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La Città invisibile", 3 marzo 2018. Qualcuno dei sindaci che governano le città mariterebbe d'essere cacciato a furor di popolo.Ma non si può fare, ed è giusto. Ma allora bisognerebbe lavorare meglio per educare il popolo

Tutelare o demolire? Conservare la scena urbana di Firenze, il brand che fa cassa, o favorire la speculazione immobiliare sull’edilizia storica? Un dubbio lacerante, ma la risposta è pronta: scavare case e palazzi, mantenerne le facciate e inserire al loro interno nuove strutture e nuove funzioni. È quanto prevede il documento di avvio di una Variante che introdurrà nel Regolamento Urbanistico fiorentino una pratica di intervento finora impedita dalla cultura del restauro e dal sistema di tutela nazionale.
Un po’ di storia. Nel 2017 i grandi cantieri nella città storica sono congelati in conseguenza di una sentenza della Corte di Cassazione (sez. Terza Penale, n. 6863) che censurava l’impiego della SCIA (segnalazione certificata di inizio attività) per interventi di frazionamento edilizio e cambio di destinazione d’uso.
Per risolvere la situazione di stallo, il sindaco chiede aiuto a Roma. Roma risponde con la modifica al Testo Unico dell’Edilizia (DPR 380/2001). La modifica all’art. 3, apportata con un emendamento entrato in extremis nella “mini manovra” finanziaria (L 96/2017), inserisce nella categoria del “restauro” il mutamento della destinazione d’uso, purché compatibile e conforme alle previsioni di piano.
Il Piano Strutturale di Firenze sarebbe sufficientemente lasco per favorire i cambiamenti auspicati, eppure il Comune non si accontenta e rivendica maggior libertà per gli “investitori”. Ricorre dunque alla succitata Variante all’art. 13 delle norme tecniche di attuazione del RU (dicembre 2017), che ha appena avviato il suo iter.
Tentiamo di illustrare la ratio che ispira la Variante. A causa delle modifiche al TUE, il restauro sarebbe divenuto una categoria d’intervento troppo ampia, persino pericolosa per gli edifici storici del «centro Unesco»: per la loro efficace protezione gli uffici devono perciò provvedere ad «aggiornare la definizione dell’intervento massimo ammissibile sul patrimonio» di valore storico. I tecnici zelanti individuano allora la «limitazione massima ammissibile» in una classe d’intervento ancor più “permissiva”: cioè nella ristrutturazione edilizia «“semplice” o “leggera”» prevista da un decreto legge, relativo peraltro esclusivamente a normare procedimenti amministrativi (DL 222/2016, all. A; dal quale allegato si coglie fior da fiore, omettendo tuttavia di assumere che nella ristrutturazione “leggera” possono rientrare i soli interventi che non «comporti[no] mutamento d’uso urbanisticamente rilevante nel centro storico», p. 84).
Insomma, è la tutela all’inverso. È l’abbassare gli argini, affermando di rafforzarli. Un’azione disorientante vòlta ad ampliare le manovre speculative.
Il trucco sta tutto nel porre «limitazioni» alla ristrutturazione edilizia, che, ricordiamo, consente un insieme di opere che «possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente» (lett. d), art. 3, TUE). A Firenze, le limitazioni si “limitano” alla salvaguardia integrale della sagoma e «sostanziale» della facciata. È tutto, o quasi. Si salvano solo «androni, corpi scale» e i solai qualora non siano «privi di interesse» [sic]. Da questo meccanismo sono esclusi gli edifici vincolati, naturalmente finché restano in vita le Soprintendenze.
È urgente dunque ostacolare l’iter della Variante, non ancora adottata. Chiamiamo perciò all’azione residenti e turisti, comitati e associazioni, università e istituzioni culturali, italiane ed estere, affinché questo pericoloso dispositivo possa essere bloccato, in nome della tutela del patrimonio urbano, unico e irripetibile. Patrimonio privato, pubblico, ma innanzitutto comune.​

Il turismo di massa è la peste che oggi minaccia di devastare Venezia. Ci sembra utile riproporre la proposta del "razionamento programmato dell'offerta turistica", che Luigi Scano avanzava molti anni fa, ripubblicando un suo scritto del 2006

Assai recentemente, Paolo Rumiz raccontava (“Egitto, le tombe proibite”, in la Repubblica, 3 dicembre 2006) di avere visitato alcune magnifiche tombe, precluse all’accesso da molti anni, o da molti decenni, nelle Valli dei Re, delle Regine e dei Nobili, nella zona di Luxor, in concomitanza con alcune operazioni attuative di un imponente progetto di riproduzione fotografica ad altissima definizione degli interni, e soprattutto delle pitture murali, della totalità delle tombe delle suddette necropoli. Tale progetto, riferiva il giornalista essergli stato spiegato da Zahi Hawass, segretario generale del Supreme Council of Antiquities del Cairo (una specie di soprintendente archeologico nazionale, a quel che è dato capire), è parte essenziale di un più complessivo programma di riproduzione, monitoraggio, messa in sicurezza (anche attraverso la sottrazione alla fruizione turistica, e comunque generalizzata), di tutte le tombe costituenti il patrimonio archeologico egiziano. Poiché la pura e semplice presenza fisica, nelle tombe, degli attuali flussi turistici di visitatori, provocherebbe, in tempi più o meno ravvicinati, la totale e ineluttabile distruzione quantomeno delle loro pitture murali, ci si accinge, infatti, proseguivano le spiegazioni fornite dall’illuminato (e potente) soprintendente egiziano, a interdire l’accesso dei fruitori turistici alla quasi totalità delle tombe, dirottandoli verso la visita di “repliche identiche”, e a limitare le visite alle (poche) altre tombe, anche alzando i relativi prezzi. Giacché, concludeva Zahi Hawass, “se devo scegliere tra il turismo e l’archeologia, non ho alcun dubbio. Scelgo l’archeologia”.

Ciò in un Paese, l’Egitto, che, a differenza di buona parte degli altri Paesi della stessa area geografica, non possiede rilevanti risorse naturali (quali innanzitutto il petrolio), e per il quale “il turismo” costituisce non soltanto la prima “industria”, ovvero la prima (con colossali distanze da tutte le altre) fonte di valore aggiunto, e di reddito, ma addirittura l’attività decisiva allo scopo di mantenere le grandi masse popolari ivi abitanti (appena) al di sopra della soglia della più nera povertà e della fame.

Evidentemente, Zahi Hawass, e i dirigenti politici e istituzionali egiziani che gli forniscono supporto, e autorità, hanno ben inteso la “radicalità” che sarebbe pretesa da una coerente interpretazione, e applicazione, di quel principio della “sostenibilità dello sviluppo” che, al contrario, fornisce mera occasione di vaniloqui retorici, e di gargarismi demagogici, a tanta parte dei dirigenti politici e istituzionali italiani (non mi pronuncio su quelli degli altri Paesi dell’opulento Occidente), vale a dire di uno degli otto Paesi maggiormente “industrializzati” (checché ciò voglia dire) del mondo.

Per fare un esempio (tutt’altro che casuale, ma intenzionalmente e faziosamente prescelto, epperaltro, ahimé, nient’affatto connotato da eccezionalità, o da semplice rarità, neppure rispetto all’universo dagli enti locali amministrati dal “centrosinistra”) a Venezia si discetta, oramai, da qualche mese, circa le migliori soluzioni tecniche idonee a porre a carico dei fruitori turistici della città storica lagunare (direttamente, o attraverso l’incremento di talune esazioni gravanti sugli operatori del settore) una quota, più o meno consistente, dell’aumento, addebitabile ai medesimi fruitori turistici, delle spese correnti che devono essere sostenute, dal Comune e dalle aziende strumentali che a esso fanno riferimento, per l’erogazione dei più diversi servizi, e per la manutenzione urbana (per non dire di quelle riconducibili alla cosiddetta “promozione”, nell’accezione più ampia, del turismo, e pertanto interamente finalizzate a vantaggio dei turisti, o, meglio, degli appartenenti alla cosiddetta “filiera turistica”, cioè di tutti coloro che dal fenomeno turistico ricavano profitto, e senza neppure prendere in considerazione il fatto che almeno una parte delle spese per investimenti è condizionata, nella qualità e nella quantità delle opere da realizzare e dei beni da acquistare, e quindi nei costi, dall’esistenza e dall’entità del fenomeno turistico).

Ma tutto il dibattito è stato rivolto all’individuazione delle soluzioni (ritenute) più efficaci, quanto a celerità e a certezza, allo scopo di “fare cassa”, assumendo il duplice vincolo da un lato di non fare gravare troppo gli extracosti generati dal fenomeno turistico sui redditi, non derivanti dallo stesso fenomeno, di quella che, comunque e per ora, resta la larga maggioranza dei residenti nell’intero Comune di Venezia, dall’altro lato di non ledere, se non marginalmente e inavvertibilmente, gli arroccatissimi e fortificatissimi interessi delle categorie, delle sotto-categorie, dei gruppi, dei soggetti, individuali e societari, che, per lucrare sulla fruzione turistica della città storica di Venezia e della sua laguna, da anni e da decenni stanno, come locuste predatorie e voraci, sfregiando, sconciando, divorando, consumando l’una e l’altra.

Mentre si è scartata a priori la scelta di riprendere, e di approfondire, le soluzioni funzionali piuttosto (pur se comportanti anche introiti alle esangui -??? - casse pubbliche locali) a costruire un complesso sistema di regolazione della fruizione turistica della città storica e della laguna (nel cui contesto un elemento irrinunciabile sia la regolazione programmata dell’entità dei flussi turistici, basata innanzitutto sulla possibilità/obbligo di prenotare la fruizione).

Eppure non soltanto gli ora richiamati obiettivi, ma anche le molteplici azioni, e i plurimi interventi, finalizzati al loro perseguimento, erano già, rispettivamente, proclamati e motivati (sotto il profilo dei principi universali, e sotto quello della lettura delle situazioni locali), ed esposti e specificati, nel progetto di “piano comprensoriale” della laguna e dell’entroterra di Venezia varato all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, e integrato dalle osservazioni del Comune di Venezia votate circa un biennio appresso, nonché, con ulteriori specificazioni, nel “piano programma 82/85” dello stesso Comune di Venezia, fortissimamente voluto, e capillarmente curato, dall’allora vice-sindaco Gianni Pellicani (che gli attuali amministratori comunali tantopiù trasformano in quel “santino” ch’egli assolutamente non era, quantopiù ne tradiscono gli ideali, i principi, le convinzioni).

Eppure, dopo di allora, l’entità e la tipologia della fruizione turistica della città storica e della laguna si sono, rispettivamente, ingigantite e pervertite oltre le più pessimistiche previsioni, sicché, tanto per dirne una, il numero medio giornaliero di presenze nella città storica è oramai poco meno che doppio rispetto a quello che era stato stimato rappresentare il limite di soglia della “sostenibilità socio-economica” negli studi commissionati dal Comune di Venezia all’Università di Ca’ Foscari, alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, per valutare gli impatti prevedibili dell’ipotesi di realizzare nell’area veneziana l’”Expò 2000”.

Eppure le opzioni da assumere, e le politiche (di lunga lena, certamente) da attuare, per preservare, nell’interesse dell’intera umanità, presente e futura, il patrimonio costituito dall’integrità fisica e dall’identità culturale della laguna veneziana e dei suoi insediamenti umani, urbani ed extraurbani, sarebbero (per ora) estremamente meno drastiche di quelle che si accingono a intraprendere i responsabili tenici e i decisori politici egiziani. A Venezia, infatti, nessun sito dovrebbe essere totalmente precluso, mentre di molti (e quindi della città nel suo complesso) si dovrebbe “prenotare” la fruizione: avendone, in contraccambio, la possibilità di fruire dei suoi autentici valori di “bene posizionale”, e non del loro squallido surrogato (con un potenziale slogan pubblicitario: la possibilità di fruire di Venezia e della sua laguna, se non proprio come Johann Wolfgang Goethe, almeno come il Gustav von Aschembach di Thomas Mann).

Ciononostante: nulla. Un intero gruppo dirigente comunale, appecoronato davanti agli interessi delle locuste, predica (e, quel che è peggio, pratica) la crescita illimitata della fruizione turistica. Cioè la distruzione, prima o poi anche materiale, del capitale fisso sociale su cui si basa una rilevantissima attività economica (la riduzione, e quindi l’annullamento, dei valori su cui si fonda la produttività del medesimo capitale interverrebbe assai prima). Si tratta del cieco inseguimento di un necessario suicidio di massa, come nel modello comportamentale dei lemming scandinavi? ma vogliamo scommettere che, alla fine, le locuste non si getteranno nel mare?

P.S. Poiché, parlando delle locuste, ho fatto d’ogni erba un fascio, mi sembra doveroso ricordare, con immenso rimpianto, l’albergatore, e per molti anni presidente degli albergatori veneziani, Ugo Samueli, che perorava le mie stesse finalità di razionamento programmato della fruizione turistica di Venezia, e che funere mersit. Per il vero, ricordo la condivisione delle medesime posizioni anche da parte di qualche altro soggetto, ma poiché si tratta di viventi, non vorrei esporli alle ritorsioni dei predetti appartenenti alla famiglia degli acrididi.


P.S. Poiché, parlando delle locuste, ho fatto d’ogni erba un fascio, mi sembra doveroso ricordare, con immenso rimpianto, l’albergatore, e per molti anni presidente degli albergatori veneziani, Ugo Samueli, che perorava le mie stesse finalità di razionamento programmato della fruizione turistica di Venezia, e che funere mersit. Per il vero, ricordo la condivisione delle medesime posizioni anche da parte di qualche altro soggetto, ma poiché si tratta di viventi, non vorrei esporli alle ritorsioni dei predetti appartenenti alla famiglia degli acrididi.

Abbiamo ripreso questo testo dall'archivio digitale di Luigi Scano, in possesso di eddyburg.

il manifesto, 1 marzo 2018. L'inchiesta di Fanpage.it evidenzia come "il sistema Veneto", incapace a contrastare la criminalità organizzata, sia stato accogliente e a porte aperte con le mafie «in alcuni ambiti dell’economia, della politica e delle pubbliche amministrazioni». (m.p.r.)

L’area “ex Abibes” a Fusina: sulla carta, aspetta fin dal 2002 di accogliere rifiuti. Sono 84 ettari giusto accanto agli impianti Vesta, la società dei servizi ambientali del Comune di Venezia. È il business che Maria Grazia Canuto (56 anni, moglie di un colonnello dell’esercito) propone in cambio di 2,8 milioni di euro con cui “ripulire” i profitti della camorra. Tutto documentato nel video della quarta puntata dell’inchiesta di Sacha Biazzo e Francesco Piccinini che Fanpage.it dedica a «Bloody Money».

Anche se alla fine nel trolley ci sono pacchi di paccheri al posto delle mazzette, l’ex boss Nunzio Perrella contribuisce a rivelare l’altra faccia del progetto insieme ai «legami diretti», più o meno millantati, con le istituzioni. In gioco, un mega-investimento nel settore dello smaltimento: si chiama Venice Europe Gate e riguarda il terreno di cui è proprietario Giuseppe Severin di Paese (Treviso), amministratore unico del Consorzio Tecnologico Veneziano. Insomma, criminalità organizzata fra laguna e Marghera.

Scandisce Giulio Marcon, deputato uscente e candidato di LeU: «La magistratura è chiamata a procedere per far piena luce su quanto emerge dalla video-inchiesta. Marghera, e non solo, è già stata al centro delle iniziative parlamentari che abbiamo messo in campo per denunciare il fenomeno delle ecomafie. Ma in questo caso deve dimostrarsi capace di assoluta chiarezza soprattutto il Comune, chiamato in causa dai protagonisti della “trattativa”. Tanto più che nell’intera area di Portomarghera si prevede una rigenerazione e occorre che la trasformazione sia indenne da qualsiasi rischio o pericolo di contaminazione con interessi criminali».

E Gianfranco Bettin, presidente della municipalità di Marghera, evidenzia con forza proprio la preoccupazione: «Sono due gli elementi più significativi e inquietanti. Il primo, è la conferma della sconcertante e allarmante dimestichezza che la presunta procacciatrice di fondi camorristi rivela, e anzi ostenta, con importanti ambienti istituzionali, burocratici e imprenditoriali, sulla quale bisogna sia fatta urgentemente la massima chiarezza, con piena trasparenza. Il secondo è invece forse più nuovo e preoccupante: sembra di essere di fronte all’ingresso di capitali sporchi di origine criminale (e apertamente dichiarata come tale, nel filmato, ai “mediatori” e “utilizzatori finali”) in un progetto di per sé, almeno all’apparenza regolare».

Così Venezia deve fare i conti, fino in fondo, con le mafie. C’è l’inquietante precedente del Tronchetto, il terminal del turismo e delle Grandi Navi, dove proprio grazie al riciclaggio un gruppo criminale si è incistato nell’economia della città da cartolina. Ma il “monitoraggio” - garantito dall’Osservatorio ecomafie, ambiente e legalità, nato dalla collaborazione fra Comune e Legambiente - è saltato, perché il sindaco Luigi Brugnaro appena insediato ha chiuso i rubinetti in modo da provocare la chiusura dell’esperienza.

D’altro canto, nelle 800 pagine dell’ultima relazione prodotta dalla Commissione Antimafia si legge un’implicita critica nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine: «Le organizzazioni criminali in Veneto hanno approfittato di un’insufficiente attività di prevenzione e contrasto per mimetizzarsi nel tessuto economico attraverso un rapporto di convergenza di interessi con il mondo delle professioni e dell’impresa».

Certifica Rocco Sciarrone, professore di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Torino: «Quando parliamo di mafie, anche a Nord Est, non siamo di fronte al contagio di un organismo sano né all’invasione di un esercito. Conta molto di più l’accoglienza: trovano territori ospitali e porte aperte. Utilizzano varchi in alcuni ambiti dell’economia, della politica e delle pubbliche amministrazioni. Le mafie trovano un tessuto già pronto. Se mai, lo amplificano e lo mettono a sistema».

