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Le ragioni storiche e attuali per attribuire alle “aree interne”uno ruolo all’altezza delle esigenze di oggi e di domani. Relazione per il convegno della "Società dei territorialisti“, Milano, 14 maggio 2013”

A che cosa ci riferiamo allorché parliamo di agricoltura per le aree interne? Si tratta di uno slogan di propaganda politica “movimentista” ? Oppure di un'utopia che non ha alcun fondamento economico, né dunque alcuna possibilità di riuscita? All'obiezione si deve innanzi tutto rispondere con una considerazione storica. Non si tratta, infatti, di una progettazione o addirittura di una aspirazione a vuoto di volenterosi militanti. Per secoli l'agricoltura italiana è stata una pratica economica delle “aree interne”, vale a dire dei territori collinari e montuosi, gli ambiti orografici dominanti nella Penisola. Certo, c'era anche – e talora fiorente - l'agricoltura delle pianure, concentrata nella Pianura padana e nelle valli subappenniniche. Ma gran parte di queste aree sono state conquistate con secolari e talora imponenti lavori di bonifica che arrivano fin dentro il XX secolo. L'imperversare millenario della malaria – questa avversità ambientale caratteristica del nostro paese – ha tenuto a lungo lontano le popolazioni agricole dalle terre potenzialmente più fertili ed economicamente vantaggiose delle pianure. Dunque, dal punto di vista storico, fare agricoltura nelle aree interne non è una novità. Tanto è vero che essa continua a sopravvivere in tante zone collinari e montane in forme più o meno degradate e marginali.

La seconda obiezione, relativa all'economicità di una agricoltura in queste aree è che occorre intendersi su che cosa si intende per economicità. Per far questo occorre liberarsi di una idea riduzionistica di agricoltura che ha dominato per tutto il secolo passato. In queste aree non si può pensare alla pratica agricola come una impresa industriale che deve strappare margini crescenti di profitto, generare accumulazione di capitale, con sovrana indifferenza per ciò che accade alla fertilità del suolo, alla distruzione della biodiversità, all'inquinamento delle acque, alla salute degli animali, dei lavoratori e più in generale dei cittadini. L'agricoltura non è qui – e non dovrebbe esserlo mai – quello che è stata per tutta la seconda metà del Novecento: un'industria come un'altra. D'altra parte, rappresenta una conquista della cultura europea degli ultimi decenni la visione e la pratica di una agricoltura come attività multifunzionale. Una brutta parola per indicare che essa non è più una semplice pratica economica, ma costituisce il centro di erogazione di una molteplicità di servizi. E al tempo stesso incarna una esperienza sociale che intrattiene un rapporto complesso e avanzato con la natura, ispira nuovi stili e condotte di vita. Infatti l'agricoltura non è chiamata semplicemente a produrre merci da piazzare sul mercato, quanto anche a proteggere il suolo dai processi di erosione, ad attivare la biodiversità sia agricola che quella naturale circostante, a conservare il paesaggio agrario, tenere vivi i saperi locali legati ai mestieri e alle manipolazione delle piante e del cibo, a custodire la salubrità dell'aria e delle acque, a organizzare un turismo ecocompatibile, a organizzare forme nuove di socialità, ecc.

Ma che tipo di agricoltura si può oggi praticare su terre lontane ( ma non lontanissime, l'Appennino dista sempre relativamente poco dal mare) dai grandi snodi viarii e commerciali ? La dove non è possibile, né utile, né consigliabile organizzare produzioni di larga scala? Qui si può praticare soprattutto frutticultura e orticoltura di qualità. E sottolineo questo aspetto di novità storica della agricoltura di collina rispetto al passato. Si tratta di una agricoltura di qualità perché essa utilizza con nuova consapevolezza culturale un'attività produttiva fondata sulla valorizzazione di un dato storico eminente della nostra millenaria tradizione produttiva: l'incomparabile ricchezza della nostra biodiversità agricola. L'uso del termine millenario non svolge qui un compito di mera retorica. Serve innanzi tutto a marcare l'irriducibile diversità dell'agricoltura rispetto a tutte le altre forme di economia. Questa pratica finalizzata all'alimentazione umana, infatti, continua a esercitarsi su materie naturali che provengono da un lontanissimo passato, originano dalle selezioni genetiche massali delle popolazioni pre-italiche, si sono arricchite con la grande “globalizzazione agricola” dell'Impero romano (documentata da Columella) e ha ricevuto gli apporti di biodiversità e di saperi dal mondo arabo nel medioevo e dalle piante provenienti dalle Americhe dopo il 1492. Questa gigantesca accumulazione di varietà e di culture ha trovato nella Penisola le condizioni per insediarsi in maniera stabile e diversificata sin quasi ai giorni nostri. ( P. Bevilacqua, I caratteri originali dell'agricoltura italiana, in C.Petrini e U.Volli ( a cura di)La cultura italiana.Cibo,gioco,festa moda, UTET ,Tornino 2009)

Tale straordinaria biodiversità agricola – frutto dell'originalità della nostra storia e della varietà dei climi e degli habitat disseminati nella Penisola, dalle Alpi alla Sicilia - ha espresso la sua vitalità nell'agricoltura promiscua preindustriale. Campi nei quali coesistevano alberi da frutto di diverse varietà, ulivi, viti insieme spesso ai cereali, agli orti. Oggi questa agricoltura ritrova ragioni economiche per rifiorire, innanzi tutto perché può offrire prodotti che hanno qualità intrinseche superiori, sia di carattere organolettico che nutrizionale. In tanti vivai – e nelle coltivazioni degli amatori - si conservano ancora in Italia centinaia di varietà di meli, peri, susini, mandorli, peschi, viti a doppia attitudine, ecc. Si tratta di sapori scomparsi dall'esperienza sensoriale della maggioranza degli italiani e dal mercato corrente. Quest'ultimo offre oggi al consumatore poche varietà, quelle industrialmente più confacenti, per aspetto, conservazione e trasportabilità alla distribuzione di massa. Ormai guida e domina il consumo, non la qualità intrinseca del bene (freschezza, sapore, sanità), ma le sue caratteristiche esteriori di merce, la sua durabilità, la sua novità stagionale, il suo basso prezzo.

E invece l'organizzazione di una distribuzione alternativa (tramite i gas, i gruppi del commercio eco-solidale, a km 0, ecc) può cambiare la natura stessa del prodotto finale. La diversità e varietà dei sapori, la salubrità e ricchezza vitaminica e minerale del frutto, la sua freschezza e assenza di conservanti e residui chimici, ne fanno un bene che acquista anche sotto il profilo culturale un nuovo valore. E naturalmente il rapporto diretto fra produttore e consumatore tende a rendere bassi e accessibili i prezzi. Dunque, non si propone il ripristino dell' ”agricoltura della nonna”, ma una nuova economia rispondente a una elaborazione culturale più avanzata e ricca del nostro rapporto col cibo, che incorpora anche una superiore visione della pratica agricola come parte di un ecosistema da conservare.

Questa agricoltura può far ricorso a molti elementi di economicità e di riduzione dei costi, di norma esclusi nelle pratiche industriali. Intanto la varietà delle colture – anche nelle coltivazioni orticole, grazie alla sapienza consolidata della pratica degli avvicendamenti e delle alternanze , ma anche alle nove tecniche come l'agricoltura sinergica– costituisce un antidoto importante contro l'infestazione dei parassiti. E' nelle monoculture, infatti, che questi possono produrre grandi danni, e debbono essere controllati – anche se con decrescente efficacia – tramite costosi e ripetuti trattamenti chimici. La conservazione di un habitat ricco di biodiversità naturale – grazie alle siepi, all'inerbimento del campo, ecc e al bando degli antipesticidi chimici - costituisce essa stessa un sistema di protezione contro i parassiti, perché ospita gli insetti utili, predatori degli infestanti. Un esempio di come la salubrità e varietà biologica dei siti non è solo utile alla salute umana, ma anche economicamente vantaggiosa. A questo proposito un aspetto da ricordare sono le microeconomie che si possono ottenere dalle siepi o dalla macchia selvatica. Un tempo avevano una larga circolazione stagionale, nei mercati contadini, i prodotti selvatici del bosco e della macchia mediterranea: sorbe, corbezzoli, giuggiole, cornioli, melograne, nespoli germanici, azzeruoli, ecc. Oggi sono rari e costosi prodotti di nicchia destinati al consumo di pochi intenditori. E invece potrebbero rientrare a pieno titolo nei circuiti economici della nuova agricoltura. Tanto più che alcuni di queste bacche, come la melagrana – ma la riflessione dovrebbe coinvolgere sia i cosiddetti “piccoli frutti”(lamponi, mirtilli, ribes, uva spina, ecc) che le cosiddette piante officinali – conoscono oggi un crescente utilizzo sia nella “cosmesi senza chimica”, che nella ricerca e nella produzione farmaceutica. Tali considerazioni dovrebbero anche investire un problema oggi rilevante in alcune aree- come ad es. la Toscana - dove la macchia selvatica rappresenta una forma di rinaturalizzazione spontanea e disordinata, che consuma sia il bosco di pregio, sia le aree agricole e pastorali, fornendo ai cinghiali, sempre più numerosi, la possibilità di danneggiare gravemente le colture delle aree collinari. E' evidente che qui occorre un intervento pianificato, che punti a una selvicoltura di qualità sia per il legno che per i prodotti del bosco e del sottobosco. E' attraverso il ripristino rinnovato di economie antiche ( fra queste spicca il castagneto), che si può avviare anche una difesa territoriale delle aree agricole secondo meccanismi di coordinamento e cooperazione fra diverse aree ed ambiti produttivi che in queste aree sono stati in funzione per secoli.

Nei frutteti si può molto utilmente praticare l'allevamento dei volatili ( polli, oche, faraone,ecc).Tale pratica già nota ai primi del '900 in alcuni paesi europei ( ad esempio nei meleti della Normandia) e oggi sperimentata da alcune aziende ad agricoltura biologica, combina un insieme sorprendente di vantaggi. I volatili, infatti, ripuliscono il terreno dalle erbe infestanti e lo concimano costantemente con i loro escrementi, facendo risparmiare all'azienda il lavoro e i costi del taglio delle erbe e quello della concimazione delle piante. Ma aggiungono all'economia aziendale uno straordinario apporto produttivo: le uova e la carne di pregio commerciabili tutto l'anno.

Sempre sul piano del contenimento dei costi è utile rammentare che qualunque azienda agricola produce una quantità significativa di biomassa. Sia sotto forma di rifiuti organici domestici, che quale residuo dei tagli, potature, controllo delle siepi, ecc. Ebbene, questo materiale – tramite il metodo del cumulo – si può trasformare in utilissimo compost per fertilizzare il suolo, senza ricorrere ai fertilizzanti chimici, e risparmiando su tale voce di spesa che grava invece in maniera crescente sull'agricoltura industriale. Il costo dei concimi, è noto, dipende dal prezzo del petrolio. Un grande agronomo biodinamico, Eherfried Pfeiffer, sosteneva che un buon terriccio di cumulo può avere una capacità fertilizzante due volte superiore a quella del letame bovino: il più completo fra i fertilizzanti organici. (E. Pfeiffer, La fertilità della terra, Editrice Antroposofica 1940) Di questo terriccio si potrebbe fare commercio, come si fa commercio del fertilizzante ottenuto dalla decomposizione di sostanza organica da parte dei lombrichi. Nel Lazio, ad es., esiste qualche azienda che vende humus, un terriccio ricavato dalla “digestione” di letame bovino ad opera dei lombrichi.

Sempre sul piano del risparmio dei costi - senza qui considerare la buona pratica di impiantare pannelli solari sugli edifici, case, stalle, uffici, ecc, per rendere l'azienda autonoma sotto il profilo energetico – una riflessione a parte meriterebbe l'uso dell'acqua. La presenza di questo elemento è ovviamente preziosa e spesso indispensabile nelle agricolture delle aree interne. Ad essa si attinge normalmente con i pozzi azionati da motori elettrici. Se l'elettricità è generata da pannelli fotovoltaici il costo è ovviamente contenuto. Ma spesso non è così. E ad ogni modo, in tante aree interne, l'acqua potrebbe essere attinta in estate senza costi se durante l'inverno venissero utilizzati sistemi di raccolta delle acque piovane. Si tratta, ovviamente, di riprendere un sistema antico – in molte aree, come nella Sicilia agrumicola, ancora attivo – che utilizzi cisterne, vasche di raccolta, ecc. Questa cura dell'acqua comporterebbe una nuova visione del territorio e delle risorse circostanti alle singole aziende. E' evidente che una nuova agricoltura nelle aree interne, dovrebbe far parte di un progetto collettivo di rimodellamento dell 'habitat locale, che comporta il controllo delle acque alte, il loro incanalamento ottimale, ma anche il loro utilizzo in punti di raccolta ( tramite acquacultura, pesca, ecc), capace di combinare conservazione dell'assetto idrogeologico del suolo e pratica economica produttiva. L'agricoltura che progettiamo, dunque, costituisce un dialogo nuovo e più organico con la ricchezza delle risorse naturali, col mondo delle piante e degli animali, e insieme un presidio umano culturalmente più avanzato e complesso sul nostro territorio.

Infine due questioni rilevanti: il reperimento dei suoli dove esercitare le nuove economie e i protagonisti primi del progetto, vale a dire gli imprenditori, gli uomini e le donne che accettano la sfida. Per quanto riguarda la terra, la sua disponibilità e i suoi prezzi variano molto nelle stesse aree interne. In Toscana il valore fondiario può essere proibitivo, ma in tante aree appenniniche esso ha scarso valore. Occorreranno dunque forme di regolazione e di facilitazione - laddove non esistono già – di accesso alla terra a costi contenuti. Il problema fondamentale resta quello degli imprenditori. E' evidente che non si può lasciare alla spontaneità e alla capacità attrattiva di un progetto l'iniziativa imprenditiva. Sarà necessaria un'azione concordata con le varie forze territoriali in campo (amministrazioni, Coldiretti, sindacati, comitati locali, ecc.) che devono svolgere una funzione iniziale di promozione e coordinamento, oltre che di conoscenza e informazione: disponibilità della terra, presenza di boschi e macchie,ecc. Ma è evidente che la ricostruzione di un nuovo ceto di agricoltori per le aree interne passa oggi attraverso una nuova politica dell'immigrazione. Diciamo una verità sgradevole e assolutamente necessaria: il lavoro nelle campagne italiane viene svolto dal bracciantato di provenienza straniera, una gran parte del quale tenuto in condizione di semischiavitù. E' possibile tollerare tutto questo? Ricordo che tra gli immigrati sono presenti attitudini e saperi agricoli che potrebbero avere ben altra destinazione. Gli indiani hanno salvato di fatto l'allevamento bovino nel Nord d'Italia. Quanti giovani africani o dell'Est europeo potrebbero essere attratti dalla possibilità di condurre una piccola azienda agricola, insieme a connazionali o a giovani italiani?

www.amigi. Org
Riferimenti

Vedi anche di Bevilacqua “La vecchia talpa scava ancora” ,Per il convegno vedi il sito della Società dei territorialisti . La relazione di Bevilacqua sarà pubblicata, come altre svolte al Convegno di Milano, sul primo numero della rivista della SdT Scienze del territorio che si intitola "Ritorno alla terra" e che esce on line a fine giugno presso la Firenze University Press (FUP).

Con buona pace dei puristi della cultura e delle loro anche condivisibili ragioni, la vitalità urbana passa sempre dalla composizione funzionale, anche stravagante se serve. Corriere della Sera Milano, 22 maggio 2013, postilla (f.b.)

E per dessert: il teatro. Tra le cucine degli chef, gli scaffali dei millesimati e il banco dei prosciutti dop, buon appetito e godetevi lo spettacolo: «Proporremo concerti dal vivo tutte le sere e straordinari ospiti a sorpresa». Là dove c'era lo Smeraldo, il salotto per il dopocena della gente comune, in autunno entrerà Eataly, il supermarket dei cibi alti e certificati. Un megastore di 3.500 metri quadri, l'itinerario del gusto che gira su una «U» e sale per tre livelli. La novità sarà inserita tra il primo e il secondo piano, nel punto di massima visibilità. Un palcoscenico. Annuncia il patron Oscar Farinetti: «Conserviamo la memoria viva del teatro popolare». Se il centro enogastronomico di Firenze è un omaggio al Rinascimento, se il punto vendita di Roma è dedicato alla bellezza e il gemello di Bari celebrerà il fascino del Levante, l'Eataly di piazza XXV Aprile farà suo l'immaginario del pop e del rock. La parabola è compiuta: dallo Smeraldo dei Legnanesi allo smeraldino del piemontese Farinetti.

«Stiamo allestendo una roba enorme, nello spirito culturale del teatro che ci ha preceduti»: il patron di Eataly l'aveva anticipato al Corriere tre mesi fa, facendo lezione di marketing, servendo pochi dettagli e lasciando furbescamente inappagata la curiosità. Ora il format è definito: un palco a unire verticalmente i primi due piani dell'edificio; un cartellone di ospiti annunciati e qualche comparsata fuori programma. Infine, per fortificare il legame col passato, Farinetti ha chiesto la «collaborazione» di Gianmario Longoni, storico direttore dello Smeraldo: «Mi diverte l'idea di riproporre la tradizione del teatro del 700 — sorride Farinetti, l'imprenditore che ha conquistato New York e prepara lo sbarco a Chicago —. Il teatro in cui si beveva, si mangiava e si ascoltava buona musica».

Lo Smeraldo di Cats e del Boss, la sala del Fantasma dell'opera e del riservatissimo Bob Dylan, insomma, il palazzo al 10 di Porta Garibaldi è chiuso dal 30 giugno scorso, martoriato dai lavori e ucciso dai ritardi del parcheggio interrato. Oscar Farinetti da Alba — 58 anni, già proprietario di UniEuro, ideatore di Eataly e ambasciatore del made in Italy — ha rilevato il teatro, ha progettato il market, avviato i cantieri e programmato 3-400 assunzioni. Ieri l'altro, da Palazzo Marino, ha ricevuto il preventivo degli oneri di urbanizzazione (la tassa sulla ristrutturazione): un milione e 240 mila euro. Letta la cifra, ha vacillato: «Ho pensato di lasciar perdere». Ci ha ripensato? «Apriamo, apriamo... Al Comune di Milano si son sbattuti da matti, hanno accelerato l'iter, l'istruttoria è stata completata in meno di un anno. E però, ora basta: le leggi di questo Paese sono assurde, puniscono chi produce lavoro. Vanno cambiate».

