturale dell’analisi tipologica, di cui Feletti e Scano si erano impadroniti, ma che io, con una formazione più accademica, non conoscevo a fondo. Venezia e l’esperienza sul campo mi fecero cambiare prospettiva disciplinare e mi convinsero dell’efficacia di quel sistema di interventi messo a punto sulla base dell’insegnamento di Saverio Muratori e dei suoi allievi, Paolo Maretto e Gianfranco Caniggia, e già praticato per esempio a Bologna da Pier Luigi Cervellati, che consisteva nell’individuare i tipi edilizi, i modelli adottati nel costruire la città storica. Quei tipi edilizi, a Venezia come altrove, erano in numero limitato. Nel procedere al risanamento della città storica occorreva conservare queste caratteristiche urbanistiche e strutturali originarie, assicurando che le nuove funzioni, pur aggiornate e diverse da quelle di un tempo, fossero comunque in coerenza con esse». Qualcosa di specifico emergeva dall’analisi compiuta a Venezia. Di specifico, forse di unico. Non di anomalo. «Le regole costruttive veneziane restano inalterate e vengono adoperate uguali a sé stesse per secoli. Sono regole costruttive omogenee all’ambiente e alle condizioni che questo detta: in primo luogo l’acqua e il suo rapporto con la terra».
Eddy si volta verso il fotopiano, cerca e dopo un po’ trova campo San Polo. Lo indica e con il dito ne traccia il perimetro. «Ecco, vedi, mi ha sempre commosso la forma di campo San Polo, il fatto che un lato di esso segua esattamente il tracciato dell’antico canale. È il canale che detta la forma del campo. È l’acqua che orienta la forma della città tutta. E mi ha commosso il modo in cui i veneziani della Serenissima hanno voluto conservare nella forma materiale della città la memoria della sua storia». Dunque si può dire che Venezia abbia modificato il tuo senso di orientamento urbanistico? «Sì, si può dire».
Venezia in quegli anni Settanta manifestava già segnali dei problemi che l’avrebbero afflitta. Sia il calo dei residenti, sia il turismo incontrollato. «I residenti erano diminuiti notevolmente. Nel dopoguerra gli abitanti della città storica erano 174.000. Dieci anni dopo calano a 167.000. Poi precipitano: nel 1965 sono 124.000 e nel 1975 arrivano a 104.000. Ma l’esodo di allora dipendeva in gran parte dal fatto che Venezia viveva da tempo in condizioni di degrado edilizio e di sovraffollamento abitativo. Questa situazione viene denunciata periodicamente lungo l’intero Novecento. Numerosi gli alloggi inabitabili, antigienici, spesso ai piani bassi degli edifici e dunque invasi dall’acqua. Se ne vanno da Venezia i nuclei familiari di reddito e di età media, quelli che possono accedere agli affitti o anche all’acquisto di alloggi in terraferma, ma non in grado di risanare appartamenti nella città storica. I fattori sono quindi oggettivi, anche se, come documenta Scano, è il solo mercato immobiliare a governare questi fenomeni. E c’è da aggiungere che l’esodo è più consistente di quanto non dica il saldo dei residenti che calano, perché dal 1952 al 1972 i circa 60.000 veneziani in meno sono il risultato di 130.000 persone che sono andate via meno i 70.000 che sono arrivati, con un mutamento sostanziale della composizione dei residenti. L’esodo di questi ultimi decenni è prodotto invece dalla pressione dell’economia turistica, i cui segnali si avvertivano già a metà degli anni Settanta. Ti segnalo poi un’altra differenza, quella fra l’esodo veneziano e l’esodo che si verifica in Italia da altri centri storici. Questo avviene per srotolamento: dal centro storico ci si trasferisce nei quartieri che diventano volta a volta prima periferici della città antica, poi periferici della stessa periferia. A Venezia, invece, lo sfratto è istantaneo, da una condizione urbana antica si passa a un’altra condizione urbana radicalmente diversa, quella di Mestre, al di là del ponte della Libertà, a una decina di chilometri di distanza».
L’alluvione del novembre 1966 ha mostrato quanto evidente fosse la precarietà del patrimonio edilizio veneziano. E dunque ha reso necessario intervenire nella città storica. «In realtà l’alluvione e il dibattito che ne è seguito hanno rivelato che il problema non era Venezia, ma la Laguna. La distruzione della Laguna è stata l’antefatto e la premessa alla distruzione fisica di Venezia. Pochi lo avevano compreso. Fra questi Lidia Fersuoch, Gigi Scano e Andreina Zitelli, che per strade diverse mi hanno fatto comprendere alcune cose essenziali. Che una laguna è cosa diversissima rispetto a un normale specchio d’acqua. È un ambiente ontologicamente instabile, in equilibrio temporaneo tra due destini: diventare un pezzo di terra ferma, o diventare una baia di mare. La seconda è che la Laguna di Venezia è l’unica al mondo restata tale per secoli, grazie alla saggia applicazione di cultura e lavoro al suo governo».
Quando e perché è avvenuto il cambiamento? «È stato contemporaneo al passaggio dall’ancien régime al sistema capitalistico-borghese, ed è stato causato dal prevalere di ideologie e pratiche che hanno visto storia e natura come ostacoli allo sviluppo, anziché come opportunità. La distruzione della Laguna è cominciata con la creazione del polo industriale di Porto Marghera, la realizzazione di canali rettilinei come le strade di terraferma, a cominciare dal Vittorio Emanuele fino a quello dei Petroli, che ha spaccato irreversibilmente la Laguna in due parti con effetti mortali per la sua conservazione. Ed è proseguita con la realizzazione di pesanti imbonimenti che hanno ridotto l’ampiezza della Laguna e quindi della sua capacità di assorbire le maree: basta citare la zona industriale, l’aeroporto di Tessera, la chiusura delle “valli da pesca” (i bacini utilizzati per l’itticoltura)».
Fu l’alluvione a rendere evidente tutto questo. «Rese evidente o aiutò a ricordare che Venezia è la sua Laguna. Perciò il Parlamento saggiamente decise di avviare un processo di pianificazione che aveva due capisaldi: un piano urbanistico per il territorio che gravitava sulla Laguna; e un piano per il centro storico. Col senno di poi devo riconoscere che in quegli anni pativamo un forte ritardo culturale. Eravamo prigionieri di una visione panurbanistica di come si governa un territorio. Non comprendevamo la differenza che c’è nel considerare la Laguna, dunque una porzione vasta del territorio, qualcosa da governare con le regole della pianificazione urbanistica oppure con regole del tutto diverse. Non avevamo capito che l’obiettivo da porsi era il ripristino dell’equilibrio ecologico del sistema lagunare. Quando però fui chiamato a Venezia non fu per occuparmi della Laguna, bensì del centro storico».
Qui potremmo addentrarci in dettagli troppo tecnici. Eddy capisce che mi perderei. «Dovevamo completare i cosiddetti “piani particolareggiati” del centro storico. Ma ci accorgemmo che erano assolutamente inadeguati a regolare le trasformazioni urbanistiche ed edilizie del centro storico veneziano. Iniziammo quindi a elaborare strumenti conoscitivi di due tipi: sulla struttura fisica e su quella economico-sociale. Ed è qui che si situa il fotopiano. Ma intanto le condizioni politiche erano mutate. Cominciano gli anni Ottanta, quelli della deregulation urbanistica, in cui chi parla di piani e di regia pubblica delle trasformazioni viene visto con sospetto. L’accento viene posto sul mercato. Sono anche gli anni in cui i socialisti guardano più alla Dc che non al Pci. In ogni caso andammo avanti proponendoci di realizzare un piano per la città storica. Raggruppammo le unità edilizie in una quarantina di classi sulla base dell’analisi tipologica di cui parlavamo prima. E per ognuna di queste classi definimmo le regole delle trasformazioni consentite e delle utilizzazioni compatibili. Poi lavorammo sul rapporto fra il piano e il tempo. Prevedemmo due livelli di prescrizioni, di regole. Uno lo definimmo strutturale e l’altro strategico: una parte del piano era fissa, invariabile, doveva durare nel tempo; un’altra, invece, aveva validità per la durata di un consiglio comunale e riguardava i cambiamenti che, in base a esigenze diverse, a valutazioni politiche, potevano essere introdotte trascorso quel periodo. Fissammo dunque un sistema di regole certe, valide per tutti, alcune immodificabili altre, invece, modificabili con un voto del consiglio comunale. Ma questo lavoro non approdò a conclusione entro quella consiliatura. Le elezioni del 1985 portarono a un cambio di maggioranza e alla mia uscita dall’assessorato. Nel 1987, però, si costituì un’amministrazione guidata dal repubblicano Antonio Casellati e assessore divenne il verde Stefano Boato. Con loro riprendemmo a collaborare Feletti, Scano e io, il piano fu portato a compimento e venne adottato da un’altra giunta ancora, nel 1992».
Al fondo di tutto, mi pare di capire, c’era un obiettivo politico. «Volevamo stabilire quali interventi erano ammissibili sugli edifici, a seconda della loro tipologia, e quali no, garantendo assoluta speditezza per i primi. Inoltre, come ti dicevo, si erano fatti preoccupanti l’esodo di residenti, la trasformazione di edifici in strutture ricettive di varia natura (alberghi, bed & breakfast, case vacanza) e il cambio di destinazione di molti negozi. L’economia turistica stava dilagando. E noi, per il primo periodo di applicazione del piano, nella parte strategica, prescrivevamo norme a tutela della residenza e di alcune specifiche attività economiche e commerciali. Ma da questo momento comincia un’altra storia, di segno radicalmente opposto, che a mio avviso spiega l’affanno della Venezia di oggi».
È una questione in effetti cruciale. Eddy ne parla in Memorie di un urbanista uscito dalla Corte del Fontego nel 2010. E molto si diffonde su di essa Gigi Scano in Venezia: terra e acqua. Provo a sintetizzare. Il loro piano, adottato dalla giunta, ma non ancora approvato dal consiglio comunale, viene successivamente modificato, lasciando maggiore libertà di intervenire sugli edifici, modificandoli, e sui cambi di destinazione d’uso, cioè sulle loro utilizzazioni. Eddy prende quasi a dettare: «Il primo atto della giunta di Massimo Cacciari, eletto nel 1993, consistette nella revoca di una delibera adottata dal sindaco Casellati che fissava limiti all’arrivo di negozi in contrasto con le caratteristiche di una città storica. A Venezia sbarcarono molti fast food. Poi si mise mano al nostro piano, accusato di voler imbalsamare la città e di scoraggiare gli investitori. Alle nostre regole fu sostituito un procedimento discrezionale che nei fatti lasciava la possibilità di consentire sia trasformazioni fisiche sia cambi di destinazione d’uso. Noi volevamo conservare un controllo pubblico su che cosa la città sarebbe potuta diventare. Si scelse invece di affidarsi al solo mercato. E così, non proteggendo la residenza, le abitazioni potevano diventare, con grande facilità, alloggi temporanei, alberghi e bed & breakfast e i negozi paninerie, bar e pizzerie a taglio. Cosa che in effetti è avvenuta. Le modifiche al nostro piano furono introdotte dall’assessore Roberto D’Agostino, che ebbe come consulente Leonardo Benevolo. Da Benevolo moltissimo avevamo imparato tutti noi urbanisti, e io per primo. Però in questa vicenda veneziana il contrasto fra noi fu assai duro».
Mi domando se per evitare queste trasformazioni deleterie per una città come Venezia bastino i vincoli o non servano anche incentivi. Insomma per frenare l’invadenza di un’economia fondata sul turismo è sufficiente alzare barriere normative oppure occorre prevedere possibilità alternative? «Molto dipende dalla forza delle pressioni che si vorrebbero fronteggiare. Se la potenza dell’economia legata al turismo non fosse così consistente si potrebbe procedere con incentivi e misure a sostegno della residenza. Queste sono fondamentali, ma visto quel che è poi successo a Venezia, sarebbe stato indispensabile mantenere anche una forma di tutela pubblica della residenza, rendendo difficile il cambio di destinazione. Una volta se moriva l’anziano proprietario di un appartamento era facile che gliene subentrasse un altro. Ora è automatico che quell’appartamento finisca affittato a settimana o a weekend».
Torna la questione che, anche per Eddy, è centrale: il peso abnorme assunto dal turismo e dalle trasformazioni economiche, sociali e fisiche che esso sta determinando. «Mi si passi un’espressione forte: il turismo a questi livelli è una specie di peste», scandisce. «Venezia ha una propria dimensione e a questa deve corrispondere la quantità di persone che possono arrivarci garantendo a tutti, a chi arriva e a chi c’è già, condizioni accettabili. In questi termini il fenomeno del turismo è distruttivo. Alla fine degli anni Ottanta combattemmo il progetto Expo, che l’allora ministro socialista Gianni De Michelis voleva si svolgesse a Venezia. Ospitando quell’iniziativa, si sarebbe usata Venezia per altri scopi. E si sarebbero attirate masse sterminate di turisti. La svolta per affossarlo si ebbe nell’estate del 1989, quando ci fu il concerto dei Pink Floyd su una gigantesca isola galleggiante ormeggiata in bacino San Marco. Ne ho un ricordo terrificante, una folla di dimensioni incalcolabili, Venezia in ginocchio e la paura che la città potesse soccombere».
Detto questo, occorre domandarsi se esistono e quali sono i modelli alternativi al turismo. È la domanda, il cruccio, se si vuole, che accompagna questo viaggio a Venezia e che assilla chiunque abbia a cuore le sorti della città. Eddy socchiude gli occhi. Le sue pause sono ora più lunghe. «Penso a una città frequentata e vissuta da persone che abbiano interesse alla conoscenza in generale, e alla conoscenza di Venezia in particolare, allo studio e anche alla pratica delle cose che solo questa città può dare. In più penso che anche i visitatori debbano essere indotti a una conoscenza non superficiale della città, delle sue forme e del suo modo d’essere. Occorre regolare i loro flussi evitando che la stragrande maggioranza di essi siano escursionisti giornalieri».
Le possibili soluzioni alle quali Eddy si riferisce sono urbanistiche e politiche insieme, strettamente connesse: «In generale credo che con un’accorta politica e con un controllo pubblico delle trasformazioni bisogna evitare che tutti gli spazi, gli edifici, i contenitori disponibili – e Venezia ne è piena – diventino strutture ricettive per escursionisti. Siano essi alberghi oppure negozi. L’obiettivo è che, invece, ospitino laboratori, foresterie, centri di ricerca. Venezia è stata sempre il cuore di tanti traffici: perché non farne il nodo di tante reti? Thomas Mann parlava di Lubecca come di una spirituale forma di vita. E aggiungeva che Lubecca era la città del marzapane, e marzapane viene da pane di Marco, dunque da Venezia, e a Venezia, a loro volta, confluiscono le vie dell’Oriente. Questi fluidi vanno riattivati». Pensi a qualcosa che assomigli a un distretto culturale? «Potremmo definirlo così. Ma non credo che una struttura come la Biennale corrisponda all’idea che ne ho. La Biennale è nata sul consumo di Venezia. Venezia è il palcoscenico dove si esibiscono attori estranei alla sua realtà. Vorrei che facesse molto di più per la città, ma dovrebbe convertire tanti dei suoi meccanismi. Ora occupa numerosi spazi in città e altri ne vorrebbe. Ma nelle iniziative della Biennale Venezia resta sullo sfondo».
Mi è rimasta impressa la parola peste usata da Eddy a proposito delle dimensioni assunte dal turismo. Gli obietto che anche dalla peste si può guarire. «Sono d’accordo. Però bisogna vedere che cosa rimarrà di Venezia una volta sconfitto il morbo. Le ultime volte che ho fatto un giro in città mi colpiva la rotazione dei negozi. Molti negozi si tengono finché hai uno stock di merci da vendere. Dopodiché te ne vai. E quel negozio di scarpe, cambiato l’arredo e le insegne, prende a vendere sciarpe. È sconvolgente questo rapidissimo cambio delle utilizzazioni. La città è corpo e anima e l’anima tiene insieme anche il corpo. Se cambiano le vetrine e neanche te ne accorgi, sei preda dell’indifferenza e l’indifferenza genera sradicamento. In questo modo una città si priva del suo sistema nervoso».
Dalla vetrata sul canale entra un bagliore ancora più intenso. Ora ha cominciato a nevicare con forza. Lascio Eddy sulla sua chaise longue. Lo spettacolo di Venezia avvolta nel silenzio attrae come se fossimo davanti a un paesaggio di cime imbiancate. Temo di averlo affaticato. Non tanto da impedirgli di chiamarmi, mentre sto quasi per chiudere la porta. «Vatti a leggere una citazione dalle Città invisibili di Italo Calvino che ho messo quasi come un esergo su eddyburg. È Marco Polo che parla di Venezia al Kublai Kan». Va bene, ciao, vengo a trovarti presto. Fuori la piccola calle che porta a Santa Margherita è candida di neve fresca e intonsa. Appena a bordo del vaporetto, apro l’iPad, vado su eddyburg e leggo quel che Eddy ha scritto: «“Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia”, dice Marco Polo al Kublai Kan. “Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia”. Così è Venezia anche per me».