E soprattutto nel Veneto sembra riprodursi lo stesso “contagio” già registrato in Emilia nell’edilizia, nel commercio e nella sanità. Con le nuove frontiere delle mafie che contano sulla “consulenza” di professionisti e amministratori locali: grande distribuzione, energie rinnovabili, servizi sociali e accoglienza dei migranti.

il manifesto, 28 febbraio 2018. Il disastro del sistema ferroviario dovrebbe ricordare il gigantesco errore dell'aver privatizzato i servizi pubblici essenziali. Ci vorrà molta pazienza e tempo per risalire la china; l'importante è cominciare, il 4 marzo

La qualità dei servizi pubblici locali racconta molto della civiltà di un Paese. Il benessere non si misura solo in termini di prodotto interno lordo o di ricchezza privata; e in Italia come altrove, dal sistema dei servizi pubblici locali – acqua, energia, rifiuti, trasporti… – dipende non meno che dal lavoro e dal reddito la qualità della vita quotidiana di 60 milioni di cittadini.

Per questo, il ruolo strategico del settore va sottolineato e rivendicato. E la politica, sembra paradossale ricordarlo in questi giorni di campagna elettorale così rissosi e poveri di contenuti sostanziali, dovrebbe riconoscere e indicare tra le sue priorità l’obiettivo di offrire ai cittadini, da nord a sud, servizi pubblici locali di qualità e accessibili a tutti.

Non è retorica. Perché sono i fatti a raccontarci che in Italia a una ragguardevole ricchezza privata, distribuita peraltro in modo sempre più disuguale, corrisponde troppo spesso “miseria pubblica” e sottovalutazione dell’importanza dei beni comuni. E a dirci, anche, che tra le diseguaglianze che minano alla radice l’idea stessa di cittadinanza vi sono profonde differenze di “standard” e di accessibilità dei servizi pubblici.

Allora un primo punto da affermare con forza – al centro del programma di Liberi e Uguali e assente dalle proposte degli altri schieramenti – è che i servizi locali devono essere e rimanere pubblici perché solo così possono essere davvero “universali”, e che per essere socialmente efficaci devono essere, anche, economicamente efficienti. Insomma, ciò che i referendum del 2011 hanno sancito per l’acqua “bene comune” deve valere a 360 gradi.

Le imprese che forniscono i servizi pubblici locali sono un elemento costitutivo e imprescindibile del nostro sistema di welfare e sono una parte rilevante dell’economia italiana: danno lavoro, generano innovazione e investimenti, condizionano l’efficienza di quasi tutti gli altri comparti produttivi. E’ necessario salvaguardare una forte e qualificata presenza pubblica nei loro assetti proprietari, contrastando approcci demagogici che continuamente ripropongono l’idea, del tutto infondata, che solo “privato è bello”.

Così, semplicemente, non è, basta vedere gli innumerevoli esempi anche italiani di servizi pubblici locali, dall’acqua ai rifiuti, privatizzati e malfunzionanti.

Questo non significa che la politica abbia sempre fatto bene ai servizi pubblici locali: al contrario, tante volte li ha usati e li usa in modo del tutto improprio, come strumenti di clientelismo e di raccolta di consenso. Invece all’Italia serve un’industria dei servizi pubblici forte, organizzata, ben regolata, orientata alla qualità ambientale, capace di produrre investimenti e innovazione e di affrontare le sfide della transizione energetica, dell’economia circolare, dei cambiamenti climatici, della rigenerazione urbana e delle smart city.

Insomma, i servizi pubblici devono essere tra i temi centrali di una credibile agenda di governo, a cominciare dalla necessità di un forte rilancio degli investimenti per la realizzazione di impianti per il trattamento e il recupero dei rifiuti, per l’ammodernamento delle infrastrutture idriche, per il potenziamento del trasporto pubblico urbano e pendolare, per l’efficienza energetica. Da questo dipende in una misura non piccola la possibilità che l’Italia torni davvero a crescere: non solo e non tanto nel Pil, ma nel benessere, nella qualità sociale, nella fiducia verso il futuro.

Nigrizia, 28 febbraio 2018. Una delle grandi sfide mondiali delle quali nessuno dei grandi partiti parla in questa squallida campagna elettorale, né è in grado di rivendicare una propria azione coerente

È grave che un problema così impellente come la crisi ecologica non sia al centro del dibattito elettorale nel nostro paese. «Le previsioni catastrofiche - ci ammonisce papa Francesco nella enciclica Laudato si’ - non si possono più guardare con disprezzo o ironia. Potremo lasciare alle prossime generazioni troppe macerie, deserti e sporcizia».

Siamo sull’orlo del disastro ecologico. Eppure continuiamo a procedere come se nulla fosse. La colpa è di tutti noi. Primo della politica, oggi prigioniera della lobby degli idrocarburi, poi del movimento ambientalista, oggi più che mai frammentato e indebolito, e infine delle comunità cristiane che non hanno ancora colto la sfida della “conversione ecologica” lanciata dal papa.
Il movimento ambientalista riteneva che l’Accordo di Parigi (Cop 21 - 2015) avrebbe finalmente dato una forte spinta per forzare i governi a prendere drastiche misure per scongiurare la catastrofe ecologica. Ma purtroppo non ci eravamo accorti che Parigi era il frutto avvelenato delle lobby petrolifere Usa, perché è solamente un accordo e non un Trattato, e inoltre ogni nazione ha la responsabilità di decidere i suoi impegni che non sono vincolanti.
Ci eravamo illusi che il movimento avrebbe potuto forzare i governi ad implementare l’Accordo: ciò non è avvenuto. L’arrivo poi di Trump, con la decisione di ritirare gli Usa dall’Accordo, ha fatto il resto. L’Italia, che invece ha firmato l’Accordo, ha fatto ben poco per metterlo in pratica. Con “Sblocca Italia”, il governo Renzi ha rilanciato con forza le trivellazioni per terra e per mare, prevedendo procedure semplificate per il rilancio dei permessi di ricerca e di estrazione. Sia Renzi che Gentiloni hanno poi continuato la politica degli inceneritori, delle discariche, della cementificazione selvaggia del suolo, della TAV, della TAP, delle megastrutture stradali e aeroportuali.
«La questione ambientale - ha detto giustamente il senatore Manconi - riguarda il Pd e tutta la politica italiana e rimanda a un deficit culturale dell’intera classe dirigente». Dobbiamo riconoscere che i partiti italiani, in larga parte, sembrano avere un’unica preoccupazione: la crescita. Eppure sappiamo che una crescita costante e illimitata, sia in economia come nei comfort, è alla base della crisi ecologica.
Purtroppo dobbiamo anche riconoscere che il movimento in difesa dell’ambiente si è indebolito e annacquato. «Col passare degli anni, i movimenti si sono appiattiti sui valori e le “leggi” dell’economia globalizzata - osserva l’ambientalista Giorgio Nebbia. Molti sono diventati collaboratori dei governi nelle imprese apparentemente verdi». In questo indebolimento hanno giocato anche fattori come visibilità, protagonismo, individualismo, ricerca di potere. Anche in Campania il movimento (contro discariche, rifiuti tossici, roghi) si è sciolto come neve al sole.
Ma altrettanto deludente per me è il fatto che dalle comunità cristiane non sia nato un forte impegno ecologico in seguito all’enciclica Laudato si’. Un impegno che trova difficoltà a essere fatto proprio dai fedeli, forse perché anche preti e vescovi non l’hanno fatto proprio. Infatti non è ancora nato un serio movimento in seno alla Chiesa in Italia. È un peccato questo perché un serio impegno da parte della comunità cristiana potrebbe rafforzare il movimento in difesa dell’ambiente. Solo insieme, credenti e laici, potremo realizzare un grosso movimento popolare per forzare i partiti e il nuovo governo a mettere al centro il problema ecologico. E’ un compito fondamentale per tutti noi, credenti e laici. Solo insieme ci possiamo salvare.
«L’Accordo di Parigi è totalmente insufficiente per affrontare la problematica del riscaldamento globale - affermano G. Honty e E. Gudynas di Via Campesina. La società civile non può restare passiva e deve raddoppiare i propri sforzi per andare oltre questo tipo di accordi e realizzare misure effettive, reali, concrete, contro il cambiamento climatico. Molte saranno costose e dolorose, ma il compito è urgente».
A quando la “conversione ecologica”?

1 marzo 2018, Mestre via Buccari ore 17.45 Incontro con Flavio Cogo e Armando Danella per parlare non solo dell'assoluta inutilità del Mose e dei danni che l'avvio della sua realizzazione ha già iniziato a provocare, ma anche della vasta e profonda azione di corruzione che il Consorzio esercita sulla società veneziana. Coordina Ilaria Boniburini. Con riferimenti

Sono innumerevoli gli articoli che eddyburg.it ha pubblicato sul MOSE. Tra gli articoli più recenti segnaliamo quelli di Alberto Vitucci di Armando Danella, di Paola Somma, di Paolo Cacciari.

E leggete soprattutto l'Eddytoriale n. 174, per comprendere l'oceano di corruzione che le spese dei contribuenti hanno inconsapevolmente alimentato.

Per il passato rinviamo agli articoli anteriori al 2013, nella cartella MoSE del vecchio eddyburg.

Il manifesto, 25 febbraio2018. Tutto giusto e condivisibile: l’obiettivo è fuori le grandi navi dalla Laguna. Ma questo è solo un aspetto del problema: l’altro è la non sopportabilità, per Venezia, della quantità e la qualità della massa di visitatori. Ne riparleremo


«Venezia. La vicenda delle grandi navi a Venezia sembra una telenovela infinita, una soap opera in cui la fanno da protagonisti e comprimari dilettanti che non sanno di che parlano, “ponzio pilati” che scappano di fronte alle responsabilità e furbetti che vogliono che resti tutto così com'è»
Ormai siamo al ridicolo. La vicenda delle grandi navi a Venezia sembra una telenovela infinita, una soap opera in cui la fanno da protagonisti e comprimari dilettanti che non sanno di che parlano, “ponzio pilati” che scappano di fronte alle responsabilità e furbetti che vogliono che resti tutto così com’è. Ricordiamo ancora una volta come sono andate le cose. Nel marzo del 2012 (dopo la tragedia di gennaio della Concordia all’isola del Giglio), il governo Monti emanava un decreto (il Clini- Passera) in cui si vietava la navigazione delle imbarcazioni di stazza superiore alle 40mila tonnellate per il bacino di San Marco e il canale della Giudecca. Da tempo i “grattacieli del mare” lunghi 300metri e alti come palazzi di 12-13 piani passano o sostano a pochi metri da Piazza San Marco e solcano il canale della Giudecca, sballottando le piccole imbarcazioni e mettendo a dura prova canali e fondamenta. Ma c’è un “ma”. Qualche riga dopo aver posto il divieto, il decreto ne stabiliva… la sospensione fino a quando non sarebbe stata trovata una soluzione alternativa.

Sono trascorsi sei anni (e quattro governi: Monti, Letta, Renzi e Gentiloni) e la soluzione non è stata trovata. Così i ”grattacieli del mare” hanno continuato a navigare per il canale della Giudecca e davanti San Marco, anche se con delle limitazioni più stringenti introdotte nel frattempo dall’autorità marittima di Venezia. Ma nei mesi scorsi c’è stata una novità: a novembre si è riunito il cosiddetto “comitatone” (che riunisce ministeri, enti locali, ecc) e – a quanto si è appreso dalla stampa- avrebbe trovato la soluzione alternativa: ovvero il transito delle grandi navi per il “canale dei petroli” che dalla bocca di Malamocco, dopo più di 25 chilometri arriva a Marghera. Si tratta di una ipotesi totalmente sbagliata e impraticabile (e a quanto ci ha detto Galletti, nemmeno sottoposta alla Valutazione di Impatto Ambientale), e per un semplice motivo: comporta altri scavi in laguna, per allargare o raddoppiare addirittura il canale. Soluzione dunque inaccettabile, che sconvolgerebbe un ecosistema delicatissimo che non può sopportare più altre devastazioni.

Il condizionale comunque è d’obbligo. Infatti di quella riunione di tre mesi fa non esiste nessun documento: né un “atto di indirizzo” (chi l’ha visto?), né un verbale, che pure dovrebbe pur esserci.

Tutto questo sta rendendo impossibile all’autorità marittima l’emanazione di una nuova ordinanza con l’indicazione del consolidamento delle limitazioni per il 2018 e gli anni a venire. L’omissione del governo sta aggravando la situazione in laguna ancora di più, soprattutto nell’imminenza della nuova stagione crocieristica in cui riprenderà alla grande il flusso delle grandi navi. Basta. Il governo sta facendo “melina”: prima sei anni di latitanza, poi la prospettiva di una soluzione, quella di Marghera (tutta campata in aria, senza progetto e valutazione di impatto ambientale, comunque sbagliata), che sembra fatta apposta per lasciare le cose così come sono e permettere alle grandi navi di continuare a passare indisturbate per il canale della Giudecca e il bacino di San Marco.

Ci sono tre condizioni irrinunciabili per trovare una soluzione “alternativa” alla navigazione delle grandi navi in laguna: a) il coinvolgimento dei cittadini delle comunità locali interessate, attraverso una consultazione vincolante sulle soluzione definitiva, b) un confronto tra le proposte presentate, che ovviamente devono superare pienamente la Valutazione di Impatto Ambientale: nessuna soluzione può essere imposta da Roma, c) il rispetto di un vincolo fondamentale: nessun altro scavo in laguna.

Alla fine si arriverà a questa conclusione: l’unica soluzione possibile per le grandi navi è di portarle fuori, non solo dal canale della Giudecca e da San Marco, ma dalla laguna.

Leggere in proposito l'articolo di Clara Zanardi, Oltre la nave

la Nuova Venezia, 26 febbraio 2018. Anche la Biennale Architettura si presta a raccontare spavaldamente la magnificenza di un progetto che già si sa che non funzionerà, che ha compromesso la Laguna e che è lo scandalo più grande d'Europa, con postilla

Il Mose in mostra alla Biennale Architettura del prossimo maggio. L'iniziativa sarà promossa dal Provveditorato alle opere Pubbliche del Triveneto con il Consorzio Venezia Nuova e sarà realizzata dallo Iuav. A essere esposti saranno infatti i progetti realizzati sul piano architettonico e paesaggistico dall'università guidata dal professor Alberto Ferlenga per "migliorare" e mitigare l'aspetto delle dighe mobili alle bocche di porto. Un incarico ricevuto dallo Iuav nel 2004 dal Consorzio Venezia Nuova d'intesa con la Soprintendenza veneziana e il Comitato di settore dei Beni Culturali, ma realizzato solo in parte, come spiega lo stesso Ferlenga.

«La parte architettonica del progetto è stata effettivamente realizzata» commenta il rettore «mentre quella paesaggistica in buona parte ancora no, anche perché non interamente finanziata. Ma in mostra si vedranno entrambe per volontà del Consorzio e del Provveditorato alle opere pubbliche che ci hanno proposto l'iniziativa, che verrà realizzata all'interno degli spazi espositivi di Thetis, appunto in occasione della prossima Biennale Architettura. Gli stessi commissari del Consorzio non conoscevano la parte di mitigazione del progetto, ed è parso interessante mostrarla in dettaglio, secondo i progetti elaborati da me e dagli architetti Carlo Magnani, Alberto Cecchetto e Aldo Aymonino. L'obiettivo era ed è quello di fare del Mose almeno in alcune sue parti, anche una struttura fruibile dalla collettività, dandole appunto anche una dignità paesaggistica».
Inevitabile che la mostra possa portare con sé anche qualche polemica, legata anche ai problemi che sta incontrando la conclusione della realizzazione del Mose. Tra gli interventi progettuali previsti dall'Iuav per il «miglioramento» paesaggistico del Mose, una collinetta con gli alberi per mitigare l'impatto della nuova isola del bacàn. Percorsi pedonali per ammirare la laguna. E una nuova penisola interrata per «coprire» il porto-rifugio ricavato a ridosso dell'Oasi di Ca' Roman. In particolare l'architetto Magnani si è occupato di ridisegnare i profili di costa della bocca di Lido e di risistemare il progetto. L'isola artificiale davanti al bacàn è stata un po' rimpicciolita e rimodellata agli angoli. L'edificio che dovrà ospitare la regia delle paratoie e le centrali elettriche in parte interrato e spostato verso la parte sud.
Lo scopo per i progettisti, è quello di inserire nell'ambiente le opere, non certo di «abbellire» soltanto i cantieri. La nuova isola, che dovrà fare da fulcro alle due schiere di paratoie (venti più venti) ancorate alle possenti spalle delle dighe di Lido e di Punta Sabbioni, sarà alta tre metri e mezzo sul lato est, verso il mare. Scenderà progressivamente verso ovest, per essere in qualche modo «integrata» nell'ambiente preesistente con alberi e verde. Un ambiente nel frattempo profondamente modificato. E' stato infatti scavato, dietro l'isola, anche il nuovo canale navigabile che in qualche modo, assicurano gli esperti, ha già modificato correnti e velocità dell'acqua.
Tra le opere di mitigazione, previsti, i percorsi per raggiungere i moli dalla spiaggia. E i posti barca che saranno ricavati nel nuovo porto rifugio verso Punta Sabbioni e verso il Lido. La bocca di Malamocco, la più compromessa dal punto di vista degli scavi e degli interventi «pesanti» con le palancole e la grande conca di navigazione, è stata affidata all'architetto Alberto Cecchetto. La proposta prevede di recuperare la passeggiata verso il faro Rocchetta. Le spalle in cemento del Mose dovrebbero essere contornate da nuovi fari stilizzati e postazioni. A Chioggia il progetto di «mitigazione» è firmato dallo studio Aymonino-Ferlenga. Qui il porto rifugio verso Ca' Roman è stato in pratica raddoppiato. Con un interramento verso la laguna che dovrà servire da «filtro» ambientale. Un'area verde per mitigare anche l'impatto visivo del pietrame. Anche qui sono previste passeggiate, posti barca, capanni per la vista della laguna, posti di ristoro.