Il megastore sarà inaugurato tra fine settembre e ottobre, nonostante la stangata degli oneri e le scommesse perse. Ricordate il voto di Farinetti alla vigilia delle elezioni? «Se vincesse Maroni mi verrebbe voglia di fare un mostruoso kebab allo Smeraldo, anziché Eataly». Roberto Maroni è il nuovo presidente della Lombardia. Eppure, dopo Porta Garibaldi, Eataly dovrebbe arrivare anche a San Babila.

Postilla
Certamente l'idea di avvolgere la cultura dentro un cartoccio di patatine fa storcere il naso, così come l'ha fatto storcere comprensibilmente sostituire a una storica piazza antistante un teatro un parcheggio da supermercato, ma proviamo a guardarla da un'altra angolazione. Dove prima c'era una sola funzione, tra l'altro abbastanza elitaria, per vari motivi – di cui non è il caso di discutere qui – abbandonata se ne insediano varie, con un mercato decisamente aperto e potenziale, diciamo sperimentale. Non ci sono i presupposti per osservarlo con attenzione, l'esperimento? Verificare quanti flussi di utenti genera, il tipo di mobilità preferito, le debolezze così come i punti di forza da sviluppare magari in altre esperienze simili. C'è nell'aria anche una moratoria dei grandi complessi commerciali extraurbani, concorrenti diretti di questi modelli di riqualificazione centrali mixed-use, che sono da sostenere, magari con maggiore attenzione a ruoli ed equilibri centro-periferia. E certo senza continuare a rimpiangere un'età dell'oro, vuoi commerciale, culturale, o anche sociale, che spesso esiste solo in una memoria vaga e distorta (f.b.)

Sforzi immani per rendere meno traumatica la morte di Venezia: che non scompaia travolta da un bestione che si capovolge sulle sue pietre, ma che perda l'anima a poco a poco soffocata dalla mercificazione turistica. La Nuova Venezia, 21 maggio 2013

«Firmato ieri a Ca’ Farsetti. Trevisanato: «Crociere motore dell’economia locale» I comitati: «La green zone non esiste, città galleggianti fuori dalla laguna» - Paolo Costa Il nostro porto è il più pulito d’Europa. Siamo in anticipo di sette anni sulla normativa europea che non prevede questi limiti - Giorgio Orsoni Un passo avanti per affrontare il problema con maggiore concretezza. Ringrazio le compagnie per la loro disponibilità»

Grandi navi in laguna. Ma con carburanti «a basso contenuto di zolfo». Due mesi dopo l’intesa, è stato sottoscritto ieri a Ca’ Farsetti il protocollo «Venice Blue Flag 2», accordo volontario con cui le compagnie di navigazione sulle emissioni dei carburanti. Dieci compagnie (Gruppo Carnival con Costa e P&O, Msc, Royal Caribbean, Cunard, Seaburn Princess, P&O, Disney Cruise, Saga group, Crystal Line, Premier Cruise) hanno firmato con il sindaco Giorgio Orsoni e il presidente del Porto Paolo Costa impegnandosi a far funzionare i loro motori dal momento dell’jngresso alle bocche di porto, con carburanti a contenuto di zolfo non superiore allo 0,1 per cento. Il Porto parla di «svolta», che avrà come risultato la creazione di una «Green zone» in laguna e la sensibile diminuzione delle quantità di emissioni inquinanti. «Il porto di Venezia è il più pulito in Europa», dice Costa, «siamo sette anni in anticipo rispetto alla normativa europea». Sodisfatto anche il sindaco Giorgio Orsoni, «Ringrazio le compagnie per la disponibilità», dice, «questo è un primo passo importante, che ci consente di affrontare il tema delle grandi navi con maggiore concretezza». Alla firma erano presenti anche l’assessore all’Ambiente Gianfranco Bettin, il comandante della Capitaneria ammiraglio Tiberio Piattelli, il direttore dell’Arpav Renzo Biancotto. Entusiasta anche il presidente di Vtp Sandro Trevisanato. «L’accordo firmato oggi è un grande impegno in termini di sostenibilità di questo comparto, che adotta volontariamente misure ambientali superiori a quelle previste dalla legge. Le compagnie con un notevole sforzo economico dimostrano come questo segmento turistico sia attento a sviluppare un rapporto tra città e attività economiche, che dalle crociere ricava 180 milioni di euro di spesa, 5500 addetti». «Certo è un miglioramento della situazione attuale, ma la Green zone non esiste», commentano i Comitati No Grandi navi e Laguna Bene comune, «invitiamo giornalisti e cittadini a non cadere nelle trappole semantiche. Il nuovo carburante è migliore di quello attuale, ma certo non è pulito, dato che lo zolfo nei diesel delle automobili è allo 0,001 per cento. Nei fumi delle navi non c’è solo zolfo ma anche metalli pesanti, idrocarburi, polveri sottili delle quali le navi sono le massime produttrici. Altro che chiusura del traffico domenicale. Si tratta dunque di una logica di riduzione del danno che ne presuppone l’accettazione. Le grandi navi vanno tenute fuori dalla laguna, come prevede il Piano di Assetto territoriale (Pat), appena approvato dal Consiglio comunale. senza ricorrere a nuove grandi opere anora più disastrose per l’ambiente lagunare come lo scavo del nuovo canale, o altre soluzioni a Marghera. «Inutile nascondere le navi e tenerle dentro la laguna», dice il portavoce Silvio Testa, i rischi rimarrebbero tutti».

Ed ecco la polemica. Per l’Autorità portuale la condizione necessaria per discutere di alternative credibili – che anche le compagnie sono pronte ad accettare – è il mantenimento della Marittima, «struttura moderna e avveniristica». Il nuovo canale Contorta farebbe entrare le navi dalla bocca di porto di Malamocco senza passare davanti a San Marco. Il sindaco Giorgio Orsoni punta su Marghera, altri sul porto fuori della laguna, come quello progettato da Cesare De Piccoli a Punta Sabbioni. O quello proposto davanti a Sant’Erasmo dall’ex capo dei piloti Ferruccio Falconi. «La prima cosa da fare», dice Falconi, «è alimentare la nave da terra, così possono spegnere i motori». «I carburanti passo avanti ma non basta», dice il consigliere di «In Comune» Beppe Caccia, «bisogna trovare le alternative».

La Repubblica, 21 maggio 2013

La demeritocrazia incalza e, col favore delle “larghe intese”, occupa il Palazzo, e già il Pdl torna a intonare la litania dei condoni. Qualche curriculum: Giancarlo Galan ha presieduto la regione Veneto negli anni (1995-2010) che l’hanno issata in cima alle classifiche per la cementificazione del territorio, 11% a fronte di una media europea del 2,8 %; da ministro dei Beni culturali, ha chiamato come consigliere per le biblioteche Marino Massimo De Caro, che col suo consenso è diventato direttore della biblioteca dei Girolamini a Napoli, dove ha rubato migliaia di libri (è stato condannato a sette anni di galera per furto e peculato). Per tali benemerenze, Galan oggi presiede la Commissione Cultura della Camera. Maurizio Lupi ha presentato nel 2006 un disegno di legge che annienta ogni pianificazione territoriale in favore di una concezione meramente edificatoria dei suoli, senza rispetto né per la loro vocazione agricola né per la tutela dell’ambiente. Ergo, oggi è ministro alle Infrastrutture e responsabile delle “grandi opere” pubbliche. La commissione Agricoltura del Senato è naturalmente presieduta da Roberto Formigoni, ricco di virtù private e pubbliche, fra cui spicca la presidenza della Regione Lombardia negli anni (1995-2012), in cui è diventata la regione più cementificata d’Italia (14%) battendo persino il Veneto di Galan. Flavio Zanonato, in qualità di sindaco di Padova, ha propugnato la costruzione di un auditorium e due torri abitative a poca distanza dalla Cappella degli Scrovegni, mettendo a rischio i preziosissimi affreschi di Giotto: dunque è ministro per lo Sviluppo economico, che di Giotto, si sa, può fare a meno. Vincenzo De Luca come sindaco di Salerno ha voluto il cosiddetto Crescent o “Colosseo di Salerno”, 100 mila metri cubi di edilizia privata in area demaniale che cancellano la spiaggia e i platani secolari: come negargli il posto di viceministro alle Infrastrutture? Marco Flavio Cirillo, che a Basiglio (di cui è stato sindaco), presso Milano, ha pilotato operazioni immobiliari di obbedienza berlusconiana, disseminando nuova edilizia residenziale in un’area dove il 10% delle case sono vuote, ascende alla poltrona di sottosegretario dell’Ambiente. E quale era mai il dicastero adatto a Nunzia Di Girolamo, firmataria di proposte di legge contro la demolizione degli edifici abusivi in Campania, per l’incremento volumetrico mascherato da riqualificazione energetica e per la repressione delle “liti temerarie” delle associazioni ambientaliste? Ma il ministero dell’Agricoltura, è ovvio.

Che cosa dobbiamo aspettarci da un parterre de rois di tal fatta? Primo segnale, l’onorevole De Siano (Pdl) ha presentato un disegno di legge per riaprire i termini del famigerato condono edilizio “tombale” del 2003, estendendoli al 2013, con plauso del condonatore doc, Nitto Palma, neopresidente della commissione Giustizia del Senato, e con la scusa impudica di destinare gli introiti alle vittime del terremoto. Se il governo Letta manterrà la rotta del governo “tecnico” che gli ha aperto la strada col rodaggio delle “larghe intese”, si preannunciano intanto cento miliardi per le cosiddette “grandi opere”, meglio se inutili, con conseguente criminalizzazione degli oppositori per “lite temeraria” o per turbamento della pubblica quiete. Più o meno quel che è successo all’Aquila al “popolo delle carriole”, un gruppo di volontariato che reagiva all’inerzia dei governi sgombrando le macerie del sisma, e venne prontamente disperso e schedato dalla Digos. In compenso, i finanziamenti per le attività ordinarie dei Comuni e delle Regioni sono in calo costante, e sui ministeri-chiave (come i Beni culturali) incombono ulteriori tagli selvaggi travestiti da razionale spending review, come se un’etichetta anglofona bastasse a sdoganare le infamie. La tecnica dell’eufemismo invade le veline ministeriali, e battezza “patto di stabilità” i meccanismi che imbrigliano i Comuni, paralizzano la crescita e la tutela ambientale, scoraggiano gli investimenti, condannano la spesa sociale emarginando i meno abbienti, comprimono i diritti e la democrazia.

Ma il peggior errore che oggi possiamo commettere è di fare la conta dei caduti dimenticando la vittima principale, che è il territorio, la Costituzione, la legalità. In definitiva, l’Italia. L’unica “grande opera” di cui il Paese ha bisogno è la messa in sicurezza del territorio e il rilancio dell’agricoltura di qualità. Il consumo di suolo va limitato tenendo conto di parametri ineludibili: l’enorme quantità di invenduto (almeno due milioni di appartamenti), che rende colpevole l’ulteriore dilagare del cemento; gli edifici abbandonati, che trasformano importanti aree del Paese in una scenografia di rovine; infine, il necessario rapporto fra corrette previsioni di crescita demografica e pianificazione urbana. Manodopera e investimenti vanno reindirizzati sulla riqualificazione del patrimonio edilizio e sulla manutenzione del territorio.

Su questi fronti, il governo Monti ha lasciato una pesante eredità. Ai Beni culturali, Ornaghi ha sbaragliato ogni record per incapacità e inazione; all’Ambiente, Clini, che come direttore generale ne era il veterano, ha evitato ogni azione di salvaguardia, ma in compenso si è attivato in difesa di svariate sciocchezze, a cominciare dallo sgangherato palazzaccio di Pierre Cardin a Venezia. Ma dal governo Monti viene anche un’eredità positiva, il disegno di legge dell’ex ministro Catania per la difesa dei suoli agricoli e il ritorno alla disciplina Bucalossi sugli oneri di urbanizzazione: un buon testo, ergo lasciato in coda nelle priorità larghintesiste di Monti & C. e decaduto con la fine della legislatura.

Verrà ripreso e rilanciato il ddl Catania? Vincerà, nel governo Letta, il partito dei cementificatori a oltranza, o insorgeranno le voci attente alla legalità e al pubblico bene? Il Pd, sempre opposto ai condoni, riuscirà a sgominare la proposta di legge dell’alleato Pdl? Anche i forzati dell’amnesia, neosport nazionale assai in voga in quella che fu la sinistra, sono invitati non solo a sperare nei ministri e parlamentari onesti (che non mancano), ma anche a ripassarsi icurricula devastanti dei professionisti del disastro. Se saranno loro a vincere, sappiamo che cosa ci attende. Se verrà assodato che il demerito è precondizione favorevole a incarichi ministeriali, presidenze di commissioni ed altre incombenze, si può preconizzare la fase successiva, quando il supremo demerito, se possibile condito di qualche condanna penale, sarà conditio sine qua nonper ogni responsabilità di governo. Che cosa dovremmo aspettarci da questa nuova stagione della storia patria? Il capitano Schettino alla Marina? Previti alla Giustizia? Berlusconi al Quirinale?

Eddyburg di norma non entra nelle campagne elettorali e non sponsorizza nè suggerisce liste o candidati. Roma e la candidatura di Rita Paris rappresentano però un caso eccezionale, per le ragioni che Andrea Costa bene esprime nel suo scritto. Rita ci dà la garanzia che, se entrerà in Campidoglio, aiuterà nella lotta contro le nefandezze urbanistiche succedutesi dai tempi delle giunte Rutelli e Veltroni, ed esplose con Alemanno.

Sono reduce da un tour de force romano. Una contro-visita turistica della nostra città. Scatto fotografie e ogni qual volta, arriva qualcosa di nuovo e che non va. La Roma di Alemanno che non ci ha mai convinto ci stava però, rassegnando. Ci rassegnava a un grigiore perenne, una sorta di inverno atomico della mediocrità, al silenzio delle idee e della creatività. Una tranquillità delle paludi non dei luoghi ameni e delle riflessioni. L'ecosistema ideale per la proliferazione d'intere famiglie affaristiche e commerci d'ogni genere, naturalmente celati all'opinione pubblica.

La friendship addiction del sindaco ha, di fatto, ricostruito negli uffici comunali un'intera filiera dell'estremismo nero degli anni settanta e ottanta. La città di cotanti estremisti della "legge", ha raramente vissuto momenti peggiori di questi, se pensiamo al numero di omicidi da cinque anni a questa parte. Per chi impostò un'intera campagna elettorale speculando sul caso Reggiani, può ben dirsi un fallimento senza appelli.

Il cemento inonda le delibere di un consiglio comunale ridotto a pulsantiera a comando dei soliti noti e di altri meno noti. In questi cinque anni bisestili sono entrati nell'agenda comunale progetti talmente assurdi e ridicoli che nemmeno negli studi di "Portobello" del compianto e rimpianto Enzo Tortora, sarebbero stati presi in considerazione. La Formula 1 è poi fortunatamente caduta, ma solo dopo una lunga battaglia dei cittadini.

Capito per Piazza Venezia, e mi rendo conto dello straordinario passo in avanti fatto dai trasporti pubblici locali: da un poco opportuno capolinea tramviario davanti a un teatro del settecento (largo argentina), avremo da luglio uno stupido e costoso capolinea tramviario attaccato a un palazzo del quattrocento (Palazzo Venezia). Aumenta il valore di ben tre secoli.

L'autobus che ho preso va talmente piano che stimola riflessioni profonde. Nella Roma alemanna la mobilità è immobile, mentre gli immobili (quelli di proprietà comunale, cioè nostra) sono in mobilità... pronti per essere svenduti a banche e furbetti del cantierino.

Facciamo il giro ed ecco il Teatro Marcello. Mi ricordo di aver letto delle nuove intenzioni del sindaco-motociclista-solitario-nella-notte: affidare per qualche decennio il monumento con annessi e connessi (area archeologica) a privati che "potranno gestire il beni con eventi, regolare la chiusura dei cancelli e introdurre il pagamento di un biglietto".

Arrivo in una via dei Fori Imperiali che misura il tempo che manca per la sua prossima chiusura settennale, causa gli scavi per una metro inutile e pericolosa per la stabilità di tutto il centro. I giardini di Villa Rivaldi ospiteranno per l'occasione l'intera divisione dei camions, attrezzi di cantiere e caterpillar. Questo sul fronte sinistro. Volgendo a destra lo sguardo, "novi tormenti e novi tormentati": ecco l'alternarsi postmoderno e volgare di gladiatori di cartone (alcuni, con l'ombrello, sono irresistibili), chioschi modello "Tredicine" con gelatino a sedici euro, improbabili fachiri indiani prodotti in serie con levitazione servo-assistita, sfingi egizie varie, Cola di Rienzo alla porporina e ancora chioschi, gladiatori, fachiri, e controfigure di Papa Woytila. Sembrano i fantasmi di Cinecittà venuti a cercar casa da qualche altra parte, vista la fine voluta da Alemanno anche per l'unica industria cinematografica romana.

Il Colosseo attende l'esculsiva per un ventennio data ad un resistibilissimo imprenditore privato. Nè il governo italiano né il sindaco della capitale han saputo trovare diciotto milioni di euro per la ripulitura del monumento più visitato d'Italia. Lo racconto ad un turista francese e non ci crede. Come cedere in comodato la Tour Eiffel al proprietario della Fernovus, in cambio di una mano di antiruggine.

Svoltiamo per la via Labicana e gli occhi cadono sul Ludus magnus riguadagnato dall'incuria alemanna alle erbacce spontanee. Orti spontanei un po' in tutte le aree archeologiche e persino sui tetti del centro. Subito sopra l'antica palestra dei gladiatori, la celebre Domus "Scajola"...dal nome di un senatore ligure appartenuto alla gens...insaputa.