Al terzo appuntamento dell'assemblea nazionale contro le grandi opere inutili che si è tenuta a Venaus si è confermata la manifestazione capillare sui territori per l'8 dicembre e lanciato una grande manifestazione nazionale a Roma il 23 di marzo prossimo. (i.b.)
Il 17 novembre si è tenuta a Venaus l'assemblea nazionale dei comitati ambientali contro le grandi opere. Era il terzo appuntamento dopo quello di Venezia del 29 settembre e quello di Firenze del 6-7 ottobre. Sono la risposta di movimenti e comitati, sempre più consapevoli dei gravi problemi causati da politiche nazionali e locali neoliberiste, orientate allo sviluppo predatorio e senza limiti, alla speculazione, al profitto degli interessi della rendita, del cemento e dell'automobile e incuranti delle devastanti ripercussioni dei cambiamenti climatici.

Se l'8 dicembre sarà l'occasione per una mobilitazione diffusa nei territori (per esempio in Veneto la Marcia Mondiale per il clima a Padova; in Sicilia una manifestazione NO MUOS a Niscemi; in Piemonte la Marcia No Tav a Torino), il 23 marzo prossimo si terrà una grande Manifestazione Nazionale a Roma in cui confluiranno tutte le lotte territoriali "per rimettere al centro dell’azione la difesa e la messa in sicurezza dei territori, lo stop alle grandi opere inutili e la redistribuzione dei fondi pubblici, sprecati ad oggi per questi progetti, verso le priorità del Paese e del pianeta". (i.b.)


Oggi si tiene un 'assemblea a Venaus, per rafforzare il fronte di chi ha cuore il futuro dei territori e chiede uno stop immediato di tutte le grandi opere inutili e dannose, appuntamento che segue il percorso iniziato a Venezia a settembre. Qui i dettagli delle mobilitazioni. (i.b.)

Prosegue in Val di Susa il percorso nazionale contro le Grandi Opere e le politiche del governo iniziato il 29 settembre a Venezia.

Un’assemblea partecipata da centinaia di persone provenienti da tutto il paese, protagoniste le molteplici lotte territoriali che da nord a sud difendono la vita di chi quei territori li vive e cercano di porre in primo piano la tutela dell’ambiente e la sicurezza dei territori.
Se nei mesi di campagna elettorale abbiamo sentito gli esponenti del “governo del cambiamento” promettere un’inversione di rotta rispetto le politiche delle grandi opere, ad oggi queste affermazioni restano lettera morta.

Solo un anno fa la nostra valle vedeva i boschi bruciare e 6 mesi fa la montagna franare sulle case di molti valsusini, tutto ciò a causa della mancanza di investimenti pubblici per la manutenzione e la messa in sicurezza del territorio. Pochi mesi fa crollava il ponte Morandi a Genova e nei giorni scorsi la Sardegna piangeva morti e distruzione a causa del maltempo. Un film visto troppe volte, dove speculazioni, negligenza ed interessi dei privati la fanno da padrona e le priorità del governo sembrano altre, come l’approvazione del decreto Sicurezza che si traduce in una dichiarazione di guerra ai poveri di questo paese.

Non abbiamo mai delegato la nostra lotta a nessuno e come noi numerosissime lotte territoriali vogliono prendere parola e raccontare quella verità che molti vorrebbero nascondere: non c’è alcun cambiamento, non c’è nessun rispetto per i territori e per chi li vive, non c’è alcuna garanzia per il futuro di tutti e tutte.

Continuiamo ad essere convinti della necessità di proseguire un percorso comune, convocando un’assemblea nazionale il 17 novembre in Val di Susa, a Venaus, per rafforzare il fronte di chi ha cuore il futuro dei territori e chiede uno stop immediato di tutte le grandi opere inutili e dannose. Il giorno successivo costruiremo un’iniziativa di lotta sul territorio alla quale invitiamo tutti e tutte a partecipare!

Dalla Conferenza dei Territori riunitasi a Firenze il 6-7 ottobre giunge l’invito ad una mobilitazione diffusa sui tutti i territori l’8 dicembre, data storica per il nostro movimento e dal 2010 celebrato dal 2010 come la Giornata Internazionale contro le Grandi Opere Inutili e Imposte. L’assemblea del 17 novembre sarà l’occasione per coordinarci e rilanciare con forza questa mobilitazione su tutto il territorio nazionale!

Quest’ulteriore tappa di un cammino comune si auspica possa moltiplicare i momenti di confronto sul territorio e portare nei prossimi mesi ad una manifestazione nazionale a Roma contro le Grandi Opere, per la giustizia ambientale e i beni comuni.

Lo ricordiamo, casomai ce ne fosse ancora bisogno, che non esistono “governi amici” e che la difesa del futuro è nelle nostre mani.

Ci vediamo in Val di Susa il 17 novembre!

Qui il link alla pagina NOTAVINFO.

Intervento all’istruttoria pubblica del 13 novembre 2018 sul progetto per i Prati di Caprara voluta da 47 associazioni di cittadini per fermare un’operazione di sedicente ‘rigenerazione’ che potrebbe cancellare il Bosco urbano dei Prati di Caprara. Con commento e riferimenti (m.c.g)

É stato un grande evento partecipativo – anzi, secondo Piero Cavalcoli, la prima manifestazione di massa su di un tema urbanistico negli ultimi 50 anni a Bologna - l’istruttoria pubblica sul progetto per i Prati di Caprara voluta da 47 associazioni di cittadini che, con le loro firme, hanno consentito un ampio dibattito critico cui hanno partecipato tecnici e semplici cittadini, il parroco e i rappresentanti dei vari condomini che si affacciano sull’area. Si trattava di fermare un’operazione di sedicente ‘rigenerazione’ (edilizia residenziale con le solite briciole per l‘housing sociale, terziario e l’ennesimo centro commerciale) che potrebbe cancellare il Bosco urbano dei Prati di Caprara. I Prati costituiscono un ecosistema naturale localizzato a 550 metri dal centro storico che svolge (come ha sottolineato anche il FAI che sta raccogliendo firme per eleggerlo a ‘luogo del cuore’) una funzione ambientale cruciale in una delle zone più inquinate della città. Pubblichiamo l’intervento critico di Piero Cavalcoli, un urbanista che ha contribuito a fare la storia, per decenni esemplare, dell’urbanistica bolognese, e che è stato chiamato ad intervenire sul progetto per conto di Coalizione civica - il raggruppamento di sinistra che, alle ultime elezioni amministrative comunali, ha ottenuto l’8% dei voti. L’intervento evidenzia le gravissime responsabilità politiche e le non meno gravi aporie tecniche dell’amministrazione locale (con qualche accento ironico da grande maestro!). (m.c.g.).

Si veda anche l'articolo di Paola Bonora.



LA QUESTIONE DEI “PRATI DI CAPRARA”:
UN’OCCASIONE PER UNA DOMANDA ALL’URBANISTICA BOLOGNESE
L’Assessora all’Urbanistica e Ambiente del Comune di Bologna Valentina Orioli ci ricorda che il tema in discussione riguarda un’area strategica, che costituisce il cuore di una delle “sette città” su cui il Piano Strutturale di Bologna (PSC) ha costruito il disegno futuro di Bologna; quella che si è voluta chiamare “Città della Ferrovia”. Il cuore strategico, appunto, non solo dell’abitato bolognese, ma dell’intero bacino metropolitano. Quella in cui batte il cuore delle relazioni tra le persone in movimento (Stazione Ferroviaria e delle autocorriere, Aeroporto), delle relazioni commerciali (Fiera), delle offerte alimentari e ludiche (Fico) e della principale offerta per la cura delle persone (Ospedale Maggiore).

Cosa si propone per questa area strategica il POC, il Piano Operativo che attua il Piano Strutturale? E dunque che idea si ha, di conseguenza, del futuro della città? Lo dice una disposizione sintetica delle Norme del POC: “Un intervento di sostituzione integrale dell’edilizia esistente e la creazione di un nuovo impianto urbano con la realizzazione di residenze, centri direzionali e commerciali, scuole, parcheggi e un parco di 20 ettari” (Norme, art.11, comma2)

Dunque un nuovo quartiere residenziale, ma quanto grande? Anche questo è noto: 181.810 mq di Sul (Superficie Utile Lorda), pari a 1.164 alloggi, di cui 873 “libera” e 291 di “edilizia sociale” (133 pubblica e 158 privata) (art.11, comma 2 delle Norme e Relazione pag.27), più “eventuali ulteriori quote di capacità edificatorie per la realizzazione di attrezzature e spazi collettivi…. nella misura massima del 10% della Sul complessiva” (Norme, art.11 delle Norme). In definitiva, un nuovo quartiere urbano formato da circa 200.000 mq di Sul, ospitanti un numero di alloggi pari a circa due volte il “Virgolone” del Pilastro.

Ha bisogno Bologna di questo “nuovo impianto urbano” in questa “area strategica”?

NO, ma non lo dico io, lo dice la stessa Relazione del POC (pag.12): “Questo approccio si distacca dall’ipotesi di un dimensionamento del POC legato a un fabbisogno: come si evince dal Documento Programmatico per la Qualità Urbana (documento di base del PSC, ndr), il lieve aumento tendenziale della popolazione nella città non richiede previsioni insediative come quelle che vengono messe in gioco dal POC”
Ma allora? E qui sta la giustificazione più straordinaria “La ragione per rendere possibili interventi di tale dimensione dipende…. dalla volontà di mettere in gioco l’offerta del PSC che ha maggiori possibilità di segnare il futuro della città, incidendo sulla stessa quantità della domanda (inducendo cioè una domanda oggi non presente) oltre che sulla qualità”. Dunque: di un quartiere di queste dimensioni non c’è proprio bisogno, ma se lo facciamo, magari progettato da un Archistar, senza dubbio una domanda oggi inesistente sboccerà di incanto. Si contraddicono in questo modo, oltre a quelle dell’urbanistica, che vorrebbe che si stabilissero le destinazioni dei suoli in base ai fabbisogni, anche le più elementari leggi del mercato e si stabilisce che sarà l’offerta a generare la domanda. Qualcuno dovrà spiegarmi, perciò, per quale ragione la pancia delle banche è piena di alloggi invenduti.

Per la verità l’Assessora Orioli ci dice che i dati più recenti hanno fatto cambiare parere al Comune: oggi (a distanza di soli 2 anni e mezzo dall’approvazione del POC) si registrerebbe un fabbisogno di circa 6.000 alloggi.

Ma benedetta ragazza! A un vecchio urbanista verrebbe da chiedere che cosa insegnano oggi all’Università. Il fabbisogno di alloggi è da sempre composto da segmenti di domanda, derivanti dalla diversa capacità economica degli strati sociali che la caratterizzano. La consistente quantità di invenduto non è il segnale di totale assenza di domanda, ma semplicemente segnala che è sazio quel segmento di domanda che può permettersi i costi degli alloggi che sono sul mercato. Ciò naturalmente non vuol dire che in assenza, ormai da decenni, di una politica pubblica della casa, non esista domanda. I seimila alloggi che oggi sarebbero necessari, rappresentano la credibile richiesta di trent’anni di assenza di edilizia pubblica!
Ma riprenderò questo punto, quando tenterò, in conclusione di “volgere in positivo”, come si dice.

E ora mi chiedo, al di là del fatto che lo stesso Comune non lo giudichi necessario, ciò che viene proposto è almeno sostenibile sotto il profilo funzionale?
NO, e di nuovo non lo dico io, lo dice di nuovo lo stesso POC: “Si è verificato e valutato, attraverso gli studi di carattere trasportistico… che hanno preceduto la redazione del POC, che esistono attualmente le condizioni di sostenibilità per circa il 30% dell’intera capacità edificatoria” (Valsat, pag 21; Relazione, pag.12). Dunque, per rendere sostenibile sotto il profilo funzionale quanto complessivamente proposto sarà indispensabile “…l’adeguamento infrastrutturale necessario, la cui realizzazione potrà determinarsi sia in base all’iniziativa degli operatori interessati alla trasformazione delle aree sia in base all’iniziativa del Comune qualora riuscisse a garantirsi altrimenti le risorse finanziarie” (Relazione, pag.12).
Ottimo, impariamo così altre due cose: primo, che gli Accordi pattuiti con la proprietà non contemplano alcun impegno finanziario relativo al completamento della rete infrastrutturale necessaria per completare l’intero insediamento e, secondo, che, qualora non si manifestasse “l’iniziativa degli operatori interessati”, ci penserà il Comune.

Ma almeno, siamo a posto sotto il profilo della sostenibilità ambientale?
Relativamente: sul tema dell’aria e dell’inquinamento atmosferico la Valsat si occupa esclusivamente di tutelare i futuri abitanti del quartiere e non fa cenno al contributo che l’aumento del traffico generato dai nuovi insediamenti scaricherà sulle generali condizioni dell’aria dell’intera area urbana, mentre, sul tema dello smaltimento delle acque superficiali, ci si dimentica di sottolineare l’aspetto principale del problema, che risiede nel contributo alla impermeabilizzazione dei suoli che gli interventi progettati inevitabilmente genereranno. Al proposito ci si limita a prescrivere che l’indice di permeabilità territoriale debba essere almeno pari al 50% della Superficie Territoriale. Ma quale è adesso l’indice di permeabilità dell’area? Aumenterà o diminuirà dopo gli interventi? Non è dato sapere, con buona pace del Piano di Adattamento al Cambiamento Climatico, adottato dallo stesso Comune proprio mentre adottava il POC e finanziato dall’Europa (Life, “Blue Ap”), che indicava come primo obiettivo dell’amministrazione la scelta di minimizzare la crescita del territorio impermeabilizzato.
Fa un certo effetto certificare, proprio in questi giorni, queste cadute di attenzione.

In sintesi, e in definitiva, pare ragionevole considerare quanto proposto dal POC scarsamente motivato, contraddittorio, inefficace e infine, lasciatemelo dire, in fondo anche un po’ banale, impropriamente dedicato a un’area che è a ragione considerata strategica.
Scarsamente motivato, come ammette anche il Comune, che nega ogni relazione con il fabbisogno.
Contraddittorio, in quanto la Valsat nega la fattibilità del 70% di quanto previsto negli Accordi.
Inefficace, perché contrastato da numerose prescrizioni (per fortuna!) che ne proiettano la realizzazione in tempi difficilmente prevedibili: un impegnativo piano di indagini, da svolgere con Arpa sulla qualità dei suoli, la conseguente “condizione escludente, cioè la possibilità di escludere l’utilizzo delle aree” (Relazione, pagg.11/12) qualora risultassero necessarie bonifiche difficilmente operabili o costose, l’utilizzo solo parziale (30%) delle realizzazioni concesse, in attesa del completamento delle opere infrastrutturali necessarie, a carico di non si sa chi.
Debole e banale, infine, perché, in fondo, anche se il progetto fosse firmato da un’Archistar, si tratta comunque di un ordinario intervento di sviluppo urbano che, anche se non collocato in area agricola, mantiene tutte le caratteristiche della passata e criticabile stagione edilizia, a lungo operata a partire dal PRG dell’85 del secolo scorso che, in nome di una riduzione delle occupazioni di suolo in area agricola, ha operato, con le medesime finalità e caratteristiche, in area urbana, nelle famose “aree interstiziali”. Sottraendo, in nome dell’obiettivo della “città compatta”, circa il 50% delle previsioni a verde pubblico.