postilla

Sull'assoluta inutilità del Mose ai fini per i quali sarebbe stato finalizzato, sui danni che l'avvio della sua realizzazione ha già iniziato a provocare, sulla vasta e profonda azione di corruzione che ha esercitato alla società veneziana abbiamo già pubblicato numerosi articoli e documenti, fin dall'inizio della sua presentazione. Ma non immaginavamo allora la dimensione del danno che la sciagurata iniziativa del ministro Franco Nicolazzi, e dalla banda dei suoi manovratori, avrebbero provocato. Per il passato rinviamo agli articoli anteriori al 2013, nella cartella MoSE del vecchio eddyburg. Tra gli articoli più recenti segnaliamo quelli di Alberto Vitucci, di Armando Danella, di Paola Somma, di Paolo Cacciari, E leggete soprattutto l'Eddytoriale n. 174, per comprendere l'oceano di corruzione che le spese dei contribuenti hanno inconsapevolmente alimentato

Il Fatto quotidiano, 23 febbraio 2018. Una risposta e una replica diSalvatore Settis a un intervento di Laura Puppato

Gentile professor Settis, dispiace dover leggere un’analisi parziale e superficiale sull’iter della legge di contrasto al consumo di suolo. Spiace ancor più perché viene da una persona degna di ogni stima. Temo che l’obiettività del suo ragionamento sia inficiata dallo scopo: attaccare una parte politica. La legge sul consumo di suolo, pronta, non è stata approvata. Lo ripeto continuamente e ho posto la sua approvazione al primo punto del mio programma. Come ha scritto, io fui tra coloro che ritennero un errore la fiducia sul testo approvato alla Camera. Lei cita il ddl Catania, ma non è questa la legge che avremmo approvato, visto che sarebbe stato sottoposto a fiducia l’Atto Camera 2039, risalente al governo Letta. A spingere per bloccare la fiducia furono Ispra, Wwf, Italia Nostra, Fondo Ambiente, Lipu e altri. Le Regioni annunciarono ricorso alla Consulta, che avrebbero vinto perché la legge non rispettava
le loro competenze. Quel testo necessitava
 una revisione celere, ma il presidente del Senato
Grasso affidò la legge a 
due commissioni, allungando i tempi. Abbiamo svolto decine di audizioni, fino a giungere a un testo che ricevette il libera anche da parte dell’opposizione. La legislatura era in dirittura di arrivo, ma pareva avessimo il tempo necessario. Vista la mala parata, tentai comunque di farla approvare con una deliberante in commissione. Non ci fu accordo perché la Lega negò il voto ed era necessaria l’unanimità. La legge è pronta, il prossimo Parlamento potrà approvarla in qualche settimana se lo vorrà. Qualcuno dirà che avremmo dovuto approvare la legge uscita della Camera, ma ciò avrebbe messo la parola fine a ogni miglioramento. Dispiace quindi aver dovuto leggere il mio nome buttato lì, così, senza una spiegazione. La legge sul contrasto al consumo di suolo sarà il mio primo obiettivo, se eletta nella prossima legislatura. Se Lei, professore, vorrà essere della partita, sarò la prima a felicitarmene.
LauraPuppato

Cara Sen. Puppato, La ringrazio di aver voluto leggere e commentare il mio articolo. Sono d’accordo con Lei che è meglio approvare una legge migliore piuttosto che una legge peggiore: un criterio che dovrebbe valere per qualsiasi norma. Il fatto è che in questa legislatura (1834 giorni) i governi che si sono succeduti (e le rispettive maggioranze) hanno avuto tempo e modo di approvare non solo una fallimentare riforma della Costituzione, ma anche due leggi elettorali, nessuna delle quali particolarmente brillante, e altri prodotti dell’ingegno umano (suppongo, meditatissimi) come “Sblocca Italia”, “Buona scuola”, “Jobs Act". Ma quegli stessi 1834 giorni non sono bastati, agli stessi governi e alle stesse maggioranze, per meditare a sufficienza sul consumo di suolo. Sono certo che le responsabilità dello slalom di cui è stato vittima il ddl saranno da suddividersi fra molte persone (in 1834 giorni succedono tante cose): ma se per l’ultimissima fase del tormentoso iter ho fatto il Suo nome non è “a casaccio”, né certo per attaccarLa in alcun modo, bensì perché il Suo nome ricorreva in tal senso presso autorevoli fonti ministeriali, e mi pareva utile segnalare al lettore che il Suo parere in queste ultime settimane, come Lei conferma, era diverso e opposto a quello di Franceschini. Vorrei poter condividere il Suo ottimismo, secondo cui, dato che la legge ormai è pronta, verrà sveltamente approvata nella prossima legislatura: mi auguro solo che Lei abbia ragione, e sarò con Lei se vorrà condurre questa battaglia. Su un solo punto non siamo proprio d’accordo: io in vita mia non ho mai scritto nemmeno una sillaba al solo scopo di attaccare una parte politica, quale che essa sia, e mi addolora che Lei possa anche solo sospettarlo. Non solo perché non appartengo a nessunissima parte politica, ma per personale inclinazione e scelta provo a scrivere ogni volta quel che penso (e come è ovvio posso sbagliare) riflettendo su quel che so, o credo di sapere. Ogni altra motivazione mi è radicalmente estranea.

Salvatore Settis

il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2018. Nonostante le chiacchiere, le promesse e la propagando non c'è ancora una legge per contrastare il consumo di suolo. (Ma non s'illuda Settis, quelle che ci sono non servono)

Tra i record negativi (che abbondano) di questa morente legislatura ce n’è uno che rischia di sfuggire ai radar, tanto si è allontanato dalla pubblica attenzione: il consumo di suolo.

Un disegno di legge per contenerlo c’era già, rarissimo lascito positivo dell’era Monti, grazie all’allora ministro Mario Catania. Eppure, con manovre degne della corte di Bisanzio, i tre governi di sedicente sinistra, mentre fingevano di volerlo rilanciare, sono brillantemente riusciti a insabbiarlo, riscrivendolo mille volte in estenuanti quadriglie, emendamenti, furbizie d’ogni sorta. In compenso, il super-cementificatore Maurizio Lupi, già vituperato dal Pd quando era schierato con Berlusconi, veniva imbarcato fra i padri della patria al governo, e in amorevole duetto con Renzi lanciava il cosiddetto Sblocca Italia, consacrazione e decalogo di chi il suolo lo devasta.

Il tema venne in discussione ai cosiddetti Stati Generali del Paesaggio, convocati con molte buone intenzioni e poco potere reale dal sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni il 25-26 ottobre. Qualcuno fece allora notare che, in simultanea, a un passo da Palazzo Altemps dove si svolgeva il convegno, il Senato stava votando la fiducia all’indegno Rosa- tellum. Perché, fu chiesto allora a Dario Franceschini che era presente, di non mettere invece la fiducia sulla legge contro il consumo di suo- lo, onde approvarla prima della fine della legislatura? Il ministro dichiarò che era un’ottima idea, e che ci avrebbe provato.

Ma niente di fatto: si opposero altri esponenti di spicco del Pd (a quel che pare, l’on. Puppato). 1834 giorni di legislatura non sono bastati a portare la legge in porto. Complimenti.

Quel che accadrà a valle del 4 marzo nessuno lo sa; quali che siano i veri o finti proclami dei partiti in corsa, i programmi veri salteranno fuori dal cappello dei negoziati e dei compromessi solo se e dopo che si sarà formata una coalizione coi numeri per governare. Perciò tornare su questo tema è come lanciare un messaggio in bottiglia, col rischio che si disperda nell’oceano di chiacchiere in cui il paese affonda.

Ricordo solo qualche dato Ispra. 23.000 chilometri quadrati di territorio divorati dal cemento negli anni 1950-2016: il 7,64% della superficie del Paese, più o meno quanto la Lombardia. Tre metri quadrati al secondo, trenta ettari al giorno coperti dal cemento. Ogni giorno, ogni secondo, anche a Natale e a Pasqua, anche mentre leggiamo questo articolo. E il suolo che si consuma è il più prezioso, quello che dovremmo destinare all’agricoltura di qualità, dalla pianura padana alla Campania già felix (cioè fertile). Sei milioni di ettari persi per l’agricoltura, riducendone la produzione con una perdita netta vicina a un miliardo di euro l’anno; per non dire che il cibo che non produciamo più dobbiamo importarlo. Intanto non si arresta l’erosione. delle coste, ormai smangiate al 51% (stima Legambiente) da porti turi- stici, villette, alberghi e resort. La fragilità idrogeologica e sismica del territorio costringe periodicamen- te a correre ai ripari (3,5 miliardi di costi l’anno secondo Ance-Cresme), senza mai avviare opere di preven- zione. Salvo stracciarsi le vesti a ogni alluvione, esondazione, terremoto, frana, “bomba d’acqua”, con relativi morti e feriti.

Perciò un messaggio in bottiglia lanciato alla disperata a chi ci governerà ha alcuni temi d’obbligo. Il degrado dell’ambiente e la crescita a macchia d’olio delle città sono due aspetti complementari, che com- portano da un lato enormi perdite di produzione agricola, dall’altro l’a- gonia delle città storiche, sottopo- ste a una gentrification che espelle dai quartieri più preziosi i giovani, i vecchi, i meno abbienti, creando nuovi ghetti urbani. Paesaggio urbano, periurbano ed extraurbano vanno concepiti sotto il segno di una superiore unità, che ha bisogno di uno sguardo lungimirante. È intollerabile che solo tre Regioni abbiano provveduto al piano paesaggistico, e che il ministero non abbia esercitato, nelle altre, il potere sostitutivo previsto dal Codice dei Beni Culturali.

Qualcosa si potrebbe fare subito, in attesa di correggere il maggior difetto dell’ordinamento italiano, cioè la sovrapposizione fra le quattro nozioni giuridiche di paesaggio, ambiente, territorio, suoli agricoli, con norme distinte e spesso conflittuali. Sarebbe facile, per esempio, commisurare per legge i piani urbanistici a previsioni di crescita demografica certificate dall’Istat: si sa, infatti, che i Comuni truccano spesso le statistiche, autoattribuendosi mirabolanti crescite di popolazione, onde poter consentire la speculazione edilizia. Si dovrebbero stabilire, Comune per Comune, parametri di edificabilità basati sul tasso di edilizia condonata, sulla requenza di edifici abbandonati, invenduti o inutilizzati e di aree de-industrializzate da destinare a uso collettivo. Si dovrebbe consolidare la norma della legge di bilancio 2016 (comma 460), che riporta gli oneri di urbanizzazione all’originaria funzione della legge Bucalossi, senza più destinarli alla spesa corrente.

Intanto, mentre si moltiplicano i segni premonitori dei prossimi disastri, e aleggia, da Berlusconi a Renzi, il fantasma del Ponte sullo Stretto, bandiera e simbolo dell’irresponsabile gestione del territorio, qualcosa si muove. Reagendo all’inerzia di Parlamento e governi, il Forum “Salviamo il Paesaggio” ha lanciato una proposta di legge d’iniziativa popolare “per l’arresto del consumo di suolo e per il riuso dei suoli urbanizzati”. Un’altra fra le mille prove che, mentre i politici di mestiere s’affannano per lo più a conservare poltrone e appannaggi, un gran numero di cittadini è pronto a operare “dal basso” per ridare a questo Paese il respiro e il futuro che meriterebbe. È ancora attuale il monito di Luigi Einaudi, in un appunto che scrisse, da Capo dello Stato, al presidente del Consiglio De Gasperi: “Il problema massimo dell’Italia è la difesa, la conservazione e la ricostruzione del suolo contro la. progressiva distruzione che lo minaccia. L’uomo di Stato deve guardare lontano nello spazio e nel tempo, anche contro la volontà degli uomini viventi oggi. La lotta contro la distruzione del suolo italiano sarà dura e lunga, forse secolare. Ma è il massimo compito di oggi se si vuole salvare il suolo in cui vivono gli Italiani” .

La Città Invisibile. Un incontro, promosso dal laboratorio politico perUnAltraCittà, per lanciare una campagna sul diritto di cambiare e di conquistare, per tutti, un habitat sano e vivibile

C’era anche un po’ di emozione, oltre a molto interesse, nella sala che ospitava, domenica mattina a Firenze, l’incontro “Superare le politiche neocapitaliste su territori e città”.

Interesse per la rilevanza del tema, ma anche per la composizione del tavolo dei relatori, che vedeva alcuni fra i maggiori esperti nonché straordinari protagonisti dal dibattito urbanistico, e non solo, degli ultimi anni, in alcuni casi decenni: Edoardo Salzano, Vezio De Lucia, Enzo Scandurra, Sergio Brenna, Ilaria Agostini, Ilaria Boniburini, Maria Pia Guermandi.

Emozione perché non era una semplice tavola rotonda, era un incontro militante, in qualche modo autoconvocato, e tutti i partecipanti sono venuti a Firenze per mettere le loro energie, la loro esperienza, il loro tempo, a disposizione di una volontà operativa di cambiamento: non (solo) studiosi “cultori della materia”, ma attivisti per un rovesciamento di paradigma non più rimandabile.

Perché, come ha detto Edoardo Salzano nel primo intervento, “la situazione è drammatica, il mondo si è rotto, il pianeta è al collasso, si è rotta l’umanità che ci abita sopra”, ponendo l’accento sulle maggiori criticità prodotte dall’attuale sistema dominante a livello globale, dalla questione ambientale alla povertà, in crescita nel “ricco” occidente e devastante nel resto del mondo da questo colonizzato, dal dramma delle migrazioni, o meglio dell’atteggiamento inumano della “fortezza Europa” che provoca le migliaia di morti nel mediterraneo e i lager libici, alla perdita di dignità del lavoro e dei diritti, fino alla necessità di una nuova campagna per la pace, il disarmo, l’uscita dalla NATO, e l’utilizzo delle risorse destinate all’industria bellica per i tanti interventi che sarebbero necessari sui territori ma che il mercato non trova remunerativi

E’ stata anche, soprattutto, l’occasione di presentare un appello, di cui i partecipanti alla tavola rotonda sono promotori o primi firmatari, dal titolo “Il diritto di cambiare: un habitat sano e vivibile”, un appello da parte di “un gruppo di urbanisti, architetti, agronomi, ecologi, ambientalisti, attivisti dei movimenti per difesa del territorio e dei beni comuni, per la giustizia ambientale e il diritto alla città”, che si conclude con una esplicita adesione alla proposta politica ed elettorale di Potere al Popolo: “L’irresponsabile miopia delle classi dirigenti ancora oggi governanti non ammette mezze misure: l’unico cambiamento radicale è il voto alla nuova lista di Potere al Popolo!”

Parole finalmente chiare ed inequivocabili, quelle dell’appello, come sottolineato da Enzo Scandurra, che si sofferma in particolare sulle trasformazioni delle città operate esclusivamente in nome delle forze del mercato, e che hanno prodotto ambienti urbani sempre meno vivibili, mentre la produzione legislativa e regolamentare è stata improntata solo a facilitare le esigenze di quelle stesse forze, con nessuna attenzione per gli interessi pubblici e della popolazione.

Ilaria Boniburini, candidata della lista, dalle sue esperienze di docente precaria in varie università africane porta una attenzione particolare sul binomio pace e ambiente, integrando le collaborazioni con Eddyburg con un punto di osservazione diverso, confrontandosi con problematiche complesse in cui emerge con chiarezza la natura predatoria del sistema occidentale..

Maria Pia Guermandi, archeologa, esponente di Emergenza Cultura, sottolinea l’attacco al sistema di tutele del patrimonio culturale da parte dei grandi interessi, ma prima ancora della politica, che in particolare con le “riforme” Franceschini affronta la questione esclusivamente in termini di valorizzazione economica, con attenzioni mediatiche e finanziarie rivolte solo alle grandi eccellenze, e solo per farne attrattori di flussi turistici, con una regressione epocale nella concezione stessa di patrimonio culturale.

Vezio De Lucia ripercorre le vicende di uno dei più notevoli progetti di riqualificazione urbana degli ultimi decenni, mai partito: la demolizione di via dei Fori Imperiali a Roma, nato sotto l’impulso del sindaco Petroselli e dell’urbanista Antonio Cederna, e che oggi è definitivamente tramontato con la decisione di farne sede di un tracciato tramviario da parte della giunta penta stellata, mentre Sergio Brenna, candidato per la lista a Milano, ricorda le battaglie per una concezione avanzata nella disciplina urbanistica, dall’introduzione degli standard ai tentativi di riaffermare una gestione pubblica della città e del territorio, battaglie che registrano un preoccupante arretramento davanti allo strapotere delle forze del grande capitale finanziario, ma che trovano riscontro nel programma di Potere al Popolo e nelle pratiche delle tante esperienze di base che hanno dato vita alla lista.

Ilaria Agostini tratta dell’urbanistica al servizio del neocapitalismo nelle città, in particolare quelle a vocazione turistica, sottoposte a una pressione enorme da parte delle dinamiche estratti viste generate e gestite dall’economia finanziarizzata, che si muove liberamente in un vuoto pianificatorio costruito ad arte. “Lo strumentario urbanistico si adegua – servile – assumendo concetti, metodi e lessico presi a prestito dall’economia finanziarizzata, interni alla logica distruttiva ed estrattiva che ha saccheggiato città e territori globali: crediti edificatori, cartolarizzazione degli immobili pubblici, valutazione, premialità, negoziazione, accordi. Le città sono smart, sono ridotte a brand da giocare nella competizione globale.

La casa passa da “diritto” a oggetto di investimento, ed è posta sullo stesso piano di merci e titoli finanziari. Alla città-public company e alla casa (di proprietà) come asset, serve un’urbanistica ridotta a mera disciplina di negoziazione. Il resoconto E la rigenerazione urbana – cuore della propaganda governativa – diventa il core business di un nuovo ciclo edilizio.”