A questo punto dico basta e mi dico che per dare una mano al prossimo sindaco Ignazio Marino, c'è bisogno di qualcosa di anche più forte di un candidato capace. Di più: una vita spesa bene e con competenza per questi temi che sono nel cuore di tutti noi: i beni culturali, i beni pubblici, l'Appia antica. I nostri beni pubblici che rappresentano il volto ed il corpo della nostra città. Beni, anche quelli naturali (alberi, ville storiche, agro romano) e faunistici che non hanno diritto di voto, non hanno rappresentanti, nessun lobbista a libro paga e non finanziano campagne elettorali. Tanti nemici e troppo soli. Bambini indifesi con genitori troppo spesso distratti.

Per difenderli e difenderci, per difendere Roma, il prossimo 26 e 27 giugno
PER IL COMUNE DI ROMA, SCRIVI RITA PARIS

archeologa della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, direttore del museo di Palazzo Massimo e dell’Appia, capolista della Lista Civica Marino Sindaco.

Il patrimonio culturale come baluardo di democrazia ed uguaglianza: un bene comune sotto attacco. Recensione dell'ultimo volume di Tomaso Montanari "Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane " (minimum fax)
Civitas è il termine latino da cui deriva il nostro ‘città’, ma in latino indica, nella sua prima accezione, la cittadinanza e i diritti ad essa connessi. Le città che sono al centro dell’indagine di Tomaso Montanari nel suo ultimo libro Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane (minimum fax, 2013), sono appunto civitates, ossia l’insieme, inscindibile, di edifici, monumenti, chiese e cittadini.

Attraverso la denuncia dell’uso distorto del patrimonio culturale di molte delle nostre città più importanti, da Roma a Milano, da Napoli a Venezia, da Siena a Firenze e L’Aquila, il volume (che si presenta domani a Roma) ricostruisce l’inesorabile processo di privatizzazione cui i nostri beni culturali sono sottoposti. Da patrimonio di tutti, costituito nei secoli per la publica utilitas o comunque divenuto tale da lungo tempo, questo bene comune sta subendo una trasformazione radicale per quanto riguarda la funzione – da sociale ad economica – che ne comporta appunto la vendita, e più spesso svendita, a privati, spesso mascherati sotto la veste di fondazioni.

Come ha ben visto Salvatore Settis, la privatizzazione delle città, è l’altra faccia della privatizzazione della tutela (i cui costi continuano peraltro ad essere pagati dallo Stato, cioè da tutti noi). Il patrimonio culturale è elemento fondamentale dello spazio pubblico, e lo spazio pubblico rappresenta il cardine del concetto di città: come ben sanno i lettori di eddyburg, senza spazio pubblico non c’è città e i cittadini sono di fatto rigettati in una condizione di abitanti o turisti la cui funzione prevalente diviene il consumo. A partire da questi principi, si snoda il ragionamento di Montanari, sottolineando con forza come il degrado e la sottrazione pubblica di monumenti e siti non sia solo un danno culturale, pur gravissimo ed irrisarcibile, ma costituisca un fattore, non secondario, dell’involuzione della vita democratica attualmente in atto in Italia, e non solo. L’assalto ai beni comuni scatenato a livello mondiale dalla fase neoliberista, in Italia particolarmente si esprime attraverso un attacco ai beni culturali, particolarmente violento sui centri storici e non casuale vista l’importanza e la vastità del nostro patrimonio.

Ci avviamo verso un impoverimento radicale della civitas, non solo dal punto di vista patrimoniale quindi, ma da quello dei diritti, perché se i cittadini avranno sempre minori possibilità di accedere ad opere d’arte, monumenti, architetture, in maniera non superficiale, ne sarà diminuita la loro possibilità di conoscenza e consapevolezza della storia attuale e presente e quindi ne verranno drasticamente circoscritte le possibilità di formazione e crescita sociale.

Ne Le pietre e il popolo si dimostra esemplarmente come dietro la stucchevole affermazione, che però tanto piace ai privati, del patrimonio culturale come “volano per lo sviluppo” oltre alla vecchia ma mai rinnegata equivalenza fra beni culturali e petrolio dei tempi di De Michelis, ci sia soprattutto il vuoto pneumatico di idee sulla funzione di quel patrimonio.

Non sapendo più a che serve, politici di ogni parte e intellettuali a loro organici ne cercano affannosamente un uso possibile: inevitabile che in un’epoca di trionfo dell’economia sulla politica, quello mercantile non possa che essere il fine privilegiato. Da qui l’accento sempre più esasperato sulle attività di valorizzazione, intesa principalmente come marketing orientato al turista. E quindi mostre prive di qualsiasi retroterra scientifico ed eventi che utilizzano i nostri monumenti e siti come quinte di lusso. La tutela al servizio del mercato, in estrema sintesi.

Leggendoli tutti assieme gli orrori che i nostri politici hanno architettato e gli alti funzionari Mibac hanno permesso (o addirittura favorito) si coglie anche l’accelerazione spaventosa che questo processo di privatizzazione ha subito negli ultimi anni.

Questo libro è importante perché rompe il velo di ipocrisia che circonda questo ambito: storia dell’arte, monumenti, mostre, sono confinati sui media fra i temi di “alleggerimento”, quelli con cui si conclude, “in bellezza” appunto, un tg, rivelando in questo modo quale ne sia la considerazione generale: il bello come momento di svago, di evasione rispetto alle cose che contano sul serio.

Ed è importante perché nell’additare, con lucidissima spietatezza, le responsabilità, Tomaso Montanari non si ferma alle solite risposte: certo i politici, gli alti dirigenti Mibac brillano per ignoranza e arroganza, ma la responsabilità va cercata anche in chi questa ignoranza non ha saputo o voluto dissiparla. E quindi l’accademia in genere e gli storici dell’arte in particolare che solo in pochi casi hanno compreso come fosse prioritaria quella funzione di diffusione della conoscenza che costituisce il primo e più efficace strumento di tutela. Come ci aveva insegnato Andrea Emiliani: “La coscienza del possesso sociale è la sola garanzia valida ad allontanare lo spettro della distruzione”.

Ma l’importanza di Le pietre e il popolo risiede principalmente nella sua capacità di riadditarci il senso smarrito: beni culturali e paesaggio non servono a suscitare emozioni estetiche, tanto passeggere quanto superficiali, ma sono attrezzi poderosamente efficaci per capire il presente e la realtà, interpretandone la complessità senza banalizzazioni. A disposizione di tutti: esserne privati significa quindi essere più poveri non solo dal punto di vista culturale, ma anche da quello politico, essere insomma cittadini più indifesi perché meno armati contro le insidie della semplificazione e dell’omologazione.

E’ una battaglia politica, quindi quella a difesa del nostro patrimonio: non è un caso, allora, che fra i più scatenati fautori della valorizzazione mercantile dei beni culturali ci siano quegli esponenti della nostra classe politica più abili nell’uso dei media e nell’acquisizione di un consenso inteso fine e non come mezzo. La politica come marketing di sé stessi, così come il patrimonio culturale.

L’esempio paradigmatico di questa doppia equivalenza politica = cultura = marketing è proprio la città del fiorentino Montanari, dove da anni, con la connivenza e le omissioni dei più alti dirigenti del Ministero dei beni culturali, il patrimonio culturale, considerato alla stregua di una vera gallina dalle uova d’oro, è asservito a finalità di puro marketing e di visibilità personale, finalità del resto teorizzate nell’imbarazzante Stil Novo, pamphlet dell’attuale sindaco.

Triste ironia della sorte che ciò avvenga proprio nella città del Rinascimento, l’epoca nella quale, proprio attraverso la cultura, gli uomini erano riusciti a costruire potenti mezzi di emancipazione e a rendere ancora più vero il detto di origine medioevale secondo il quale “ l’aria della città renda liberi”.

Le pietre e il popolo si presenta domani, 21 maggio, alle h. 17, a Roma, presso la sede della Soprintendenza Archeologica a Capo di Bove, via Appia Antica, 222.
Ne parleranno, assieme all’autore, Paolo Berdini, Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi.

L'articolo è inviato contemporaneamente a L'Unità on-line, blog "nessun dorma"

DemocraziaKmZero, 20 maggio 2013. Convegno, Ravenna 25 maggio

È del 2001 la famigerata Legge Obiettivo, voluta da Berlusconi, che istituiva procedure speciali per le grandi opere pubbliche definite di interesse strategico – infrastrutture di trasporto ed energetiche, reti di telecomunicazione, le dighe del MOSE a Venezia e l’edilizia pubblica. Un provvedimento cui è seguito un proliferare di interventi normativi senza paragoni, per assicurarne l’operatività nel corso degli anni – non ultimo il D.Lgs 163/2006 Codice Appalti, che ridefinisce la disciplina nazionale del trabocchetto del project financing; così come senza paragoni è la continuità politica dei Ministri Lunardi, Di Pietro, Matteoli e Passera nel ribadirne la priorità e nell’aggiornare continuamente l’elenco delle opere – passate in un decennio da 196 a 348, di cui 189 sono infrastrutture logistiche.

Tra queste, oltre agli arcinoti Ponte sullo Stretto e TAV Torino-Lione, è inserita la Orte-Mestre, ovvero la E45-E55, detta Nuova Romea Commerciale, asse di collegamento nord-sud con la direttrice est-ovest del Corridoio V Lisbona-Kiev, all’innesto del cosiddetto Passante di Mestre.

I numeri della Orte-Cesena-Mestre sono talmente pesanti da classificarla al secondo posto, dopo il Ponte sullo Stretto di Messina: 396 chilometri di asfalto che uniranno Orte, nel Lazio, a Mestre, in Veneto. Sorgerà sul sedime della superstrada E45, da implementare, per proseguire poi interamente nuova nel tratto Emiliano-Veneto, a partire da Cesena e in parallelo all’attuale SS309 Romea, stravolgendo i territori di 5 regioni (Lazio, Umbria, Toscana, Emilia Romagna e Veneto),11 province, 48 comuni. Sono previsti 140 km di ponti e viadotti, 64 km di gallerie, 250 tra cavalcavia e sottovie, 83 nuovi svincoli, con un consumo di suolo stimato tra i 600 e i 700 ettari al 90% agricoli. Altrettanto pesanti sono le interferenze ambientali e paesaggistiche: nella sua corsa attraverserà 22 Siti di Interesse Comunitario (SIC) e Zone a Protezione Speciale (ZPS); interesserà il Parco del Delta del Po e la Laguna Sud di Venezia; taglierà in due le Valli del Mezzano e la Riviera del Brenta; toccherà le Valli di Comacchio e il Parco delle Foreste Casentinesi; bucherà gliAppennini Centrali… Per non dire degli impatti dovuti all’aumento dell’inquinamento atmosferico e acustico; quelli sulla sicurezza idro-geologica, a causa dell’ulteriore impermeabilizzazione dei suoli; e quelli socio-economici a spese della salute pubblica e delle economie locali, che in aggiunta al nastro di asfalto subiranno la beffa di vedere il traffico riversarsi sulla viabilità ordinaria per non pagare i nuovi pedaggi.

Eppure, di questa gigantesca arteria, che “cuba” qualcosa come 10 miliardi di euro in project financing, si sa poco o nulla. Ad oggi è ancora apparentemente ferma al palo, in attesa del pronunciamento del CIPE (il Comitato Interministeriale di Programmazione Economica) sul progetto preliminare. In realtà, la Orte-Mestre è un mostro che dorme con un occhio aperto, aspettando solo la messa a punto delle condizioni normative e tecnico-finanziarie per risvegliarsi prontamente. E, a questo scopo, le forze politiche istituzionali hanno sempre lavorato in modo trasversale…

Già il 2002 vede la creazione dell’Associazione Nuova Romea, i cui soci fondatori sono tutti parlamentari dell’Ulivo, soprattutto diessini, tra i quali spicca nientemeno che Pier Luigi Bersani. Tra gli scopi statutari vi è proprio quello di promuovere la E55, l’associazione infatti ”si propone di favorire una collaborazione interregionale di area vasta, tra istituzioni, imprese e cittadini: per la realizzazione della nuova infrastruttura stradale E55-Nuova Romea e del Corridoio Adriatico (…)”. Nel 2003, il primo progetto della cordata promotrice “Newco – Nuova Romea SpA” (composta da società autostradali, imprese di costruzione e banche di prima grandezza, tra cuiAutostrade SpA del Gruppo Benetton, Autostrada Brescia–Padova, Unicredit, Antonveneta, Gruppo IMI San Paolo, Impregilo, le “coop rosse” CCC e CMC, Mantovani SpA e Adria Infrastrutture), che proponeva il solo tratto da Cesena a Mestre, viene scalzato dal progetto della Gefip Holding SA (il gruppo di famiglia dell’eurodeputato Vito Bonsignore, in cordata con MEC SpA, Banca Carige, Efibanca di Lodi, ILI SpA, Egis Projects SA e altre), che prevede la realizzazione di un unico asse autostradale da Orte a Mestre. Il contenzioso tra le due compagini si risolve davanti al Consiglio di Stato con l’acquisizione della Newco da parte di Bonsignore per 4,5 milioni di euro e l’impegno di affidare a CMC le opere previste in territorio romagnolo. Tutti serviti, si parte.

Da notare, per inciso, che l’allora vice-presidente della Newco è tale Lino Brentan, oggi agli arresti domiciliari per corruzione, nell’ambito degli appalti per il Grande Raccordo Anulare di Padova, e pure in recentissime manette si trovano Piergiorgio Baita, amministratore delegato della Mantovani SpA – di fatto il general contractor del Veneto per le grandi opere “pubbliche” della Regione – e Claudia Minutillo, ex assistente di Galan e amministratore delegato di Adria Infrastrutture, accusati entrambi di associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale.

L’iter procede. Nel 2009 il consiglio di amministrazione di ANAS dà il via libera al progetto preliminare presentato da Gefip, che l’anno dopo ottiene il parere favorevole della commissione VIA nazionale. D’ora in avanti si tratterà di trovare le ingenti risorse necessarie e soprattutto mettere in equilibrio il piano economico per avere anche il placet del CIPE.

Ma bisogna arrivare al 2012, con il governo Monti a pieno regime, per assicurare rinnovato smalto alla Orte-Mestre. Nell’Allegato infrastrutture del documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF) 2013-2015 viene confermata come intervento prioritario e, da luglio, sbandierata dal duo ministeriale Passera-Ciaccia come di imminente sblocco ad ogni vigilia di riunione del CIPE. Sinora, però, questo passaggio non è ancora avvenuto per problemi “tecnici” tra il Ministero delle Infrastrutture e quello dell’Economia. Problemi tecnici che sono più propriamente problemi di reperimento di risorse.

Del piano economico-finanziario non è dato sapere, ma gli espedienti fiscali del governo nel corso del 2012 dimostrano che quest’opera non si regge economicamente e finanziarla sarebbe un suicidio per le casse dello Stato. I “tecnici” si stanno inventando mirabolanti escamotage per far quadrare artificiosamente i conti, dall’istituzione dei micidiali project bond alle misure di de-tassazione per le infrastrutture di importo superiore ai 500 milioni – introdotte dal Decreto Sviluppo Bis e rese operative dal CIPE a marzo di quest’anno. Per la Orte-Mestre questo significa che, oltre al contributo pubblico di ANAS di 1 miliardo e 400 milioni per effetto del project financing, lo Stato rinuncerà a 1 miliardo e mezzo di entrate IVA, IRES, IRAP. Si stanno insomma intessendo le architetture fiscali utili ad aprire una nuova voragine di debito pubblico, giacché le casse dello Stato foraggeranno direttamente l’opera, copriranno i mancati rientri delle imprese private e andranno motu proprio a debito di imposte.

Ora, dire che il piano economico di un’opera viaria non risulta economicamente sostenibile, è semplicemente ammettere che i dati di traffico non sono sufficienti a giustificarne la necessità. Infatti, così com’è dimostrata l’inutilità del TAV valsusino, visto che la portata della linea ferroviaria esistente è ampiamente sotto-utilizzata, allo stesso modo i soli 18.000 veicoli medi giornalieri in transito, nel tratto veneto dell’attuale Romea, ricalcano il flusso di una banale strada provinciale, dove i mezzi pesanti, che oggi incidono per il 30%, scelgono sempre più spesso la viabilità gratuita, con le ovvie ricadute sulla sicurezza stradale.

Insistere con il dogma delle grandi opere non è solo perseguire irresponsabilmente un modello sviluppista distruttivo – l’aumento del debito comporta l’inasprimento delle misure di austerità, dei tagli ai servizi pubblici e all’occupazione – ma è altresì sposare le logiche che vedonole infrastrutture come strumenti di neo-colonialismo territoriale e nuovi asset su cui accentrare profitto speculativo da parte dei mercati finanziari, sempre più aggressivi nei confronti dei beni comuni e delle risorse naturali.

La Orte-Mestre è concettualmente arretrata, devastante, inutile e costosissima il cui unico scopo è quello di favorire le lobbies delle filiere del cemento/asfalto (quando non del malaffare), le trappole delle concessioni autostradali e i privilegi del capitale finanziario. Ma i comitati, le associazioni, i movimenti sono ben svegli…

Opzione Zero, comitato della Riviera del Brenta nel veneziano, nato nel 2004 proprio sulla vertenza Orte-Mestre, non ha mai abbassato la guardia sulle manovre politico-affaristiche intorno a quest’opera faraonica, con un’azione incessante di approfondimento e divulgazione. Il puntiglioso lavoro di ricerca ha rivelato tutte le connessioni che la legano a doppio filo ad altre grandi opere della delirante strategia infrastrutturale e insediativa regionale detta “Bilanciere del Veneto” (Passante di Mestre, GRA di Padova e Camionabile, Nogara-Mare, Veneto City a Dolo, Polo Logistico a Mira…).