Che fare allora? Bisogna avere il coraggio di cambiare strada, correggendo il POC.
É necessario un progetto forte e condiviso, capace di segnare una distanza con la perdurante debole attenzione alle questioni ambientali, che sappia raccogliere le voci, che pur si sono manifestate nel corso stesso della redazione del POC (penso alle prescrizioni della Valsat e ai risultati di importanti progetti europei, da Blue Ap a Gaia) e soprattutto quelle dei cittadini. Se questi ultimi abbracciano gli alberi e nessuno ha mai abbracciato la Meridiana a Casalecchio o l’Unipol di via Larga una ragione ci sarà.
Forte vuol dire anche simbolico ed evocativo, questo sì capace di segnare il futuro. Un progetto che contrasti la tentazione di costruire muri, ostacoli, fratture, che richiami la nostra tradizione di attenzione al nuovo e di rispetto del passato.
A questo si pensa quando si parla di un bosco urbano, un progetto che sappia trovare continuità con la tradizione di questa città, che non ha mai semplicemente nascosto le rovine e le testimonianze di ciò che è stato seppellendolo sotto pezzi anonimi di “sviluppo urbano”, ma ha saputo conservare la memoria del passato reinterpretandolo con il senso del presente. Penso alla Montagnola, ai Giardini Margherita, al Guasto, alla Manifattura Tabacchi. E, in fondo, penso a tutto il centro storico e alla collina.
Un bosco per la pace, ad esempio, in un luogo adibito così a lungo alle armi. E un bosco evocativo della necessità dell’accoglienza e delle relazioni tra gli uomini, in un luogo che connette stazioni, ferrovie e aeroporti e che ha anche visto cosa può determinare l’indifferenza e l’incuria, dimostrando quanto ancora siamo incapaci di accogliere e integrare i più deboli.

Si può fare?
Per rispondere a questa domanda è necessario prendere spunto dall’esperienza dei Prati e allargare il campo delle considerazioni, ponendo domande alla politica urbanistica in generale, bolognese e nazionale.
Il caso dei Prati è infatti significativo di un ulteriore degrado della politica urbanistica, che ha al centro un tema decisivo e in qualche misura nuovo: il ruolo dello Stato nei processi di riqualificazione urbana. L’interlocutore delle esigenze locali di riqualificazione è profondamente cambiato negli ultimi cinque anni: i primi Accordi erano da costruire faticosamente con Generali dell’Arma ed alti dirigenti delle Aziende di Stato, soggetti che, nel panorama multiforme del potere, erano interessati solo al mantenimento del proprio. Ora è diverso: il caso dei Prati ci chiarisce che ora gli Accordi si sottoscrivono con un soggetto del tutto integrato nella attività di speculazione fondiaria e finanziaria: i terreni dei Prati sono di INVITIM.

Cosa è INVITIM?
E’ una “società di gestione del risparmio del Ministero dell’Economia e delle Finanze che ha ad oggetto la prestazione del servizio di gestione del risparmio realizzata attraverso la promozione, l’istituzione, l’organizzazione e la gestione di fondi comuni di investimento immobiliare” (Wikipedia). Dunque una concorrente di Maccaferri, interessata all’investimento immobiliare e alla cosiddetta “rigenerazione urbana” nella misura in cui essa sia fonte di rendita urbana.
Una questione nuova perciò per l’urbanistica, che ha avuto sempre a che fare con una rendita urbana la cui natura era incontestabilmente di carattere privato. Una questione su cui l’urbanistica ha fino ad ora risposto con il fumo della “rigenerazione urbana” a prescindere dai soggetti, dagli operatori, dai fabbisogni, dalle generali condizioni di fattibilità e sostenibilità.

E dunque cosa cambia?
La prima delle novità è che evidentemente tendono a mutare le relazioni istituzionali: una richiesta di solidarietà istituzionale avanzata nei confronti di una società finalizzata a trarre il massimo di profitto ha poche speranze, soprattutto se il rapporto tra i pesi dei contraenti gli Accordi è così sbilanciato in favore dei proprietari delle aree. Il Comune si accontenterà dell’elemosina: una scuoletta, qualche alloggio popolare, un parco lungo e stretto a ridosso del Ravone. Il Comune (e i cittadini!!) dovranno così affrontare tutto il peso che deriverà da una speculazione immobiliare (pubblica!!!), paradossalmente finalizzata, a quanto viene sostenuto, a ripianare i debiti dello Stato. Indicative, in questo senso, le voci che indicano in un piano di dismissioni del patrimonio immobiliare dello stato per 17 miliardi, la promessa all’Europa sulla sostenibilità della manovra finanziaria. Distrutti i patrimoni dei Comuni, si passa così a distruggere il patrimonio dello Stato.
Altra novità è dunque che il cortocircuito logico di questa finalità (diminuire il debito pubblico vendendo il patrimonio dello Stato, e cioè perseguire finalità benefiche generali attraverso misure malefiche a livello locale) non trova alcun contrasto se non quello dei cittadini, che denunciano la assoluta illogicità degli Accordi pattuiti e dei conseguenti strumenti urbanistici. Non una parola dalla disciplina. Non una parola dalla politica.

É forse possibile un’altra strada? Può il Comune pretendere la restituzione di quella parte della rendita che gli appartiene?
Basterebbe che ciascuno facesse il proprio mestiere. Lo Stato che si dedicasse, ora che ha risolto i problemi della povertà, a risolvere quelli dell’evasione fiscale, incamerando così le risorse che occorrono per risolvere i problemi di fabbisogno di edilizia pubblica che ci ricorda Orioli. E rinunciando alle mire di valorizzazione e speculazione fondiaria e finanziaria. E il Comune richiedesse allo Stato quella solidarietà e sostegno che è costituzionalmente dovuto. E riscrivesse gli Accordi intesi alla riqualificazione dei terreni di proprietà dello Stato situati nei Comuni dell’area metropolitana.

Ma si chiede dunque l’impossibile?
A parte l’esperienza che ci ha dimostrato che chiedere l’impossibile è l’unico modo per ottenere il possibile, va ricordato che questo è il momento: una nuova legge urbanistica regionale che, almeno a parole, enfatizza la riqualificazione urbana e la sostenibilità, le elezioni regionali all’orizzonte, anche se cariche di presagi non confortanti, i segnali invece confortanti di resistenza, come quelli della comunità dei Prati.
Possibile è innanzitutto pretendere coerenza dagli enunciati enfaticamente pronunciati dal legislatore regionale. Si tratta di una pessima legge, lo abbiamo sostenuto in diverse sedi e occasioni. Ma si deve cogliere in pieno l’occasione che essa pure ci offre: la formazione in contemporanea, in questi tre anni (uno è già sostanzialmente trascorso) del nuovo Piano Regionale e dei principali Piani dei Capoluoghi.
Possibile è dunque pretendere che il Piano Regionale, dialogando con quelli dei Capoluoghi, affronti in modo sistematico e sostenibile il tema delle aree statali, ponendo in modo autorevole il tema della solidarietà istituzionale e della volontà dei cittadini, così rimangiandosi la tentazione sino a qui perseguita di scimmiottare le richieste di autonomia proprie di strategie politiche che non trovano asilo nella nostra tradizione e nella nostra cultura.

Ricordiamolo: la nostra regione vanta la pianificazione territoriale più antica del mondo. Un asse di siti urbani di impianto romano che i duemila anni seguenti non hanno mai avuto la forza e la necessità di negare. Un asse su cui le civiltà susseguite hanno continuamente aggiunto una propria modernità, senza mai contrastare i segni del passato: la via Emilia, la ferrovia, l’autostrada, l’Alta velocità. E ciò è avvenuto sapendo ogni volta interpretare, con regole nuove, le esigenze di nuova configurazione delle città disposte lungo questo nastro in continua evoluzione. Così, il disporsi delle manifatture lungo la ferrovia prima e lungo l’autostrada poi, a nord dell’abitato, pone a tutti i Capoluoghi la stessa esigenza: quella di un disegno comune, del recupero delle aree dismesse con regole comuni e finalità comuni, regole che solo un nuovo Piano regionale, attento alle volontà dei cittadini e dell’ambiente, può e deve predisporre.
A noi il dovere di pretenderlo, insieme a nuovi e solidali Accordi con lo Stato, proprietario di quelle aree.

Ma, si dice, due ostacoli si frappongono alla volontà di cambiare strada, ridiscutendo le scelte del POC
Il primo consisterebbe proprio nell’impossibilità di denunciare gli Accordi sottoscritti con l’Agenzia del Demanio e con l’INVIMIT, proprietari delle aree in questione, accordi che sarebbe opportuno rispettare sia per correttezza istituzionale che per evitare qualsiasi possibile richiesta di risarcimento; il secondo consisterebbe nelle disposizioni della recente nuova legge urbanistica regionale che, nel previsto periodo transitorio di avvio dell’applicazione delle diposizioni di legge, impedirebbe ogni diversa determinazione o variante dei vigenti strumenti urbanistici.

Per quanto attiene l’inopportunità dell’eventuale denuncia degli Accordi, non credo che essa possa essere presa in alcun modo a pretesto per evitare di mettere mano a una sollecita modificazione del POC e delle scelte descritte. Si tratta semplicemente di mettere in atto quanto previsto all’art.5 dell’ultimo Accordo, sottoscritto il 2 marzo 2015, contenente l’impegno del Comune ad elaborare il POC fino a qui commentato.
L’articolo recita: “La durata del presente Accordo è stabilita in due anni, decorrenti dalla data della sua sottoscrizione, rinnovabili su accordo delle parti. Nell’ipotesi in cui le previsioni del presente Accordo non potessero trovare integrale attuazione, le parti potranno sciogliersi dagli impegni assunti, mediante comunicazione scritta per raccomandata con avviso di ricevimento. In tal caso, le Parti si impegnano a verificare la possibilità di rimodulare obiettivi e finalità dell’Accordo, ai fini della sua attuazione, anche parziale, ovvero a regolarizzare le situazioni medio tempore verificatesi”.
Dunque, nulla osta, se c’è volontà politica, a denunciare o riformulare l’Accordo, stante il fatto che, per quanto so, non ci sono situazioni “medio tempore” da regolarizzare.

Per quanto poi riguarda il presunto impedimento che nascerebbe da una corretta applicazione delle disposizioni contenute nella nuova legge urbanistica, va richiamato quanto enunciato nel capitolo IV° della lettera che il legislatore regionale ha inviato ai Comuni nel marzo di quest’anno: “Nel corso della prima fase triennale del periodo transitorio, i Comuni possono avviare e approvare i procedimenti indicati all’art.4, comma 4, ossia i procedimenti relativi a: a) varianti specifiche agli strumenti urbanistici vigenti….. ma anche varianti ai POC vigenti…. Ovvero POC “tematici” diretti alla pianificazione di specifiche tipologie di insediamenti”. Inteso che le suggestioni appena abbozzate in precedenza sul possibile destino dei Prati possono in pieno riconoscersi in “varianti tematiche al POC”, assieme a quanto è puntualmente proposto dal citato Piano di Adattamento al Cambiamento Climatico, pare dunque non sussistere alcun impedimento amministrativo a quanto invocato e richiesto da migliaia di cittadini.

Dunque, la decisione torna al Comune e ai suoi attuali amministratori: vorranno essere ricordati come coloro che per 1.200 appartamenti invenduti hanno distrutto un bosco di più di quaranta ettari, nel cuore della città? O viceversa pretenderanno coerenza da un presunto “Governo del cambiamento”, richiedendo nuovi Accordi, consoni al dovere di solidarietà istituzionale e rispettosi della volontà dei cittadini?

Contrastare il turismo a Venezia si può e quando si e voluto lo si è fatto. Poi sono arrivati i barbari. Un commento da un ex assessore all'urbanistica di Venezia. (e.s.)
Leggo una intervista di Massimo Cacciari (Repubblica 13.11.2018) in cui teorizza l’impossibilità di contrastare l’invasione turistica nei centri storici, in particolare in una città storica come Venezia.

Forse prima di una sentenza apodittica sarebbe utile una riflessione autocritica.

A Venezia, dato che la città aveva già perso troppe abitazioni adibite ad attività ricettiva (e avendo verificato la possibilità d’uso di molti altri immobili), con il piano urbanistico elaborato dalla giunta rosso-verde nel 1988-’90 dotato di norme immediatamente vigenti abbiamo impedito ogni ulteriore cambio d’uso di tutti gli immobili classificati come abitazioni anche se sfitti o disabitati (escludendo solo i piani terra).

Queste norme hanno tutelato le residenze per una decina d’anni, per tutti gli anni novanta.

Nel 2000 però , quando sono entrate in vigore le modifiche al piano della giunta Massimo Cacciari che abbiamo cercato inutilmente di impedire, la città è stata da subito travolta dal dilagare di nuovi alberghi, pensioni e residenze turistiche. La situazione è stata poi negli anni aggravata da una legge regionale del 2013 e da una delibera comunale del 2015 (e dai mancati controlli) che hanno ulteriormente agevolato e incentivato la trasformazione ricettiva degli appartamenti e delle singole stanze (B&B, Airbnb).

Ovviamente le norme urbanistiche e di legge a tutela delle abitazioni sono importanti ma non sono sufficienti. Per fermare l’esodo e iniziare e innescare un processo di ripopolamento, soprattutto dei giovani, servono politiche amministrative e fiscali che agevolino economicamente le abitazioni per i residenti, i servizi e le attività di lavoro compatibili con il tessuto storico che interrompano e disincentivino la monocultura turistica.

E comunque ormai per governare le dimensioni attuali dei flussi turistici esplose a dimensioni incompatibili con la vita della città occorre arrivare a programmare alla partenza gli arrivi agendo sulle agenzie turistiche (italiane e straniere) e sulle organizzazioni delle gite scolastiche.

Certo tutto questo è complesso e difficile: per riuscire a realizzarlo occorre una forte volontà politica e una grande capacità amministrativa per non lasciar gestire la città solo al mercato e alla rendita.

Qui sotto l'articolo:

Cacciari: “La città non è utopia, i turisti servono”
di Massimo Cacciari

Bisogna partire da una visione realistica non dalle utopie". Massimo Cacciari risponde a Pier Luigi Cervellati, intervistato su Repubblica da Francesco Erbani sulla questione dello svuotamento dei centri storici ridotti a grandi shopping center, quasi con stupore: "Ma di cosa stiamo parlando? Come si può solo pensare di eliminare i turisti dai centri storici e riportarci i residenti? Sono ragionamenti da anime belle". Per il filosofo abituato a riflettere sulla razionalità moderna e sulle trasformazioni della polis, e che è stato per anni sindaco di Venezia, la denuncia di Cervellati pecca di astrazione.

Perché le sembra irrealistico immaginare di ripopolare la città storica risanando le abitazioni?
"Sarebbe un'idea strepitosa se fosse fattibile, ma non lo è. Tutte le persone ricche e straricche che abitavano sul Canal Grande quando ero ragazzo hanno scelto di andarsene perché i costi di manutenzione di una residenza storica sono incompatibili con le tasche di chicchessia".

Cervellati propone soluzioni per non lasciare il centro cittadino solo ai supermercati o ai grandi negozi di abbigliamento.
"Sono discorsi destinati a cadere nel vuoto perché ignorano il contesto storico, economico, sociale in cui stiamo. Sono proposte assolutamente irrealizzabili, sia nei centri storici italiani sia in quelli di Parigi, Vienna o Londra. A Manhattan come a Trafalgar Square. Il fenomeno che viviamo in Italia è analogo a quello di tutti i centri storici delle maggiori città del mondo, dove funzioni più redditizie di quelle residenziali diventano competitive".

Sta parlando dei soldi portati dal turismo?
"Sa qual è la verità? Che molti importanti edifici del centro di Venezia e di Firenze sono stati salvati dall'attività ricettiva. Senza la possibilità di trasformarli in funzioni turistiche, molti edifici importanti sarebbero crollati".

Dunque dovremmo ribaltare tutto e arrivare a dire che sono i turisti a salvare le città?
"Il turismo dà da vivere, direttamente o indirettamente, a 30- 40 mila famiglie soltanto a Venezia. È uno dei nostri massimi settori industriali, ci rende competitivi".