Si riproduce, aggiornato, il consueto ciclo di espropriazione ed espulsione: espropriazione degli spazi pubblici, di relazione, del valore d’uso, ed espulsione della popolazione originaria. Più elegante il termine gentrificazione, più appropriato quello di speculazione immobiliare, che permette di organizzare la lotta e la resistenza.

Un incontro particolarmente significativo, un momento in cui una parte importante del mondo dell’urbanistica e di chi opera sugli scenari delle città e dei territori (già numerose le adesioni all’appello) riprende la parola, si schiera, partecipa: si annuncia una stagione di rinnovato impegno per il futuro, a fianco, o dentro l’esperienza di Potere al Popolo, ma anche nelle tante realtà di base, associazioni, collettivi, già attivi su tanti fronti, che a quell’esperienza hanno dato vita. Ne avremo bisogno

Qui è scaricabile il filmato dell'evento

il manifesto, 20 febbraio 2018. «Migliaia di processi, centinaia di arresti, scontri violenti, barricate, venticinque anni di lotta». Nessun responsabile e comunque si va avanti. Con riferimenti (m.p.r.)

La presidenza del Consiglio dei Ministri ha recentemente pubblicato un documento dal titolo: «Adeguamento dell’asse ferroviario Torino – Lione. Verifica del modello di esercizio per la tratta nazionale lato Italia fase 1 – 2030». A pagina 58, si legge: «Non c’è dubbio, infatti, che molte previsioni fatte quasi 10 anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, siano state smentite dai fatti, soprattutto per effetto della grave crisi economica di questi anni, che ha portato anche a nuovi obiettivi per la società, nei trasporti declinabili nel perseguimento di sicurezza, qualità, efficienza. Lo scenario attuale è, quindi, molto diverso da quello in cui sono state prese a suo tempo le decisioni e nessuna persona di buon senso ed in buona fede può stupirsi di ciò. Occorre quindi lasciare agli studiosi di storia economica la valutazione se le decisioni a suo tempo assunte potevano essere diverse.

«Quello che è stato fatto nel presente documento ed interessa oggi è, invece, valutare se il contesto attuale, del quale fa parte la costruzione del nuovo tunnel di base, ma anche le profonde trasformazioni attivate dal programma TEN-T e dal IV pacchetto ferroviario, richiede e giustifica la costruzione delle opere complementari: queste infatti sono le scelte che saremo chiamati a prendere a breve. Proprio per la necessità di assumere queste decisioni in modo consapevole, dobbiamo liberarci dall’obbligo di difendere i contenuti analitici delle valutazioni fatte anni fa». Se c’è la buona fede, c’è tutto. Non importa che quelle valutazioni errate siano costate la più grave, e irreversibile per molti aspetti, crisi tra una comunità vasta e lo Stato degli ultimi decenni.

Migliaia di processi, centinaia di arresti, scontri violenti, barricate, venticinque anni di lotta. Le parole del governo, che riconoscono pienamente le ragioni del movimento Notav – Il Tav è fuori scala – non generano in val Susa il minimo senso di soddisfazione, bensì un vasto sentimento di rabbia. Anche perché la conclusione del papello governativo che prende atto dell’assenza di traffico sulla direttrice est – ovest, trascende nell’atto di fede: non serve, ma si fa lo stesso.

Ma di quanto furono sbagliate le previsioni all’origine della Torino – Lione? Gli studi di Ltf del 1999 prevedevano un incremento tra il 2000 e il 2010 del 100%, ovvero da dieci a venti milioni di tonnellate. Riviste nel 2004, a causa della chiusura del tunnel del monte Bianco che spostò sul Frejus il traffico merci, ebbero una virile ascesa: da otto milioni del 2005 a quaranta (40) nel 2030. Questo perché le merci in transito verso l’Austria o la Svizzera sarebbero state attratte, chissà perché, dalla Torino – Lione. Oggi, dall’attuale tunnel del Frejus, ammodernato solo pochi anni fa, passano tre milioni di tonnellate di merce. Se si sommano i flussi merce sull’autostrada parallela si arriva a tredici. Alla base della rivolta del territorio valsusino vi erano, e vi sono questi dati.

La responsabilità sarebbe dell’Unione Europea che sbagliò i calcoli, par di capire dal documento governativo, ma ormai è tardi per tornare indietro. Chiosa enigmatica, perché al momento della Torino – Lione Av non esiste un solo metro, a meno che non si prenda in considerazione un piccolo tunnel geognostico costruito in val Clarea. Piercarlo Poggio, docente presso il Politecnico di Torino fa parte del gruppo di accademici che hanno contrastato sul piano scientifico la tratta Torino – Lione Av, commenta: «Sono parole, quelle del Governo, che provano l’approccio scientifico tenuto dal movimento Notav: non abbiamo mai avuto una posizione ideologicamente contraria. I nostri sono sempre stati studi corretti, che provano l’inutilità dell’opera. A maggior ragione oggi è momento per tornare indietro, non per andare avanti come se nulla fosse».

Il tunnel di base costerà 8,6 miliardi di euro ripartiti tra Francia e Italia nella misura del 42,1% e del 57,9%, al netto del cofinanziamento UE che copre il 40% del costo complessivo. L’Italia quindi spenderà tre miliardi di euro a cui si devono sommare 1,7 miliardi necessari per il potenziamento della linea storica: è il cosiddetto «Tav low cost».

riferimenti
Su eddyburg numerosi articoli. Tra gli altri si veda Il Parlamento approva il Tav: non ha capito il trionfo dei No di Tomaso Montanari e gli scritti di Pierluigi Sullo e Ugo Mattei in Lotta "comune" quella della Val di Susa nella cui postilla si rinvia ulteriormente agli articoli che dimostrano come e perché quell’opera è una truffa. Per esempio, Che siate pro o contro la TAV, forse volete sapere chi la paga, oppure volete sapere perchè L'analisi costi-benefici boccia la Torino - Lione, oppure volete sentire il parere del prof. Marco Ponti che vi racconta perchè I costi dell'alta velocità corrono più dei treni. E per venire ai più recenti, ancora il parere di Marco Ponti, e i numeri ricordati da Luca Mercalli

Comune-info.net,14 febbraio 2018 Un'intervista ad Alessandro Mortarino sulla proposta di legge popolare contro il consumo di suolo (c.m.c)

L’Associazione dei Comuni virtuosi ha chiesto ad Alessandro Mortarino del Forum Salviamo il Paesaggio di rispondere a qualche domanda sulla proposta di legge popolare contro il consumo di suolo presentata ufficialmente da pochi giorni

Chi sono i promotori di questa proposta di legge e da dove nasce l’esigenza di stimolare il Parlamento a legiferare su un tema così importante? I “padri e le madri” di questa Proposta di legge Popolare sono davvero tanti: l’intera rete del Forum nazionale Salviamo il Paesaggio, cioè oltre mille organizzazioni e decine di migliaia di singole persone che dal 29 ottobre 2011, data della nostra assemblea costituente, hanno condiviso la necessità di intervenire sul delicato tema del consumo di suolo stimolando la promulgazione di una norma nazionale, rigorosa e chiara. È quindi da quel giorno che tutti assieme stiamo lavorando in una direzione comune e probabilmente questa nostra proposta “dal basso” l’avremmo potuta offrire all’intero Paese ben prima, ma ci era parso costruttivo assecondare il disegno di legge che nel 2012 l’ex ministro Mario Catania e il governo Monti presentarono per “contenere” il consumo di suolo agricolo.

Allora ci parve un importante passo avanti, dopo decenni di assenza della politica attorno a questo tema che noi indicavamo come un’emergenza assoluta su cui intervenire con urgenza, regolamentare e legiferare. Quel disegno di legge non era perfetto, ma era un inizio e noi non mancammo di presentare le nostre osservazioni critiche e molte proposte migliorative anche durante le audizioni alla Camera in cui fummo invitati. Il percorso sappiamo bene come si è poi sviluppato: quel progetto normativo si è progressivamente indebolito e alla fine, prima che la Camera lo approvasse, lo definimmo come “un pallido” strumento, poco utile per gli obiettivi che si proponeva.

Per questo, nell’ottobre 2016, abbiamo deciso di procedere nella nostra elaborazione, costituendo un Gruppo di Lavoro Tecnico-Scientifico ai massimi livelli come dimostra la presenza di personalità di primo rango quali Paolo Pileri, docente del Politecnico di Milano e “padre” della grande ciclovia tra Venezia e Torino VenTo; di Paolo Maddalena, vice presidente emerito della Corte Costituzionale; di Luca Mercalli, presidente della Società Italiana di Meteorologia; di Paolo Berdini, urbanista e saggista; di Michele Munafò, responsabile dell’Area Monitoraggio e analisi integrata uso suolo, trasformazioni territoriali e processi di desertificazione all’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale-ISPRA; Domenico Finiguerra, “mitico” ex sindaco di Cassinetta di Lugagnano, primo comune italiano a crescita zero urbanistica.

Un gruppo multidisciplinare, perché ritenevamo necessaria una visione variegata che rappresentasse tutte le competenze in materia di “terra” e quindi coinvolgendo architetti, urbanisti, docenti e ricercatori universitari, geologi, agricoltori, agronomi, tecnici ambientali, giuristi, avvocati, funzionari pubblici, giornalisti/divulgatori, psicanalisti, tecnici di primarie associazioni nazionali, sindacalisti, paesaggisti, biologi, attivisti…

Perché la proposta arriva proprio adesso, nel pieno cioè di una campagna elettorale dove i temi legati all’ambiente sono così poco dibattuti dai vari schieramenti in campo?
Non è una coincidenza voluta: per completare il nostro lavoro ci sono voluti tredici mesi e ben otto revisioni del testo. Dopo la sesta bozza condivisa dal Gruppo di Lavoro (e ancora da “limare”) l’abbiamo offerta alle analisi e agli emendamenti di tutto il Forum e di tutte le migliaia di persone che vi aderiscono. Ecco perché ci piace definirla una norma veramente “dal basso”: gli esperti hanno fatto la loro parte, ma chiunque ha avuto la possibilità di suggerire modifiche, miglioramenti e integrazioni.

Indubbiamente l’avvicinarsi delle elezioni ci ha fatto premere l’acceleratore e giungere alla conclusione condivisa di questa non semplice elaborazione normativa: in questa campagna elettorale i temi ambientali paiono non essere minimamente richiamati dai proclami dei partiti e dunque ci siamo assunti, ancora una volta, il compito di sollecitare un’attenzione basata su un documento di valenza scientifica. Non vogliamo più sentirci dire che “il consumo di suolo è un flagello e va fermato”, frase ad effetto facile da pronunciare per qualunque politico. Vogliamo un confronto vero su un documento che, a nostro avviso, è davvero in grado di orientare il mondo dell’edilizia al futuro prossimo venturo.

Come vi muoverete nelle prossime settimane per far conoscere il progetto e raccogliere nuove adesioni in grado di “influenzare” il prossimo parlamento a legiferare?
Stiamo presentando la nostra proposta di legge popolare a tutte le forze politiche e a ognuna stiamo chiedendo di darci un parere. Sono convinto che alcune si diranno pienamente concordi e chiederemo loro di sottoscrivere con noi un impegno preciso a sostenere “a spada tratta” questa norma sin dall’avvio della nuova legislatura. Lo stesso faremo in ogni territorio e con ogni candidato individuale. Poi attenderemo le prime mosse del nuovo Parlamento, pronti – in caso di disattenzione – a mettere in campo una campagna di sottoscrizioni trasformando la Proposta in “Iniziativa popolare”. Servirà? Lo vedremo. Ma siamo pronti a dare battaglia: ora abbiamo uno strumento formidabile – la nostra Proposta di legge – dalla nostra parte!

Da sempre la grande critica che accompagna tutte le persone e i movimenti che propongono lo stop al consumo di suolo è il ritornello del “siete contrari allo sviluppo e all’occupazione”. Questa proposta di legge contiene solo dei no oppure presuppone un’idea di sviluppo diversa (quale)?
Credo che sia sufficiente leggere i nomi e le qualifiche del settantacinque componenti del nostro Gruppo di Lavoro multidisciplinare per capire che questa proposta normativa non è uno scherzo ma una autentica “Bibbia”. In cui non sosteniamo, ovviamente, dei “no” e tanto meno dei “no” a priori. Diciamo che la legge non consentirà nuovo consumo di suolo per qualunque destinazione, suggerendo che le esigenze insediative e infrastrutturali saranno soddisfatte esclusivamente con il riuso e la rigenerazione del patrimonio insediativo ed infrastrutturale esistente. Significa affermare che il futuro dell’edilizia sta nella rigenerazione dei suoli già urbanizzati, nel risanamento del costruito attraverso ristrutturazione e restauro degli edifici a fini antisismici e di risparmio energetico, nella riconversione di comparti attraverso la riedificazione e la sostituzione dei manufatti edilizi vetusti.

Sono indicazioni chiarissime e alla “politica” spetta ora il compito di orientare il mercato. Negli ultimi anni questi concetti sono diventati una sorta di “mantra”, ma finora è sempre mancata la declinazione normativa: oggi non ci sono più scuse e siamo lieti di avere offerto a tutto il Paese questa nuova opportunità. Poi, certamente, qualcuno non sarà d’accordo. Ma il suolo consumato ha già divorato il 7,6 per cento delle terre fertili di pianura e collina (Ispra) e conviviamo con uno stock di abitazioni inutilizzate impressionante: oltre 7 milioni di case sfitte e vuote (Istat).

Per questo la nostra legge propone anche la corretta applicazione dell’articolo 42 della Costituzione, secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata” e “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge… allo scopo di assicurarne la funzione sociale”: un edificio inutilizzato ha perduto la sua funzione sociale e dunque si trova a veder mancare la stessa tutela giuridica, con la conseguenza che i suoli devono tornare nella proprietà collettiva della popolazione del comune interessato e nessun indennizzo è dovuto ai proprietari che non hanno perseguito la funzione sociale dei loro beni e li hanno abbandonati.

PER APPROFONDIRE Leggi la proposta di legge

Titolo originale La politica non ha più scuse (comunivirtuosi.org)

la Nuova Venezia, 16 febbraio 2018. Articoli di Vera Mantegoli e Carlo Mion. Se il potere pubblico non fa il suo dovere, o lo disattende, i cittadini mugugnano, ma poi cominciano ad organizzarsi. A Venezia le associazioni sottoscrivono un comune documento e i cittadini si organizzano per costituire presidi antifascisti. (m.p.r.)

«GIÙ LE MANI DAI LUOGHI PUBBLICI»
di Vera Mantegoli

La rabbia delle associazioni cittadine contro l'impoverimento del tessuto cittadino.

Sottrarre un luogo pubblico per darlo ai privati è un crimine. È questa una delle tre dichiarazioni sottoscritte dalle prime associazioni cittadine (oltre una quindicina) che ieri pomeriggio si sono riunite nella Sala San Leonardo per condividere i diversi percorsi avviati negli ultimi anni. Le altre sono che «chiunque sterilizzi per mezzo di ruoli amministrativi il ricco tessuto civico della città per ignavia o inerzia, con dolo e colpa, viola il suo mandato e abusa delle sue funzioni» e che «le comunità che riscoprono la loro città e ne ambiscono la gestione partecipata (. . .) hanno più credibilità di chi opera dall'alto» . Rabbia e orgoglio si sono fatti sentire nella voce dei rappresentanti che hanno ribadito che non ci sono giustificazioni per chi sfrutta la laguna (da Italia Nostra al Comitato Altro Lido), per chi vuole sottrarre gli spazi pubblici (dagli studenti del Comitato Gasometri che hanno voluto dire al sindaco che non sono stati strumentalizzati alle famiglie dell'ex Teatro Anatomico), per chi continua a trovare il modo di svendere spazi che in gran parte sono già di tutti. Insomma, percorsi diversi, ma accomunati dallo stesso obiettivo: tutelare gli spazi pubblici, dalle isole ai palazzi, dai privati e da quella politica che stanno togliendo ai residenti il ruolo di protagonisti nella loro città. L'incontro, moderato dagli autori del programma Frullatorio, Davide Angeli e Matteo Tonini, si è svolto dando cinque minuti di intervento a tutti, pena il rimprovero (ironico) di uno dei conduttori che, con una maschera da Batman, sgridava il portavoce. Il filo conduttore è stato la "Carta sul patrimonio pubblico e collettivo" scritta dalle associazioni che hanno partecipato, ma aperta anche a chi vuole unirsi (associazionepoveglia@gmail.com). Nel testo si parla del rischio che sempre di più corre la città, dallo spopolamento all'omologazione del tessuto del tessuto urbano e commerciale, e del ruolo dell'amministrazione che «non ha nessun freno normativo di fronte a questo appiattimento». Davanti a questo pericolo di rottura della comunità di veneziani, le associazioni hanno delle soluzioni che chiedono di essere ascoltate e messe in pratica. (v.m.)