Negli anni, il progressivo allargamento della visuale prospettica sulla Orte-Mestre ha aperto sempre nuove possibilità di azione e relazione e l’11 dicembre 2010 segna una data importante per tutte le realtà dei vari territori attraversati dal nuovo asse autostradale: nasce finalmente la Rete Nazionale Stop Orte-Mestre, www.stoporme.org, con lo scopo di unire le forze e le risorse per contrastare quest’opera e individuare soluzioni alternative, più economiche e sostenibili. La Rete vede la partecipazione di importanti e qualificanti organizzazioni nazionali come WWF, Legambiente, Italia Nostra, Mountain Wilderness, Stop Consumo di Territorio e Salviamo il Paesaggio … ma sono tantissime le associazioni, i comitati, le articolazioni locali di movimenti e forze politiche, e le personalità che hanno già dato adesione.

L’impegno è stato sinora quello di mantenere alta l’attenzione e monitorare qualsiasi notizia riconducibile alla nuova autostrada, con continui reciproci aggiornamenti, diffondendo informazione e conoscenza sull’opera. Si sono attivati i primi passi per la preparazione dei ricorsi, qualora il CIPE dovesse sbloccare le procedure. Si stanno programmando iniziative e mobilitazioni, la prossima prevista a fine maggio sarà un importante convegno nazionale a Ravenna. Soprattutto, si sono studiate efficaci proposte alternative in risposta, non già a una ulteriore domanda di mobilità, bensì a una crescente richiesta di sicurezza, di tutela e di minor spreco di risorse: l’adeguamento e la riqualificazione delle attuali SS309 Romea ed E45 è realizzabile con un decimo degli investimenti; la deviazione del traffico pesante sulla A13 e sulla rete autostradale esistente è attuabile immediatamente; il potenziamento del trasporto ferroviario e fluvio-marittimo è sostenuto e incentivato dalle norme europee.

Con la prorogatio di Monti, si profila un alto il rischio di colpi di mano e accelerazioni su tutte le grandi opere, unico settore destinato “a rassicurare i mercati e le banche”. Parimenti, le posizioni politiche di tutte le Regioni interessate sono lontanissime dal riconsiderare, a dieci anni di distanza dalla Legge Obiettivo e nel pieno della crisi, la pianificazione territoriale, concedendo una moratoria sulle infrastrutture. Ma è anche un momento importante in cui far emergere le contraddizioni di un modello fallito e divaricare quelle faglie che i movimenti di resistenza territoriale hanno ben dimostrato di saper aprire. Su questo Stop Or-Me e le realtà che ne fanno parte non mancheranno di dare il loro vigoroso contributo.

Qui la locandina di un convegno nazionale che si terrà a Ravenna, il 25 maggio 2013, dalle ore 10 alle 17,30. Interverranno tra gli altri Mattia Donadel, Ivan Cicconi, Paola Bonora, Luca Martinelli

E' già successo a insetti, passeracei, volpi, procioni, nutrie eccetera, di cambiare radicalmente grazie al contesto metropolitano di vita. Perché non imitarli consapevolmente, quando ci azzeccano? La Repubblica, 20 maggio 2013 (f.b.)

Forse non ce ne siamo ancora accorti, ma stiamo diventando tutti uguali. Per la prima volta nella storia dell’umanità, più di metà della popolazione mondiale vive in città, e questo sta producendo un effetto non solo culturale, ma anche biologico. «Gli uomini sono oggi più geneticamente simili tra loro di quanto siano mai stati negli ultimi 100 mila anni», afferma il professor Steve Jones, genetista del London University College e uno degli scienziati più noti del pianeta. Non ci siamo mai assomigliati tanto, in altre parole, da quando poche decine di migliaia di Homo Sapiens popolavano l’Africa orientale e cominciavano a diffondersi nel resto del globo.

Geneticamente simili, va precisato, non significa avere tutti lo stesso aspetto, la stessa faccia, lo stesso colore della pelle: vuol dire avere un simile Dna. Ma una cosa è in un certo senso la premessa dell’altra, essendo in ultima analisi la genetica a determinare le caratteristiche del nostrocorpo. Nel presentare la tesi dell’ultimo libro del professor Jones, laBbc parla infatti di «grande omogeneizzazione umana». A determinarla, è l’urbanizzazione. Le città, sebbene rappresentino soltanto il 3 per cento della superficie terrestre, ospitano ora più del 50 per cento della popolazione totale della terra.Questo processo ha portato nel “melting pot” delle metropoli, nel pentolone di razze dei centri urbani, una quantità senza precedenti di immigrati da tutti i continenti. A New York si parlano 800 lingue. A Londra i bianchi sono adesso una minoranza (appena dieci anni fa erano ancora il 58 per cento). E come conseguenza di questa commistione, le lingue e i dialetti della terra diminuiscono costantemente: ogni due settimane ne scompare una delle 7 mila ancora esistenti.

In sostanza, la multietnicità, producendo società più diversificate dal punto di vista etnico e culturale, porta a mescolare le razze come non era mai accaduto, attraverso i matrimoni misti. Nord e sud, del mondo o di una stessa nazione, si mischiano. E dal cocktail genetico esce poco per volta una nuova specie: l’Homo Unicus. La razza degli uomini tutti uguali, non attraverso un fantascientifico progetto di clonazione, bensì come risultato di una rivoluzione nei trasporti, nel progresso, nello stile di vita.

«È un’evoluzione cominciata con la bicicletta», dice il genetista Jones, con una provocazione che contiene una verità di fondo. Per milioni di anni, fino praticamente a due-tre secoli fa, gli uomini hanno vissuto per lo più nel luogo in cui erano nati. La distanza tra un villaggio e una città, per non parlare di quella tra una nazione e l’altra, tra un continente e l’altro, appariva come quella tra la Terra e la Luna: incolmabile. Le navi dei conquistadores prima, i treni della rivoluzione industriale poi (e la metropolitana, la prima inaugurata a Londra 150 anni or sono), hanno ridotto e infine frantumato quella distanza. Il globale è diventato locale. E la concentrazione sempre più ampia e diffusa di persone di origine etnica e geografica differente all’interno di una stessa città ha creato unamiscela dapprima culturale, quindi pure biologica, come non accadeva dall’alba dell’Uomo.

Naturalmente è inesatto dire che siamo tutti uguali. Ma l’urbanizzazione, avverte l’eminente scienziato gallese, ci sta cambiando in modo non solo socioculturale. Possiamo sembrare diversi per ceto, reddito, religione, ma dentro, dal punto di vista scientifico, ci somigliamo quasi come al tempo del primo uomo. Dando ragione a quella vecchia battuta di Albert Einstein, che al funzionario dell’immigrazione di New York, il quale compilando il questionario d’ingresso negli Usa gli chiedeva a che razza appartenesse, rispose senza batter ciglio: «Umana».

Utile iniziativa di divulgazione e sensibilizzazione degli spazi aperti metropolitani, che restino tali, fruibili a tutti, produttivi, nello spirito della greenbelt. Corriere della Sera Milano, 20 maggio 2013 (f.b.)

Un viaggio alla scoperta della campagna lombarda per valorizzare una delle aree agricole più vaste d'Europa: 47 mila ettari di coltivazioni attorno a Milano, 925 mila in tutta la regione. È «Via Lattea», il progetto del Fondo ambiente italiano che dal 2011 promuove il patrimonio rurale locale con visite alle cascine, ai borghi storici e alle vie d'acqua. Ieri mattina in piazza Duomo è stata inaugurata, davanti a una colorata mongolfiera, la terza edizione, che sarà più lunga e più ampia rispetto alle precedenti: le iniziative del Fai non riguarderanno più solo il Parco Agricolo Sud Milano ma si estenderanno a tutta la regione, con un programma di gite in bici, a piedi e in barca che durerà fino a settembre.

A presentare l'iniziativa c'erano Giulia Maria Crespi, presidente onoraria del Fai, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia e l'amministratore delegato di Expo Giuseppe Sala. «Dobbiamo far sapere ai milanesi che attorno alla città c'è tutto questo verde — ha spiegato Giulia Maria Crespi —. Un'area agricola che dà lavoro, attira turismo e fornisce ossigeno ma che rischia di essere distrutta dai condoni edilizi». Una battaglia, quella contro le sanatorie sull'abusivismo, che sta molto a cuore alla presidente Crespi: «Mi auguro che promuovere la bellezza e la ricchezza della campagna lombarda serva a convincere i politici, locali e nazionali, a evitare i condoni».
Dall'anno scorso anche Expo si è unita al Fai nell'organizzazione di «Via Lattea»: «L'iniziativa è molto in linea con i nostri valori perché promuove il lavoro delle persone e la qualità del territorio — spiega il commissario unico dell'esposizione Giuseppe Sala —. Esattamente quello che stanno facendo i Paesi partecipanti, lo vediamo nei progetti che ci presentano. Per questo abbiamo sposato "Via Lattea" l'anno scorso e intendiamo accompagnarla fino al 2015».Entusiasta anche il sindaco Pisapia, che con il Comune ha patrocinato l'iniziativa: «È importantissimo far sapere ai milanesi e a tutti gli italiani che Milano è la seconda città agricola del Paese e che la Lombardia è la prima regione per superficie coltivata: questa è una ricchezza che non possiamo disperdere. E che dobbiamo collegare ai temi di Expo».
Che l'agricoltura sia una ricchezza per il territorio lo dimostrano i dati della Camera di Commercio di Milano, sponsor di «Via Lattea»: in Lombardia un visitatore su quattro arriva esplicitamente per godersi la campagna. Trekking, passeggiate, visite ai parchi naturali, itinerari enogastronomici, gite culturali: le vacanze all'aria aperta piacciono sempre di più, soprattutto agli stranieri (il 58% dei turisti «green», divisi tra inglesi, francesi e tedeschi). Le province preferite per il relax bucolico sono Varese (58%), Como (42%) e Lecco (41%). A Milano solo il 12% arriva per motivi legati alla natura: un progetto per far scoprire il Parco agricolo e le cascine, quindi, non può che essere utile.

Al solito: piove, agricoltura disastrata, e si “scopre” che cementificare a vanvera produce solo guai, al massimo bolle edilizio-finanziarie. Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2013 (f.b.)

Ancora una volta si stila il bollettino di guerra. E si replica il solito vecchio copione. Sott'acqua infatti con il mais, la frutta e il riso, rischiano di finire i redditi degli agricoltori, ridotti in dieci anni del 25%, «provati» da costi alle stelle e da prezzi che continuano a scendere, come conferma l'ultima rilevazione dell'Ismea di aprile (-6%). D'altra parte l'agricoltura è una fabbrica a cielo aperto soggetta a un andamento meteorologico che negli ultimi anni sta diventando sempre più imprevedibile. Ma non basta la rassegnazione contro la natura matrigna.

Gli effetti delle piogge in cui stanno affogando le colture italiane più redditizie, le commodity che reggono le sorti del made in Italy alimentare, sono anche il frutto di una scellerata politica che ha bruciato migliaia di ettari di terre fertili e che ha reso i fiumi delle discariche. «Troppe case, strade e capannoni - denuncia Coldiretti Lombardia - hanno ridotto la capacità di drenare l'acqua in eccesso soprattutto nei periodi di maltempo». I terreni coltivati invece svolgono una strategica funzione di assorbimento dell'acqua «un airbag naturale» in grado di limitare i danni. Così come la presenza dell'uomo, il mantenimento dell'habitat, la celebrata funzione degli agricoltori guardiani del territorio sono un fondamentale antidoto agli attacchi della natura. È mancata una politica del territorio che certo avrebbe richiesto risorse, ma sicuramente inferiori rispetto a quelle necessarie per indennizzare i danni.

Nonostante gli appelli l'Italia continua a ridurre il suo patrimonio. Una recente indagine realizzata dal ministero delle Politiche agricole, in occasione della presentazione di un ddl contro l'erosione di suolo agricolo (rimasto in archivio), aveva stimato in dieci anni la perdita di 5 milioni di ettari coltivati per una superficie equivalente a Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna messe insieme. Solo in Lombardia per fare posto al cemento si cancellano ogni anno 5mila ettari di aree verdi. E poi resta il nodo delle infrastrutture idriche con un piano di opere approvato da anni, ma che non riesce a decollare.

E così il mix tra l'azione dell'uomo, che taglia spazi alle coltivazioni, e il bizzarro andamento climatico mette in crisi i bilanci aziendali, portando l'agricoltura verso il tracollo. Con oltre 50mila aziende a rischio di chiusura entro quest'anno (previsioni della Cia). Quasi una beffa considerando che l'ultima stima sul Pil diffusa dall'Istat qualche giorno fa attribuisce al settore l'unico segno positivo. E se non si riesce a prevenire anche la strada dei risarcimenti è lastricata di ostacoli. Le assicurazioni infatti restano una debolezza strutturale delle imprese, conseguenza delle difficoltà economiche che impongono tagli ai costi aziendali. Una svolta dovrebbe arrivare dalla riforma della Politica agricola comune proiettata su una nuova strategia della gestione dei rischi.
Ma in attesa di nuove politiche non resta che la conta dei danni.

Ci sono molti equivoci sull’Ilva e Taranto, come il conflitto fra lavoro e salute Ma lo scandalo è nelle istituzioni della politica, che non hanno fatto il loro mestiere, ma ceduto il loro cervello a «una cultura allegramente industrialista». La Repubblica, 18 maggio 2013

Ci sono molti equivoci sull’Ilva e Taranto. Come il conflitto fra lavoro e salute. Come se i lavoratori non fossero cittadini – e figli mariti fratelli genitori – e sicurezza e malattie sul lavoro non fossero essenziali per tutti. L’equivoco vuol coprire un passato in cui l’azienda ha ottenuto una extraterritorialità, violando leggi e manipolando l’opinione; e oggi raschia un fondo di barile esausto, scansandone il risarcimento.

E c’è l’equivoco di una disfida fra una famiglia di imprenditori e i loro dirigenti (cui il governo si associò fino a offuscare la distinzione) e una giudice fotoromanzata, fanatica per gli uni, eroica per altri – riconoscendo comunque gli uni e gli altri che abbiano finora, magistrati dell’accusa e giudice, parlato solo attraverso gli atti. L’equivoco fa passare come un aggiornato duello rusticano un trapasso d’epoca nel modo di lavorare e di abitare. Quello che si è chiamato sistema Ilva non si spiega solo con la trama di corruzioni e intimidazioni: la carne è debole, ma ad abbattere gli argini occorreva l’alibi di una cultura allegramente “industrialista” e un’abitudine al quieto vivere fra poteri, padronali, curiali, amministrativi e spesso di malavita, così radicata da rendere fin superflua la consapevole corruzione.

Si dice amaramente, a Taranto: “si sono venduti pure gratis”. Così i colpi di scena che portano in carcere personaggi di rango pubblico, e il misto di sorpresa e scandalo che li accoglie (simulati ormai l’una e l’altro) oscurano la posta, che non è da magistrati: che si deve produrre, amministrare e fare politica e sindacato in altro modo. Rotta dall’avvento dei magistrati, dei custodi giudiziali, di carabinieri e Guardia di Finanza indipendenti, l’extraterritorialità ha portato allo scoperto decenni di monnezze sepolte sotto asfalto o riversate nelle acque o gettate nelle fornaci: abusi di una tale portata dovrebbero essere riseppelliti e continuati? Fin qui è affare di magistrati altrimenti responsabili di una colossale omissione, altro che eccesso di zelo. Da qui in poi, tocca alla società e le istituzioni altre, quelle che l’abitudine minaccia altrettanto e più della corruzione.

«La “finanza creativa” per le grandi infrastrutture serve assai più a mascherare i veri costi per lo Stato e la collettività, che ad aumentare l’efficienza degli investimenti. E il cosiddetto Project Financing (PF), la compartecipazione pubblico-privato nelle infrastrutture è l’emblema più noto di una fantasia che teoricamente nasce con intenti virtuosi, ma di fatto è la fabbrica del nuovo debito pubblico occulto che rischiamo di lasciare ai posteri.». Il Fatto quotidiano, 15 maggio 2013

La “finanza creativa” per le grandi infrastrutture serve assai più a mascherare i veri costi per lo Stato e la collettività, che ad aumentare l’efficienza degli investimenti. E il cosiddetto Project Financing (PF), la compartecipazione pubblico-privato nelle infrastrutture è l’emblema più noto di una fantasia che teoricamente nasce con intenti virtuosi, ma di fatto è la fabbrica del nuovo debito pubblico occulto che rischiamo di lasciare ai posteri.

Il PF vuole sfruttare l’efficienza e il know how del privato, incentivato in modo opportuno, per ovviare ai difetti delle gestioni pubbliche. Il concessionario privato sarà motivato a minimizzare non solo i costi di costruzione, come nei normali appalti, ma anche di gestione del progetto, cercando di massimizzare l’utenza, essendo ripagato dalle tariffe. Il problema di tale schema applicato alle infrastrutture è nel “rischio commerciale” (o “rischio traffico”). Il concessionario privato ha strumenti per ottimizzare gli aspetti costruttivi e gestionali (i “rischi industriali”), ma non per condizionare la domanda di traffico. Se dunque il “rischio commerciale” per le infrastrutture, è lasciato dal concedente pubblico interamente al soggetto concessionario privato, questi dovrà cautelarsi, alzando i corrispettivi richiesti e/o chiedendo garanzie contro una domanda inferiore al previsto, flessibilità tariffaria o di durata della concessione.

Domani è un altro giorno
Dal lato del concedente pubblico, spesso l’obiettivo è aggirare vincoli di bilancio. Schemi di PF si prestano bene a tale scopo: è sufficiente fornire al concessionario garanzie adeguate, per minimizzarne i rischi, e l’opera può essere subito cantierizzata, rimandandone i costi reali per lo Stato a tempi così lunghi da essere politicamente irrilevanti. In Italia nel secolo scorso vi furono massicce emissioni di obbligazioni garantite dallo Stato per diverse autostrade,basate su piani di rientro irrealistici. I costi pubblici finali di riscatto delle obbligazioni furono altrettanto elevati quanto occulti. Anche l’Alta velocità ferroviaria si basava inizialmente su obbligazioni garantite che non sarebbero mai state ripagate dai ricavi da traffico e dovette intervenire l’Europa a porre fine a quello schema: lo Stato dovette pagare nei primi anni 2000 12 miliardi cash alle Ferrovie dello Stato (in seguito FS), la notizia meritò solo un trafiletto sul Sole 24 Ore.