Ci sarà però un modo per venire a patti con la realtà senza snaturarla?
"Il problema italiano è che stiamo diventando una monocultura. Il turismo dovrebbe affiancarsi ad altro. Dovremmo riuscire a far decollare nei centri storici altre attività, direzionali e terziarie: aziende, centri di ricerca, attività di formazione, università".

I nostri centri storici spesso ospitano sedi universitarie e sono vissuti dagli studenti...
"Dobbiamo cercare di mantenere nei centri storici le funzioni di formazione e di ricerca. Ma è difficile. Offrire laboratori, servizi, campus in un centro è complicato. A Milano è in corso un grande dibattito sulla possibilità di portare o meno alcune funzioni universitarie fuori, nella zona Fiera Nuova".

Le soluzioni devono essere politiche più che estetiche?
"Possiamo solo cercare di governare la trasformazione. A Venezia c'erano due milioni di turisti all'anno negli anni Settanta, adesso ce ne sono trenta milioni. Ed è una pressione irresistibile, una domanda che continuerà a crescere. Pochi anni fa non c'erano i cinesi, non c'erano i russi. Adesso sì, a valanghe. Sarà dura. Il consumo della città aumenta vertiginosamente. Un monumento visitato da dieci persone soffre di meno di un monumento visitato da dieci milioni. Bisogna lavorare sull'organizzazione del flusso turistico, renderlo più razionale nelle città più martellate, ma certo non è pensabile disincentivare il turismo. Vorrebbe dire farsi del male, in Italia è l'unica risorsa che abbiamo".

Stiamo alle realtà allora. C'è un modo per evitare che il cuore cittadino diventi un museo che la sera si svuota?
"È assurdo affrontare queste questioni di natura economica e sociale dal punto di vista dell'architetto scocciato perché vede i turisti per la strada. È fuori contesto, fuori mondo, fuori storia. Se vogliamo resistere al deflusso dai centri storici bisogna dare alle persone la possibilità di viverci a parità di condizioni rispetto a chi vive altrove. Il costo della vita di chi abita in centro non può essere il doppio rispetto a chi abita dieci chilometri fuori. Oggi invece stare in centro ha dei prezzi altissimi. Bisognerebbe rivedere il sistema fiscale e di agevolazioni, sia per i residenti che per le attività artigianali e commerciali".

Crede che la visione di Cervellati sia utopica rispetto allo stato di fatto?
"Non parte dalle cose, dalla realtà. Una città come Venezia alla fine dell'Ottocento stava diecimila volte peggio di adesso. Basta dare un'occhiata alle fotografie, era decrepita, già in vista di abbandono totale da parte del patriziato, dei nobili".

Ha senso distinguere centro e periferia nelle politiche urbanistiche?
"È un discorso che ho fatto tante volte, sul quale ho scritto e riscritto. Dov'è la città adesso? Viviamo in città infinite, senza confini. Centro e periferia sono astrazioni.Rispetto alle trasformazioni in atto, possiamo solo valutare di volta in volta come agire. Non può esserci una regola generale, stabilita da qualche programmatore di piani. Le città si evolvono, come le lingue. Possiamo solo contrattare continuamente con la loro evoluzione. E dobbiamo farlo con arte e volontà politica. Casa per casa".

Tratto dalla Repubblica, 12 novembre 2018.

L’Istruttoria Pubblica sui Prati di Caprara e la politica urbanistica di Bologna. Come il Comune di Bologna, contro l’opinione di migliaia di cittadini attivi, ha posto le basi della cementificazione di un bene straordinario che abbandono e natura hanno donato alla città.

I Prati di Caprara sono una grande area (45,7 ha) a ovest del centro storico di Bologna a poca distanza dalle mura, interclusa tra le espansioni urbane novecentesche, l’Ospedale Maggiore e i fasci di binari che portano alla stazione centrale e all’ex scalo ferroviario Ravone.
Dismessa da decenni dopo aver conosciuto utilizzi diversi e come ultimo quello militare, si presenta rinaturalizzata in un rigoglioso bosco spontaneo scrigno di biodiversità, che può costituire un prezioso polmone ecosistemico per l’intera città, ma che l’Amministrazione comunale, dopo molte promesse di trasformazione in parco pubblico, ha inserito in un piano di valorizzazione immobiliare.

Foto P. Rocchi
Nell’immagine sottostante (tratta dal Poc - esecutivo dal 6/4/2016 con validità quinquennale) si notano in blu il posizionamento centrale e l’ampiezza dell’insieme di aree che costituiscono i Prati di Caprara e l’ex scalo Ravone. Una porzione importante di territorio a ridosso delle mura, in cui il Comune vuole edificare un nuovo quartiere (1.100 abitazioni ai Prati e circa 800 al Ravone).
L’area dei Prati di Caprara è attualmente di proprietà di INVIMIT, Investimenti Immobiliari Italiani Sgr S.p.A., società a capitale pubblico emanazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze con “ruolo di cerniera tra i soggetti pubblici proprietari di ingenti patrimoni immobiliari e il mercato” (dal sito www.invimit.it). L’area Ravone è di proprietà delle Ferrovie dello Stato che la sta proponendo in vendita attraverso Invest in Italy
Il Comune di Bologna, contro l’opinione di migliaia di cittadini attivi, attraverso il Poc ha posto le basi della cementificazione di un bene straordinario che abbandono e natura hanno donato alla città.
Oltre alla grande quantità di abitativo previsto, ingiustificata in una situazione di esubero di offerta immobiliare, nell’area sono previsti una scuola, anch’essa poco sensata in una fase di rovesciamento delle piramidi di età e che in ogni modo avrebbe potuto essere allocata in un edificio dismesso, attualizzando il mantra del riuso di cui tanto si discorre.
Un’occasione irrepetibile che viene piegata alla “densificazione”, a dispetto delle preoccupazioni ambientali e climatiche, che stanno alla base delle esperienze europee e delle raccomandazioni nazionali “per la promozione di foreste urbane e periurbane” (in Strategia nazionale del verde urbano, Ministero dell’ambiente, maggio 2018).
Intanto sono stati realizzati i lavori di sbancamento dell’area destinata alla scuola, un panorama raccapricciante.
Foto dal sito del Comitato Regenerazione No Speculazione
I cittadini protestano da lungo tempo in maniera vivace e costruttiva: nel sito Regenerazione No Speculazione sono disponibili documenti informativi utili e fondati; nella rispettiva pagina facebook gli eventi (spettacoli, performance, passeggiate, ecc.) e immagini.
Il Comitato rigenerazione no speculazione ha raccolto più di 7.000 firme a favore del mantenimento del bosco; ha promosso #parteciPrati, un Forum civico di progettazione partecipata autogestito, supportato da esperti e garanti; qui i resoconti e materiali scientifici; tra cui il “Manifesto” un documento di grande spessore scientifico.
Ha raccolto più di 2.500 firme certificate con la richiesta di Istruttoria pubblica che si è svolta tra il 7 e il 10 novembre. In cui l’Amministrazione, pur davanti a una partecipazione civica straordinaria, rimane ostinatamente ancorata a un’idea di crescita superata e contraddittoria. Un’idea sconfitta da una crisi dilaniante che ha mostrato la fatalità di un ciclo economico che, ribaltato il rapporto tra domanda e offerta in un’euforica quanto esiziale bolla speculativa, ha seminato nel territorio urbano inutili costruzioni ora abbandonate. Ma la dura lezione della crisi, l’esubero di costruzioni, l’abbattimento dei valori immobiliari, la rovina di lavoratori, famiglie e imprese, non sono bastati ai nostri amministratori, che rimangono pervicacemente convinti che la via allo sviluppo debba passare attraverso nuove edificazioni.
Le dichiarazioni ridondanti sulla limitazione del consumo di suolo smentite da scelte che vanno in direzione opposta (ma ben conoscendo il valore fondiario di un’area strategica a ridosso del centro città), in una paradossale comparazione tra suolo agricolo, che in questo modo verrebbe protetto, e suolo dismesso che, benché ricoperto da un bosco lussureggiante, viene trattato al pari di una discarica, con speciosi allarmi su inquinanti ed eventuali residuati bellici; bonificabili in tutt’altro modo che sbancando, come hanno chiarito con competenza specialistica i consulenti scientifici del Comitato nel corso dell’Istruttoria.
Una schizofrenia che i cittadini non intendono più sopportare,poichè ne va del benessere e della qualità della vita.
Una città che spreca le proprie risorse, quelle naturali come quelle economiche. Mentre ben artate campagne comunicative urlano la carenza di alloggi per studenti, additano gli affitti turistici - colpevoli per ora solo dell’arte di arrangiarsi - e giustificano la costruzione di mastodontici “studentati” che in realtà sono alberghi, nessuno si preoccupa del reale disagio abitativo, risolto poliziescamente con sfratti e sgomberi, uniche politiche dell’abitare praticate.
Non si parla invece delle migliaia di abitazioni che risultano vuote, 28.091 all’ultimo censimento nel solo comune di Bologna, una media di 1,3 abitazioni per famiglia su base regionale.
E delle centinaia di interi edifici, privati e pubblici – tra questi molte scuole - abbandonati al degrado, che un’inchiesta ha localizzato e fotografato – una campionatura realizzata, in modo volontario senza alcun finanziamento o sostegno, dall’Arch. Piergiorgio Rocchi, che l’ha tradotta in una mappa georeferenziata consultabile in Coalizione Civica per Bologna.
Non si discute neppure dei grandi contenitori superiori ai 1.500 mq abbandonati o incompiuti che Nomisma ha segnalato e che potrebbero essere rifunzionalizzati anziché aggiungere ulteriori scheletri al panorama degli sprechi.
Non dovremmo essere paladini del riuso, come la retorica politica non fa che ripeterci?
Cifre e situazioni impensabili a fronte dell’irrefrenabile voglia di costruire nei Prati dell’amministrazione comunale. Che preferisce spendere le proprie energie nel diniego sussiegoso delle volontà civili con vertiginose arrampicate sugli specchi dei dati del fabbisogno scolastico e della bonifica, anziché cercare soluzioni, modi e strumenti di incentivazione/disincentivazione per reimmettere nel circuito vitale edifici abbandonati e residenze disabitate, far emergere l’evasione degli affitti in nero, calmierare il mercato e così offrire una casa a chi ne ha realmente bisogno.
Questa sarebbe una giusta politica dell’abitare e una lungimirante visione urbanistica: censire edifici e residenze inutilizzati, ristrutturare, risanare, riconvertire, riqualificare, salvare l’ambiente, rispettare i cittadini.

Testo integrale dell'articolo uscito su il manifesto, 14 novembre 2018. Sacrosanta denuncia della complicità della stampa con la cieca e dissennata politica delle grandi opere, inutili e dannose. (e.s.)

“Ma è solo un treno!” aveva esclamato Luigi Bersani, già segretario del PD, non riuscendo a capire come intorno alla lotta contro quel “treno” sia cresciuta per trent’anni la più forte, duratura, combattiva, democratica ed ecologica comunità del paese, contrastando il modo sciagurato in cui esso viene governato. E questo, proprio mentre il partito di Bersani (“la ditta”), che in altri tempi era stato un baluardo della democrazia, si stava dissolvendo tra le grinfie di Renzi. In realtà, quello non è “un treno”, ma solo un pezzo di treno. Un binario di 57 chilometri lungo cui merci e passeggeri, che non ci sono e non ci saranno mai, potranno viaggiare ad “alta velocità” dentro una galleria scavata in una montagna piena di uranio e amianto, mentre prima e dopo quella galleria, se è quando sarà stata fatta, quel treno dovrà percorrere le attuali tratte intasate che lo congiungono all’alta velocità Parigi-Lione e Torino-Milano, che non saranno raddoppiate. Perché la realizzazione di quelle tratte, per far credere che il Tav costi meno, è stata rimandata al “dopo”. Quale dopo? Il dopo l’apocalisse, quando tutto il pianeta avrà altro a cui pensare perché i cambiamenti climatici provocati da tante grandi opere come quella saranno diventati irreversibili.

Per esigere la realizzazione immediata di quel non-treno tutto l’arco delle forze anticostituzionali si è mobilitato sabato scorso a Torino mettendo insieme Salvini, PD, Forza Italia, Forza nuova, Casa Pound, industriali, commercianti, professionisti e sindacati vari, preferendo quell’adunata alla partecipazione a una delle cento manifestazioni delle donne contro il disegno di legge Pillon, che introduce il fascismo nelle famiglie, o al corteo di Roma contro il decreto Salvini, che introduce fascismo e razzismo in tutto il paese (dandone peraltro immediato riscontro con il blocco dei bus che portavano a Roma i manifestanti, la loro perquisizione uno a una e la loro schedatura, con annessa fotografia, a futura memoria: quando si tratterà di dar loro la caccia casa per casa). Risultato? Una profezia che si avvera: quarantamila dovevano essere (come al corteo che aveva piegato gli operai della Fiat quarant’anni fa, anche se forse anche allora erano meno) e quarantamila sono stati; senza bisogno di contarli e nemmeno di prender nota delle stime della Questura. Giornali e TV, invece, registrano di sfuggita le cento manifestazioni di nonunadimeno, compiacendosi del fatto che anche lì, come a Torino e Roma, sono state le donne a prendere l’iniziativa, quasi che gli obiettivi fossero paragonabili. E sul corteo antirazzista di Roma, che ha come minimo raddoppiato i numeri di Torino, nemmeno uno strillo nelle prime pagine, se non il silenzio assoluto. E poi ci si stupisce che Grillo, Di Maio e Di Battista diano in escandescenze contro i giornalisti… Il primo premio spetta indubbiamente a questo incipit di Repubblica: “Non l’avrebbe mai immaginata, Mino Giachino da Canale d’Alba, una piazza tanto piena”. Ma come avrebbe mai potuto non immaginarla se da dieci giorni tutti i giornali d’Italia annunciavano che ci sarebbero state in piazza esattamente quarantamila persone, come alla marcia di quarant’anni fa? La Stampa (ai bei tempi detta La Busiarda) fa di meglio: la prima pagina è interamente occupata da una gigantografia dell’adunata (nemmeno la fine di una guerra mondiale aveva meritato tanto) accompagnata da un peana del direttore dedicato a quel non-treno a cui Maurizio Molinari lega indissolubilmente “responsabilità personale, rispetto del prossimo, istituzioni della Repubblica, legame identitario con l’Europa, forza incontenibile della modernità contro ogni tipo di oppressione”. Insomma, la sopravvivenza della civiltà è legata a un filo e quel filo non è l’inversione di rotta per fermare i cambiamenti climatici che stanno distruggendo il paese e il pianeta, ma un pezzo di treno. Non c’è forse esempio più chiaro della miseria in cui ci sta seppellendo la nostra “classe dirigente” (tutta). Sembra fare eccezione ilsole24ore, che in prima pagina affianca a una foto dell’adunata torinese in formato quasi decente un articolo su “Il grande spreco del Mose di Venezia – 15 anni di lavori, 5,5 miliardi di costi”. Poi, se si va a leggere l’articolo, sembra che alla fine tutto fili liscio lo stesso, nonostante sprechi, ruberie, corruzione inefficienza e scarsa probabilità che il Mose entri in funzione. Il fatto è che gli abitanti di Venezia non sono riusciti ad opporsi al Mose (che non salverà Venezia, ma rischia anzi di sommergerla sotto un’onda anomala) o alle grandi navi con la stessa determinazione con cui in val di Susa si sono opposti al Tav, salvando, per ora, sia la valle che parte delle finanze statali: soldi di tutti.

Ben poche delle persone trascinate in piazza a Torino da questa ventata di amore per quel non-treno - con l’unica motivazione che ci avvicinerà all’Europa, e soprattutto alla Francia; proprio quando metà delle forze, neanche tanto occulte, promotrici di quell’adunata strilla tutti i giorni contro Europa e Francia, cause principali della nostra rovina - hanno ritenuto opportuno di informarsi sullo stato di avanzamento dei lavori, sulle ragioni del no, sulle difficoltà tecniche, economiche e soprattutto sociali e ambientali che continueranno a ostacolarne la realizzazione.