«NO AL COMIZIO DEI FASCISTI A SAN GEREMIA»
di Carlo Mion


Cresce la mobilitazione contro l'iniziativa di Forza Nuova. Raccolta di firme, appelli e lettere al prefetto

Venezia. Mentre polizia e Prefettura cercano una soluzione per evitare che domenica ci siano disordini in occasione del comizio elettorale di Forza Nuova in campo San Geremia, aumentano le adesioni al presidio antifascista organizzato dai Centri sociali e gli appelli al Prefetto Carlo Boffi perché vieti il comizio. Ieri il presidente della Municipalità di Venezia Andrea Martini ha scritto al Prefetto: «Non posso non trasferirle il sentimento diffuso in città di sdegno e incredulità per il fatto che una formazione, nei saluti romani e nei proclami, di fatto neofascista possa trovare spazio per diffondere i propri slogan di violenza e razzismo nei nostri campi» prosegue Martini. «Al sentire diffuso sta crescendo esponenzialmente la convinzione, in città, che, se non viene bloccato il comizio, si debba creare un presidio di cittadini che pacificamente testimoni, con la sua presenza, il no a quello che viene avvertito come un attacco diretto alla città. Il rischio, dunque, che persone, comuni cittadini, possano trovarsi in situazione di pericolo per la propria incolumità è molto alto» conclude il presidente Martini. «Le chiedo, quindi, per tutelare la sicurezza dei cittadini, di non autorizzare il comizio di Forza Nuova».
Ipotesi non praticabile in quanto il Prefetto non può vietare un comizio elettorale. Si cerca quindi una soluzione per impedire che i partecipanti al presidio, previsto per le 14 davanti alla stazione, vengano in contatto con in partecipanti al comizio che inizierò alle 16.Un gruppo di cittadini, nel frattempo, ha organizzato una raccolta di firme in rete per chiedere di impedire il comizio. Raccolta che si prefigge di arrivare a 2500 firme e che in poche ore ha superato quota 1500. Anche questa raccolta di firme è indirizzata al Prefetto. Scrivono i promotori: «Come cittadini veneziani chiediamo al Prefetto di Venezia di vietare il comizio di Forza Nuova. Lo chiediamo perché Forza Nuova è un movimento, sia a parole che nei fatti, apertamente e dichiaratamente neofascista».
Un appello è arrivato anche da parte dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, sezione Sette Martiri di Venezia. «La Sezione Anpi "Sette Martiri" apprezza e condivide ogni iniziativa di militanza antifascista soprattutto se proveniente da giovani cittadini», spiega l'Anpi. «Il richiamo allo spirito di Macerata dell'appello del Centro sociale Morion e quindi a comportamenti ispirati alla legalità, ci è sembrata una garanzia di rispetto dei principi democratici che devono esserci nella fermezza delle rivendicazioni contro le presenze sempre più arroganti delle formazioni fasciste. Chiediamo che Prefetto e sindaco dimostrino che gli atti delle istituzioni sono motivati, più che da contingenze di ordine pubblico, da una salda fedeltà all'antifascismo della Costituzione».

il manifesto, 15 febbraio 2018. Un progetto pilota per evitare le multe per l'inquinamento atmosferico dopo gli scandali dell'industria che prometteva misura «alternative» antinquinamento. (m.p.r.)

Trasporto pubblico gratuito per fermare l’inquinamento atmosferico e scongiurare le multe di Bruxelles. È la proposta (sul modello di Tallinn) inserita nella lettera inviata martedì dal governo alla Commissione europea e diffusa ieri da Deutsche Welle.

Un progetto pilota innovativo da attivare - per il momento - solo nelle città di Essen, Bonn, Mannheim, Reutlingen e a Herrenberg, a Sud di Stoccarda. I sindaci del «campione» selezionato cadono (felici) dalle nuvole, ma le aziende di trasporto avvertono delle criticità del piano: non ci sono i bus, e la mobilità ticket-free costa circa 12 miliardi di euro all’anno. «Non siamo ancora in fase di pianificazione, il governo mi ha informato delle linee-guida solamente nel fine-settimana, però sono contento della notizia» è la reazione del borgomastro dell’ex capitale della Germania-Ovest.

Come lui, la lettera al commissario Ue Karmenu Vella firmata dalla ministra dell’ambiente Barbara Hendricks, dal titolare dell’agricoltura Christian Schmidt e dal capo della cancelleria Peter Altmaier, ha sorpreso tutti i municipi interessati. Molto meno chi a Berlino comprende la necessità di disattivare, prima possibile, la procedura di infrazione per eccesso di emissioni inquinanti.

Nella missiva spedita a Bruxelles è prevista, in parallelo anche l’istituzione di «zone a bassa emissione» per veicoli di grandi dimensioni, così come l’aumento dei taxi elettrici e degli incentivi ai mezzi eco-compatibili. Tuttavia emerge – prima di ogni altra – la difficoltà logistico-strutturale alla base dell’ambizioso progetto. L’organizzazione delle società di trasporto tedesche (Vdv) ammette senza mezzi termini: «Non conosciamo nessun produttore in grado di fornire così tanti bus elettrici con questo breve preavviso. Neppure quanto il trasporto gratuito peserà, davvero, sulle casse delle nostre aziende» riassume il portavoce di Vdv. La stima «spannometrica» è comunque impressionante: una dozzina di miliardi annui.

Ma vale comunque la pena, soprattutto alla luce della «minaccia» incombente dal tribunale amministrativo di Lipsia, che sta prendendo in considerazione il divieto di circolazione per le auto diesel. Il verdetto dei giudici è previsto per il 22 febbraio e potrebbe portare al blocco totale senza se o con pochi ma: ambulanze, autobus, smaltimento-rifiuti. Gli altri, dai pendolari ai consegnatari delle merci al dettaglio, potrebbero doversi adattare da un giorno all’altro alla nuova mobilità sostenibile.

Un'accelerazione di certo dovuta agli scandali dell’industria automobilistica nazionale, ma anche alla necessità di centrare il target climatico di Europa 2020, nell’evidenza che le misure «alternative» suggerite dai costruttori non reggono la svolta intrapresa con gli accordi della Cop di Bonn. Nessun retrofit degli attuali Diesel appare davvero sostenibile, anche politicamente, dopo il caso delle cavie umane utilizzate nei test sui motori Vw, Bmw e Mercedes.

Mentre non procede come dovrebbe l’annunciata de-carbonizzazione della Repubblica federale, che a Est dipende in tutto e per tutto ancora dall’energia fossile. Da qui il trasporto gratuito nelle città tedesche più inquinate, anche in assenza di un progetto da squadernare in dettaglio. «Avremmo una o due idee da proporre, dal momento che abbiamo lavorato su questo tema per diverso tempo» tiene a precisare il sindaco Cdu di Bonn, Ashok-Alexander Sridharan.

Per ora, però, l'analisi più attendibile sembra quella di Oded Cats, esperto di traffico intervistato ieri da Dw: «L’effetto immediato di replicare ciò che è stato sperimentato a Tallinn è piccolo perché i vantaggi si scorgono a lungo termine. Dopo un paio di anni l’aumento di viaggiatori nei mezzi pubblici si aggira sul 14%» spiega Cats. Ma non sono tutti automobilisti: «Per la maggior parte si tratta di persone che prima camminavano e adesso prendono il bus». Per questo secondo Cats il piano ticket-free è positivo ma la misura risulterebbe più efficace aumentando, al contempo, anche il «prezzo d’utilizzo» del mezzo privato. «Facendo in modo, cioè, che gli automobilisti paghino l’inquinamento atmosferico e la congestione delle strade con i costi di parcheggio e le tasse sul carburante».

Casa della cultura Milano. Un intervento, e insieme un passo avanti nel dibattito aperto dalla presentazione critica del filosofo dell'urbanistica Francesco Ventura a un prezioso volume curato da Anna Marson sulla sua esperienza sul paesaggio della Toscana

Un testo è sempre definito e ridefinito dalle relazioni che instaura con i lettori. Nella scrittura dei piani si è guidati da chi si immagina che possa leggerli e dai modi in cui è probabile che li si legga. Dal "lettore ideale" disposto a diventare "cittadino ideale" nella lettura di Geddes proposta da Ferraro (1998), a chi si accosta ai piani in modo discontinuo e frammentario, in arene dove si lotta per imporre il proprio punto di vista o in uffici nei quali ci si occupa dell'attuazione di singole parti. Nella scrittura dei piani, spesso si usa una prosa difensiva, per evitare di segnalare incertezze o rischi riguardo al futuro. Nei testi dei piani, i pubblici non saranno mai volubili e miopi, i leader mai confusi e incerti, le burocrazie mai incompetenti o ignoranti (Mandelbaum 1990).

Il libro curato da Anna Marson - La struttura del paesaggio. Una sperimentazione multidisciplinare per il Piano della Toscana (Laterza, 2016) - non è stato scritto così, perché ha un intento diverso. Il volume, come espresso con chiarezza dalla curatrice nelle note introduttive, «approfondisce, attraverso una serie di contributi originali scritti appositamente (…), i metodi impiegati per leggere il paesaggio e le tecniche messe al lavoro nel complesso percorso di costruzione del piano paesaggistico della Toscana». Sollevando problemi, ponendo domande, affidando a più voci di diversa matrice disciplinare la ricostruzione di un percorso "faticoso e avvincente", che ha coinvolto studiosi delle cinque principali Università toscane afferenti al Centro Interuniversitario di Scienze del Territorio (CIST), il libro induce a (tornare a) leggere il piano paesaggistico della Toscana in modo riflessivo, con un atteggiamento aperto al confronto e all'apprendimento. Coerentemente con l'intento dichiarato e rimarcato dal sottotitolo, il volume offre molte suggestioni e utili indicazioni a chiunque vi si accosti con la curiosità di ricercatori e professionisti interessati a comprendere come tale percorso si sia sviluppato nella pratica: come, nella sperimentazione multidisciplinare che lo ha connotato, ci si sia misurati con il carattere polisemico e sfuggente del concetto di paesaggio, come si siano fatti interagire e convergere differenti linguaggi, chiavi di lettura, metodi di analisi, e quali esiti, inevitabilmente parziali, provvisori, incerti, si siano conseguiti.

Non è possibile rendere conto in poche righe della ricchezza e profondità dei temi affrontati nei 19 saggi raccolti nel volume. All'ampia Introduzione della curatrice, seguono i saggi di Paolo Baldeschi, responsabile scientifico degli studi affidati al CIST, e di Ilaria Agostini e Claudio Greppi. Questi forniscono prospettive ed elementi interpretativi utili a comprendere il contesto entro il quale si sono sviluppate alcune fondamentali scelte del piano: nel primo contributo sono indagati i fattori culturali, politico-istituzionali e socio-economici che, sin dalla seconda metà degli 1980, hanno favorito la progressiva maturazione in Toscana dell'interpretazione identitaria e strutturale del territorio che caratterizza il piano di indirizzo territoriale con valenza di piano paesaggistico: dal piano regolatore generale di Siena di Bernardo Secchi ai piani territoriali di coordinamento delle province di Firenze, Siena, Arezzo e Prato ai quali partecipa il Dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio della Università di Firenze (da Cusmano a Di Pietro, a Magnaghi); il secondo contributo rende conto della pluralità di criteri e approcci sui quali si è fondata la delimitazione degli ambiti di paesaggio richiesta dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. Il cuore del volume è costituito da 14 testi scritti da studiose e studiosi di matrice disciplinare diversa, impegnati nella ricostruzione dei processi di territorializzazione, nella indagine sulle forme di rappresentazione del paesaggio, nella analisi strutturale del territorio, e nella definizione di alcuni strumenti essenziali per garantire l'operatività del piano. Ciascun saggio restituisce le premesse e contenuti salienti del lavoro di indagine, facendo emergere il terreno comune di confronto metodologico, analitico e progettuale con gli altri saperi.

Il volume è chiuso da due Postfazioni affidate ad autori esterni al gruppo di lavoro: Salvatore Settis e Bas Pedroli. I loro contributi consentono di allargare l'angolo visuale e di osservare il piano paesaggistico toscano, nel primo caso, alla luce delle difficili convergenze ricercate nella stesura del Codice dei beni culturali e del paesaggio fra Stato titolare del vincolo paesaggistico e Regioni titolari della pianificazione; nel secondo caso, in relazione agli elementi di innovazione che il piano stesso esprime quando posto a confronto con le esperienze in atto in altri paesi europei.

Nelle righe che seguono proverò a enucleare alcuni spunti di riflessione, necessariamente limitati e parziali, fra i tanti suscitati dalla lettura del volume.

Innovazioni problematiche

I 'nuovi' piani paesaggistici previsti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio si misurano con innovazioni rilevanti introdotte dalla Convenzione europea del paesaggio e dal Codice stesso. Essi dovrebbero favorire il superamento di un approccio alla tutela del paesaggio essenzialmente affidato ai vincoli imposti per legge o per decreto su parti di territorio sottoposte a uno speciale regime autorizzativo che ha finito per far prevalere la componente burocratico-amministrativa su ogni altra prospettiva. Un approccio che ha dimostrato tutti i suoi limiti di efficacia, fino al punto da rendere non sempre facilmente distinguibili i paesaggi protetti da tutti gli altri. L'evoluzione normativa ha determinato un mutamento d'identità dell'interesse paesaggistico. Ora riferimento essenziale è il "paesaggio", e non il bene paesaggistico - argomentano Marzuoli e Vettori. Il Codice, pur mantenendo la distinzione fra paesaggio e beni paesaggistici, attribuisce priorità alla pianificazione (Settis, p. 275) e, in accordo con la Convenzione europea del paesaggio, richiede che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono.

Tale prospettiva pone alcuni problemi, ai quali opportunamente l'introduzione della curatrice dedica ampio spazio. Fra questi, il sovraccarico di compiti che grava sui piani paesaggistici regionali, dovuto sia alla mancanza di politiche pubbliche in materia di paesaggio sia alle resistenze, all'incapacità o alla scarsa abitudine a integrare il paesaggio nelle altre politiche che su di esso possono avere un'incidenza diretta o indiretta. Una siffatta integrazione è esplicitamente richiesta dalla Convenzione europea del paesaggio, che non manca di indicare in modo puntuale le materie nelle quali le parti si impegnano a garantirla: politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e (…) quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico (art. 5d).

La grande distanza che separa i principi stabiliti dalla Convenzione europea del paesaggio e le politiche messe in opera nei diversi settori che incidono sulle trasformazioni del paesaggio - argomenta Marson - è un problema che riguarda sicuramente l'Italia, ma non solo. Lentezze, difficoltà, incertezze, riluttanza nell'attuazione della Convenzione europea del paesaggio sono osservabili in molti stati e regioni d'Europa (Pedroli). D'altra parte, l'attenzione al paesaggio è carente anche nelle politiche comunitarie che maggiormente incidono sulla realtà del territorio e dell'ambiente rappresentata nel paesaggio. Si pensi, fra tutte, alle politiche in materia di agricoltura e ambiente, nelle quali l'Unione Europea esercita competenza concorrente con quelle degli Stati membri, e dunque legifera e adotta atti giuridicamente vincolanti. Promuovere ricerche che indaghino in modo sistematico e approfondito le trasformazioni del territorio e del paesaggio generate direttamente e indirettamente dalla combinazione di strumenti e politiche settoriali, fornirebbe elementi utili per individuare le azioni, gli attori e le risorse necessarie per tutelare, valorizzare e riqualificare i paesaggi e riflettere con maggiore consapevolezza su potenzialità e limiti di efficacia dei nuovi piani paesaggistici.

Leggere, interpretare e rappresentare il paesaggio

Le domande con le quali si è dovuto misurare il gruppo di ricerca nella elaborazione del piano paesaggistico, sollevate dalla curatrice in vari paragrafi della sua introduzione, costituiscono filo conduttore che connette la gran parte dei contributi scientifici raccolti nel volume. Per questo meritano di essere largamente riportate. «Come affrontare (…) una lettura del paesaggio non solo estetico-percettiva, e dunque esposta ai rischi dell'apprezzamento soggettivo e datato, ma capace di indagare le relazioni strutturali alla base dei paesaggi che noi vediamo? Come individuare gli ambiti di paesaggio? Come passare dalla lettura alla scala regionale a quella di maggiore dettaglio degli ambiti? Come rapportarsi alle dinamiche di lungo periodo, e alle trasformazioni in corso? Come impostare una cornice normativa in grado di tenere insieme disciplina dei vincoli e disciplina di tutto il territorio regionale?».

Sono domande ineludibili per affrontare in maniera consapevole le sfide poste dalla Convenzione e dal Codice. Questi obbligano ad allargare lo sguardo dal singolo bene al contesto, cogliendo le interdipendenze che legano fattori naturali e umani; a estendere l'attenzione all'intero territorio regionale e, allo stesso tempo, a puntarla sulla varietà di paesaggi nei quali esso si articola (a partire dagli ambiti di paesaggio); a interrogare i tempi lunghi della storia ricercandovi persistenze e permanenze ma anche discontinuità e brusche fratture.

Gli approfondimenti concettuali e i chiarimenti metodologici offerti dai saggi che compongono il volume permettono di dare risposte non generiche a queste domande. Questo - mi pare di poter sostenere - grazie a due concomitanti condizioni. Da un lato, la tensione progettuale, e la conseguente ricerca dell'unitarietà dell'atto culturale e operativo funzionale alla costruzione del piano, non ha comportato la rinuncia dei ricercatori all'utilizzo dei propri specifici strumenti disciplinari. Dall'altro lato, l'aver saldamente 'situato' concetti e metodi nel percorso di elaborazione del piano ha consentito di valorizzare la specificità delle diverse discipline, costringendole però, nello stesso tempo, a interagire in maniera profonda. Le rappresentazioni del territorio e del paesaggio, purtroppo drasticamente selezionate per la pubblicazione, sono di grande importanza a tal fine. Il metodo adottato ha fatto sì che esse agissero "in arene interattive in cui i diversi approcci disciplinari si confrontano". La stessa efficacia delle rappresentazioni è stata misurata in base alla capacità di "rendere possibile il dialogo fra diversi paradigmi descrittivi" (Lucchesi, p. 103).

Nonostante il carattere 'situato' della sperimentazione, le innovazioni proposte assumono valenza più generale, inducendo a riflettere sull'esperienza chi si sia già cimentato o si stia ancora cimentando in Italia con gli specifici profili della pianificazione paesaggistica delineati dal Codice, e rivelandosi di notevole utilità anche nel panorama europeo, come è testimoniato dal contributo di Pedroli. Questa valenza più generale si manifesta nonostante il carattere singolare dell'esperienza di pianificazione toscana, evidenziato soprattutto da Baldeschi: non solo per gli accennati precedenti ai quali si è potuta ancorare l'interpretazione strutturale e identitaria del territorio alla base del piano, ma anche per l'eccezionalità della situazione politica entro la quale l'esperienza è maturata.