Le difficoltà finanziarie delle casse pubbliche, connessa alla bassa redditività degli investimenti, hanno stimolato la fantasia di promotori e costruttori, con un dispositivo “creativo” di finanziamento noto come “canone di disponibilità” (inventato per il progetto del Ponte di Messina): il gestore dell’infrastruttura (Rete Ferroviaria Italiana-FS, nel caso del Ponte), non paga un pedaggio variabile al costruttore dell’opera, ma una quota fissa annuale. Che, per definizione, non dipende dal traffico. L’opera si realizza se si determina un “canone di disponibilità” tale da ripagarla. Se poi il traffico sarà inferiore al previsto, peggio per l’ incauta FS. Il principio del PF è salvo, e il vincolo di bilancio aggirato (FS è una SpA, formalmente assimilabile a un privato). Lo schema può funzionare in quanto FS è in realtà pubblica e percepisce alti trasferimenti dallo Stato, pagatore di ultima istanza dell’operazione. Sembra che per la ferrovia Av Milano-Genova si sia tentata tale operazione, ma i risultati siano apparsi così indifendibili data la scarsità dei ricavi previsti, che si è scelto di addossare allo Stato il 100 per cento dei costi.

Il caos nei cantieri
Per le metropolitane il sistema è diverso, ma la sostanza identica: i sussidi pubblici al servizio sono assimilati a ricavi tariffari privati e sono commisurati, a volte, al traffico di passeggeri, comunque “garantito” ex-ante, a volte addirittura alle singole vetture che percorrono la linea (cioè all’offerta, non alla domanda). Basta calibrare il tutto, per garantire al concessionario un flusso di ricavi adeguato. Quanto alle autostrade, la crisi economica, con il conseguente calo del traffico e l’aumentato costo del denaro, ha messo in crisi i piani finanziari di molte opere in PF, soprattutto in Lombardia dove molti cantieri sono stati aperti con prestiti-ponte. Emerge quindi l’incongruenza tra rendimenti attesi per le ferrovie e per le autostrade: i fondi pubblici assegnati fin dall’inizio a queste ultime sono solo parziali, al contrario di quelli per le ferrovie. E in nessuno dei due casi commisurati alla utilità sociale. La decisione di quante risorse assegnare dovrebbe essere affidata ad autorità terze che facciano analisi costi-benefici imparziali e comparative, che ne verifichino l’utilità (risparmi di tempo, ambiente ecc.)

Forse “si stava meglio quando si stava peggio”: gare normali per gli appalti, al massimo oggi integrate con la gestione, e il rischio traffico attribuito a chi se lo può davvero assumere, cioè allo Stato.

Le micidiali strategie speculative della lunga surreale stagione di urbanistica private-oriented crollano, lasciando la città devastata e il futuro tutto da costruire, ci sono prospettive? Intanto il loro regista è diventato ministro delle Infrastrutture. Articoli di F. Ravelli e A. Stella, La Repubblica, Corriere della Sera, 17 maggio 2013, postilla (f.b.)

la Repubblica
Milano la città dei grattacieli “mancati”
di Fabrizio Ravelli

MILANO — «Non ci dormo la notte», confessa Ada Lucia De Cesaris, assessore all’Urbanistica e vicesindaco, che pure ha fama di donna tostissima. Poltrona scomoda la sua, di questi tempi. Prima le è toccata una dura battaglia per mettere un argine alla delirante colata di cemento concepita dalla giunta di Letizia Moratti, e per far passare un Pgt (Piano di gestione del territorio, quello che si chiamava piano regolatore) che fosse un po’ più vicino alla realtà di Milano. E adesso la crisi: il ballo del mattone è finito, la città dei nuovi grattacieli e dei grandi progetti arranca. Non passa giorno che nell’ufficio del vicesindaco non si presenti un costruttore che alza bandiera bianca. «Hanno fatto tutto l’iter, che è durato un paio d’anni. Hanno pagato gli oneri. Arrivano e dicono: non lo faccio più. Quest’anno ho restituito più di 22 milioni di euro di oneri di urbanizzazione». In questo scenario cosa resta dei mega-progetti che nei prossimi anni puntano a cambiare lo skyline di Milano?

PROGETTI RIDIMENSIONATI

L’ultimo segno, fortemente simbolico, della crisi è stata la notizia che dei tre grattacieli dell’area City Life — là dove c’era la vecchia Fiera Campionaria — se ne farà per ora uno solo. Resiste quello progettato da Arata Isozaki. Gli altri due, di Daniel Libeskind e Zaha Hadid, sono rimandati a tempi migliori, se verranno, mentre non si parla più del museo di arte contemporanea. Il progetto Santa Giulia a Rogoredo, dopo le disavventure giudiziarie dell’immobiliarista Luigi Zunino, è impantanato fra bonifiche del terreno — mai fatte, o fatte in maniera truffaldina — e rinunce: non vedranno la luce gli appartamenti ipertecnologici concepiti da Norman Foster. Al Portello — che è forse l’intervento messo meglio — sono alle prese con il famigerato tunnel progettato ancora ai tempi della giunta Albertini, che doveva convogliare il traffico delle autostrade verso i capannoni della Fiera: peccato che la Fiera Campionaria non esista più, e che il tunnel — costato una montagna di quattrini — sia lì in attesa di un’idea per il suo riciclo. Anche a Porta Vittoria, nell’ex-area ferroviaria, le rovinose sorti del costruttore Danilo Coppola stanno rallentando il progetto, e ancora si aspettano i fondi dello Stato per la Beic, la biblioteca europea di informazione e cultura.

Certo, i nuovi grattacieli vengono su come funghi nell’area Garibaldi-Porta Nuova. Poche settimane fa c’era una folla a curiosare nella piazza Gae Aulenti, fra specchi d’acqua e pietre grigie, sotto la mega-sede di Unicredit progettata da Cesar Pelli, che con i suoi 230 metri di altezza (antenna compresa) è l’edificio più alto della nuova Milano. Così come grandi folle si erano riversate a visitare il Palazzo Lombardia, 161 metri, progetto di Pei-Cobb-Freed e Partners, il sogno della megalomania di Roberto Formigoni. I milanesi sono fatti così: dagli qualcosa di nuovo da toccare con mano e accorreranno in massa. Anche i video e le visite guidate agli appartamenti-pilota erano molto seguiti. Ma, con questi chiari di luna, sarà ben difficile piazzare le nuove bellissime “residenze” a 10 o anche 12 mila euro al metro quadro.

EDILIZIA IN CRISI

Il mercato è in crisi, i prezzi scendono, migliaia di posti di lavoro nell’edilizia sono a rischio. «L’occupazione nell’edilizia è in caduta libera — dice Luca Beltrami Gadola, costruttore, fiero oppositore della giunta Moratti — La crisi è drammatica. Basta guardare ai dati della Cassa edile, che pure si riferiscono solo alle assunzioni regolari, e non illuminano tutto il nero del settore. E se si vanno a vedere gli sfratti e le aste giudiziarie degli immobili, viene freddo». «Sì, il mercato non va bene — ammette Mario Breglia di Scenari Immobiliari, società di ricerca — Ma i numeri significativi non sono tanto quelli dei nuovi progetti. Ogni anno si scambiano 20 mila case, e quelle nuove sono 2 mila. E, per esempio, City Life e Porta Nuova rappresentano 3-400 alloggi. Il vero tema, a Milano, è lo svuotamento degli uffici. Il nuovo terziario si costruisce solo se è già venduto. Ma in 2-3 anni dovremmo avere 1 milione di metri quadri che verranno dismessi. Il mercato soffre perché l’economia va male, e i grandi investitori hanno difficoltà a trovare risorse. E in tempi di sofferenza, il mercato cambia: si comprava sulla carta, ora si aspetta di vedere l’immobile finito». Ma si può imputare solo alla crisi il freno messo al ballo del mattone? Quali sono gli altri fattori in gioco?

PREVISIONI DISSENNATE

La crisi pesa, ma conta anche la pianificazione sbagliata. Il Pgt della giunta Moratti, coordinato dall’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli, era fondato sulla previsione di una Milano (nel 2030) da 2 milioni di abitanti, poi ridimensionata a 1 milione e 700 mila. Vale a dire, quasi 500 mila residenti più di adesso. Uno studio curato dai docenti del Politecnico Matteo Bolocan Goldstein e Luca Gaeta dice questo: le previsioni del Cresme (centro ricerche economiche, sociologiche e di mercato) fissano la popolazione di Milano nel 2019 fra 1 milione e 329 mila e 1 milione e 335 mila, con un fabbisogno di 282 mila alloggi, 28.200 all’anno. Ma bisogna tener presente anche le 190 mila abitazioni che finiscono sul mercato per morte dei proprietari anziani. «Il piano Moratti — spiega la ricerca — era dimensionato per circa 1 milione e 600 mila abitanti, con il presupposto che l’offerta crea domanda, che il volume edificabile è una variabile indipendente e genera popolazione futura». Una previsione che, usando un eufemismo, si può definire dissennata.

La giunta Pisapia s’è trovata sul tavolo un Pgt che prevedeva 26 nuovi quartieri, e ha deciso — sempre per usare un eufemismo — di “riequilibrare”. Ha tagliato drasticamente l’indice di edificabilità da 2,70 a 0,70, e ha cancellato il criterio di “perequazione” che avrebbe permesso ai proprietari di aree del Parco Sud di “densificare” ulteriormente i loro progetti in altre zone della città. Si trattava, in poche parole, di fare un enorme favore a Salvatore Ligresti, che nell’area di via Stephenson (periferia Nord-Ovest, a ridosso dell’Expo) avrebbe tirato su (con altri) qualcosa come 50 nuovi grattacieli. «Come nelle favole — aveva scherzato l’assessore Masseroli — il rospo di via Stephenson potrebbe diventare un principe se a baciarlo sarà la principessa Pgt». Ora questo progetto, che qualcuno fantasiosamente aveva accostato alla Défense parigina, pare accantonato. Ma quali sfide restano in campo? Quali opportunità? Di cosa ha bisogno il mercato delle costruzioni?

CASE LOW COST

Il mercato residenziale, dove pure i prezzi scendono, non ha poi certo gran fame di abitazioni a 10 mila euro al metro, quanto di case e anche affitti abbordabili dalla classe media, dalle giovani coppie, dagli anziani. È quella che si chiama — genericamente — residenza sociale o social-housing, e che nel Pgt Moratti vedeva alcuni progetti possibili all’interno degli ex-scali ferroviari. Sono alcune aree sterminate, il cui futuro — vista la crisi — è ancora in alto mare. Il vicesindaco De Cesaris lavora perché la residenza sociale trovi spazio nel futuro di Milano: «Le scelte che abbiamo fatto trovano conferme, perché riequilibrano, e ci permettono di agire senza gigantismi. Negli scali ferroviari il Pgt precedente prevedeva alcuni obblighi di residenza sociale. Noi stiamo proponendo di ridurre alcuni piani, mantenendo però l’attenzione a quel che chiede il mercato, cioè case a basso costo e in particolare ad affitto moderato».

Mica facile, fino a quando gli investimenti saranno condizionati solo dall’alta redditività. Che è poi il criterio che ha contribuito ad aggravare la crisi. Al centro c’è l’idea di città che deve stare alla base della progettazione, e che deve essere un’idea lungimirante: i Pgt lavorano sull’arco dei decenni. «Bisogna partiredall’ideacheivaloricresconoperlaqualitàurbana complessiva — dice Giancarlo Consonni, docente diUrbanisticaalPolitecnico—Laqualitàladetermini. Invece si fanno super-appartamenti, si fanno specie di bunker di lusso, quando il vero valore è la città. E la città è quel che trovi quando esci di casa». Al professor Consonni i nuovi progetti non piacciono: «Trovo fallimentare l’intera area Garibaldi- Porta Nuova, che sembrava trionfale e ora mostra la corda ».Un’areacheporta il peso di una pianificazione duratadecenni, da quando la si immaginava come nuovo Centro direzionale, e che l’inserimento di molta residenza — però di lusso, smisurata in altezza oppure bassa ma sovrastata da grattacieli alti 150 metri — non ha sostanzialmente modificato.

Ora si cerca, in qualche modo, di adattarsi alla crisi, o anche di trasformarla in opportunità. Il Comune spera di convincere gli imprenditori a ridurre i propri profitti, magari riconvertendo con l’aiuto dell’amministrazione il terziario sfitto in residenza accessibile. Un modello — fatto di incentivi fiscali e credito facilitato — già adottato in Inghilterra. La crisi, a volte, può servire. Basti pensare che il Parco Sempione, l’area verde più grande dentro Milano, fu un regalo del crack della Banca Romana, a fine Ottocento. C’era un progetto di lottizzazione per abitazioni di lusso, finirono i quattrini e spuntarono gli alberi.

Corriere della Sera Gli emiri sul tetto di Milano: il Qatar compra i grattacieli
di Armando Stella

MILANO — Porta Nuova, provincia araba di Doha. Non sarà il paesaggio di Cala di Volpe, l'incontaminata dreaming Sardegna da cartolina, ma anche questa è «diversificazione degli investimenti». Architetture vertiginose. La Milano proiettata verso l'Expo, rigenerata nel tessuto e rimodellata nelle forme: torri tagliate come diamanti; un Bosco verticale da abitare; il nuovo quartier generale Unicredit e un'ambiziosa Biblioteca degli alberi, quando verrà. Gli emiri erano già rimasti affascinati dalla Costa Smeralda e ne avevano conquistato i resort. Ora hanno raggiunto la terraferma. Operazione in grande stile: sono saliti sul tetto di Milano. Il fondo sovrano Qatar Holding ha ufficializzato ieri l'acquisto del 40 per cento di Porta Nuova, il piano di sviluppo immobiliare da oltre due miliardi di euro che sta rivoltando e costruendo su 290 mila metri quadrati del centro città, nei quartieri Garibaldi-Repubblica, appena oltre la cerchia monumentale dei Bastioni spagnoli: «Il progetto — è l'annuncio, o forse l'auspicio — imprimerà una trasformazione radicale per il Paese e creerà valore per tutti i soggetti coinvolti». In sintesi: il Qatar scommette sul real estateitaliano augurandosi che si riprenda, e renda. Intanto, suggerisce Manfredi Catella, «va colto il segnale di fiducia» trasmesso da questa partnership: «Agli occhi del mondo — riflette l'ad di Hines Italia, società capofila di Porta Nuova — è arrivata un'immagine di Milano vincente, competitiva, solida e affidabile».

Le prime voci sullo shopping di grattacieli griffati (Cesar Pelli e Stefano Boeri tra le firme) s'erano diffuse un mese fa, dalla Londra dei magazzini Harrods (altro business di Doha), ed erano pessimiste: «Il Qatar è in trattativa per acquistare alcuni edifici del distretto Porta Nuova, visto che la crisi economica italiana spreme (squeezes, ndr) il promotore americano Hines...». L'iniezione di risorse assicurata dall'emiro Hamad Bin Khalifa Al Thani consente al gestore italiano di «rafforzarsi e riprendere slancio»: «La società — rimarca Catella — si conferma come un'importante piattaforma domestica d'investimento e gestione per conto di investitori nazionali e internazionali». Il centro di Milano non è la Costa Smeralda, qui il fondo sovrano non ha acquistato un blocco di palazzi: «Resta minoritario e partecipa al progetto». La prospettiva è di lungo periodo. Il crollo del settore immobiliare ha stressato i calendari, rallentato le vendite (uffici e appartamenti sono stati collocati per metà) e fiaccato le imprese (la ditta del Bosco ha appena lasciato il cantiere: troppi debiti, sostituita). C'è da lavorare, insomma.

La notizia dell'accordo ha avuto l'effetto d'un tranquillante sugli scambi dei titoli immobiliari in Borsa. Riprende Catella: «Il territorio è la risorsa naturale più importante che abbiamo. Territorio nel suo significato più ampio: paesaggio, turismo, qualità, salute, università... Solo valorizzando le nostre ricchezze possiamo riattivare un motore strategico per la ripresa del Paese». L'aveva detto con parole analoghe, a novembre, l'ex premier Mario Monti: «Chi pensasse che queste operazioni di acquisizioni, di investimenti esteri in Italia siano modi per svendere società o beni italiani, farebbe un grandissimo errore...». Sei mesi fa il fondo strategico di Cassa depositi e prestiti aveva firmato con Qatar Holding per una joint venture da 2 miliardi di euro. La società mista ora c'è. La sede è in corso Magenta al 71. Sono tre chilometri dalla zona di Garibaldi-Repubblica.

Il fondo sovrano aveva già investimenti enormi nell'eurozona: Barclays plc e Credit Suisse, Harrods e London Stock Exchange, Lagardere e Porsche. In Italia, fino a ieri, un meraviglioso pezzo di Sardegna e gli affari con Cassa depositi e prestiti. Ora si sono aggiunti i grattacieli di Porta Nuova. Ma nei dossier dell'emiro compaiono anche aziende del settore alimentare e della moda. I prossimi obiettivi.

Postilla

Pare che tutto sia finito bene, le solite Borse tirano il sospirone di sollievo, l'ultimo chiuda la porta eccetera, e invece no, non è proprio finito tutto bene, come ci conferma da anni la discussione sulle nuove strategie di politica estera sviluppate dal Qatar, e da molti paragonate ad una vera e propria "jihad virtuale". Che va ben oltre la pura acquisizione di maggioranze azionarie, come ho provato a riassumere brevemente tempo fa in questa nota dal titolo L'Urbanistica come Alternativa all'Esercito (f.b.)

La rinascita e le potenzialità strategiche dell’agricoltura, una delle vie d’uscita dalla crisi provocatadella globalizzazione capitalista. "Ritorno alla terra per la sovranità alimentare e il territorio bene comune": ecco il tema del quale si discuterà al convegno della Società dei territorialisti. il manifesto, 16 maggio 2013.