Ma lo spirito di quell’adunata, finalizzata soprattutto a far saltare la giunta Appendino (cosa che non restituirebbe la città a Fassino, ma la consegnerebbe a Salvini), era illustrata da alcuni cartelli ben in vista nelle fotografie di quell’evento “storico”: “No alla ZTL”; “Libera circolazione!”, ovviamente, delle auto. A loro di quel treno forse poco importa: vogliono cacciare l’Appendino per tornare ad andare in ufficio e a fare shopping “ in macchina”. E tutto questo mentre metà del paese sta crollando, affogando e scomparendo, travolta da un maltempo che anticipa i futuri disastri dei cambiamenti climatici già in corso. Di cui anche uno scemo dovrebbe rendersi conto; e scendere in piazza perché si cambi immediatamente rotta, invece di gingillarsi con quel non-treno che non si farà mai.

Che-fare, 1 ottobre 2018. Esemplificativo di come il problema delle alluvioni sia un problema di utilizziamo del suolo e dell'eccessiva cementificazione che lo rende impermeabile. E dell'importanza di ascoltare i conflitti che emergono dai territori. (i.b.)


L'articolo è emblematico di un processo urbano che ha investito moltissimi centri urbani europei e di come il consumo di suolo sia strettamente legato a straripamenti di fiumi, inondazioni e alluvioni. Nel ripercorrere la storia del fiume Seveso (Milano) e delle opere idrauliche ad esso connesso si mette in rilievo come "il problema di acqua è in realtà un problema di terra", cioè di un eccessiva e progressiva impermeabilizzazione del suolo attraverso il processo di urbanizzazione della natura e industrializzazione.
L'altro aspetto interessante è la descrizione del processo intrapreso dalla regione Lombardia per la riduzione dell’inquinamento delle acque, la difesa idraulica/rischio idrogeologico, la ri-naturalizzazione e il miglioramento paesaggistico. E' stato adottato uno strumento piuttosto innovativo, il contratto di fiume: "un protocollo che prevede forme di accordi volontari tra attori locali per una mobilitazione strategica atta ad affrontare problematiche ambientali" che però non ha sfruttato tutte le opportunità che lo strumento offriva, riducendosi a un strumento di ricerca del consenso su un progetto pre-stabilito piuttosto che di ascolto e co-progettazione con i territori per la ricerca di soluzioni ecosostenibili.
Fortunatamente, le comunità locali sono sempre più attente e capaci di comprendere le contraddizioni tra sviluppo e salvaguardia dei territori e sono emersi importanti conflitti nei confronti della costruzione dei bacini di laminazione, la soluzione proposta dalla regione per ridurre le portate in eccesso durante le piene. Le comunità locali si sono opposte al progetto perchè questi bacini sono di fatto delle opere di urbanizzazione che sottraggono ulteriore territorio ‘libero’ e che non risolvono la pessima qualità delle acque del fiume, che vengono stoccate in aree prossime ad abitazioni.
Si veda sull'argomento delle alluvioni, problema di terra, l'articolo di Giorgio Nebbia "Alluvioni". (i.b.)
L'articolo è qui raggiungibile.

Alcuni aspetti sono ricorrenti nei progetti e nelle vicende delle grandi opere, oltre la loro accertata inutilità e il supporto acritico dei fautori dello sviluppismo infrastrutturale. Segue

Tav Torino- Lione, Pedemontana Lombarda, Pedemontana Veneta, Autostrada di Val Trompia, Autostrada Tirreno-Brennero, Bretella Campogalliano- Sassuolo, Tav Brescia-Verona, Terzo Valico, Tav fiorentina, Autostrada Tirrenica, sono alcune tra le grandi opere più dichiaratamente inutili (come sarà confermato, se si faranno, dalle analisi costi e benefici) e più avversate dalle popolazioni locali, dai comitati e dalle associazioni ambientaliste. Cui si devono aggiungere il Trans Adriatic Pipeline (Tap) e, perché no, il Ponte sullo Stretto di Messina. Di queste due infrastrutture localizzate al Sud, una è ormai irreversibile, grazie ai contratti firmati dal Ministro Calenda, l’altra è un incubo che riappare a ogni tornata elettorale - l’ultimo endorsement è stato quello di Matteo Renzi.

Alcuni aspetti sono ricorrenti nei progetti enelle vicende delle grandi opere, oltre la loro accertata inutilità e ilsupporto acritico dei fautori dello sviluppismo infrastrutturale. Innanzitutto,le grandi opere in questione sono in buona parte localizzate nel Nord Italia,alcune nel Centro, marginalmente in un Sud, che ancora attende il completamentodella Salerno- Reggio Calabria, ancorché ribattezzata Autostrada Mediterranea.Il secondo aspetto è che i costi di progetto (cui si aggiungono i rincari e lecosiddette “riserve”) si aggirano sui 40 milioni di euro al chilometro,indipendentemente dalla morfologia del territorio e dagli ostacoli da superare.Il terzo aspetto è che molte opere che dovrebbero essere realizzate in project financing sono arenate perché iprivati, dopo avere prosciugato gli aiuti statali, non hanno le risorsefinanziarie necessarie, né possono garantire ulteriori crediti bancari.
Il quarto aspetto è ciò che rende cosìappetibile la realizzazione delle grandi opere inutili in project financing: la certezza che, comunque vadano le cose, ilsoggetto attuatore ne uscirà con lauti profitti. Esemplari a questo propositogli accordi relativi alla Pedemontana Veneta, i cui proventi gestionali andrannoalla Regione Veneto in cambio di un canone versato al costruttore di 153milioni di euro l’anno; un’operazione a rischio zero per il consorzio Sis, valea dire Dogliani, e con una lauta rendita garantita; a maggior ragione se siconsidera che i traffici reali saranno ben al di sotto di quelli scientemente sovrastimatinel progetto.
Infine vi è un ulteriore aspetto che fa partedella strategia dei “capitalisti a rischio zero”, promotori delle grandi operestradali e ferroviarie, e che spiega la costituzione di consorzi di imprese prividi adeguate risorse finanziarie. Dal momento che le opere sono divise instralci, l’importante è realizzare un primo lotto. A questo punto l’operadiventa “irreversibile”: per quali ragioni? Basta leggere la stampa amica: “perchéormai non si può tornare indietro”, “perché le decisioni sono state prese”,“perché le penali supererebbero i costi del completamento”, ecc. Anche se glistessi sostenitori dei progetti spesso devono ammettere che i conti non tornanoe che i flussi previsti di merci o veicoli erano sballati, finisce che devepagare il pubblico.
Seguendo questa strategia, alcune delle piùimportanti e impattanti opere inutili hanno un primo tratto realizzato o,almeno, cantieri in corso, appalti assegnati, operai assunti (e licenziabili).Tra tutte la Pedemontana Lombarda (edulcorata come “sistema viabilistico”, mala polpa è quella), la Pedemontana Veneta, il sottoattraversamento di Firenze,la ferrovia Tortona/Novi Ligure-Genova, meglio nota come Terzo Valico; nelfrattempo tutti gli altri concessionari stanno accelerando accordi e procedureper raggiungere l’agognato stato di irreversibilità, facendo talvolta, come sisuole dire, “carte false”. Su questalinea anche il progetto del nuovo aeroporto di Firenze, un caso esemplare diatti illegittimi e di torsione e manipolazione delle leggi. Fannoeccezione le vicende dell’autostrada Tirreno-Brennero, di cui sono staticostruiti 9 chilometri e qui ci si è fermati. Un inghippo utilizzato dal gruppoGavio per superare le contestazioni dell’Unione Europea e ottenere unprolungamento di 34 anni della gestione della Parma- La Spezia, incluso l’aumentodel 7,5% dei pedaggi nel periodo 2011-18. Un ottimo affare per Gavio, pessimoper gli utenti e il territorio.
Riusciranno i 5 Stelle al governo e il Ministro Toninelli a mantenerela promessa di cancellare le grandi opere inutili, dopo averle combattute alivello locale? O si fermeranno alle analisi costi e benefici, senza trarne leconseguenze? Difficile immaginare una Lega che abbandoni tre suoi cavalli dibattaglia, come il Terzo Valico, la Pedemontana Lombarda e la PedemontanaVeneta, quest’ultima fortissimamente voluta dal governatore Zaia e indicata da Matteo Salvini come un modello per tutto il Paese: la sua baseelettorale è sostanzialmente sviluppista, gli industriali e gli imprenditorigrandi o piccoli del Nord si sentirebbero traditi, la destra berlusconianariacquisterebbe vigore.
Perciò se è giusto chiedere a questo governo e,segnatamente, al Movimento 5 Stelle, di mantenere gli impegni elettorali, sarebbesbagliato farvi troppo affidamento. I movimenti e i comitati contro le grandiopere inutili, sanno benissimo che vi sarà un tentativo di accontentarequalcuno, magari dilazionando l’inizio dei lavori, e di andare avanti per laconclamata irreversibilità negli altri casi, cercando di far leva su presunti egoismilocali. Per questo e per trovare unastrategia comune, i movimenti e comitati si sono dati una serie di appuntamentilocali e nazionali. Ben consci che le grandi opere, inutili per i cittadini,sono utilissime a banche, costruttori e a un vasto mondo politico o che faaffari con la politica; e che un contratto (fin che dura) non è un programma digoverno e tanto meno include la necessità di porre l’ambiente, nonostantecatastrofi, morti e danni a ogni ondata di maltempo, al centro delle politichenazionali.

Proseguono le mobilitazioni ambientaliste iniziate a Venezia il 29 settembre. L'8 dicembre Assemblea e Marcia Mondiale per il clima a Padova. Eddyburg aderisce! Qui appello e riferimenti agli eventi. (i.b.)


Invito per tutti i comitati al "Siamo Ancora in tempo" meeting del Veneto. Per continuare il percorso iniziato con la grande assemblea nazionale di Venezia dello scorso 29 settembre.


Programma

Sala Diego Valeri, Via Valeri, Padova. Assemblea aperta per confrontarci sulla necessità di organizzare una mobilitazione regionale contro le grandi opere e per la giustizia ambientale. L'orario sarà comunicato al più presto.

A seguire: Marcia Mondiale per il Clima, corteo per le vie di Padova.

Appello

L'ultimo rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) afferma che abbiamo poco più di una decina di anni per contenere l'aumento della temperatura mondiale entro 1.5° e mantenere gli effetti del riscaldamento già in corso entro livelli gestibili; diventa quindi sempre più importante spingere verso un nuovo sistema di sviluppo basato su fonti alternative e rinnovabili.

Raccogliamo l'invito dei collettivi dei cittadini francesi per il clima a una mobilitazione internazionale durante i negozionati sui cambiamenti climatici COP24 che si terranno in Polonia dal 3 al 14 Dicembre. L'8 Dicembre è una giornata globale di mobilitazione per dire che siamo ancora in tempo a cambiare rotta e facciamo nostra l'indizione declinandola rispetto le contraddizioni del nostro territorio.

Il Veneto è la nuova terra dei fuochi: avvelenamento delle acque da Pfas; devastazione e sventramento dei nostri territori con la costruzione di nuove autostrade e super strade, come Valdastico e Pedemontana; il passaggio delle Grandi Navi a Venezia e nella laguna, un’offesa all’ambiente, al paesaggio, al delicatissimo ecosistema lagunare; una terra colpita da fenomeni meteorologici estremi che interrogano la tenuta di un territorio martoriato da un modello di sviluppo dissennato e piegato al profitto; valore di pm10 ed altre polveri sottili nell’aria nella nostra pianura tra i più alti in Europa e nel mondo.

Dalle montagne, alle colline, al mare della nostra regione non c’è angolo che non sia devastato dalla logica del guadagno per pochi, del denaro, della merce!

Abbiamo di fronte vecchi e nuovi predatori dei beni comuni, dell’acqua, dell’aria e della terra. Multinazionali senza scrupoli, come la Miteni di Trissino, principale responsabile dell’avvelenamento della seconda più grande falda acquifera in Europa e di un rischio per la salute presente e futura di circa 800 mila persone, oppure la famiglia Benetton, proprietaria al 90% delle concessioni autostradali (vedi Genova). Questi soggetti hanno mano libera da parte delle istituzioni politico-amministrative locali e regionali, sono parimenti responsabili, ma la politica ancor di più, poiché dovrebbe tutelare gli interessi e la qualità della vita dell’intera comunità e non quelli dei privati e delle lobby affaristiche.

Cos’è cambiato dall’ormai famigerato Giancarlo Galan, governatore del Veneto per molti anni, tristemente famoso per lo scandalo Mose, all’attuale amministrazione di Luca Zaia? Stessi attori, stessi metodi, stesso complice silenzio ed altrettanto complice assenso rispetto al criminale biocidio della nostra terra, devastazione ambientale e danni spesso irreversibili per la salute di migliaia di cittadini.

La logica delle grandi opere, appalti e concessioni dal “pubblico” al “privato”, è di per sé criminogena, produce corruzione e malaffare: un mostruoso intreccio politico-economico le cui conseguenze ricadono sulla vita e riproduzione dell’intera comunità.

Fermiamo la colossale macchina che produce distruzione e morte.

In Veneto esistono molte realtà, comitati, associazioni, movimenti, cittadini consapevoli che si auto-organizzano al di fuori di partiti ed istituzioni per difendere i beni comuni: partono, come è naturale, da situazioni territoriali e problemi locali e specifici.

La scommessa deve essere quella di trovare elementi comuni pur nelle differenze, di riunire tutte queste espressioni conflittuali, grandi o piccole che siano, in un grande fronte di lotta condiviso e aumentare con l’unità la nostra forza e potenza di agire su chi comanda e governa i nostri territori.

Uniamo la pluralità delle voci in un unico grande coro che gridi con forza sotto il palazzo della regione Veneto: «Ora basta! Non c’è più tempo! Stop biocidio!»

Verso la costruzione di una mobilitazione regionale di tutti i comitati e movimenti per la difesa dell’ambiente, della salute, del territorio!

Giù le mani dai beni comuni!

Basta con i predatori delle nostre vite!

Siamo ancora in tempo!

Promosso da:
Comitato Zero Pfas Padova
Comitato NO Grandi Navi Venezia
Comitato No Dal Molin Vicenza
Comitato No Pedemontana Treviso
Comunità Salviamo la Val d'Astico

Per aderire manda un messaggio sulla pagina FB Siamo Ancora In Tempo - Veneto.


Riferimenti
Si moltiplicano e si estendendo i movimenti popolari per la difesa dell'ambiente ed è sempre più acuta la consapevolezza dell'assenza di una sintesi politica capace di coniugare il contrasto alla crisi con la proposta di un modello alternativo. Qui un articolo di Ilaria Boniburini e Edoardo Salzano con i link ai passati incontri e che illustra i prossimi appuntamenti

attuarelacostituzione.it, 30 ottobre 2018. Le ragioni per cui niente vieta al governo attuale di fermare la costruzione dell'oleodotto e dichiarare "nulli" i contratti per l'attuazione TAP. (i.b.)

In ordine alla cosiddetta questione TAP è da dire, innanzitutto, che il costo dei danni ambientali, alla salute, nonché alla sicurezza pubblica che produrrà l’attuazione di detto progetto superano di gran lunga l’eventuale somma di circa 35 miliardi prevista da una stima governativa sulle eventuali richieste di risarcimento.

Inoltre è da tener presente, come giustamente ha rilevato l’attuale governo, che la responsabilità della firma dell’accordo intergovernativo tra Grecia, Albania e Italia ricade tutta sul governo che all’epoca firmò l’accordo stesso e che, di conseguenza, la legge di ratifica che ha esposto l’Italia a subire i danni scaturenti da quell’accordo è sicuramente incostituzionale.

Ne consegue che l’attuale governo non può porsi nel solco della illegittimità costituzionale tracciata dai governi precedenti ed è quindi nell’impossibilità giuridica di adempiere alle obbligazioni da quei governi assunte, si tratta del classico caso della impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile all’attuale debitore (articolo 1218 del Codice Civile). Il Governo, dunque, ha un solo dovere da adempiere: vietare l’esecuzione di questo scellerato progetto.