Il territorio, per troppo tempo ridotto a spazio muto, inanimato, attraverso la trasformazione in paesaggio, vuole tornare a parlare, soprattutto ai suoi abitanti. Da oggetto, esso diventa "soggetto" nello scritto di Paolo Baldeschi, "neoecosistema ad alta complessità" nel saggio di Magnaghi. In entrambi i casi è interpretato come sistema vivente che si trasforma, evolve continuamente e necessita di cura costante. L'approccio strutturale alla conoscenza del paesaggio consente di coglierne la dinamica complessiva e le regole generative e coevolutive nella longue durée, e di intendere le "invarianti strutturali" - attinenti ai caratteri idro-geo-morfologici, ai caratteri ecosistemici dei paesaggi, al carattere policentrico e reticolare dei sistemi insediativi, ai caratteri morfotipologici dei sistemi agroambientali dei paesaggi rurali - non quali oggetti di valore eccezionale ma quali regole (spesso non scritte) riconosciute grazie alla interpretazione dei caratteri delle invarianti, e da seguire nelle trasformazioni ordinarie del territorio-paesaggio per conservarne o elevarne la qualità. L'approccio strutturale rompe l'isolamento nel quale i beni paesaggistici erano stati per lungo tempo confinati e favorisce un dialogo, che richiede ancora approfondimento e sperimentazione, fra quelle limitate, speciali parti territorio che si cercava (e si cerca) di difendere mediante i vincoli, e il contesto territoriale nel quale esse sono inserite, che inevitabilmente condiziona ogni possibilità di tutelarle e valorizzarle.

Fonti documentarie, bibliografiche, cartografiche, iconografiche sono state interrogate con ampiezza e profondità nel percorso di costruzione del piano per mettere in relazione passato e futuro, storia e progetto, per indagare le capacità dei territori di autoprodurre legami profondi fra popolazioni, attività e luoghi e le ragioni della perdita di qualità relazionali. Questa interrogazione delle fonti, nell'elaborazione dei piani svolta (e di rado) senza alcun rigore, è stata affidata a contributi specialistici: dall'indagine geostorica di Anna Guarducci e Leonardo Rombai, alla ricostruzione storico-archeologica di Franco Cambi e Federico Salzotti, alla ricerca storico-artistica di Valeria E. Genovese. Tratto comune di questi contributi è l'ampiezza e profondità della prospettiva spazio-temporale assunta per indagare i paesaggi, e la capacità di sottrarre l'analisi a ogni logica enumerativa, classificatoria, 'filatelica', che porta a concentrarsi sui singoli oggetti isolandoli dal contesto che li ha prodotti e con il quale essi intimamente interagiscono.

Il tema della rappresentazione del paesaggio occupa uno spazio cospicuo nel volume. Alle rappresentazioni non sono affidate solo funzioni attinenti alla sfera tecnica. Ad esse è assegnata anche una essenziale funzione culturale e sociale. La cartografia e l'iconografia del paesaggio partecipano alla costruzione del 'racconto' che il piano ha bisogno di creare per diventare patrimonio collettivo. Un racconto che invita a rileggere con sguardo critico i paesaggi contemporanei e con sguardo curioso i paesaggi storici, a scoprire paesaggi perduti e paesaggi che resistono ma che l'abitudine, l'indifferenza e la colonizzazione delle menti impediscono di riconoscere nella loro complessità di relazioni spazio-temporali. Un racconto che persuade a ricercare nelle regole statutarie messe in luce dalle rappresentazioni del piano la strada per produrre nuovi paesaggi di qualità.

La rappresentazione cartografica del paesaggio riveste un ruolo cruciale per indagarne e comunicarne caratteri, dinamiche, relazioni. La sfida, in un atto pubblico qual è un piano, consiste nella capacità di mostrare "attraverso la cartografia i caratteri del paesaggio (insieme: la sua evidenza fenomenologica e le regole che lo strutturano) (…), senza allontanarsi dal rigore della topografia e della costruzione metodica dei materiali descrittivi." (Lucchesi, p. 102). Per la ricerca sulla iconografia del paesaggio, la sfida è raggiungere l'obiettivo "di trasmettere con efficacia la conoscenza dei processi trasformativi che generano i diversi paesaggi regionali, di educare a una lettura consapevole del paesaggio in cui si vive, di immaginare con maggiore competenza e sensibilità i successivi passi del processo paesaggistico in ineludibile rapporto con il pregresso" (Genovese, p.114).

La sperimentazione delle norme figurate, della quale rende conto il contributo di Poli e Valentini evidenziandone le specificità rispetto ad altre esperienze italiane ed europee, mira a rafforzare la funzione euristica, argomentativa e orientativa della norma scritta, senza incidere sulla sua valenza prescrittiva e senza pretendere, come in altre stagioni di pianificazione, di proporre modelli e prefigurare soluzioni progettuali.

L'efficacia di un piano dipende - ci ricorda Massimo Morisi nel suo saggio - da molteplici circostanze esogene e dalla sua genesi, ed è legata alla legittimazione che al piano stesso è conferita dal contesto politico e culturale. L'osservatorio regionale del paesaggio previsto dal Codice può acquisire un ruolo cruciale nella messa in opera del piano, quale snodo tra rappresentanza politica e partecipazione civica ai fini dell'effettività del piano stesso. Questo, purché l'osservatorio sia concepito non come «un mero ufficio regionale» e «un'apposita etichetta burocratica» ma come struttura aperta e dinamica le cui funzioni e attività traggano alimento e vitalità da «una pluralità di osservatori locali con esso funzionalmente e organizzativamente interrelati». Ritengo che a tale sistema di osservatori dovrebbe essere affidato soprattutto il compito di attivare quella «conoscenza affettiva» del paesaggio che, partecipata e condivisa, maggiormente collabora alla sua tutela e alla sua progettazione rispettosa" (Genovese p. 126). Carlo Donolo, che ha dedicato gran parte del suo percorso di ricerca allo studio dei beni comuni, ci ha fatto comprendere a fondo l'importanza di questo compito e il ruolo cruciale delle istituzioni, usando anche espressioni forti per essere meglio compreso da un pubblico vasto: «solo la (…) condivisione garantisce [ai beni comuni] la riproduzione allargata nel tempo. La rilevanza dell'aggettivo "comune" viene enfatizzata dal dato di fatto che i processi dominanti oggi a livello locale e globale sono invece centrati su appropriazione, privatizzazione e sottrazione alla fruizione condivisa di tantissimi di questi beni. Da qui l'inevitabile conflitto sullo statuto dei beni comuni, un tema questo che - tanto per capirci - ha oggi lo stesso rilievo che potevano avere a metà Ottocento la lotta di classe e il socialismo» (Donolo 2011).

Una sfida di tale portata non può certamente essere affrontata restando intrappolati nei recinti della gestione burocratico-amministrativa dei beni paesaggistici o di un governo del territorio essenzialmente affidato a strumenti regolativi. Essa richiede forme di gestione attiva del paesaggio, capaci di mobilitare una pluralità di conoscenze, progettualità, risorse e attori in iniziative di tutela, valorizzazione e riqualificazione differenziate, che esaltino le specificità di ciascun paesaggio e si integrino strettamente alle politiche di sviluppo locale.

Riferimenti bibliografici Carlo Donolo, I beni comuni presi sul serio, 31 maggio 2010. Editoriale per labsus - il laboratorio per la sussidiarietà (www.labsus.org)
Ferraro, G. (1998)
Rieducazione alla speranza. Patrick Geddes planner in India, 1914-1924, Jaca Book, Milano.
Mandelbaum, S. J. (1990)
Reading plans. "Journal of the American Association", 56, 350-356.


l'articolo di Angela Barbanente e i testi di Francesco Ventura e di Anna Marson sono tutti raggiungibili qui, nel sito della Casa della cultura di Milano

Laboratoriooccupato Morion, 13 febbraio 2018. I motivi e le ragioni della chiamata a raccolta per il presidio cittadino antifascista di oggi. Parole di equilibrio dal centro sociale di Venezia. Solo tutti assieme si sconfigge la violenza. (m.p.r.)

Chiudiamo una volta per tutte le porte della città all'odio.


CI VEDIAMO DOMENICA 18 ALLE 14 DAVANTI ALLA STAZIONE per dar vita a una grande piazza antifascista e antirazzista e allontanare Forza Nuova dalla nostra città.


Sabato scorso a Macerata è andata in scena una grande manifestazione, dove 30.000 persone hanno dato la migliore risposta possibile ad un attentato terroristico di matrice fascista, razzista e sessista. Lo hanno fatto da donne e uomini liberi, non solo contro la destra, ma nonostante tanti partiti, sindacati ed associazioni del centrosinistra abbiano tentato di boicottare quella piazza per mero calcolo elettorale. Sono stati sconfessati dalla loro stessa base che, assieme ai movimenti, ha invaso pacificamente Macerata, regalando gioia, energia ed una boccata d'ossigeno per chi cominciava a sentirsi stretto tra l'odio neofascista e l'indecenza delle istituzioni.

E' necessario che lo spirito di Macerata viva in ogni città, compresa la nostra. Dire no al terrorismo fascista a Venezia significa prima di tutto non accettare che la nostra città venga utilizzata come sfondo dalla propaganda di chi proclama l'odio razziale, la soppressione violenta di ogni diversità etnica, culturale, di genere e auspica il ritorno dei pogrom.

Luca Traini non è, come tutto l'arco istituzionale si è affrettato ad indicare, un folle. Se i partiti balbettano per calcolo elettorale, per timore di perdere consensi nella "pancia del paese", a tutte e tutti noi, tocca invece il compito di dire la verità. Luca Traini è un terrorista fascista. Se, di fronte a questa evidenza, Berlusconi e Salvini soffiano sul fuoco dando la colpa all'immigrazione, c'è addirittura un partito che ha apertamente dichiarato di stare dalla parte dello sparatore, di sposarne le ragioni, di voler sostenere le sue spese legali, di avvallare l'inaccettabile sessismo implicito nel volere presentare quell'azione come reazione al probabile omicidio di Pamela. Pamela che così è offesa due volte, prima da chi l'ha uccisa e martoriata, poi da chi la usa come scusa per un'aggressione razzista nel confronti di persone totalmente innocenti.

Il partito in questione è Forza Nuova che ha così definitivamente gettato la maschera rivelandosi per quello che è, un'organizzazione in nulla differente da quei gruppi di fanatici islamisti che si felicitano quanto un terrorista radicalizzato si lancia con un camion sulla folla del lungomare. Forza Nuova sarebbe felice di una strage in una moschea a firma di un gruppo neofascista, tanto quanto lo Stato Islamico si felicita di un omicidio di massa in una sala da concerto nel cuore dell'Europa.

Purtroppo non stiamo drammatizzando, l'ondata neofascista non è più un fenomeno minoritario, ma avanza in tutta Europa con ambizioni di governo. E' molto probabile che dopo il quattro marzo siederanno al Parlamento, per la prima volta dalla Liberazione, dei deputati apertamente fascisti.

Di fronte a questa follia l'argine istituzionale è saltato, il rifiuto del fascismo non è più una precondizione alla vita democratica, ma una variabile da giocarsi a seconda del calcolo elettorale. Ciò significa che l'antifascismo non è più delegabile alle autorità, non basta richiamarsi alla carta costituzionale, nessun democratico può sentirsi dispensato dalla necessità di ricostruire una cultura di un nuovo antifascismo all'altezza dei tempi.

Un nuovo antifascismo popolare, questo deve nascere, e può nascere a partire dalle città. Può nascere da quei luoghi che più di altri hanno fondato le loro fortune sull'apertura verso il mondo, che hanno creato le proprie ricchezze economiche e culturali sul meticciato, che hanno costruito modelli sociali vincenti a partire dal confronto continuo tra differenze, tramutando la paura dell'altro in forza comune.

Eppure oggi la risposta più semplice alla crisi è il razzismo, è la guerra tra poveri. Nessuna città è più al sicuro e questo vale anche per Venezia. Non basta più la sua storia cosmopolita a tenerla al riparo. Sono anni che le formazioni neofasciste provano a radicarsi qui, già forti di un consenso storico in alcune aree della regione. Da anni i movimenti sono impegnati nella lotta per impedire che questo radicamento avvenga, che la cultura dell'odio trovi uno spazietto, magari piccolo, ma prezioso, per attecchire anche da noi.

Dunque noi proponiamo di aprire una campagna permanente per riaffermare il primato dell'antifascismo. Una campagna aperta ai singoli e alle organizzazioni dove ognuno, secondo la proprie possibilità e sensibilità, si impegni nella promozione di una cultura democratica e nella vigilanza contro le manifestazioni di fascismo nel nostro territorio. C'è bisogno di tutti e a tutti dobbiamo parlare, abbandonando le nostre certezze, ripensando pratiche, linguaggi, immaginari.
C'è bisogno dei giovani che in troppi casi incominciano ad incanalare la rabbia generazionale in pulsioni razziste ed identitarie. C'è bisogno delle donne e dei generi non conformi che oggi devono battersi contro rigurgiti di sessismo e patriarcato. C'è bisogno dei migranti che sono il capro espiatorio di una crisi che ha a che fare non tanto con loro, ma con la mancanza di giustizia sociale e con l'aumento del divario di reddito tra ricchi e poveri.

C'è bisogno degli antirazzisti che fanno un lavoro incredibile su territori (geografici e digitali) spazzati dal vento della xenofobia. C'è bisogno del mondo della cultura e della ricerca, in parte destrutturato dal pensiero unico neoliberale, in parte assopito e autoreferenziale, spesso solerte nel fornire lezioni di politicamente corretto, raramente pronto a mettere in discussione le proprie certezze e dunque a ritrovare un ruolo sociale oltre l'autoconservazione. C'è bisogno persino di quelle organizzazioni e di quei sindacati che non hanno svenduto la propria azione al mero calcolo elettorale, la crisi della rappresentanza dipende anche dal prolungato e sistematico abbandono del terreno dell'antifascismo. C'è bisogno dei ceti popolari, impoveriti e invitati a scagliarsi contro altri poveri piuttosto che contro i responsabili effettivi delle loro condizioni.
C'è bisogno dei ceti medi democratici e dei lavoratori autonomi, impoveriti anch'essi, individualizzati e a volte intrappolati in una sindrome da "anime belle", involontari favoreggiatori dei neofascismi a colpi di citazione di Voltaire. C'è bisogno degli imprenditori, non certo di quelli che sfruttano e dequalificano il lavoro o di quelli che hanno deciso di giocare sui tavoli della finanza globale, ma di quelli intenzionati (come un tempo) a coniugare profitto e giustizia sociale, impresa e cultura democratica, investimento e filantropia. C'è bisogno di quelle organizzazioni religiose che fanno dell'ecumenismo, della pace e dell'accoglienza degna altrettanti pilastri della loro fede.
Crediamo, infine che ci sia anche bisogno di noi, dei centri sociali, dei comitati, dei collettivi, di noi che non abbiamo mai abbandonato l'antifascismo, ma che oggi dobbiamo certamente ripensarlo alla luce di una critica delle nostre convinzioni. Non vogliamo rinunciare alla radicalità, ma questa non vive se non inserita all'interno di un tessuto rinnovato di relazioni, di dialogo e di pratiche con chi è diverso da noi, ma che con noi condivide un'impostazione antifascista.
Cominciamo da Venezia, facciamo circolare questo appello per costruire una campagna permanente che prima di tutto dica no all'accoglienza di manifestazioni favorevoli al terrorismo fascista e che poi sfoci in momenti pubblici, costituenti di un nuovo tessuto di antifascismo culturale e popolare.
Riaffermare la connotazione di Venezia come città democratica dipende da tutte e tutti noi!

Domenica 18 Forza Nuova sarà a Venezia. È compito nostro far sì che ciò non avvenga mettendo in campo tutte le anime antifasciste di questa città.

Qui la versione originale dell'appello con tutte le adesioni alla manifestazione

Venezia, 16 febbraio ore 17.30., Sala S. Leonardo. Assemblea pubblica organizzata da Potere al Popolo per discutere le lotte sui territori e le loro ragioni.

La questione ambientale è al centro di continue vertenze. È amplificata da un modello sviluppista predatorio, che impoverisce le generazioni future mettendo a rischio il pianeta.

L’avidità, la bramosia compulsiva dei più ricchi e dei loro interessi, alimenta la megamacchina produttiva termo-industriale. Per aumentare a dismisura inutili consumi stiamo condannando gli ecosistemi alla morte. Si susseguono decisioni scellerate che impattano con i fragili equilibri dei territori senza produrre occupazione e noi a Venezia rischiamo di essere la cavia da sperimentazione.
Logiche insensate polverizzano la socialità delle città rendendo difficile abitarle e viverle. Vengono private di quelle opere di rinnovamento e manutentorie così necessarie a un buon vivere, per privilegiare le grandi opere che si realizzano senza una verifica collettiva di utilità sociale e compatibilità ambientale. Questa è stata la logica che ha prodotto a Venezia il MoSE e che sostiene le GRANDI NAVI all’interno della laguna.

Nel generale contesto politico, desolante perché simile nei metodi con il quale si autoripropone e spesso anche nei contenuti, Potere al Popolo è la proposta di chi ha deciso che è giunto il momento di sfidare le Istituzioni.
Movimenti, associazioni, comitati sono i veri protagonisti delle lotte per la tutela dell’ambiente e del territorio e a favore delle vite di coloro che vi abitano. In questi anni, hanno accumulato saperi e capacità di progettazione.
Potere al popolo Venezia invita a portare le istanze di comitati, movimenti e associazioni.

Venezia, 15 Febbraio 2018 alle 17,30 in sala San Leonardo, un incontro sul tema della difesa del patrimonio pubblico e dei beni collettivi e la loro massiccia privatizzazione in corso. Organizzata da Poveglia per Tutti, l'Antico Teatro Anatomico di Anatomia-Vida, e il gruppo formatosi a partire dall'istanza dell'area ex-gasometri.