La crisi economico-finanziaria che ha depresso l'immaginario trionfante dell'Occidente sta accelerando processi molecolari e inosservati di trasformazione culturale e sociale del nostro Paese. La vecchia talpa scava in segreto le sue gallerie. Si tratta, per la verità, di fenomeni avviati da tempo e già rilevati da alcuni osservatori non conformisti, ma che oggi divengono più visibili di fronte al tracollo di opportunità di lavoro e di vita, talora anche di senso, offerto dalle città e dal mondo industriale. Un silenzioso fiume fatto di individui isolati, di giovani e non giovani, di uomini e donne con profili culturali diversi, sparsi in tutte le regioni d'Italia, risale controcorrente il Belpaese in cerca di approdi nuovi negli spazi delle nostre campagne. Il flusso si scontra contraddittoriamente con un fenomeno opposto: l'esodo molecolare e l'abbandono di tanti nostri borghi appenninici e aree interne, che perdono scuole e ospedali, uffici postali e stazioni dei carabinieri, giovani e bambini. È questo un grande tema sia demografico che economico e ambientale su cui occorrerà ritornare non episodicamente. Ma il rifugio in campagna sembra l'avvio di un'altra storia, l'apertura di una nuova pagina culturale, mentre l'esodo dalle aree interne appare più come il movimento ultimo e inerziale di un processo in atto da decenni e che ora si va esaurendo. Che cosa richiama tanti isolati individui nelle nostre campagne? È l'agricoltura, la pratica millenaria di mettersi in relazione quotidiana con la terra per ricavarne beni agricoli.

Talora l'allevamento, soprattutto di capre, che giovani usciti dalle Università intraprendono per fare formaggi eccellenti. Ma detta così è banale. In realtà si pensa poco al grandioso mutamento, realizzatosi negli ultimi anni sotto i nostri occhi, senza che noi fossimo in grado di afferrarne la profondità. L'agricoltura, la più antica pratica economica della storia umana, ha subito delle trasformazioni, non tanto delle sue tecniche, quanto delle sue funzioni, che non hanno nessun termine di paragone negli altri ambiti dell'attività produttiva del nostro tempo.

Come in gran parte d'Europa, questa antica attività destinata all'alimentazione umana ha visto esplodere una miriade di finalità a cui può corrispondere e di cui è diventata la sorgente. Sulla terra, infatti, non si producono solo beni agricoli, ma si protegge e si rielabora il paesaggio, si cura il suolo, rigenerandone la fertilità: la fertilità, questo principio di vita e di riproduzione che si credeva risolto con la concimazione chimica e che oggi torna come necessità imperiosa sui suoli mineralizzati e isteriliti delle agricolture industriali. Ma al tempo stesso si difende il terreno dall'erosione, si alimenta la biodiversità agricola, si conserva la salubrità dell'aria e dell'acqua, si tutela il verde e l'ambiente, lasciandolo ben curato alle nuove generazioni, si organizzano nuove modalità di turismo e di fruizione del tempo libero, si riscoprano vecchie radici di cultura enogastronomica (la moltitudine delle cucine locali, patrimonio insigne della nostra civiltà materiale), si recuperano saperi manuali in via di estinzione, si riattivano forme cooperative di lavoro e di vita in comune, si curano gli handicap (fattorie sociali), si praticano forme innovative di apprendimento (fattorie didattiche). Insomma, sulla terra, diventata erogatrice di una molteplicità di servizi avanzati, si realizzano nuovi stili di vita, che possono fare concorrenza alle condizioni di esistenza nella città, diventata, per un numero crescente di cittadini, fonte di disagio e di frustrazioni insostenibili. I nostri frenetici e abbaglianti centri urbani, paradisi in terra per i nostri deliri consumistici, oggi fanno pagare un prezzo sempre più alto per la frequentazione del loro lunapark. Senza dire che innumerevoli disperati extracomunitari, che arrivano nel nostro Paese provenendo da distretti rurali di paesi africani o dell'Est europeo, vengono rinchiusi nei lager dei Cie ed espulsi come criminali, mentre potrebbero inserirsi in un grande flusso demografico di ripopolamento delle aree interne e di valorizzazione dell'agricoltura. Ancora oggi, a causa della cultura miserabile, della xenofobia infantile di alcuni uomini arrivati alla guida dei nostri governi, l'Europa è una terra di barriere, il Mediterraneo un mare chiuso e pattugliato, mentre dovrebbe essere il nostro vasto e prossimo orizzonte, lo spazio di un nuovo mondo cosmopolita, da cui far giungere l'energia di popoli giovani per la rivitalizzazione delle nostre campagne. Il processo appena descritto, oggi lasciato alla sua spontaneità, potrebbe diventare un grandioso progetto per creare nuovi posti di lavoro, per ripopolare le aree interne, per proteggere il nostro territorio senza ricorrere a "grandi opere", per creare nuove economie valorizzando le risorse (terre, acque, boschi) oggi abbandonate.
Sulle nostre colline, per secoli è fiorita un'agricoltura che ha reso possibile la vita delle nostre cento città, che ha fornito alimenti alle popolazioni dedite all'artigianato, alla mercatura, all'arte. Oggi potrebbe ospitare un'agricoltura di qualità in cui far rivivere, in forme nuove, la straordinaria biodiversità agricola della nostra incomparabile civiltà agraria. Purtroppo, tra i fenomeni che percorrono il nostro tempo occorre considerare anche quello che ha svuotato i partiti politici - vale a dire gli strumenti con cui un tempo si governavano i processi di mutamento - di ogni cultura sociale, di ogni capacità di progetto. Non facciamo neppure cenno alla cultura materiale e ambientale: gli uomini politici abitano in un sopramondo artificiale senza alcun rapporto con la terra. Essi vivono alla giornata, nella fase storica in cui più acutamente si avverte il bisogno di scorgere un orizzonte, di capire dove si può andare.
Per affrontare con strumenti analitici e discussioni mirate i fenomeni oggi in atto si svolgerà a Milano domani e sabato il convegno "Ritorno alla terra per la sovranità alimentare e il territorio bene comune". A organizzarlo è la Società dei territorialisti (l'organizzazione promossa da Alberto Magnaghi, che mette insieme una comunità di saperi esperti del nostro territorio davvero non comune: dagli urbanisti ai geografi, dagli storici agli agronomi, dai sociologi agli architetti. Si spera che i media si accorgano dell'evento. Soprattutto si spera che quella frazione dignitosa del giornalismo italiano, che pure esiste, concorra ogni tanto a mostrare anche l'Italia che pensa, che non ha divi da esibire, o ciarle partitiche da rappresentare, che opera per pura passione, tentando di migliorare le sorti del nostro Paese

.www.amigi.org

Ovvero come l'urbanistica è stata al cento del riformismo italiano e come potrebbe tornare ad esserlo. Gazebos, 15 maggio 2013

Nella città dolente, di Vezio De Lucia (Castelvecchi, 2013) è un libro sull’urbanistica italiana che in questi tempi di riflessioni e revisioni dovrebbe diventare oggetto di studio per buona parte della classe dirigente del centrosinistra italiano (intendendo qui, a scanso di equivoci, tutto ciò che ruota attorno al PD e alla sinistra del PD). I motivi sono tanti, a partire dal fatto che le classi dirigenti del nostro paese sembrano avere la memoria corta e l’esperienza del riformismo passato, dei suoi successi come dei suoi fallimenti, non è, come invece dovrebbe, patrimonio di conoscenza condiviso da tutti. E’ questa una condizione tutta italiana: è noto, infatti, che un grande riformatore come Barack Obama abbia studiato a fondo la bruciante sconfitta subita dal suo predecessore Clinton sulla riforma sanitaria. Per poter innovare e vincere, anche a prezzo di alcuni compromessi. Ultimamente, la riflessione sul passato, per non parlare della revisione critica – come si è avuto modo di mettere in luce recentemente - sembra invece essere poco praticata a sinistra.

De Lucia, uno dei più importanti urbanisti italiani, parla, come si evince dal sottotitolo del suo libro, di “mezzo secolo di scempi, condoni e signori del cemento. Dalla sconfitta di Fiorentino Sullo a Silvio Berlusconi”. Il racconto è avvincente e riesce a rendere tutta l’importanza che ha in Italia la questione urbana e urbanistica. Le vicende raccontate nel libro sono numerose. Si parla delle sconfitte dei riformatori, ma anche di alcuni importanti successi ottenuti negli anni: si va dalla sconfitta di Fiorentino Sullo e della sua riforma urbanistica, agli interventi che hanno fatto scuola come a Bologna o nella Maremma livornese oppure del contrasto degli appetiti speculativi determinatisi a Napoli dopo il terremoto dell’80 in vista della ricostruzione. Nel libro si parla anche degli interventi di riforma quali la “legge ponte” di Mancini approvata nel 1967 come risposta alla frana di Agrigento o della legge Bucalossi, così come delle tante vicende, più o meno grandi, relative ai tentativi di dare al territorio e alle città un assetto civile e una gestione non predatoria. Ci sono riferimenti alla storia urbanistica recente di Venezia e alla vicenda del MOSE, all’urbanistica italiana nel periodo del centrismo e a episodi di successo come la tutela del centro storico di Assisi, nonché i riferimenti alle sentenze della Corte Costituzionale che, a varie riprese, hanno annullato alcuni dei dispositivi riformisti volta per volta istituiti.

De Lucia assolve a un importante compito, quello di dare una visione di insieme dell’urbanistica italiana dal dopoguerra ad oggi. Le vicende narrate sono più numerose di quelle appena ricordate e sarebbe inutile cercare di farne un riassunto in poche righe. Il libro, in sostanza, contiene il racconto della battaglia per lagestione del territorio in chiave non speculativa nel contesto della ricostruzione prima e delle fasi di sviluppo che sono seguite. Emerge il racconto di uno scontro politico nel quale si confrontano, da una parte, coloro i quali ritengono che il territorio sia un bene come tutti gli altri e che, quindi, debba poter essere utilizzato da chi se ne appropria per il suo legittimo arricchimento. Dall’altra, invece, ci sono coloro che ritengono che il territorio e il paesaggio debbano essere usati con dei limiti, tenendo presente l’impatto collettivo che tale sfruttamento determina. Interesse collettivo e limiti individuati non solo dalla legge, ma anche dalla stessa Costituzione.

Un aspetto molto importante raccontato da De Lucia è che i fronti di questo scontro attraversano in maniera non scontata i partiti politici, anche perché il modello di riferimento dei riformatori non è statalista né comunista e si rifà, invece, a quanto praticato in numerosi paesi europei, mai usciti dall’alveo del capitalismo. E’ un modello liberale, finalizzato a costruire un mercato degli immobili efficiente e competitivo nel quale gli interessi della rendita non dettino legge. Fiorentino Sullo, per intenderci, era un ministro democristiano e lo stesso Gianni Agnelli, all’inizio degli anni 70, auspicava un “riduzione dell’area della rendita”. Ma “l’urbanistica contrattata”, o il “pianificar facendo”, vale a dire i mali recenti del governo del nostro territorio, sono stati propugnati anche da importanti pezzi della sinistra italiana e nel libro si parla anche delle esperienze contraddittorie per quanto riguarda l’urbanistica della giunta Pisapia a Milano e di quella De Magistris a Napoli.

Quello che è il tratto distintivo del racconto di De Lucia è che lo scontro sull’urbanistica è stato anche cruento. La chiave interpretativa che percorre tutto il libro, infatti, è data da quella che lui definisce la “Sindrome di Sullo”, cioè il fatto che chiunque si occupi di urbanistica contrastando gli interessi della speculazione finisce per subire una marginalizzazione politica (un esempio degli stereotipi che ancora gravano su quella vicenda lo si può ritrovare in questa rievocazione di Sergio Romano, sul Corriere della Sera di qualche anno fa). Non fu solo Sullo a subirla: De Lucia parla anche di Achille Occhetto, che si oppose ad alcune operazioni urbanistiche a Firenze. Più recentemente è stata la volta di Renato Soru. Ma lo stesso Aldo Moro sembrerebbe esserne stato vittima. Afferma infatti De Lucia: “ci provò a fare la riforma urbanistica. nel 1964, ma fu costretto a una precipitosa marcia indietro per evitare un colpo di stato”. Per questo stupisce – o forse proprio per questo non dovrebbe stupire – che la questione urbanistica sia considerata solamente argomento per specialisti.

Insomma, De Lucia parla di urbanistica come grande questione nazionale. Sarebbe dovuta essere la terza grande riforma del centrosinistra, ma venne bloccata con un tentativo di colpo di stato, mentre negli anni recenti “è stata mano a mano emarginata e poi screditata dall’azione sempre più condivisa volta a mettere fuori gioco il governo pubblico del territorio”.

I riformisti italiani e quelli che hanno a cuore le sorti del paese dovrebbero, invece, raccogliere questa bandiera. Innanzitutto perché servirebbe all’Italia, visto lo stato di degrado delle città e del territorio. Le recenti elezioni e le prossime tornate amministrative, purtroppo, ci dicono che la questione è, come dire, “fuori dai radar” delle classi dirigenti e di urbanistica si parla poco e male.

Inoltre, in una stagione in cui la sinistra si interroga sulle ragioni della sua debolezza e sulla crisi delle sue forme organizzative, farebbe bene ad accorgersi che alla radice di molta mobilitazione popolare c’è l’interesse e la preoccupazione per le sorti delle città e del territorio. Il libro di De Lucia fa riferimento ai movimenti sorti negli ultimi anni, ma l’impressione è che lo faccia per difetto, visto che nascono un po’ ovunque comitati di difesa del verde o dello spazio pubblico, oppure iniziative di lotta alla cementificazione. Tutte realtà che hanno diversi gradi di organizzazione e di forza, che spesso si oppongono a interessi enormi e che meriterebbero molta più attenzione da parte dei riformisti italiani (alcune di queste esperienze vengono raccontate da Erbani in un bel libro sull’urbanistica Romana). La sinistra, quindi, dovrebbe interrogarsi sul proprio ruolo in relazione a queste realtà, e comportarsi di conseguenza. Il che, peraltro, implicherebbe rinverdire tradizioni che le sono proprie. De Lucia, a questo proposito, racconta che il PCI Romano, sotto la guida di Aldo Natoli – che definisce uno dei fondatori dell’urbanistica di sinistra italiana - nel 1954 fornì l’elenco dei maggiori proprietari di aree a Roma: un esempio di come solo la struttura organizzativa di un partito forte può essere messa al servizio delle battaglie progressiste. Battaglie che possono essere efficaci, da una parte, se si individuano in maniera chiara gli avversari e le effettive poste in gioco, e dall’altra se si hanno le spalle forti al punto da difendere i propri dirigenti dalla “Sindrome Sullo”. E’ utile ricordare qui che l’ultima stagione riformista della sinistra romana, quella che portò all’elezione di Rutelli si basò su un lavoro analogo di censimento dei poteri forti della città, inclusi quelli attivi nel settore immobiliare. Vari furono i promotori di questa iniziativa, tra cui Walter Tocci. De Lucia non ne parla qui, ma in un altro libro. Parla, invece, degli esiti deludenti di quella esperienza, che tradirono le aspettative che pure si erano determinate. Come che sia, l’urbanistica era oggetto di pensiero e di azione. Attualmente i partiti deboli, o liquidi che dir si voglia, cose così non le hanno più fatte né immaginate, e non stupisce che l’urbanistica non sia sotto le luci della ribalta della politica locale. Figurarsi se sono in grado di fare autocritica sulle esperienze passate (esistono delle eccezioni, e De Lucia indica il solito Tocci)

Sul forte legame tra controllo della rendita, sviluppo urbano e movimenti De Lucia interviene a lungo: nel parlare del ruolo che le lotte per la casa hanno avuto nel ’68 sostiene che fu proprio il grande interesse dei sindacati e dei movimenti dei lavoratori di quegli anni che consentirono l’approvazione della legge per la casa del 1971. Dello stesso sostegno popolare non godette, al contrario, Sullo. Ovviamente, la sinistra dovrebbe essere consapevole che occuparsi di queste cose non è certo garanzia di successo: sull’assetto del territorio gli interessi si confondono e si mescolano, le alleanze e i blocchi sociali non si formano secondo linee scontate e spesso poveri e ricchi si trovano sullo stesso fronte. De Lucia cita un articolo del 1970 di Valentino Parlato che descrive il “blocco edilizio” e la sua variegata e contraddittoria composizione, ma le cronache più recenti parlano del grande consenso popolare prodotto dalle sanatorie edilizie (uno dei mali dell’urbanistica italiana). E’ una sinistra pensante e in grado di fare proposte, di parlare al popolo che c’è bisogno se si vuole affrontare l’emergenza urbanistica in cui vive il paese.

Il libro di De Lucia non è solamente un racconto o una denuncia. Nelle ultime pagine viene formulata, in grandi linee, una proposta sul “che fare” ora. L’idea è quella di tracciare un “invalicabile linea rossa che segna il confine fra lo spazio edificato e quello rurale e aperto. Una linea che rappresenta nuove e invalicabili mura urbane”. Non sarebbe un’utopia e lo “stop al consumo di suolo non significa sviluppo zero”. Nel nuovo ambito resterebbero da soddisfare, infatti, enormi bisogni, sia nuovi che pregressi. Insomma, la prospettiva proposta non è certo da annoverare tra quelle oscurantiste o decliniste. Ma, certo, quella che si propone è una visione dello sviluppo rispettosa del territorio, del paesaggio e dei significati culturali e umani che rappresenta. Non è dissipativa. E comunque, la dissipazione vera, lo abbiamo visto tutti in questi anni di crisi economica, è venuta proprio dallo sfruttamento insensato del “mattone” e dalla nefasta finanziarizzazione di questo mercato, che ha spiazzato gli investimenti produttivi a favore della rendita. La linea rossa è un limite, volutamente invalicabile. Sembrerebbe, però, rappresentare una di quelle proibizioni sane, quelle che servono per incanalare le energie in modo positivo, un po’ come nel caso dei bambini, a cui bisogna pur dire dei No per aiutarli a crescere.