D’altro canto si ricordi che esistono rimedi sul piano giurisdizionale. Infatti i Comitati legittimati ad agire in giudizio possono chiedere al Giudice ordinario di dichiarare “nulli”, ai sensi dell’articolo 1418 del codice civile, i contratti relativi all’attuazione del TAP, in quanto contrari alle norme imperative di cui all’art. 41 della Costituzione, secondo il quale “iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, e di cui all’art. 32 della Costituzione che, come è noto, tutela il diritto fondamentale alla salute e all’ambiente salubre.

I Comitati dovrebbero altresì chiedere al Giudice la rimessione della legge di ratifica alla Corte costituzionale per il suo annullamento, nonché un provvedimento urgente per la sospensione dei lavori.

Concludiamo chiedendo all’attuale governo di porsi dalla parte della Costituzione e non dei nostri governanti che hanno distrutto l’Italia uniformandosi al sistema economico predatorio del neoliberismo imperante. Se cinque stelle e lega hanno avuto uno strepitoso risultato elettorale è perché i cittadini vogliono un governo che faccia gli interessi del Popolo e non dei cosiddetti poteri forti.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

la Repubblica, 5 novembre 2018. Uno tsunami di case e altre cementificazioni è la catastrofe endemica che si abbatte sull'Italia. Il Bel Paese è un bel ricordo sempre più sfocato. (e.s.)


Case, case e ancora case. Tirate su con un cemento che quasi sempre è fuorilegge, costruite condono dopo condono, sui letti dei torrenti, davanti alle scogliere, sulla schiena delle colline. C’è tutto un Sud che sembra un’immensa, sterminata casba.
Abusivismo d’affari e quell’altro che con un vocabolario ipocrita qualcuno chiama "di indispensabilità", più si sana (da sanatoria, edilizia) e più spuntano pilastri di calcestruzzo, primo livello, secondo livello, terzo livello, un piano per ogni figlio che si sposa. Così nascono piccoli grattacieli di cartapesta nei paesi siciliani in riva al mare che guardano Ustica o le Eolie, nella Calabria marina devastata sul Tirreno e anche sullo Ionio, fra gli anfratti del Gargano (tanti anni fa abbiamo raccontato su questo giornale la mostruosità di San Nicandro, un paradiso sfregiato da un ammasso informe di malta), le abitazioni-stalla di Palma di Montechiaro, le ville ricche di quel villaggio di pescatori che era una volta San Leone che ieri aveva strade che sembravano i canali di Venezia.
È la storia che si ripete sempre - come a Casteldaccia e ad Altavilla Milicia, lì le ultime famiglie seppellite dalle inondazioni - in questo e nell’altro secolo nel nostro Meridione. Nulla è cambiato. Terre di tutti e di nessuno. Costruire senza licenza e senza paura.
Costruire sull’argilla, sullo spuntone che al primo temporale viene giù, costruire sulla sabbia. È un Sud che non ha mai imparato la lezione, che non ha fatto tesoro delle tragedie che ha subito, che immagina una mala sorte riservata sempre agli altri. E intanto case, case, sempre nuove case. Senza demolire mai. Quando accade è notizia sensazionale, grande evento, arrivano le troupe televisive, le "dirette" con l’eco-mostro di turno che si sfarina con la dinamite.
L’abusivismo nel Sud è piaga sociale. È fenomeno di massa protetto da interessi o anche solo da alibi, le battaglie legali sono destinate al macero, le inchieste giudiziarie si arenano fra prescrizioni e condoni parlamentari (ce ne sono sempre e sempre trasversali - destra, sinistra, centro, su, giù - e ispirati dalle più "nobili" intenzioni), i morti si dimenticano in fretta.
Quelli di Sarno del maggio 1998 (139 vittime, più altre 15 nel comune di Quindici, più altre 5 a Siano) e quelli dell’ottobre del 2009 a Giampilieri (37 vittime), quella del settembre del 2000 a Soverato (13 vittime) e quella di Capoterra in Sardegna (4 vittime) nell’ottobre del 2008. E ancora: Vibo Valentia, Ischia, San Marco in Lamis, Saponara, Ginosa, Atrani. Tutti luoghi in Sicilia, Sardegna, Puglia, Campania, Calabria. Sempre Sud. Sempre furbizie spacciate come "illegalità di necessità", un tetto per dormire, un riparo, la tana.
Per questo si fanno ufficialmente i condoni delle case abusive. Per "stare con la gente" e non "contro la gente". Dimenticando morti e sciagure. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, in Italia dal 1980 ci sono state oltre 20 mila vittime causate da situazioni climatiche estreme.
Ma i morti, di voti non ne possono portare più. Quelli li portano i vivi. La legge calpestata. Ecco perché le speculazioni edilizie sono tollerate, ecco perché ci sono decine di migliaia di pratiche di demolizione inevase. Una burocrazia al servizio del consenso elettorale. A noi, che siamo siciliani, ci piace ricordare a questo punto cosa diceva, 2500 anni fa, il filosofo Empedocle su alcuni italiani del sud del Sud, gli agrigentini: mangiano come se dovessero morire subito e costruiscono le loro case come se non dovessero morire mai.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

linkiesta.it. 2 Novembre 2018. Nella Legge di Bilancio non c'è nulla a sostegno della qualità dell'ambiente e cura dei territori, ancora una volta si trascura il pianeta su cui viviamo e in questi giorni abbiamo visto quanto questo sia importante.

Zero assoluto. Non c’è nulla nella Legge di Bilancio, che riguarda provvedimenti, investimenti, scelte di carattere ambientali, nemmeno il proverbiale contentino. Non un sostegno all’economia circolare, non un incentivo all’uso di energie rinnovabili, non un piano per la riqualificazione energetica degli edifici pubblici e privati che sprecano energia, non un cambio di fiscalità che premi, almeno un po’, chi inquina meno e punisca chi inquina di più (vedi il pacchetto di proposte di Legambiente) , non un investimento contro il dissesto idrogeologico e in favore dell’adeguamento di città e territori al cambiamento climatico, minaccia reale molto più del terrorismo islamico o degli eurocrati cattivi.

E possiamo fare pure finta che sia un caso il maltempo che ha fatto quattordici morti nel giro di poche settimane, devastando l’Italia dalla Sardegna alle Alpi, passando per Roma e Milano. Che non c’entri nulla con quelli che ormai i climatologi come il francese Wolfgang Cramer chiamano “eventi mediterranei”, dalle violentissime canicole estive che distruggono i raccolti e ammazzano le persone fisicamente più vulnerabili, alle tempeste di vento e pioggia che abbiamo imparato a conoscere. Possiamo fare pure finta di non sapere che il 2018 è stato il quarto anno più caldo mai misurato, che agosto è stato il mese più caldo mai registrato in Europa, e che i mesi seguenti, tempeste tropicali a parte, non hanno fatto eccezione. E già che ci siamo, facciamo finta non sia uscito il rapporto Ipcc - 91 autori, 6000 referenze scientifiche - che ci ha detto che abbiamo dodici anni al massimo per fare qualcosa. Facciamo finta finché vogliamo, fino a che non ci siamo noi sui ponti che crollano, sulle montagne che smottano, sotto gli alberi che cadono, costretti a bollire l’acqua per berla, come sta accadendo sulle Alpi tra Trento e Belluno, nel 2018.

Possiamo far finta pure che non ci fossero aspettative diverse, già che ci siamo. Che Luigi Di Maio, ad esempio, non avesse parlato in campagna elettorale di investimenti ambientali ad alto moltiplicatore per far ripartire l’economia. Che lo stesso Movimento Cinque Stelle non fosse porta bandiera, giuste o sbagliate che fossero, di tutta una serie di istanze ambientaliste NoTav, NoTap, NoIlva puntualmente sconfitte - o in procinto di esserlo: vediamo che succederà con la Tav - una volta al governo. Che lo stesso governo non abbia sanato trent’anni di abusi edilizi a Ischia, nel decreto relativo al crollo del ponte Morandi, a Genova, su proposta del Movimento stesso.

E dire che la domanda c’è, eccome. Che come racconta il rapporto Green Italy curato ogni anno da fondazione Symbola e della quale è stata recentemente presentata l’edizione 2018, in Italia ci sono 345mila imprese italiane che negli ultimi cinque anni hanno investo in prodotti e tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale, risparmiare energia e contenere le emissioni. In pratica un’azienda italiana su quattro, il 24,9% dell’intera imprenditoria extra-agricola. Forse esagera, Ermete Realacci, quando dice che siamo «una superpotenza dell’economia circolare», ma forse ci farebbe anche comodo che qualcuno tra quelli che ci governano cominciasse, almeno in potenza, a considerarci davvero come tali.

Male non gli farebbe, peraltro, visto il boom che stanno avendo i partiti ambientalisti in Europa, coi verdi tedeschi ormai stabilmente seconda forza della politica tedesca, tanto quanto quelli olandesi, coi verdi austriaci che hanno eletto il presidente della repubblica, coi verdi francesi anch’essi in crescita, sopra il 10% secondo alcuni tra gli ultimi sondaggi.

E magari farebbe bene pure a un’opposizione in cerca di identità, che ben si è guardata dal porre qualsivoglia tematica ambientale nelle proprie critiche alla manovra. E che magari, in una piattaforma politica prossima ventura, potrebbe fare dell’ambiente, della lotta al cambiamento climatico, degli investimenti per l’efficienza energetica e della promozione di un’economia davvero circolare le proprie bandiere per il prossimo futuro. Del resto, tasse, immigrati e sussidi se li sono già presi gli altri, no?

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dinamopress.it, 18 ottobre 2018. Storie di ordinaria 'valorizzazione': sradicamento di alberi, rimozione del mercato popolare e delle attività sociali di quartiere. Uno spazio pubblico ceduto agli interessi del Mercato. Ma gli abitanti non ci stanno e resistono. (i.b.)


Sta succedendo qualcosa di importante in questi giorni nel centro di Marsiglia. Giovedì 11 ottobre alcune centinaia di persone hanno difeso per ore la centralissima piazza della Plaine, un posto pieno di vita, alberi e spazio: una rarità nelle città iper-regolamentate degli anni ’10. A chi tiene “le mani sulla città”, a quelli che impongono piani di rinnovazione urbana che altro non sono che appropriazione di spazi comuni o pubblici, la vita – le vite – della Plaine danno fastidio. Nei loro piani il mercato, frequentatissimo, popolare e a buon prezzo, deve diventare un “marché provençal”, come se per la spesa di tutti i giorni ci fosse bisogno di lavanda in sacchettini e saponi…; lo spazio aperto deve ridursi in favore dei de-hors dei bar e ad ogni metro quadro deve essere imposta una funzione pensata da qualcuno che mai metterà piede in quella piazza. Da anni, ormai, un’assemblea di quartiere, assieme agli ambulanti del mercato, studia i piani degli aménageurs, autocostruisce arredo urbano, organizza festival… da qualche mese, ciclicamente i camion degli ambulanti bloccano i punti nevralgici della città. In risposta: la distruzione delle costruzioni in legno, l’abbandono della piazza, che da qualche mese è letteralmente al buio, senza alcun lampione in funzione, qualche incontro stringato e infine l’escalation dell’ultima settimana.

Foto di Patxi Beltzaiz – contre-faits
«Che ci possiamo fare noi, se oggi tutti gli avvenimenti della vita pubblica si discutono nei giornali, mentre un tempo, nella Roma antica o in Grecia, si potevano apprendere direttamente dalla bocca dei banditori, alle terme, sotto i portici o sulle piazze? Che possiamo farci se i mercanti abbandonano sempre più le piazze per rinchiudersi in costruzioni utilitarie, ma inestetiche, o se spariscono per essere sostituiti dalla vendita a domicilio? Le feste popolari, i cortei di carnevale, le processioni religiose e le rappresentazioni teatrali all’aperto non saranno presto niente più che un ricordo. Con il passare dei secoli la vita popolare si è ritirata lentamente dalle piazze pubbliche, che hanno così perduto una grande parte della loro importanza. È per questo motivo che la maggior parte delle persone ignora completamente come dovrebbe essere fatta una bella piazza».
Camillo Sitte
Foto di Patxi Beltzaiz – contre-faits
MARSIGLIA: IL VOLO NERO DEI CORVI SU LA PLAINE
di Alèssi Dell'Umbria
traduzione di Giacomo Maria Salerno per DINAMOpress

Ci siamo… giovedì 11 ottobre, appena finito il mercato de La Plaine, la sbirraglia è arrivata, assieme ai camion caricati di tubi in calcestruzzo. Obiettivo, impedire l’accesso alla piazza in vista dei lavori. Mobilitati dall’appello di un’assemblea, una cinquantina di coraggiosi e coraggiose hanno bloccato il primo camion… i CRS e la BAC gasano e manganellano, la gente tiene botta, da tutto attorno arrivano i rinforzi e alla fine saranno diverse centinaia di persone che sfideranno la mafia municipale e le sue truppe. Quel giorno i blocchi di cemento vengono rimossi al suono dei tamburelli…

La Plaine, come indica il suo nome, è una spianata: un plan, in occitano… Lo Plan de San Miquèu, diventato la Plaine Saint-Michel… poi, negli anni ’20, piazza Jean Jaurés, ma i marsigliesi continuano a chiamarla la Plaine. Il termine designa, aldilà del piazzale vero e proprio, tutto il quartiere circostante. Per lungo tempo quella piazza è stata la sede del mercato all’ingrosso, da mezzanotte all’alba…il mercato al dettaglio, che proseguiva fino al pomeriggio, è sopravvissuto allo spostamento dell’ingrosso del 1972, ma rischia di non sopravvivere a Jean-Claude Gaudin (l’attuale sindaco di Marsiglia, ndr) e alla sua cricca di faccendieri.

Non torneremo indietro fino alla bella primavera del 1871, quando i Comunardi marsigliesi accampati alla Pleine la difesero strenuamente dall’attacco delle truppe di Versailles, ma giusto di una trentina d’anni…

Nel 1986 muore Gaston Defferre (già sindaco di Marsiglia nel 1944, e poi dal 1953 fino alla sua morte ndr). Fu una delle cose migliori che potessero succedere alla nostra città. Il suo successore, Robert Vigouroux, non brillava di certo, ma aveva almeno il vantaggio di essere un po’ fraca, come si dice qui… scriveva poesie nel tempo libero, e qualche volta l’avevamo visto in giro ubriaco, il che era già un bel cambiamento rispetto a quel calvinista col culo stretto che mandava Marsiglia a letto sul finire del giorno. Ci diede un poco di tregua. Dal trasferimento del mercato all’ingrosso la Plaine si era assopita, tenevano banco solo gli spacciatori di polvere – il grande affare degli anni ’80… i bar vivacchiavano dal ’72, la Plaine era piena di magazzini vuoti, in breve la piazza non domandava che di essere occupata: per quattro soldi si poteva aprire un café-concert… così i colleghi hanno investito i luoghi… bisognava saperci fare per gestire un locale frequentato dalla gioventù marsigliese più irrequieta. Tifosi dell’Olympique Marseille, redskins, bande dei Quartieri Nord, piccoli teppisti locali, writers e motociclisti… fu l’epoca in cui si strinse una bella complicità tra la generazione del rock’n roll e quella del raggamuffin e dell’hip hop…una collaborazione ed emulazione reciproca, giocata dentro un sentimento di appartenenza condivisa, che ci riconciliava finalmente con la nostra città. I sopravvissuti degli anni ’80 e la nuova generazione si ritrovavano quindi alla Plaine, vibrando assieme sugli stessi ritmi. Nel frattempo gli spacciatori di eroina se n’erano andati, troppa gente in piazza…

La Maison hantée, il Degust’, il bar de la Plaine, il Balthazar, il May-Be Blues, l’Intermédiaire e tanti altri… in seguito, aprirono diversi spazi di associazioni, Marseille Trop Puissant, club di tifosi antirazzisti, il Tipi, che si occupava dei malati di Aids di cui non si curava nessuno in città, l’ostai dau Paìs Marselhés, che difendeva e promuoveva la bella lingua occitana, e altri ancora… e tra tutte queste tribù nacquero dei legami di mutuo aiuto e di amicizia che non si sono mai rotti.