Questa iniziativa pubblica partecipata dalle varie realtà associativa della città segna l'inizio di un percorso di riunificazione del ricchissimo tessuto collettivo e sociale di Venezia intorno a temi di urgente rilevanza per la città tutta. Un primo passo, con l'obiettivo di costruire un sentire comune, sarà perciò una riflessione collettiva sul massiccio processo di privatizzazione del patrimonio pubblico, in ogni sua possibile forma: spazi acquei, isole, suolo pubblico, beni immobili, spazi comuni.

Le molte ragioni per cui la decisione dell'immobiliarista-sindaco Brugnaro di collocare un palasport e un albergo all'imbocco del ponte per Venezia è un errore strategico

La necessità di localizzare, progettare e costruire un nuovo palazzetto sportivo per 5.000 persone (minimo richiesto dalla federazione della pallacanestro) e per eventi ripropone la necessità della pianificazione urbanistica a Mestre. Una grande attrezzatura pubblica che polarizza le funzioni urbane si deve localizzare avendo una visione territoriale strategica. Il problema era stato posto in passato e affrontato in modo corretto, a proposito di un analoga infrastruttura: il nuovo ospedale di Mestre.

Già nel 1988 la localizzazione del nuovo ospedale - prima progettato dalla giunta di sinistra sopra e al posto del Bosco di Mestre (l’ultimo residuo della foresta planiziale), poi riproposto dalla giunta di centro destra presso il margine della Laguna) - fu decisa dalla giunta rosso-verde valutando tre alternative (a nord presso il Bosco, a est verso la Laguna e a ovest verso l’entroterra con una nuova fermata lungo la linea ferroviaria): quest’ultima venne approvata all’unanimità dal consiglio comunale e i terreni acquistati a prezzo agricolo e successiva variante urbanistica.

Ora si pone un problema analogo, ma la proposta dell’amministrazione ha una natura, una logica e dei moventi radicalmente diversi. L’imprenditore Brugnaro (poi diventato sindaco) aveva acquistato nel 2006 un grande terreno prodotto da un imbonimento di una porzione consistente (42 ettari) della Laguna denominato “ai Pili”, che era stato dismesso dal demanio statale e acquisito dall’allora imprenditore Brugnaro per una cifra molto contenuta (5 mln €), proprio perché gravemente inquinato da residui industriali). Il sindaco di allora Cacciari, non capì l’importanza di acquisire la “Porta di Venezia” e rinunciò ad esercitare, come avrebbe potuto, il diritto di prelazione.

Oggi il sindaco Brugnaro propone di costruire proprio sui terreni da lui stesso acquisiti come imprenditore al prezzo surriportato un Palazzo per lo sport e per eventi per 15.000 persone con altre lucrose attività connesse.

L’area dei Pili è collocata a Sud-Ovest dell’ingresso del Ponte della Libertà. A Nord-Ovest, in margine della Laguna. Nell’area di gronda a fianco nel 1990 la giunta rosso-verde ha avviato la realizzazione del grande parco di S.Giuliano affacciato sulla laguna; il Piano paesaggistico ambientale (PALAV), con norme in salvaguardia dal 1986 approvate nel 1995, ha vincolato l’area della “Porta di Venezia” come “Area di interesse paesistico ambientale con previsioni urbanistiche vigenti confermate” dove deve essere “verificata la compatibilità delle nuove realizzazioni con l’ambiente naturale”.

Ma una variante al PRG adottata nel 1999 (giunta Cacciari, ass. D’Agostino) approvata nel 2004 destina l’area a Verde Urbano Attrezzato con moltissime funzioni (anche ricettive) e un indice di edificabilità territoriale molto alto (0,5 mq/mq).

Il Piano di Assetto del Territorio (PAT) adottato nel 2012 e approvato nel 2014 (Giunta Orsoni ass. Micelli) conferma queste funzioni e questi indici (respingendone la riduzione proposta dal M5S).

L’associazione Venezia Cambia ha proposto per il nuovo Piano degli Interventi la destinazione dell’area dei Pili a “parco di servizio pubblico, ad elevata caratterizzazione naturale … nelle aree di affaccio sulla laguna va ammessa la possibilità di inserimento di funzioni aggiuntive sportive-ricreative, ma solo all'aria aperta (senza volumi)” ma la discussione in Consiglio Comunale dal settembre 2017 ad oggi è stata sempre rinviata.

Sulla proposta del sindaco Brugnaro di realizzare il Palazzo da 15.000 utenti con altri edifici annessi sui suoi terreni è ovviamente divampata una accesa polemica, che innanzitutto evidenzia il suo conflitto di interessi.

Ma sulla proposta non possono bastare le sole verifiche specifiche:

1) verifica del coinvolgimento dell’area sul vincolo di rischio rilevante (legge Seveso)

2) verifica della mancata messa in sicurezza del suolo con dilavamento delle acque radioattive e di mancato trattamento delle falde sotterranee, (deve intervenire il Ministero dell’Ambiente che però non risponde alle interpellanze e l’Avvocatura di stato per dirimere il contenzioso economico), necessità di una bonifica complessa e molto onerosa.

3) verifica della incompatibilità urbanistica e paesaggistica (con PAT e PALAV); nel verde urbano (sia pur attrezzato) non si può fare un palazzo per sport ed eventi per 10.000-15.000 persone: occorrerebbe una variante urbanistica, approvata dalla maggioranza, che moltiplicherebbe il valore del terreno del sindaco di 30-40 volte legalizzando una enorme speculazione (a meno che il sindaco non ceda i terreni al Comune al prezzo di acquisto).

4) comunque è assurdo variare proprio l’affaccio alla gronda lagunare previsto a Verde fin dal progetto del Parco di S.Giuliano portandovi una grande attrezzatura con altre strutture a fianco: in rispetto del PALAV comunque occorre avere l’approvazione della Soprintendenza per gli aspetti paesaggistici e ambientali.

5) un ulteriore grave problema da affrontare è l’accessibilità: non si può congestionare al massimo proprio l’accesso a Venezia, oltre a tutto il PAT prevede a fianco anche un terminal.

Se si vuol affrontare in fretta il problema occorre che l’amministrazione comunale elabori e compari al più presto tutte le “ragionevoli alternative” di localizzazione: nel 1988 è stata decisione volontaria ma ora, per le grandi opere di interesse pubblico, è norma di legge ( V.I.A. e nuovo Codice degli appalti).

Occorre inoltre verificare le proposte in rapporto alla recente applicazione della legge regionale sulla riduzione del consumo di suolo: bisogna individuare una scelta territoriale strategica senza nuovo consumo di suolo agricolo.

In particolare le aree di Marghera sud già urbanizzate (alcune già disponibili, altre dismesse da tempo) possono essere integrate con nuovi insediamenti di riqualificazione urbana, anche con una attrezzatura che richiede una grande accessibilità, che andrebbe quindi connessa al massimo con i trasporti pubblici, con il tram (prolungato) e con le grandi arterie stradali extraurbane (per i mezzi privati).

Ma di tutte queste problematiche non c’è traccia nell’ordine del giorno approvato dalla maggioranza (e, sbagliando, anche da due consiglieri del M5S) che esprime un parere preventivo positivo “per la realizzazione di un Palasport e servizi nell’area dei Pili viste le destinazioni e le potenzialità urbanistiche dell’area”.

C’è solo da sperare che gli organi tecnici comunali, regionali e della soprintendenza sappiano svolgere il proprio compito correttamente nel rispetto delle norme vigenti.

la Nuova Venezia, 8 febbraio 2018. Ancora sui danni, ambientali ed erariali, provocati dalla folle sventura del progetto Mose e dalla sua perversa storia. con riferimenti

ECCO LE DIECI CRITICITÀ
SERVONO 100 MILIONI

«I guai messi nero su bianco dai commissari, relazione al Governo»

Venezia. Corrosione e ossidazione delle cerniere. Buchi nei tubi sott'acqua. «Steli» da sostituire, cedimento dei cassoni sul fondale delle bocche di porto. E poi la lunata, la diga al largo danneggiata che rischia di crollare ancora. Il jack-up, nave attrezzata costata 52 milioni di euro che ancora non funziona, i sedimenti e i detriti che si accumulano sul fondale in quantità «superiore al previsto».Un corposo dossier sulle criticità del Mose è stato inviato dai commissari straordinari del Consorzio Venezia Nuova al ministero delle Infrastrutture e al Provveditorato alle Opere pubbliche, l'ex Magistrato alle Acque.

Per la prima volta vengono messi per iscritto dagli stessi responsabili guai e problemi operativi da affrontare con urgenza, lavori fatti male, emergenze che hanno bisogno di essere risolte per provare a concludere, pur con ritardo, la più grande opera italiana in costruzione. «Per risolvere le criticità riscontrate», scrivono l'avvocato Giuseppe Fiengo e l'ingegnere Francesco Ossola, amministratori straordinari del Consorzio, «ci vorranno almeno 94 milioni di euro». In mezzo ai problemi di finanziamento, ma anche delle necessità di trasparenza e di maggiori controlli dopo lo scandalo e gli arresti del 2014, siamo adesso a un punto di svolta della grande opera. Sarà possibile sistemare i guasti che emergono ora in modo ufficiale e i lavori «non fatti a regola d'arte» senza bloccare il destino del Mose? Sono dieci i punti critici segnalati nel dossier, con schede e fotografie che ne descrivono la natura e l'entità.

Previsioni di spesa per riparare i guasti, somma finale che si avvicina ai 100 milioni di euro. Una cifra che si aggiunge ai 5 miliardi e mezzo di euro già spesi, agli 80 richiesti ogni anno per la manutenzione. Riguardano il fenomeno della «risonanza», messo in luce dagli esperti e dalla società Principia; l'accumulo dei sedimenti «superiore al previsto» nella schiera di paratoie di Treporti. Un problema che, ammettono i dirigenti del Consorzio «ha effetti sul buon funzionamento delle paratoie interessate all'accumulo». Ma le criticità più gravi si riferiscono a i cedimenti del fondale e dunque alla «tenuta» dei giunti di collegamento fra i cassoni che sostengono le paratoie. «Nei giunti Gina e Omega» ci potrebbero essere deformazioni, con la necessità di sostituirli».

Una perizia è stata affidata alla società olandese Trolleberg e al professor Mattia Crespi dell'Università di Roma. Una «protezione supplementare» dovrà essere prevista anche per le cosiddette «barre di inghisaggio», nell'elemento femmina della cerniera, costruito dentro il cassone sott'acqua. Un elemento che ha grande importanza sulla tenuta dell'intero sistema, perché in pratica sostiene le paratoie. La soluzione individuata qui dagli esperti (Valentinelli, Paolucci e Ramundo) è quella di applicare una «pasta protettiva» sulla cerniera. Ed ecco al capitolo 5 la parte più delicata, oggetto anche di polemiche nei mesi scorsi. Adesso la relazione finale degli ingegneri ammette l'esistenza di problemi sul fronte della corrosione, e la necessità di correre ai ripari. «Durante i sopralluoghi», dice la scheda, «si sono riscontrati fenomeni di corrosione sugli elementi costituenti i gruppi di tensionamento, e in particolare sui tensionatori di Treporti».

La decisione finale della commissione (i professori Ormellese e Mapelli del Politecnico di Milano, l'esperto del Provveditorato ingegner Paolucci ed esperti internazionali in corrosione) è stata quella di cercare «steli sostitutivi», stavolta in «acciaio superduplex» al posto degli elementi originali.Il problema è il costo. Per sostituire le parti che non vanno sarà necessaria una spesa aggiuntiva di 34 milioni di euro. I tensionatori sulle quattro barriere di paratoie già installate alle bocche di porto sono infatti 156, più otto di «riserva». Dovranno essere sostituiti in occasione della manutenzione della paratoia (ogni cinque anni). Altri 3 milioni e 200 mila euro serviranno per riparare i tubi danneggiati sott'acqua. Nella bocca di porto di Malamocco un'ispezione del direttore lavori aveva scoperto l'esistenza di perdite nelle tubazioni sott'acqua e di ossidazioni. La causa, secondo le imprese Glf Grandi Lavori Fincosit che hanno eseguito i lavori a Malamocco, la mareggiata del febbraio 2015 con l'allagamento dei cassoni, non ancora ultimati. La Glf ha chiesto al Tribunale il rimborso per «l'evento eccezionale». Il giudice non ha ancora deciso e i lavori sono stati sospesi. L'incarico di riparare i tubi danneggiati è stato dato alla Technital - gruppo Mazzi - la società di Verona progettista del Mose

LA LUNATA A RISCHIO CROLLO
E IL JACK-UP DA 52 MILIONI

«La strategia per rifare lavori sbagliati. Al Lido la diga di sassi era franata 5 anni fa. Adesso si scopre che l'erosione la minaccia di nuovo. Cause e perizie infinite»

Venezia. È stata pensata «troppo piccola». E il Porto non la può usare per l'accesso in laguna delle grandi navi. Ma è danneggiata, e inutilizzabile anche per le navi medio piccole. La conca di Malamocco, altra grande incompiuta delle opere in laguna, è una delle dieci «criticità» segnalate al ministero. Situazione complicata.

La conca. Senza contare i nuovi progetti necessari al Porto - off shore e «mini off shore» a Malamocco - ci vogliono almeno 28 milioni di euro, stando alla scheda firmata dai responsabili del Consorzio, per riparare i danni e sostituire la porta lato mare della conca e «adeguare» la porta dal lato laguna. Anche in questo caso la «colpa» del danno viene attribuita a eventi meteorologici. «In occasione della mareggiata del 5-6 febbraio 2015», si legge nella scheda numero 6 - la porta lato mare della conca ha subito gravi danni, con conseguente disservizio». Consorzio e Provveditorato hanno allora dato incarico a esperti olandesi (l'istituto Marin) e alla società belga Sbe di progettare una nuova porta con le rotaie per lo scorrimento, 14 metri sotto il livello dell'acqua. E insieme l'adeguamento della porta lato laguna. Chi ha sbagliato? E chi pagherà i nuovi interventi?

Lunata. Altra emergenza - con annesso contenzioso legale e diffide incrociate tra Consorzio e imprese giacenti in Tribunale civile - la lunata di Lido. Qui la colpa è dello scirocco. E della perturbazione, si legge nella relazione tecnica, «che ha provocato il 31 ottobre del 2012 una violenta mareggiata con ingenti danni alla lunata di Lido». Non basta, perché un sopralluogo ha messo in luce «ulteriori criticità». Cioè i fenomeni di erosione in corrispondenza delle due testate, riparate dopo la mareggiata. Erosioni profonde anche tre metri, che mettono a rischio la staticità dell'intera opera. Altri due milioni di euro stanziati per le consulenze (professor Foti dell'Università di Catania, Ruol dell'Università di Padova, De Marinis e Tomasicchio del Provveditorato). E alla fine la decisione anche qui di intervenire su un progetto che evidentemente non aveva tenuto conto di alcune variabili. «Si farà un intervento di mitigazione dei fenomeni erosivi e di protezione del piede della testata», conclude la relazione.

Jack-up. Rizzuto, Micoperi e la società Rizzetti e Marino sono i consulenti a cui il Consorzio ha fatto ricorso per chiedere lumi sul non funzionamento del jack-up. Macchina costata 52 milioni di euro che doveva garantire lo spostamento e il trasporto delle paratoie dalle bocche di porto alla centrale di manutenzione dell'Arsenale. Progetto della Technital, messo in opera dalla padovana Mantovani. Il jack-up non si è mai mosso, per il cedimento di una gamba laterale e per problemi di stabilità in navigazione. Uno scandalo che poteva essere doppio. In origine il Consorzio di Mazzacurati e il Magistrato alle Acque di Cuccioletta avevano progettato di realizzare due jack-up. Oggi la posa delle paratoia è garantita da una semplice chiatta a noleggio.Affidabilità. L'ultima voce di spesa per risolvere una criticità che si annuncia strategica riguarda il «Controllo affidabilità complessiva del sistema». Occorrerà appunto garantire la gestione del ciclo di manutenzione delle paratoie, l'affidabilità dei mezzi e il funzionamento delle opere nel loro complesso. Impresa titanica, visti i precedenti.

Riferimenti

Alla tragica vicenda del -MoSE e dei suoi vergognosi contorni abbiamo dedicato numerosi articoli. Tra i più recenti rinviamo a quelli di Armando Danella, Progetto Mose. La vera soluzione,
che illustra la follia tecnica dell'irrealizzabile progetto, di Edoardo Salzano, Eddytoriale 174 di Eddyburg, e di Paola Somma La città del MoSE, che descrivono l'azione corruttrice e mistificatrice gestita dai responsabili e profittatori del progetto, di Paolo Cacciari, L'ingegnerizzazione della Laguna, e numerosi altri raggiungibili rovistando dell'Archivio tematico di eddyburg

La Stampa, 7 febbraio 2018. Un gigantesco scandalo sembra aprirsi nell'area grigia nella quali si celano i legami tra ENI e magistratura. L'epicentro è il petrolio nigeriano
«Tra i 15 agli arresti c’è Longo, ex procuratore di Siracusa. Indagati Bigotti, coinvolto in Consip, e l’ex giudice Virgilio»
Avvocati di grido, magistrati, giornalisti, aziende. Un meccanismo perfetto, che si è inceppato solo ieri, quando in cinque sono finiti in carcere e altri dieci ai domiciliari, con ordinanze delle procure di Roma e Messina eseguite dalla Guardia di finanza. Piero Amara, Giuseppe Calafiore (ieri ancora a Dubai) e Fabrizio Centofanti sono tutti avvocati, alla guida di studi prestigiosi; Giancarlo Longo è il magistrato, ex pm di Siracusa e ora al tribunale di Ischia dopo un trasferimento disciplinare; Giuseppe Guastella è il giornalista che scrive per il periodico locale di Siracusa, “Diario”; le aziende, piccole e grandi, beneficiano dell’attività degli indagati, in grado di ottenere benefici fiscali e anche di fare uscire dalle inchieste i clienti degli avvocati.