Se non fossimo in Italia apparirebbe del tutto surreale il dibattito fra un Comune e una Provincia sulla cementificazione di un'area verde urbana con elevato valore sociale. La Repubblica Milano, 16 maggio 2013 (f.b.)

Una volta era il recinto dove si aggiravano i pazienti del «Pini», il vecchio manicomio di Milano. Oggi è un parco con attività sociali ed eventi culturali per gran parte dell’anno. In futuro potrebbe ospitare un grande giardino condominiale. Questo, almeno, nei piani della Provincia, che ieri ha presentato un progetto da 600 alloggi che interessa parte della zona verde di via Litta Modignani, ad Affori. Ma è subito scontro con il Comune, che dice «no alla cementificazione di un’area che oggi ha un forte valore paesaggistico ma anche sociale». Sono anni che i comitati di quartiere denunciano il rischio della colata di cemento sul grande polmone verde rimasto dopo la chiusura dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini.Ieri mattina a Palazzo Isimbardi il presidente Guido Podestà è uscito allo scoperto annunciando il suo Piano casa, un progetto che prevede la cessione di terreni di proprietà della Provincia a imprese che costruiranno circa mille appartamenti a Milano e altri 600 tra Pioltello, Melegnano e Rozzano. Tutte case costruite secondo i criteri dell’housing sociale, cioè a prezzi agevolati e destinati a categorie socialmente deboli. Il problema è che oltre la metà degli alloggi in città (l’altro lotto sarà a Cimiano) dovrebbero sorgere in via Litta Modignani, su una porzione di parco che gli abitanti e le associazioni sperano rimanga verde. «Il nostro Piano rilancerà l’economia locale e affronterà l’emergenza abitativa del territorio — ha spiegato Podestà — Saranno case destinate a categorie deboli: giovani, persone in difficoltà, forze dell’ordine. Vogliamo fare un intervento non speculativo, ma basato sulla qualità». Ma dal Comune arriva l’altolà, appena è chiaro che la Provincia intende mettere a bando e assegnare i terreni prima della fine dell’anno «valutando i progetti non in base al prezzo ma sulla qualità architettonica e la sostenibilitàsociale dell’intervento».Dal Comune il vicesindaco e assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris mette subito le mani avanti: «Non se ne parla di cementificare quell’area, vi sono importanti attività che vogliamo salvaguardare, come il Giardino degli aromi e la sperimentazione dell’Istituto Pareto. Invito la Provincia a riconsiderare il progetto e a valutare le diverse altre aree che ha a sua disposizione per realizzare l’housing sociale, che comunque l’amministrazione di Milano valuta positivamente». Da Palazzo Isimbardi incassano e rilanciano: «L’area è di nostra proprietà, misura 155mila metri quadrati, ma le case sarebbero su una piccola porzione di una zona oggi recintata e incolta, un posto dove vanno a dormire gli sbandati. Inoltre quell’area è inserita nel Pgt del Comune e considerata edificabile, quindi non ci sono ostacoli », spiegano i tecnici dell’assessore all’Urbanistica della Provincia Franco De Angelis. Spiegazioni che vengono contestate una per una da De Cesaris: «L’area oggi è aperta e perfettamente fruibile dal pubblico. Non abbiamo potuto cambiare le indicazioni del Pgt su Affori, ma prima di avviare qualsiasi nuovo bando serve un accordo di programma che, oltre alla Provincia, coinvolga Comune e Regione».

Tutto giusto. Solo che i conti andrebbero fatti un po’ diversamente. Vedremo come, secondo noi. Arcipelago Milano, 14 maggio 2013.

Le posizioni espresse recentemente su ArcipelagoMilano a proposito del traffico e della mobilità (dall’ottima Maria Berrini ma in diverse forme anche da altri) sono certo “politically correct”, ma un po’ inquietanti per un economista che si occupa di politiche pubbliche: le macchine devono essere più represse di quanto sono ora, (anzi se possibile sarebbe meglio proibirle del tutto, ma questo non si può dire troppo). Il fatto che il settore automobilistico generi allo Stato qualche decina di miliardi all’anno, mentre gli utenti del trasporto pubblico paghino solo una piccola quota dei servizi che usano, costando a tutti gli altri cittadini con le tasse (a Milano più di un milione di euro al giorno), sembra un aspetto totalmente irrilevante.

Anzi, questa situazione deve essere ulteriormente squilibrata. La nuova normativa che i promotori della recente manifestazione ciclopedonale promuovono infatti recita: “…. una legge di iniziativa popolare che vincoli almeno i tre quarti delle risorse statali e locali disponibili per il settore trasporti a opere pubbliche che favoriscono lo sviluppo del trasporto collettivo e di quello individuale non motorizzato” (questo ultimo settore, poverino, è innocente, richiedendo pochi soldi pubblici).

Ora, alcune cose di questa proposta di legge non sono irragionevoli, per esempio quando parlano di uno squilibrio tra spese per infrastrutture di lunga distanza e infrastrutture di breve, dove si svolge la maggior parte del traffico e c’è la maggior parte dei problemi. Ma anche qui, la logica proposta è indifendibile: ci sono infrastrutture per la lunga distanza che forse possono essere utili. Occorre decidere sempre sulla base di analisi costi-benefici comparative e “terze”, non su allocazioni arbitrarie delle risorse pubbliche. Queste analisi oggi comprendono ovviamente anche gli aspetti ambientali, e darebbero molte sorprese proprio ai difensori a oltranza dell’ambiente. E poi c’è il piccolo dettaglio che per le autostrade si richiede che le paghino gli utenti per almeno il 50%, mentre per le ferrovie questa percentuale scende un po’, siamo intorno allo 0%, ma generalmente anche meno, visto che si richiedono molti soldi pubblici persino per farci andare sopra i treni. Tutto benissimo, se i soldi pubblici fossero abbondanti, o non ci fossero altre drammatiche priorità sociali. Questi lussi potremmo permetterceli.

E a proposito di socialità, come si può ignorare la ricerca del CENSIS sui pendolari, che testimonia che il 10% va in treno, il 20% in bus, e il 70% in auto, ma non solo: gli operai vanno molto di più in auto, gli impiegati e gli studenti, lavorando e studiando in aree più centrali, usano molto di più i mezzi pubblici. L’argomentazione che con i soldi pubblici si potrebbe fornire più servizi anche alla mobilità operaia, e più in generale nelle aree a bassa densità, è indifendibile: per motivi di reddito, infatti gli operai risiedono e lavorano in tanta malora (cioè generano una mobilità estremamente frammentata), che non è servibile dai trasporti collettivi se non in piccola parte.

Tutti i modelli di simulazione mostrano che lo spostamento modale ottenibile, con costi pubblici molto alti, sarebbe di pochi punti percentuali, e moltissimi operai e cittadini “esterni” dunque continuerebbero a spostarsi in macchina, pagando un sacco di soldi per la benzina e stando sempre più in coda (se questa curiosa legge passasse). Gli impiegati, e chi ha potuto comperarsi una casa in città, sarebbero invece molto più contenti.

Si noti poi che questa politica di altissima tassazione del modo automobilistico, e di elevatissimo sussidio al trasporto pubblico, è in atto da decenni, con risultati modesti o nulli. Forse dunque le ragioni strutturali illustrate sopra, che rendono difficile lo spostamento dell’utenza sul trasporto pubblico, hanno qualche fondo di verità.

Ovviamente c’è poi il problema ambientale, che è massimo nelle aree urbane dense a motivo dell’”effetto canyon”: tanta gente esposta alle emissioni su strade relativamente strette, dove queste emissioni fanno fatica a disperdersi. Qui è ragionevole e funzionale limitare l’uso del mezzo privato (cfr. l’Area C), ma forse non irragionevole sussidiare in modo mirato con le tariffe del trasporto pubblico solo le categorie sociali più deboli (perché sussidiare i ricchi che vivono in centro?).

E infine non si può dimenticare che il traffico motorizzato è il settore inquinante che “internalizza” più di tutti gli altri i costi ambientali che genera (secondo il principio, equo ed efficiente, noto come “polluters pay“). Ma già, dimenticavo: cosa importa chi paga? Decide il principe….

Anche oltre il problema sociale e morale evocato dalla scrittrice, un esempio di vero e proprio consumismo per decreto, frutto perverso della lobby alimentare. Corriere della Sera, 13 maggio 2013 (f.b.)

Ogni anno fino al 50% del cibo commestibile viene sprecato nelle case degli europei, nei supermercati, nei ristoranti e lungo la catena di approvvigionamento alimentare, mentre 79 milioni di cittadini dell'Unione Europea vivono al di sotto della soglia di povertà e 16 milioni di persone dipendono dagli aiuti alimentari.

Secondo una ricerca del Politecnico di Milano, in Italia sono 6 milioni di tonnellate, pari a un valore di 12,3 miliardi di euro, le eccedenze alimentari generate per oltre il 55% dalla filiera agroalimentare e per il restante nell'ambito del consumo domestico. Di questo, quasi il 50% è recuperabile per l'alimentazione umana con relativa facilità, indicando in circa 3,2 milioni di tonnellate annue quelle definite «ad alta e media fungibilità», ossia rapidamente e perfettamente recuperabili per il consumo umano. Ma solo il 6% delle eccedenze viene recuperato per essere donato e distribuito agli indigenti e quando il surplus ancora buono non viene recuperato diventa spreco. Le cifre più difficili da recuperare riguardano gli sprechi di piccole attività commerciali e alimentari, tipo bar e piccole tavole calde, che comunque si attestano su 100 kg di cibo annuali per ogni singola attività.

L'importanza di queste cifre è notevole, e dunque appare notevole la follia legislativa che impedisce a questo cibo di arrivare sulle tavole di chi ha bisogno. Basta guardare una qualsiasi strada di una città europea per rendersi conto che la moltiplicazione di questi 100 kg produce montagne di cibo vertiginose che finiscono tutte nell'ambiente sotto forma di spazzatura, trasformandosi in grande fonte d'inquinamento. Una volta, venivano contemplati i peccati che gridano vendetta al cielo. Ora, in tempi d'indifferenza consumistica, nessuno sembra più scandalizzarsi di questo scialo. Eppure, sono convinta che non ci sia nulla di così profondamente scandaloso quanto il cibo sprecato.

Tra le tante iniziative lodevoli — come ad esempio l'impegno del professor Andrea Segrè con il suo Last Minute Market e l'Emporio della Solidarietà delle Caritas — esiste anche un'associazione che dal 2007 cerca di ovviare a questo scandalo — perché di scandalo si tratta — con gesti concreti e logisticamente efficienti ma, per una perversione burocratica — che investe ogni ambito del nostro Paese, rendendo facile la vita ai disonesti e impossibile agli onesti — questo progetto non riesce a decollare.

Il progetto Pasto Buono — sostenuto da Qui Foundation (www.quigroup.it) e che conta già 120 mila esercizi di ristorazione in tutta Italia — ha appunto lo scopo di rendere usufruibile il cibo già preparato e rimasto invenduto, impedendogli di finire nella spazzatura.

Oltre alla burocrazia eccessiva, si sovrappongono delle clausole legate all'igiene che ne rendono quasi impossibile la realizzazione. I donatori virtuosi, infatti, — che esporrebbero nelle loro vetrine una vetrofania apposita per dimostrare la loro partecipazione — dovrebbe rifornirsi, oltre che di contenitori di alimenti a norma, di furgoni refrigerati per il trasporto del cibo e anche di un costoso «abbattitore di temperatura». La cosa paradossale è che tutti noi, come clienti della rosticceria possiamo comprare il cibo e portarcelo a casa, magari lasciandolo anche due ore in macchina, ma, per donarlo, è necessario abbattere la temperatura. Sarebbe dunque importante semplificare la legge, permettendo alle persone che hanno bisogno di poter mangiare questo cibo civilmente e non accalcandosi ai cassonetti nei quali viene gettato, cosa che accade attualmente.

È una questione di dignità del cibo e di dignità della persona, e dunque di tutta la società civile. Purtroppo sempre più spesso si vedono persone, soprattutto anziani, che frugano nella spazzatura alla ricerca di qualcosa da mangiare e, con questa terribile crisi che stiamo vivendo, il fenomeno si sta allargando anche alle famiglie monoreddito e di coloro che hanno perso il lavoro. Il cibo c'è, e anche in abbondanza, ma non lo si può mangiare perché non sono igieniche le condizioni di trasporto. Perché, mangiare dal cassonetto è forse igienico?

Chi ha provato a fare una qualsiasi cosa in questo Paese — non per interesse personale ma per il bene della collettività — sa che i bastoni tra le ruote sono infiniti perché, nel sadismo paralizzante della burocrazia, c'è sempre un desiderio di perseguitare chi agisce con onestà, correttezza e senza avere tornaconti personali. Il nostro è il Paese del cartelli del «severamente vietato». Mi sono sempre chiesta cosa voglia dire «severamente». O una cosa è vietata o non lo è.
Perché non sognare un cambiamento che ci faccia andare tutti verso la semplicità, la convivialità, la responsabilità condivisa da tutti? Nel caso del cibo sprecato, abbiamo un problema e abbiamo anche la soluzione, ma da questa soluzione nessuno ci guadagna niente, tranne la civiltà e l'umanità. Forse l'inciampo è proprio questo.

Se il problema risiede, come probabilmente sarà, in una legge della Comunità europea — questa Comunità che, a furia di proteggerci, ci farà tutti morire un giorno per un banale batterio — perché, per una volta, non fare una bella figura e lottare per il bene comune in sede di Parlamento europeo, cercando di modificare le clausole che permettono questo scandalo?

Un dossier monografico sul cosiddetto sviluppo del territorio, chi lo fa, a chi giova. Articoli di F. Sansa, A. Ferrucci, C. Tecce, M. Castigliani, M. Corona, Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2013

Il nostro paesaggio è anche Angelino
di Ferruccio Sansa


Il profilo di Angelino Alfano e quello delle colline toscane. Il ministro dell’Interno che manifesta contro i magistrati a sostegno dei condannati e le coste della Liguria e della Sardegna.
Che cos’hanno in comune queste immagini? Sono tutte paesaggio italiano. Sono l’orizzonte che ci troviamo davanti.
L’ambiente è scomparso dai programmi politici. Nessuno si faceva illusioni sul centrodestra dei condoni. Ma anche il centrosinistra - ormai alleato, non avversario - ha dimenticato questa parola che pure sta a cuore ai suoi elettori. L’ha ignorata di fatto nella sua azione di governo, a Palazzo Chigi come in molti comuni che amministra.

“Bisogna occuparsi dell’economia”, dicono. Come se l’ambiente fosse una fisima per intellettuali con il nasino all’insù. E intanto gli amici degli amici si riempiono le tasche devastando il paesaggio. Magari gli stessi imprenditori che foraggiano i politici chiamati ad amministrare e tutelare il territorio.
Che mistificazione! Che tradimento! L’ambiente - visto che di questi tempi i calcoli economici sono gli unici che paiono avere valore - è la nostra principale industria. Il turismo vale quasi il 15% del pil e dà più lavoro e ricchezza del mattone e delle autostrade.

L’ambiente è qualità della vita, soprattutto per i più deboli, gli anziani e i bambini. Vivere in un luogo integro significa benessere interiore. Significa, perché no?, avere pensieri migliori.
Ma l’ambiente - cioè anche l’aria che respiriamo, l’acqua e il cibo che ci nutrono - è anche quantità di vita. Campare meglio e di più. Come ci ha mostrato drammaticamente la vicenda Ilva (con i signori delle acciaierie che finanziavano sia destra che sinistra).
Ecco il nodo della questione. Ambiente naturale e civile sono strettamente legati. Di più, sono la stessa cosa. Il degrado dell’uno provoca quello dell’altro. Il territorio è diventato la zona grigia, opaca, dove gli interessi pubblici vengono mercanteggiati per favorire quelli individuali. Dei signori del mattone, delle autostrade, dell’acciaio. E pure dei partiti.

Ma la responsabilità è anche di noi cittadini che abbiamo svenduto la nostra terra, la nostra identità per quattro soldi. Scriveva Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia”: “Quelle speculazioni edilizie nate per mancanza d’affetto”. Già, ci è mancato l’amore per il nostro Paese. Abbiamo voluto ignorare che l’ambiente italiano non è fatto soltanto di colline, montagne e città: il paesaggio siamo anche noi, con i compromessi e i tradimenti di governo, con i leader corrotti, con gli evasori. Allora, difendere l’ambiente significa proteggere noi stessi. Per dirla con Peppino Impastato: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà”.

I veri padroni della politica
di Alessandro Ferrucci e Carlo Tecce

Anche nel passaggio dalla lira all’euro lo scalino è stato ammortizzato. Tanto era allora, il doppio dopo. Anzi, i benefattori della politica sono stati al passo con gli appetiti crescenti: bonifici con zeri abbondanti a coprire una perenne campagna elettorale. I nomi sono quasi sempre gli stessi: presunti capitani d’industria come la famiglia Riva, imprenditori dall’aspetto illuminato tipo la famiglia Benetton. O Diego Della Valle, sempre presente negli ultimi vent’anni. I più generosi e attenti? Tutte le realtà legate al mondo della sanità e dell’edilizia. Destra, sinistra, centro. Questo ballo coinvolge tutto il Parlamento.

Sulla via Emilia
Metodici. Puntuali. Con cifre crescenti. Sono i Merloni, proprietari dell’omonima azienda legata al mondo degli elettrodomestici e della termoidraulica. Nel 1994 intervengono con un assegno da dieci milioni a favore di Beniamino Andreatta, uno da 30 per Gerardo Bianco, 60 al Partito Popolare e 80 per la neonata Forza Italia. Ma la generosità non finisce qui: ecco 270 milioni al Patto Segni, sotto la formula del “deposito fruttifero a garanzia di scopertura bancaria” e altri 20 per il suo leader Mariotto. Cambia stagione, non la generosità. Nel 1999: 50 milioni ai Ds, altrettanti al Ccd. Occhio alla data: 2001. È l’anno della chance per Francesco Rutelli come leader del centrosinistra, l’anno della frase “mangio pane e cicoria”. Per rendere più sfizioso il companatico, i Merloni si presentano con 100 mila euro; al Patto Segni e all’Udeur appena 10 mila. Finisce la disponibilità.