Non è che ci abbiano davvero mai lasciati in pace in quegli anni, le guardie e i CIQ [1] non ci hanno mai davvero mollati, ma almeno l’amministrazione non veniva a romperci le palle con dei progetti di lifting. Poi nel 1995 la cricca di Jean-Claude Gaudin prende in mano la città, fine di un intermezzo assai relativo. Destra cattolica con una mentalità da bottegai inaciditi… rientrava di sicuro nei loro piani tutta questa vita. Questo ci venne spiegato attraverso delle campagne stampa a ripetizione su “l’insicurezza alla Plaine”: il quartiere era ben lontano dall’essere quel covo di assassini che veniva descritto in quegli articoli. Di tanto in tanto un tizio si faceva ammazzare, come succedeva in qualsiasi altro quartiere, ma questi erano problemi che non ci riguardavano e che interessavano giusto i giornalisti. Per il resto, il CIQ passava il suo tempo a lamentarsi dei rumori notturni, della sporcizia prodotta dal mercato, dei ragazzini che giocavano a pallone in piazza, insomma, di tutto ciò che viveva. Per questo piccolo comitato il quartiere doveva essere residenziale e la piazza si riduceva a una semplice appendice funzionale; per noi era esattamente il contrario, la piazza non era semplicemente uno spazio in mezzo agli edifici, viveva anzi di una vita propria, che eccedeva i limiti geografici del quartiere.

La Plaine è un quartiere un po’ complicato. Sulla piazza stessa e lungo l’adiacente boulevard Chave ci sono degli edifici borghesi, un tempo occupati dai commercianti del mercato all’ingrosso, mentre degli edifici molto più modesti occupano le stradine adiacenti, un tempo occupati dai facchini e dagli altri ambulanti del mercato in questione. La maggior parte della gente che abita nel quartiere ha casa in quelle stradine; quelli che ce l’hanno sulla piazza tendenzialmente non abitano affatto il quartiere. Ci risiedono, ma non lo abitano. Al contrario, molti di quelli che lo abitano risiedono altrove, nei quartieri vicini o anche più lontano. Molti di questi residenti della piazza o del boulevard vorrebbero farci sloggiare e, visto che hanno la tendenza a votare per la cricca di Gaudin, sono loro a essere ascoltati dalle parti del comune (al giorno d’oggi, la gente non vota dove vive, vota dove dorme…).

Tutto questo per dire che il problema lo vedevamo arrivare da lontano.

In maggio, otto telecamere appena installate furono distrutte, in pieno giorno e senza che la polizia potesse prendere nessuno dei vandali… La punizione: nel 2013, ci dispiegano un cordone di polizia impressionante attorno al nostro Carnevale, ma ci vuole di più per impressionarci. Così l’anno seguente ci attaccano al calare della sera, e la danza attorno al falò si trasforma in una sommossa. L’assemblea si mobilita, e alla Plaine vengono organizzate diverse iniziative di solidarietà con gli imputati per i fatti di quella notte e per affermare che non ci faremo cacciare. Risultato: nel marzo del 2015 il Carnevale del quartiere attira il quadruplo della gente! È allora che iniziano a circolare queste voci su un “progetto di riqualificazione” della Plaine elaborato dalla Soleam (Société Locale d’Aménagement de l’Aire Métropolitaine– Società Locale di pianificazione dell’area metropolitana), nel quadro dell’operazione Grand centre ville.

Durante l’estate, una fuga di notizie ci permette di avere i quattro progetti in lizza, che ancora non sono stati resi pubblici. Allora capiamo che questa volta si tratta di un’operazione globale, destinata a risanare tutto il quartiere. Il mercato sarà rimpiazzato da qualche stand “di alta gamma” che occuperebbe una superficie molto ridotta, e le vie di circolazione sui lati saranno rimpiazzate da un’unica strada proprio in mezzo alla piazza. Questa configurazione permetterebbe l’installazione dei grandi plateatici sul modello di quanto già messo alla prova al Vecchio Porto: questo renderebbe allo stesso tempo impossibili tutte le varie attività alle quali si dedica la gente in totale spontaneità e gratuità. Cosa che è tra l’altro rivendicata da un consigliere comunale, l’avvocato d’affari Yves Moraine, che dichiara a proposito del progetto: “Niente di meglio che il privato per occuparsi dello spazio pubblico”.

A questo punto ce la giocano sulla “partecipazione pubblica” ed assoldano allo scopo un gruppo di consulenti parigini, Respublica (!), cominciamo bene… Vengono organizzate due riunioni, nell’autunno 2015, nel palazzo delle Belle Arti, poco più giù della Plaine, capacità massima della sala duecento persone – per una concertazione su un progetto che riguarda non solo migliaia di abitanti e centinaia di lavoratori ambulanti, ma anche altre migliaia di persone che, venendo da altri settori di Marsiglia e della periferia, convergono sulla piazza nei fine settimana. Una concertazione in bianco in cui non apprezziamo troppo di farci prendere in giro, così la buttiamo in caciara e piantiamo un casino. I consulenti parigini vengono presi alla sprovvista e sono pure un po’ in preda al panico…tra urla e invettive varie la gente dalla provenienza più disparata viene a difendere il quartiere contro questo progetto pretenzioso, i materiali stampati vengono rispediti indietro sotto forma di aerei di carta…Gérard Chenoz, il presidente di Soleam, dirà che se avesse saputo che sarebbe andata a finire così avrebbe saltato direttamente la “partecipazione”…nel rispondere alle critiche, finirà per dire semplicemente: “Siamo stati eletti, facciamo quello che vogliamo”.

Tra gli eletti marsigliesi l’arroganza sopra le righe da piccolo mafioso se la batte sempre con l’ignoranza beata del notabile di provincia. E come in ogni racket, arrivano all’intimidazione. Aggressivi non appena si osa opporgli qualche argomento, sempre pronti all’invettiva in pubblico [2]. E dovremo ancora sentire il presidente dichiarare, al consiglio municipale dell’8 ottobre dove il destino della Plaine è stato liquidato in esattamente due minuti: “Se mi si vogliono fare delle osservazioni ne terrò conto, ve l’ho detto, ma da quelli che sono stati eletti… ma le lezioni da chi non è stato eletto…che si facciano prima eleggere al suffragio universale e dopo ne riparliamo” [3].

Durante l’anno 2016, i quattro uffici di urbanisti e architetti continuano a lavorare ai rispettivi progetti. Le indicazioni che Soleam ha fornito loro precisano bene che ci sono delle “invarianti”. Questi elementi che non sarà possibile rimettere in discussione sono da un lato la diminuzione drastica dello spazio riservato agli ambulanti del mercato dopo il cantiere, nell’ottica di un «aumento del livello e della qualità del mercato», e dall’altro il fatto che “gli arredi urbani dovranno essere pensati in maniera da impedire ogni uso deviante dello spazio”. A partire da qui, non c’è effettivamente nulla di cui discutere… Gli “usi devianti”: l’espressione non è priva di un certo fascino per qualificare le partite di calcio tra ragazzini, le grigliate di sardine dei fannulloni il primo maggio, il nostro carnevale selvaggio, i banchetti di quartiere, i pomeriggi passati a prendere il sole e le serate a bere birre sulle panchine assaporando il passare del tempo… tutte cose che si fanno da sempre e senza che fosse mai necessario chiedere un’autorizzazione. Questa espressione caratterizza precisamente uno spazio pubblico che si trasforma in uno spazio comune.

Il modello del progetto, infine, ha confermato i nostri presentimenti. Compreso lo sradicamento di un centinaio di alberi, che verrebbero rimpiazzati da piccoli arbusti in vaso – e dire che un architetto paesaggista è stato pagato per questo! I tigli della Plaine, che erano sopravvissuti all’incompetenza del servizio stradale, non sopravviveranno alla Soleam. In futuro, chi vorrà proteggersi dai raggi del sole non troverà ombra che sotto gli ombrelloni dei plateatici dei bar, di cui gli eletti locali auspicano tanto l’installazione… bisognerà pagare, insomma, per perdere un po’ il fresco. Irresistibilmente ci ritornano in mente i versi di Victor Gelu…nel 1839, il grande poeta della plebe marsigliese scrisse una canzone diventata famosa, “Leis aubres dau cors”. Il Corso, che non si chiamava ancora Belsunce, era a quei tempi il luogo di ritrovo dei lavoratori a giornata, e quelli che restavano senza impiego passavano il giorno là, all’ombra degli olmi. Il comune decise così, con un pretesto ridicolo, di far tagliare tutti gli alberi, e Gelu si fece interprete del popolo minuto del Corso in quella sua canzone virulenta, dove l’abbattimento degli alberi è denunciato come una vera e propria misura di polizia contro questa plebe dalla forte inclinazione alle barricate [4].

Nel 2015, il progetto Euroméditerranée era già bello che avanzato, nelle banlieues Nord. Molti quartieri sono oggi scomparsi sotto le colate di cemento. Si è quindi deciso che i tempi fossero maturi per tornare verso il centro e portare a termine la grande pulizia. Il progetto della Soleam segue chiaramente la strategia dello shock, con l’annuncio di un cantiere della durata di due anni e mezzo (considerato come vanno le cose a Marsiglia, possiamo facilmente prevedere almeno un anno di più…). Due anni e mezzo durante i quali la maggior parte dei bar e dei negozi di prossimità della Plaine saranno falliti, dato che sarà impossibile andarci… Il Comune ha del resto già annunciato che metterà un’opzione di acquisto in modo sistematico su tutti i locali resi vacanti del quartiere, al fine di installarvi delle attività di suo piacimento, come i concept stores che sono sorti in rue d’Aubagne negli ultimi tempi… Il costo globale di 11 milioni annunciato all’inizio nel frattempo è già salito a 20 milioni – mentre Gaudin annunciava con piglio regale 5 milioni per sistemare le scuole, che in tutti i quartieri poveri cadono letteralmente a pezzi…

Nel frattempo, il consigliere locale con responsabilità sul mercato, Marie-Louise Lota, non cessa di moltiplicare le provocazioni nei confronti degli ambulanti del mercato, e di riversare tutto il suo odio borghese per la vile moltitudine. «Sono alla fine della mia vita politica, ma prima di lasciare ripulirò la Plaine» – fu la sua prima dichiarazione sull’argomento nel 2015. «Si vende soprattutto della merda qui», è stato il leitmotiv degli ultimi tre anni, puntellato da un «voi fate venire qui una popolazione indesiderabile» e con la conclusione dell’ottobre 2018: «il mercato della Plaine è finito». Si sussurra che lei stessa sarebbe proprietaria di uno stabile nei pressi immediati della Plaine, in quel V° municipio dove i prezzi della proprietà immobiliare stanno schizzando subito dopo l’annuncio dei lavori…. Tra gli interessi privati appena dissimulati e il disprezzo di classe apertamente esibito, gli ambulanti vengono condannati senza appello.

Da centocinquant’anni questa città è governata contro la gente che la abita. Ne porta i segni nelle distruzioni che ha subito, come altrettante cicatrici di questa violenza sociale. Ma fino agli anni ’60 e ’70 il Porto e le fabbriche erano a pieno regime, e volente o nolente la borghesia doveva adattarsi a questa plebe rumorosa. È a partire dagli anni ’80 che questa diventa semplicemente ingombrante. È l’epoca in cui il comune e la camera di commercio alzano la voce contro il contrabbando… e così l’angolo di tiro si precisa: il commercio dei prodotti d’oltremare è colato a picco, si dovrà quindi fare commercio della città stessa! La conversione prende un po’ di tempo, ma al volgere del millennio era già bella che partita: progetto Euroméditerranée, incremento inaudito dei valori fondiari (un semplice “recupero”, dicono al Comune…), arrivo del TGV e, per coronare l’operazione, MP2013 Capitale Europea della Cultura. E così bisogna un po’ smussare e allisciare tutta questa vita, non lasciar sussistere della città reale che quella giusta dose di esotismo sufficiente a far vendere il prodotto.

La valorizzazione opera allo stesso modo in cui mantiene l’ordine – come uno shopping mall in cui tutto lo spazio è pensato di modo che nessuna attività che non sia l’acquisto di merci sia possibile. Si prende in carico di disciplinare un corpo vivo e sempre sfuggente, refrattario alla nozione stessa di “popolazione”. Per fare di questa città una merce globale da vendere al dettaglio pezzo dopo pezzo, una messa a norma s’impone. E la Plaine è un pezzo bello grosso, e fintanto che esisterà quel suo mercato così popolare, con i suoi rumori e i suoi odori, fintanto che esisteranno quegli “usi devianti” della piazza, sarà difficile valorizzare il quartiere. A questo stadio, poco importa che il mercato generi esso stesso del valore se allo stesso tempo abbassa il valore del settore immobiliare ed impedisce uno sfruttamento più vantaggioso del sito. La nozione di “valorizzazione”, di “messa in valore”, che ricorre così spesso nelle parole dei consiglieri comunali e dei pianificatori, va presa qui in senso pieno. Per una volta, parlano apertamente di cash [5].

Nel momento in cui ciò che costituiva l’essenziale di quello che è una città si ritrova frammentato e polverizzato nello spazio informe di una suburbia senza fine, il centro storico non ha che la funzione di rappresentare la città, di mettere in scena una certa immagine dell’urbanità, che genera essa stessa la valorizzazione mercantile. Di cosa è costruito oggigiorno il centro delle città europee? Di quartieri residenziali attraversati da arterie pedonali, con le loro boutiques in franchising e le loro piazze colonizzate dai plateatici dei bar e dei ristoranti, che devono rendere concreta «l’immagine dell’unificazione felice della società nel segno del consumo». E questo mentre il grosso della plebe si vede indirizzata per altri canali verso i centri commerciali e i multisala della periferia. Per la cricca di Gaudin, la Plaine aveva chiaramente il torto di non corrispondere a questo schema.

Al mercato della Plaine si vendeva letteralmente di tutto. Stoffe di ogni tipo, articoli di drogheria, frutta e verdura, camicie e scarpe, pentole e rasoi usa e getta, insomma tutto ciò che di solito i poveri comprano nei supermercati… solo che venduto all’aria aperta e da rivenditori indipendenti. Ci si possono anche trovare degli affari… quando ero ragazzino, mia madre comprava già vestiti dai gitani della Plaine, che proponevano bluse e giacconi a prezzi che schiacciavano ogni concorrenza. E poi interi carichi di camion (che ovviamente non si vedevano in pubblico), lo smaltimento di interi stock, le rimanenze di vecchi lotti, della roba sequestrata alla dogana… Da tempo i commerci alimentari di rue Longue des Capucines, giù a Noailles, hanno funzionato su questo modello. Insomma, il segmento finale dei cicli di produzione e circolazione delle merci…

Tutti questi ambulanti, lavoratori indipendenti e contenti di esserlo, compongono un bel campione della famosa “Marsiglia popolare”… tutte le origini si incrociano, gitani (siano essi catalani o andalusi), arabi e berberi, ebrei e armeni, italiani e persino dei contadini provenzali che vengono a smerciare le loro verdure qui, senza dimenticare quel nigeriano che ha scritto una lettera aperta al prefetto… non ci si arricchisce vendendo la propria roba al mercato, piuttosto ci si guadagna da vivere, niente più. Bisogna scaricare alle 6 del mattino, tenere botta tutta la mattina e ricaricare tutto all’una del pomeriggio. Uno dei rari mestieri che si esercitano ancora all’aria aperta. Alcuni tra gli ambulanti occupano uno spiazzo da quattro generazioni, altri sono giornalieri e vivono nella precarietà, ma tutti condividono la stessa volontà di restare là, su quel piazzale.

Per allisciarseli, la Soleam ha fatto di tutto. Inizialmente ha annunciato che i lavori si sarebbero svolti in tre tranches successive, cosa che avrebbe permesso di mantenere un certo numero di banchetti per gli ambulanti e lasciato un po’ di spazio alle altre attività. Due o tre hanno provato a fare i furbi, facendo scivolare delle buste nelle tasche giuste per essere certi di ritrovarsi tra i fortunati, ma si sono ritrovati davanti all’incazzatura degli altri, che gli hanno dato una bella lavata di capo. La Lota ne ha approfittato per decretare, in piena estate, che visto che c’erano state delle minacce i lavori si sarebbero svolti in un’unica tranche, e che quindi se ne sarebbero dovuti andare subito tutti quanti – cosa che era chiaramente la decisione iniziale. Qualche politico non ha nemmeno esitato a giocare la carta della divisione etnica. Un giovane ambulante gitano ha risposto: «Noi gitani rimaniamo con i neri e con gli arabi!».