Tra gli indagati c’è un ex presidente di sezione del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio (accusato di aver aggiustato una ventina di sentenze), che avrebbe scampato l’arresto solo perché in pensione. Proprio a Virgilio deve la sua «fortuna» il gruppo Sti, riconducibile all’imprenditore Ezio Bigotti (finito ai domiciliari). Bigotti, legato al senatore di Ala Denis Verdini, è tra le 21 persone che rischiano il processo nell’inchiesta Consip, quella dove sono indagati tra gli altri il ministro dello Sport Luca Lotti e Tiziano Renzi, papà dell’ex premier e attuale segretario Pd. Secondo le ipotesi dei magistrati romani, Virgilio avrebbe «aggiustato» tre sentenze per favorire proprio Bigotti, e una di queste è proprio una gara da 388 milioni bandita dalla Centrale acquisti della pubblica amministrazione.

L’imbarazzo dei magistrati

L’inchiesta è partita nel settembre 2016 da un esposto presentato da 8 degli 11 sostituti della procura di Siracusa che scrivono ai pm di Messina, al ministro della Giustizia, alla Corte di Cassazione, alla procura generale di Catania: «È con profondo imbarazzo - è l’inizio dell’esposto - che i sottoscritti sostituti procuratori rappresentano di aver osservato fatti e situazioni tali da ingenerare grave preoccupazione per le sorti dell’amministrazione della giustizia».

Il pm in carcere

Stando all’inchiesta della procura di Messina, Giancarlo Longo per anni avrebbe «svenduto la funzione giudiziale», in cambio di soldi e viaggi, per favorire i clienti dei due avvocati siracusani Amara e Calafiore, con la creazione di fascicoli “specchio”, che il pm «si autoassegnava al solo scopo di monitorare ulteriori fascicoli di indagine assegnati ad altri colleghi»; ma anche con fascicoli “minaccia”, in cui «finivano per essere iscritti soggetti “ostili” agli interessi dei clienti di Calafiore»; e infine col metodo dei fascicoli “sponda”, tenuti in vita per «creare una legittimazione formale al conferimento di consulenze, il cui reale scopo era quello di servire gli interessi dei clienti di Calafiore a Amara».

In questo contesto, Longo avrebbe aperto un’inchiesta su un presunto complotto contro l’Eni e il suo ad Claudio Descalzi, dopo un presunto esposto anonimo in cui si chiamava in causa il banchiere di Carige Gabriele Volpi. Secondo i pm messinesi, questa “inchiesta” serviva a Longo per accedere agli atti e depistare un’altra indagine: quella sull’Eni e gli affari in Nigeria, avviata dalla procura di Milano che ieri ha fatto perquisire gli uffici di un alto dirigente indagato, Massimo Mantovani, sospetto «depistatore» con Amara, uno dei difensori dell’Eni. Temendo di essere intercettato, Longo cercava nel suo ufficio microspie: quando ne scova una chiede la bonifica ai tecnici della procura. L’avvocato di Longo, Candido Bonaventura, dice che «Longo offrirà alla valutazione del gip trancianti elementi a propria difesa».

L’indagine di Roma

L’indagine che coinvolge il magistrato Virgilio, nasce dall’analisi dei flussi finanziari delle società di Centofanti. I pm individuano 751 mila euro in Svizzera riconducibile a Virgilio. Denaro che il magistrato non ha dichiarato, poi finito su una società maltese legata agli avvocati Amara e Calafiore, che avevano proposto a Virgilio di investire garantendolo con una loro fidejussione. L’investimento riguardava una società dell’imprenditore Andrea Bacci (non indagato nel procedimento), ex socio di Tiziano Renzi. Nella stessa inchiesta, risultano indagati anche il consigliere di Stato Nicola Russo, l’ex presidente della giustizia siciliana, Raffaele De Lipsis e l’ex direttore del Consiglio di Stato, Antonio Serrao.

La fuga di notizie

L’inchiesta ha rischiato di essere stoppata da pesanti anomalie. Ad esempio, l’imprenditore Giuseppe Calafiore è partito per Dubai sottraendosi all’arresto in seguito a una soffiata. A Siracusa, poi, si sapeva con netto anticipo che Roma avrebbe fatto delle intercettazioni. E ancora: indagando su un magistrato del Consiglio di Stato e su uno della Corte dei Conti, gli investigatori hanno scoperto che erano stati avvertiti delle intercettazioni dall’avvocato Amara. Un dipendente del Mef, infine, avvertì l’imprenditore Ezio Bigotti di una richiesta avanzata dall’Antitrust per la sua società in corsa per appalti Consip. Lo stesso funzionario si era attivato per far sapere a Bigotti dell’esistenza di un’indagine penale avviata dalla procura di Roma.

Altre informazioni e commenti qui su la Stampa

Corriere della Sera on line, 5 febbraio 2018. Gli azzeccagarbugli della legalità formale. Il sindaco che "cede" le sue proprietà ad un blind trust ed ecco che formalmente è autorizzato a sponsorizzare gli investimenti sulle sue ex(?)aree. (m.p.r.)

«L’acquisto nel 2006, quei 44 ettari erano dello Stato. Il sindaco li ha acquistato per la cifra di cinque milioni. «Su quell’area non farò nulla», prometteva parlando dei suoi terreni. Ora spinge per costruire un palasport. Show in Consiglio tra lacrime e coppe».


«Su quell’area non farò nulla. Perché è giusto. Sarebbe un conflitto di interessi. Questo lo chiariamo subito. Molto chiaro». Manco il tempo che la consigliera pd Monica Sambo diffonda la registrazione del solenne giuramento fatto in campagna elettorale dal sindaco Luigi Brugnaro e si leva tra i «brugnariani» una cagnara tale da coprire un fracasso di trombe, oboe e sassofoni. Impossibile risentire quell’imbarazzante impegno. Quanto a lui, se ne è già andato. Lasciando al suo posto, sulla poltrona di primo cittadino al centro del consiglio comunale, un suo totem: la coppa del campionato di basket vinto dalla Reyer. La sua squadra. Che vorrebbe giocare nel suo palazzetto. Costruito sul suo terreno (inquinato). Col suo via libera. Lungo il ponte che porta alla sua Venezia.

Un conflitto di interessi che spacca la città, invelenisce le opposizioni e pare al contrario un banale dettaglio ai tifosi locali, compatti nello spellarsi le mani a ogni passaggio del sindaco col groppo in gola («abbiamo portato qui lo scudetto dopo 74 anni!») e nel coprire di «buuuu» ogni contestazione. Resta il tema: è opportuna, ammesso sia legale, la spinta d’un sindaco a costruire sul suo terreno un palasport che dovrebbe aprire un varco per costruire poi nei dintorni, accusano i nemici del progetto, «un albergo da 700 camere, un centro commerciale, una casa di riposo di lusso per anziani, villette e il casino spostato da Tessera»?

Sì, risponde lui. Non dicevano forse Vittorio Valletta e Gianni Agnelli che «quel che fa bene alla Fiat fa bene anche all’Italia» o Silvio Berlusconi che «quel che fa bene a Mediaset fa bene anche al Paese»? Lui, il figlio di un operaio di sinistra e di una maestra, laureato in architettura e capace di strappare due anni e mezzo fa la città alla sinistra, pare convinto: gli interessi suoi e quelli di Venezia, vedi coincidenza!, coincidono. Al centro della polemica, come è noto, ci sono 44 ettari di terreno abbandonato a destra del Ponte della Libertà andando verso Venezia. Un terreno che apparteneva allo Stato e che lo stesso Brugnaro comprò nel 2006, quando faceva solo l’imprenditore e pareva non avere mire politiche, per cinque milioni. Unica offerta: «Ma i soldi bisognava averli». In origine doveva essere destinata a «Verde Urbano Attrezzato», come le vicine aree del Parco San Giuliano. Poi hanno cominciato a farsi largo altre ipotesi. Più ambiziose. Come quelle esposte nello studio dell’architetto Luciano Parenti. Le cui proiezioni futuristiche hanno entusiasmato gli «sviluppisti» e gelato il sangue agli ambientalisti.

Rovente già in campagna elettorale, quando il futuro sindaco spiegava d’aver comprato quegli ettari «perché non finissero in mano ai soliti speculatori milanesi o romani (li gestirò quando avrò finito di fare il sindaco») il tema è diventato sempre più rovente. Fino a deflagrare un mese fa quando Nicola Pellicani e Andrea Ferrazzi, del Pd, nella scia d’una dura opposizione e di una serie di «voci» sugli appetiti lagunari di Ching Chiat Kwong, chiesero in un’interrogazione se questo celebre magnate di Singapore avesse fatto davvero un’offerta per l’acquisto dell’area per una cifra esorbitante: da 150 a 200 milioni di euro. O addirittura, sospettano Giovanni Pelizzato (lista civica Casson) ed Elena La Rocca (M5S), oltre 360. Un affarone, per un terreno che ne era costati cinque. «Vergognatevi! È un modo oltraggioso e diffamatorio di affrontare le questioni!», tuona «Gigio» Brugnaro nel consiglio comunale convocato dagli oppositori (13 contro 23 a destra) raccogliendo le firme. E accusa: «Sono cose che fanno scappare gli investitori». Giura: «Bastava una telefonata! Non occorrevano le firme! Comunque è l’occasione per dare un parere pubblico e un’indicazione chiara in primis ai proprietari dell’area». Voce dal pubblico: «Ma se el paron ti xe ti!»

Ah, sospira il sindaco, che bello se tutti collaborassero come ai tempi di John Adams e «i rancorosi e gli invidiosi la smettessero»! Ironie a sinistra, entusiasmo a destra: «Siiiiii! Così!». «Quali conflitti d’interessi, accidenti! Quali? Perdere soldi ogni anno per difendere il futuro, per quel che si riesce, del vetro di Murano? La Reyer? Ecco: la Reyer, il mio cuore e la mia passione, costa milioni di euro all’anno senza alcun contributo pubblico, ha fatto sognare generazioni di veneziani!». Ma come: rinuncia allo stipendio, non chiede rimborsi spese, paga i parcheggi «come i normali cittadini» e gli tirano fuori sempre i conflitti di interessi? «Ho costituito, per primo, un “blind trust” dove sono state fatte confluire tutte le azioni delle aziende che possedevo e che saranno gestite da un trustee newyorkese, l’avvocato Ivan A. Sacks». Il tutto «per distaccarmi completamente dalle mie aziende». Pensava che le «cattiverie» finissero. Macché: ancora lì, Felice Casson e i grillini e gli altri a dirgli che un «fondo cieco» può andar bene «per la gestione di azioni ma lui, il sindaco-padrone, sa benissimo che qualunque cosa faccia quei terreni sono suoi».

Del resto, lo sa anche lui: «ad oggi, che mi sia dato sapere, non è stato siglato alcun accordo con investitori nazionali o internazionali». Ha saputo infatti «da notizie pubbliche» che la «società proprietaria» («cioè sempre ti!», ridono in fondo alla sala) «non ha conferito incarichi a chicchessia». Però, spiega tra i sospiri dei tifosi, la Federazione del basket ha comunicato che d’ora in avanti gli impianti sportivi devono contenere almeno 15.000 spettatori. Va fatto. Altrimenti, addio… Quindi? «Credo sia giunto il momento che il gruppo proprietario dell’area si senta libero, anzi si senta obbligato, ad agire per dare una prospettiva di rilancio dell’area in questione anche nell’interesse di tutta la comunità». Tombola! Parla proprio della terra sua». E non gli chiedano, come sindaco, di requisire l’area che possiede: «Costerebbe al Comune decine di milioni…». Conclusione: «Mi auguro che da questa discussione si confermi l’intenzione di presentare progetti e piani di valorizzazione per il recupero dell’area dei Pili, al fine di un suo disinquinamento e di un suo sviluppo all’interno del quale, io spero vogliano inserirci il nuovo palazzo dello sport, il più bello e moderno possibile». E lui, il padrone, se proprio il consiglio comunale insistesse per fare il palazzetto lì? Ma basta, non ha più tempo per ‘ste cose. Mette a sedere la coppa, si gira e se ne va.

Nuovi episodi di cancellazione dell'identità storica e attuale della Palestina nel quadro dell guerra devastante avviata con la "dichiarazione Balfour del 1046, che consegnò la Palestina ad Israele

Spesso si tende acredere che il turismo sia un'attività neutra, legata a svago e piacere, equindi sconnessa da precisi interessi geopolitici. Esso ci pare cioèirriducibilmente estraneo al conflitto, formidabile costruttore di ponti tra differentipopoli della Terra. L'Organizzazione Mondiale del Turismo lo definisce adesempio "driver of peace".

Oltre la retorica,però, il turismo è oggi uno dei settori trainanti dell'economia mondiale,vettore di un modello capitalistico di sviluppo territoriale che stimolaappetiti contrapposti nella competizione globale per la crescita. Esso è perciòparte integrante di strategie politiche nazionali e può divenire a sua voltafonte di conflittualità all'interno di un dato campo di forze in tensione, comeè stato drammaticamente rivelato dagli attacchi terroristici che negli ultimianni hanno preso di mira mete turistiche.
Nei contesti dove ilconflitto sociale è particolarmente acuto, poi, il turismo può agire daulteriore catalizzatore dei processi in atto. Il caso delle politicheturistiche di Israele nei territori palestinesi occupati, così come lo descriveil Guardian in questo articolo, èesplicito in tal senso. Basato su un recente report dell'UE, esso denuncia ilcrescente incremento da parte di Israele di aree turistiche e archeologiche neiquartieri palestinesi di Gerusalemme Est, al fine di espandere illegalmente gliinsediamenti e legittimare la propria presenza tramite la costruzione di unanarrazione identitaria nazionalista ed etnicamente esclusiva.
In quello che è atutti gli effetti un regime coloniale, il turismo opera infatti da leva perl'inasprimento dell'ingiustizia sociale generata dall'occupazione israeliana ecostituisce una manifestazione ulteriore dell'apartheid instaurata ai danni delpopolo palestinese. Lo fa in un triplice senso:
1) tramite appropriazione fisica. In questi anni continua e costante è stata la sottrazione diterritorio palestinese ad opera di coloni e imprese israeliane attraversopratiche violente: demolizione di case, espropri, sradicamento di uliveti,uccisioni, repressione armata. Ciò accade anche per la costruzione di siti oinfrastrutture turistiche, che agiscono come avamposto per avviare un processodi incorporazione dell'area interessata e di quella circostante.
Alcuni esempi nesono:
- il parco archeologico City of David, nell'area palestinese di Silawan,ottenuto tramite una progressiva operazione di rilevamento territoriale ede-arabizzazione della comunità residente;
- l'approvazione di un nuovo sentiero escursionistico attraversola Cisgiordania e le Alture del Golan, il primo di questo tipo in territori nonisraeliani ();
- il progetto di unanuova funivia turistica che toccheràanche Gerusalemme Est ).
2) Tramite appropriazioneeconomica. Attraverso il controllo sistematico e lasottrazione diretta dei luoghi di interesse turistico, che si sommano allarestrizione militare della libertà di movimento, Israele priva i palestinesidella possibilità di strutturare una propria rete di servizi ed infrastruttureturistici, impedendogli così di accedere ad un'importante fonte di sussistenzaeconomica ed annichilendone di fatto la legittima domanda di sovranità.
3) Tramite appropriazionesimbolica. La promozione di una narrativa sionista,che cancella ogni traccia della stratificazione storica dei territori occupati,è attivata dal governo israeliano per legittimare il proprio statuto colonialea livello internazionale. Essa si basa sul principio della continuità storica,secondo il quale l'insediamento contemporaneo si riallaccia senza soluzione dicontinuità al mito fondativo delle origini, rimuovendo ogni altra presenza storico-culturale, anteriore,coeva o intermedia che sia. Un'ideologiache costituì la matrice stessa del progetto sionista, animato dallarivendicazione di una corrispondenza naturale tra il "popolo senzaterra" e quella che veniva definita una "terra senza popolo". Alcontrario, la cultura, la storia e la civiltà palestinesi rappresentano unacomponente fondamentale e ineludibile dell'identità di quei luoghi. La sistematicanegazione, depurazione, annessione e confisca dei luoghi turistici e deimonumenti palestinesi, insieme alla modifica dei loro nomi e allariarticolazione revisionista del loro significato, mina profondamente l'identità palestinese,compromettendone l'unità geografica, storica e culturale.
Il turismo finiscecosì per assumere in Israele un ruolo chiave nella strategia nazionale diproduzione del consenso e, a sua insaputa, il turista stesso rischia di essereattratto non solo in quanto consumatore, ma anche come agente metabolizzatore eriproduttore di una determinata e parziale narrazione storica. Un'operazioneideologica capillare funzionale a legittimare Israele quale stato"democratico" agli occhi del mondo, corredata dall'organizzazione digrandi eventi di richiamo internazionale e validata dal riconoscimentoincondizionato degli stati occidentali.

Non ultimo il nostro, che tra pochi mesi faràinspiegabilmente partire il Giro d'Italia proprio da questa Gerusalemmecontesa, dopo averla depurata perfino della qualifica "Ovest" e conciò riconosciuta nella sua "unità" come "capitale diIsraele". In aperta violazione alle innumerevoli risoluzioni dell'Onu [n.2253 (1967), 2254, 252 (1968), 267 (1969), 271, 298 (1971), 465 (1980), 476,478] e all'affermazione del Consiglio di Sicurezza del 23 dicembre 2016,secondo cui "la costituzione da parte di Israele di colonie nel territoriopalestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme Est, non ha validità legalee costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale e ungravissimo ostacolo per il raggiungimento di una soluzione dei due Stati e diuna pace, definitiva e complessiva".

Per un approfondimento vedi, su NENAnews, il Rapporto UE: "Israele usa il turismo per legittimare le colonie. Per la "Dichiarazione di Balfour vedi qui: Il peccato originale dello stato di Israele: come Europa e Usa si liberarono delle colpe verso gli ebrei consegnando a Israele terre che appartenevano ad altri popoli. Allora iniziò la guerra tra il mondo a dominio anglosassone e il mondo musulmano

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