La sera, Gaudin esige pubblicamente che il prefetto invii la polizia a sgomberare i due blocchi… l’indomani, davanti all’inazione del prefetto e alla continuazione dei blocchi del traffico, fa sapere che riceverà gli ambulanti il lunedì seguente. Ci andiamo in tanti per dare un po’ di sostegno, e ci dicono che il cantiere si svolgerà in tranches e che 40 ambulanti potranno quindi restare. Si tratta di meno della metà di quanto previsto inizialmente, e gli ambulanti protestano, minacciando di bloccare la piazza… alla fine, non oterranno che dieci giorni, spostando la data dell’ultimo mercato dal 29 settembre a giovedì 11 ottobre. E di nuovo, con una svolta che non meraviglia nessuno, scopriamo che alla fine non ci sarà che una sola ed unica tranche di lavori, che tutta la Plaine sarà occupata dal cantiere e tutti gli ambulanti se ne dovranno andare…

La loro richiesta, di fronte al rullo compressore della Soleam, era almeno di non essere separati e dispersi. Finiranno invece per essere ricompensati per il blocco stradale con la divisione in due gruppi, uno alla Joliette e l’altro al Prado, e dovranno aspettare il 26 ottobre per poter ricominciare a lavorare: nel frattempo disoccupazione senza indennizzo. Hanno deciso di farsi chiamare, in questi due nuovi posti, “Mercato della Plaine in esilio”. Potranno tornare alla Plaine dopo tre anni? Questo non dipende che da noi… la lotta sarà lunga e complicata, e sappiamo che dopo essere entrati in forza la Soleam e il comune punteranno allo stallo. Sta a noi dare prova d’intelligenza strategica; quando non siamo i più forti, bisogna essere i più svegli.

Il cantiere è dunque ufficialmente cominciato. Venerdì scorso, le guardie sono arrivate alle prime luci dell’alba, e si sono messe a circondare la piazza con dei jersey di cemento. Per il giorno dopo, l’assemblea della Plaine ha indetto una manifestazione con partenza da Cours Julien, non lontano da lì. Circa un migliaio di persone sono sfilate per le arterie del centro durante tutto il pomeriggio per esprimere la loro opposizione al cantiere della Soleam. Alla fine del pomeriggio, mentre il corteo risaliva verso la Plaine, la BAC e i CRS che lo tallonavano hanno caricato, soffocando la piazza con il gas (vendetta per la porta dell’ufficio della Soleam che è esplosa sulla Canebière?). A ogni modo, dai primi giorni all’appello ha risposto una grossa mobilitazione, e tanta gente del quartiere improvvisamente messa di fronte all’evidenza ci ha raggiunto. Malgrado la ventina di mezzi dei CRS che circondano costantemente la Plaine da venerdì, e che costituiranno il nostro ambiente quotidiano almeno per i prossimi tre anni.

E ci annunciano che degli operai verranno ad abbattere gli alberi martedì 16 ottobre…

FÒRA SOLEAM, GARDAREM LA PLANA !!!

AGGIORNAMENTI
a cura di Cecilia Paradiso

Dopo la giornata di giovedì scorso, in cui la polizia è venuta a posizionare dei blocchi di cemento per ostruire gli accessi alla piazza e in cui la gente è riuscita, dopo diverse ore e sotto una pioggia di lacrimogeni, a rimuoverli, le iniziative si sono susseguite: c’è stata una colazione in piazza venerdì, una manifestazione sabato, un’assemblea l’altro ieri ed infine, ieri, l’inizio dei lavori. Sabato, almeno 3-400 persone hanno percorso le strade del centro città, passando per quei quartieri popolari che, come la Plaine, sono sotto il tiro spietato della riqualificazione: Noailles, les Réformés. Si è arrivati fino a quelli investiti dal rullo compressore più o meno recentemente, testimoni diretti di quanto la pace possa essere terrificante: Belsunce, Rue de la République. Sabato, come ieri, gas lacrimogeni, cariche di dispersione e arresti. Sono stati emessi dei fogli di via dal quartiere e gli avvocati hanno riferito dell’intenzione manifestata dal giudice di infliggere pene esemplari. Ciò nonostante, le persone non lasciano la piazza e ricompaiono dalle vie laterali, quando l’assurdo dispiegamento di forze si ritira. Regolarmente, i blocchi di cemento vengono rimossi, le barriere abbattute, i materiali da cantiere prendono fuoco. Ieri, sotto la pioggia, al rumore delle motoseghe, l’amarezza e lo sdegno erano palpabili. Pare che siano stati tagliati anche alberi che non erano tra i condannati: senza danni colaterali, che guerra sarebbe! Una persona, un abitante del quartiere, ha centrato appieno la violenza di questa maniera di procedere, della volontà di concretizzare progetti a loro modo totalitari: «una volta finito con gli alberi, i prossimi da abbatere saremo noi!». Nel frattempo, gli operai continuavano nel lavoro, dietro un cordone di CRS bardati di tutto punto. Tra loro, più di uno mostrava un sorrisetto sadico: oggi, finalmente, vedevano degli occhi gonfi di lacrime. Il dispiegamento enorme di forze di polizia, in tutta questa faccenda, sta proprio lì, tra l’osceno e il ridicolo. Alcuni episodi sono stati particolarmente eloquenti, nella loro ironia. Come quando, sabato, all’annuncio di un possibile inizio delle cariche, è spuntato un pallone. Inevitabilmente, ad un certo punto il pallone è finito dietro il cordone di antisomossa e duecento persone hanno iniziato a gridare «rendez-nous le ballon, rendez-nous le ballon»: l’assurdità dell’impedire, manu militari, la “normale” vita di uno spazio storicamente fatto proprio da una molteplicità di persone era tale che ce l’hanno ripassata, la palla. Quando ci si ricorda che tutta questa assurdità costerà 20 milioni euro, in una città problematica come Marsiglia, gira la testa. Ieri una decina di persone sono salite sugli alberi, impedendone l’abbattimento. I pompieri le hanno fatte scendere, verbalizzando delle multe. L’intenzione è quella di tornare oggi, mentre per sabato è stata indetta una manifestazione più ampia, “pour des ville populaires”. Partirà dal Vieux Port ed è annunciata in stile carnevalesco, in riferimento dal carnevale indipendente attorno al quale si è organizzata una buona parte della resistenza della Plaine.

Note

[1] Comités d’Intérêt de Quartier , Comitati di interesse di quartiere, organo di collegamento tra la piccola borghesia e il comune, creati da Defferre. In centro città, molto schierati a destra.
[2] Nel 2000, quando contestavamo (di già!) una delle loro operazioni sulla piazza, il presidente del IV/V municipio, sotto la cui amministrazione dipendeva allora la Plaine, Bruno Gilles, dichiarerà in una riunione pubblica: “Mr. Dell’Umbria è un agente elettorale del PS”… LOL!
[3] Questa municipalità, sia detto en passant, è stata eletta nel 2014 da esattamente 96813 schede elettorali. Vale a dire il 10% della popolazione marsigliese).

[4] http://www.ostau.net/libraria/edicions/gelu/

[5] è in effetti l’unico elemento del loro linguaggio che sia davvero chiaro. Per il resto, bisogna leggere la presentazione del progetto di Soleam: «Con la sua risistemazione, piazza Jean Jaurès si trasforma in una grande piazza mediterranea, polivalente, pedonale e accessibile». Un simile aplomb nell’invertire il significato delle parole toglie il respiro – il che è d’altronde il loro scopo

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Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Qui il link alla nostra copertina dedicata al La Plaine.

Foto di Patxi Beltzaiz – contre-faits

Periodicamente le catastrofi del territorio ci ricordano che abbiamo abbandonato la cura della stessa sua struttura idro-geologica. Ecco i risultati dell'assenza di rispetto per l'ambiente in cui viviamo e dell'abbandono degli strumenti che erano stati inventati per controllarne e regolarne le trasformazioni: la pianificazione territoriale e urbanistica. Qui un elenco dei disastri di questi giorni (e.s.)

Sale a otto il bilancio delle vittime del maltempo che ha investito l'Italia. I soccorritori hanno recuperato il corpo di una donna morta a Dimaro, in Val di Sole, dove è esondato il torrente Meladrio. Nella notte un vigile del fuoco volontario è morto a San Martino in Badia, in provincia.

ll bilancio delle vittime è dunque a otto, anche se si cerca ancora un disperso, mentre decine sono stati i feriti tra i quali si contano anche diversi vigili del fuoco. Più di 5mila gli interventi compiuti dai pompieri chiamati da cittadini in difficoltà: per 3500 chiamate si è trattato di alberi caduti o pericolanti, la causa principale degli incidenti mortali. Vento record si è registrato in Liguria, con la punta massima a 180 chilometri orari rilevati dall'anemometro a Marina di Loano, nel savonese. Sempre sorvegliati speciali i fiumi, soprattutto in Veneto e Friuli, ma anche in Lombardia c'è allerta.

Ieri due persone in auto sono state schiacciate da un albero nel Frusinate, un altro a Terracina, un giovane di 21 anni morto nello stesso modo a Napoli, un'anziana di 88 anni colpita da parti del tetto di un condominio ad Albisola (Savona), e una persona morta travolta da un albero durante un temporale che si è abbattuto in serata a Feltre (Belluno).

A Terracina una fortissima tromba d'aria ha provocato diversi feriti.

Scuole chiuse e disagi da nord a sud
Molte le scuole sono rimaste chiuse, anche a Roma e in Toscana. Sono state riaperte questa mattina l'autostrada e la statale del Brennero.

Tragedia nel crotonese: 4 morti
Domenica 28 ottobre a Isola Capo Rizzuto, nel Crotonese, tre operai e un noto imprenditore della zona, sono morti inghiottiti dal terreno che è franato sotto i loro piedi mentre riparavano una fogna. Oggi i funerali.

Cade albero nel Frusinate: due morti
Due persone sono morte a Castrocielo, in provincia di Frosinone a causa della caduta di un albero su una Smart. Il tratto di strada tra il bivio per il casello autostradale di Castrocielo e Roccasecca è stato interdetto alla circolazione. Sul posto Vigili del Fuoco ed i Carabinieri della Compagnia di Pontecorvo

Veneto
L'alta marea sale velocissima a Venezia, e nel pomeriggio ha raggiunto i 160 centimetri sopra il medio mare. Il centro storico è allagato per il 70%. Intanto il premier Conte ha firmato la dichiarazione dello stato di mobilitazione del Servizio nazionale della protezione civile, accogliendo la richiesta arrivata nella serata di ieri dal presidente della regione Veneto Luca Zaia. "Siamo preoccupati per l'indicazione del pomeriggio e della sera, con 400 mm per metro quadro di pioggia", ha detto il governatore.

Sardegna
Ha raggiunto già i 160 chilometri orari il vento di libeccio che da ieri notte sta soffiando sulla Sardegna accompagnato da piogge e temporali. Il picco è stato registrato questa mattina a Capo Carbonara. Una tromba d'aria si è registrata tra Narcao e Villaperuccio, dove sono stati strappati i tetti di alcune abitazioni. Discorso analogo a Nuoro nelle prime ore di di questa mattina.

Liguria
Prorogata l'allerta meteo rossa in gran parte della Liguria, dove Val di Vara, Cinque Terre e Spezzino sono state le zone al momento più colpite dalle forti piogge, con un picco a Monterosso di 140 millimetri da mezzanotte. Si temono mareggiate con onde di 6-7 metri. Esondato, intanto, il torrente Gravegnola nei pressi di Rocchetta Vara nello Spezzino e sono state chiuse le strade provinciali, fuori dall'abitato, dove si sono verificati allagamenti ed erosioni delle sponde. Un pezzo della diga del porto turistico Carlo Riva di Rapallo è crollato.

Trentino Alto Adige
Domani chiuse tutte le scuole del Trentino, mentre saranno regolari le lezioni all'università. La Protezione civile ha invitato i cittadini a muoversi con i propri mezzi solo se strettamente necessario, dal pomeriggio di oggi a tutta la giornata di domani, "vista la possibilità che sulle strade si verifichino smottamenti che costringano ad interrompere la viabilità".

Calabria
Ha un nome e una nazionalità l'uomo, che risulta disperso, proprietario della barca a vela finita ieri contro uno dei moli del porto del quartiere Lido di Catanzaro. Si tratterebbe di un cittadino di nazionalità turca titolare anche di un sito web. Ancora senza esito le ricerche degli eventuali dispersi a bordo del natante che batteva bandiera canadese.

Toscana
A causa del forte vento e delle mareggiate sono fermi i traghetti per l'Isola del Giglio, per quella di Giannutri e da Piombino e Livorno verso l'Isola dell'Elba. Problemi sul lungomare di Porto Ercole all'Argentario dove la polizia municipale è stata costretta a chiudere la viabilità per una forte mareggiata. Il Comune di Castiglione della Pescaia ha diramato un avviso alla popolazione invitando a non uscire di casa per il forte vento. Due persone disabili sono state evacuate in maniera precauzionale nel Livornese.

Lazio
Un albero si è schiantato su un'auto a Terracina, morta la persona al suo interno. Oggi a Roma le scuole sono chiuse. Nella Capitale si registrano disagi a causa del maltempo e del vento forte. Problemi alla circolazione per i numerosi rami caduti a terra in quasi tutti i quartieri. La ferrovia locale Roma-Lido, che collega il centro con il litorale, è rimasta chiusa per 15 minuti per la presenza di un ramo sui binari a Tor di Valle. Chiusa la tratta della metro B tra Piramide e Laurentina. Predisposta la chiusura anche di cimiteri e ville. Problemi anche ai Castelli e a Ciampino. Chiuso il tratto dell'A24 Tivoli-Castelmadama per telonati a caravan.

Lombardia
Quattrocento persone, tra bambini e personale, sono state fatte evacuare da un asilo di Romano di Lombardia, in provincia di Bergamo, per infiltrazioni d'acqua dal tetto.

Campania
Il forte vento di scirocco che sta soffiando su Napoli e su buona parte della sua provincia hanno provocato, in diversi punti della città, la caduta di rami dagli alberi. I vigili sono impegnati in numerosi interventi sia in città che in Comuni dell'area metropolitana. Ancora interrotti i collegamenti con le isole. Un ragazzo di 21 anni della provincia di Caserta è morto schiacciato da un albero che gli è crollato addosso mentre camminava in via Claudio, nel quartiere Fuorigrotta di Napoli.

Abruzzo
Chiuse le scuole in numerosi comuni della Marsica e dell'Alto Sangro a causa dell'allerta rossa. A Villetta Barrea la situazione è tornata sotto controllo dopo che ieri il fiume Sangro era esondato in alcuni punti.

Friuli Venezia Giulia
Le scuole di ogni ordine e grado della provincia di Pordenone resteranno chiuse anche domani. Dalle autorità anche un appello alla prudenza e ad evitare gli spostamenti, se non strettamente necessari.

Valle D'Aosta
Il Centro funzionale regionale ha prorogato almeno sino alla mattinata di domani su tutto il territorio della Valle d'Aosta l'allerta 'gialla' (livello 1 su 3) per criticità idrogeologica e l'avviso meteo per precipitazioni forti, scattati ieri. Per il pomeriggio i tecnici valuteranno, in base alle condizioni, se decretare la fine dell'allerta.

La presidente del Senato Casellati: commissione d'inchiesta
"Quante frane, quante alluvioni, quanti morti ci dovranno ancora essere prima di mettere seriamente mano al problema del dissesto idrogeologico, di un territorio reso ancora più fragile dai cambiamenti climatici? Se non fossi il Presidente del Senato, domani stesso presenterei un disegno di legge per la costituzione di una Commissione d'inchiesta su tale drammatico specifico problema.
È ora di dire basta". Così in una nota la presidente del Senato Elisabetta Casellati. "Che ciascuno si assuma fino in fondo le proprie responsabilità di fronte a tali tragedie che toccano la vita delle persone e la identità stessa dei territori, mi auguro che la mia idea venga raccolta dai senatori in carica senza alcuna distinzione di appartenenza politica", aggiunge la presidente del Senato Casellati.

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