Nel 2008 l’azienda entra in crisi: chiusi due stabilimenti, amministrazione straordinaria e debiti per 543,3 milioni di euro. Parentesi “alimentare” sulla via Emilia: nel 1994 Parmacotto si presenta con 100 milioni per Forza Italia e altrettanti per il candidato locale, Elio Massimo Palmizio. Non meno generoso è mister Idrolitina, alias Giuseppe Gazzoni Frascara, candidato nel 1995 a sindaco di Bologna. Tra il 1994 e il 1996 si presenta con oltre 300 milioni tra Forza Italia e il Ccd.

A chi fa le scarpe?
19 marzo 2006. Vicenza. Silvio Berlusconi attacca violentemente Diego Della Valle. Il signor Tod’s replica dalla platea. Sembrano lontani umanamente e politicamente, almeno lì. Eppure qualche anno prima la storia era tutt’altra. Nel 1994 il proprietario della Fiorentina si presenta da Forza Italia con 100 milioni, mentre sono 135 per il Patto Segni, sempre con la formula del “deposito fruttifero”. Ma la vera amicizia è quella con Clemente Mastella: nel 1998 dà 50 milioni ai Cristiano Democratici per la Repubblica e 150 mila all’Udeur per la campagna del 2006, a firma di Andrea (altri 100 mila per la Margherita, da parte di Diego, maggiore dei fratelli). Parallelamente alla passione politica, cresce anche il pacchetto aziende, tanto da entrare, nel 2011, nella classifica di Forbes dedicata agli uomini più ricchi al mondo; al marzo del 2013 egli è al 965° posto (20° italiano), con un patrimonio di 1,5 miliardi di dollari.

Fattore di “mercato”
Coerente. Munifico e coerente. È Maurizio Zamparini, spesso in tv o sui giornali, perché proprietario del Palermo calcio. È un uomo di destra, e quella parte finanzia. Nel 1994 batte ogni record con due “assegni” da 250 milioni l’uno, a favore del defunto Msi, in procinto di trasformarsi in Alleanza nazionale. Nel 2001 diventano 200 mila euro; 103 nel 2006 al Ccd, mentre nel 2008 seduce l’Mpa di Lombardo con altri 100.

Freccia a destra
Qualche dubbio, un’unica certezza: un misterioso benefattore spedisce nel 1994 97 milioni di lire all’Msi, da poco al governo con Silvio Berlusconi. Sono tre bonifici provenienti dal Lussemburgo, una situazione talmente ingarbugliata da costringere Gianfranco Fini a scrivere: “La vostra somma non è stata ancora utilizzata. Vi preghiamo di volerci segnalare la causale di tale versamento”. Il titolare della società non sa cosa rispondere, ma si rifugia in un diplomatico “sostegno e stima da italiani residenti all’estero”. Peccato che dietro ci fosse il banchiere italo-svizzero Pierfrancesco Pacini Battaglia, poi condannato a sei anni di carcere per appropriazione indebita nell’inchiesta di Mani Pulite.

Il “re” trasversale
Per Alfredo Romeo una condanna a quattro anni in primo grado, due e mezzo in appello e la prescrizione in Cassazione, a causa di Tangentopoli. Definiva i politici come “della cavallette! Anzi, delle iene”. Ma per lui una seconda opportunità, con un patrimonio immobiliare di 48 miliardi di lire da gestire e 160 milioni di incassi. E la capacità di intervenire, dove utile, con finanziamenti trasversali: 27.900 euro nel 2002 ai Ds di Roma, 12 a Forza Italia. Altri 20, sempre al partito di Fassino, per il 2005. E ancora 30 mila nel 2013 a Nicola Latorre, 25 al Centro Democratico. Oppure a Torino nel 2001: 30 mila per il sindaco Sergio Chiamparino, 40 a Forza Italia. Infine ha dato 60 mila euro a Renzi per le primarie. Attenzione: il business di Alfredo Romeo è di servizi offerti agli enti pubblici. Il 13 aprile di quest’anno la terza sezione della Corte d’appello di Napoli, lo ha condannato a tre anni per corruzione. Poche settimane prima aveva vinto una gara bandita dall’Anci per diventare partner della società che si occuperà della riscossione dei tributi.

La famiglia Riva
Tutti e tre schierati. Il padre Emilio Riva, assieme ai figli Nicola e Fabio: sono i proprietari dell’Ilva di Taranto, ora agli arresti domiciliari. Nel 2006 finanziarono la campagna elettorale di Pier Luigi Bersani con 98 mila euro. L’ex leader del Pd diventò ministro dello Sviluppo economico. Ma due anni prima, i tre uomini Riva, avevano elargito 330 mila euro a Forza Italia attraverso tre bonifici. Più altri “spicci”, ai berlusconiani di Bari, Taranto e Milano.

42 miliardi in sei anni
Nessuno ha mai negato che Forza Italia fosse la struttura politica di Publitalia 80, la concessionaria pubblicitaria di Mediaset, la più potente d’Italia ancora oggi. E nessuno ha creduto a Silvio Berlusconi quando si lamentava per i soldi spesi in campagna elettorale. Publitalia ha pompato denaro dal ’94 al 2000 a Forza Italia e ai propri alleati fra cui Alleanza nazionale, Lega Nord e Udc, ma anche la lista Pannella e Bonino Presidente: spesso si trattava di sconti sugli spazi pubblicitari oppure sconti “praticati secondo generali orientamenti di strategia commerciale”. Qualsiasi fosse la definizione giusta, il passaggio di favore e l’esborso di Cologno Monzese, la cifra ufficiale è spaventosa: circa 42 miliardi di lire in sei anni. Ma per confermare la generosità di Berlusconi va fatto notare un assegno di Forza Italia ai leghisti di Bossi e Maroni nel 2003, e non c’è scritto che si trattasse di divisione dei rimborsi pubblici: 300.000 euro.

Il re del mattone di lusso, soprattutto romano, Sergio Scarpellini ebbe i contratti per gli affitti di Montecitorio nel 1997. Qualche anno dopo, l’imprenditore donò 50 milioni di lire ai Ds calabresi e poi 48 mila euro ai Ds romani. Ma ha sempre contribuito alle spese dei partiti con le sue società, Milano 90 e Progetto 90. Sempre attento ai Ds prima e Pd poi: 200 mila euro in totale, 20 mila euro diretti a Michele Meta. Non manca il fronte centrodestra: 100 mila euro all’Udc, 50 mila al Pdl, 35 ai Cristiano Popolari di Baccini e 25 ai leghisti. Ma chiunque spende con speranza. Come Giuseppe Grossi, morto un paio di anni fa, vicino a Comunione e Liberazione, che aveva monopolizzato le bonifiche in Lombardia: per caso, prima dell’arresto, qualche anno addietro (2001 e 2004), diede 450 mila euro a Forza Italia. Funziona molto la tecnica della presenza costante con l’associazione Federfarma che pensa a tutti, proprio a tutti i partiti e ai tanti candidati.

Picconatore in aereo
L’aneddoto su Francesco Cossiga, allora presidente emerito, merita un racconto. Il picconatore viaggiava tanto e spesso a spese altrui: nel 1999, la Eliar lo portò tra la Spagna e l’Italia; nel 2000, Silvio Berlusconi in persona gli regalò un volo privato Roma-Nizza; poi la Joint Oriented pagò un Roma-Nizza. Ma chi si spese di più fu la Tiscali del conterraneo Soru che gli garantì un trasporto annuale gratuito – era il 2003 – da Cagliari a Roma e da Cagliari a Milano, andata e ritorno ovviamente. Questo introduce gli oltre 420 mila euro che la Energex diede al Ccd di Casini prima che diventasse Udc: la società anonima, sede in Lussemburgo, si occupa di noleggio aereo e la Camera non sa spiegare questi soldi di “capitale straniero”.

Re del mattone
Il costruttore romano Domenico Bonifaci, per la campagna elettorale fra Romano Prodi e Silvio Berlusconi, la sfida numero uno, diede in prestito 3 miliardi di lire al Pds. Ma è soltanto un esempio di quanto, in questi anni, abbiano speso costruttori e immobiliaristi per sostenere i partiti: non mancano i Gavio o Toto. Da quando Pier Ferdinando Casini ha sposato la figlia Azzurra, Gaetano Francesco Caltagirone, attraverso le varie società di famiglia o in prima persona, non si è risparmiato: ha donato 2 milioni di euro in poco tempo. Anche se, dieci anni fa, diede un piccolo contributo di 20.000 euro ai Democratici di sinistra romani. I Ds in giro per l’Italia, e in particolare nella Capitale, hanno sempre potuto contare sui signori del mattone. Salini non si è sprecata, scarsi 100.000 divisi fra le varie sezioni rosse, stessa cifra per Italiana Costruzioni che, però, ne ha dati 25mila all’Udc, più 120 milioni del ’96 al Pds.

I Ds di Roma, a colpi di 10 milioni di lire poi diventati 20mila euro, sono stati finanziati tanto dai potenziali o reali clienti come Romeo di Global Service o come Mondialpol che ha creduto anche nei progetti di Marrazzo presidente del Lazio o dell’Udc del munifico Casini. La bolognese Astaldi, che realizza grandi opere, ha sempre preferito la destra come testimoniano i 100 mila euro a Forza Italia che mal si sposano con i 70 mila ai Ds di qualche anno prima. I Cantieri Italiani di Pescara, anche con piccole somme di 5 mila euro, hanno cercato di tenere in piedi il centrosinistra italiano in Abruzzo: dai Democratici di Sinistra al Partito popolare hanno effettuato più di 30 donazioni. Tra i grandi finanziatori va ricordato Giannino Marzotto, amico di Enzo Ferrari, scomparso qualche anno fa, che in un colpo solo diede un milione di euro ciascuno a Forza Italia e Lega Nord.

Supermercati
Il patrón di Esselunga, Bernardo Caprotti, non ha mai nascosto le sue preferenze politiche. E i supermercati enormi, che puntellano soprattutto la Lombardia, sono merito di sapienza imprenditoriale e di un buon affiatamento con gli amministratori locali. Esselunga ha sempre finanziato i candidati di Forza Italia con bonifici di 20 milioni di lire, stiamo parlando degli anni che vanno dal 1996 al 2000, e tra i beneficiari si trovano anche l’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini e l’attuale ministro Mario Mauro: entrambi, però, hanno mollato il Cavaliere per il professor Monti. Una volta sola, nel 2002, Caprotti stacca un assegno a suo nome di 200 milioni di lire per Forza Italia: l’anno prima la controllata Orofin ne aveva dati 500. Anche i centristi di Casini (Ccd) sono nelle grazie di Caprotti, che contribuisce con 210 milioni di lire in due rate.

Il colore dei soldi
La famiglia Benetton ha sempre fatto i propri (lauti) affari con debita distanza dai palazzi romani, ma accade qualcosa di strano nel 2006. Quando si comincia a parlare di una fusione tra Autostrade per l’Italia e la spagnola Albertis, un’operazione internazionale, e dunque anche politica. Prima di conoscere l’inquilino di Palazzo Chigi, se ci sarà la conferma di Silvio Berlusconi o il ritorno di Prodi, la società investe 1,1 milioni di euro e li distribuisce, sotto forma di donazioni, ai partiti. Un assegno di 150 mila euro ciascuno per la coalizione di centrodestra, Alleanza nazionale, Forza Italia, Lega Nord e Udc; stessa cifra per la coalizione di centrosinistra, Comitato per Prodi, Democratici di Sinistra, La Margherita e soltanto 50 mila euro per la piccola Udeur di Clemente Mastella. Il governo di Prodi avrà l’onore di battezzare lo scambio imprenditoriale con lo spagnolo Zapatero, ma Antonio Di Pietro, allora ministro per le Infrastrutture, si oppone con durezza. Finché il progetto non va malamente in archivio.

Mani di cemento sull’Ambiente
di Davide Milosa e Ferruccio Sansa

Noi siamo per la conservazione attiva del territorio". La chiamava così Massimo Caleo (Pd), allora sindaco di Sarzana. Erano i giorni dell'alluvione in Liguria. Che cosa intendesse Caleo era presto detto: il progetto della Marinella, un mega-porticciolo da quasi mille posti barca, 750 residenze, 200 esercizi commerciali, 25 stabilimenti balneari. Proprio alle foci del fiume Magra che provoca alluvioni un anno sì e l'altro pure. Un'operazione da centinaia di milioni che vede impegnato il Monte dei Paschi di Siena, la banca rossa. Nel cda della società sedeva in passato il cassiere della campagna elettorale del Governatore della Liguria, Claudio Burlando. Una conservazione “molto attiva”. Caleo è stato promosso senatore e, pochi giorni fa, capogruppo Pd alla commissione Ambiente del Senato.

Caleo è soltanto l'ultimo tassello della politica ambientale della nuova maggioranza grandi intese. Roba da far rimpiangere quasi tutti i governi precedenti. Il Pd ha chiesto il ministero dell'Ambiente a Enrico Letta e l'ha ottenuto. Qualcuno forse si aspettava che sull'importante poltrona arrivassero persone che hanno dedicato la vita alla tutela dell'ambiente come Salvatore Settis. O, magari, un ex deputato come Roberto Della Seta che ha combattuto per salvare Taranto dai fumi dell'Ilva incappando nell'ira della famiglia Riva. Macché, Della Seta, anzi, è stato trombato. Nemmeno lo hanno ricandidato al Parlamento.

Nella sede del ministero è arrivato invece lo spezzino Orlando : 43 anni, un funzionario di partito sveglio, che il Pd ha mandato a sbrogliare matasse molto aggrovigliate, come lo sfacelo dopo le primarie di Napoli vinte da De Magistris. Ma nel curriculum di Orlando ci sono altre cose. E soprattutto, hanno notato i critici, ne mancano: non si è mai occupato di ambiente. Non solo: in Liguria e alla Spezia in particolare, il Pd di cui Orlando era uomo forte si è fatto promotore di operazioni devastanti per il territorio. L'elenco è lungo: tanto per cominciare, si è detto, il porto della Marinella. Poi il faraonico progetto da 250 milioni del nuovo Waterfront della città. Racconta Stefano Sarti di Legambiente: “Due torri per alberghi, spazi commerciali, centro congressi, uffici, residenze e mega-parcheggio.

Si chiama progetto waterfront, doveva risanare il lungomare, rischia di essere l’ennesima colata di cemento”. Orlando dichiarò: "Penso che l’impianto e gli obiettivi progettuali siano convincenti, ma che vi siano alcune soluzioni architettoniche su cui è utile un approfondimento". Un'operazione benedetta da centrosinistra, centrodestra e banche. La gara per il progetto non è ancora fatta, ma esiste già la società Waterfront. Tra i soci una società lussemburghese – controllata da fondi panamensi e delle Isole Vergini – riconducibile a Gabriele Volpi, Berlusconi in salsa ligure diventato ricco con il petrolio nigeriano. Di lui, dei suoi affari, si è occupato anche il Senato americano in un dossier non proprio edificante. Ma nel cda della Waterfront siede anche Andrea Corradino, avvocato e fedelissimo di Luigi Grillo, ambasciatore di Berlusconi nel mondo bancario e nel centrodestra ligure. Insomma, un'operazione bipartisan. Orlando non è mai stato troppo critico nei confronti dell'amore del centrosinistra ligure per il mattone, che ha portato a realizzare decine di porticcioli con annesso cemento per decine di milioni di metri cubi.

C'è chi ricorda una proposta di legge che Orlando ha presentato in materia di bonifica dei corsi d'acqua. In pratica, per ovviare alla cronica mancanza di fondi, si prevede che le imprese possano vendere la metà del materiale recuperato dalle escavazioni dei fiumi per pagare i lavori. "Il fine di questa proposta di legge – è scritto nel disegno di legge – è consentire la rimozione del materiale e di ripristinare i corsi d'acqua, prevedendo un meccanismo che garantisca la piena tutela del territorio e che eviti qualsiasi tipo di speculazione".
Tutto bene? No, almeno secondo gli ambientalisti. Spiega Alessandro Poletti di Legambiente: "Così si rischia che i comuni vendano letteralmente i loro fiumi per fare cassa. Che si scavi molto più del dovuto. Senza contare che escavare i fiumi non riduce il rischio di alluvioni, ma anzi talvolta le provoca".

Ma se Orlando non si è occupato di ambiente, al ministero c'è chi invece lo ha fatto. "Purtroppo", sostengono gli abitanti di Basiglio, comune dove è stato sindaco Marco Flavio Cirillo, neo sottosegretario del governo Letta.
Nel curriculum ci sono una speculazione tutta berlusconiana da 300mila metri cubi di cemento per un utile di 150 milioni e una battaglia senza frontiera contro l'Area C voluta dal Comune di Milano per ridurre l'inquinamento (con l’ipotesi di una class action contro la congestion charge). Queste le due carte che Cirillo porta in dote al governo Letta. Laurea in sociologia, consulente di marketing, Cirillo nasce in Forza Italia e cresce nel Pdl. Nel 2003 si candida a sindaco di Basiglio, comune a sud di Milano, sulla cui area Silvio Berlusconi ha costruito Milano 3. Cirillo sbanca le urne. Nel 2008 si ricandida e vince. Nel Pdl trova consensi e nel 2012 è in lizza per diventare coordinatore provinciale. Perderà a favore del larussiano Sandro Sisler. Poco male. Cirillo torna a occuparsi dell'amministrazione del suo comune e del nuovo Piano del governo del territorio.

Un documento decisivo per rimodulare gli assetti urbanistici dell'area di Basiglio. C'è da tutelare l'ambiente, ma anche da dare spazio alle richieste di vecchi e nuovi costruttori. Cirillo apre le porte all'ennesima speculazione che si svilupperà tra un campo da golf e un laghetto. Ai nastri di partenza ci sono l’Immobiliare Leonardo e la Green Oasis. La prima è partecipata al 100% dalla Finsec, srl di Paolo Berlusconi (95%) e della figlia Alessia (5%). Declinazione berlusconiana anche per la Green Oasis che rileva le quote della In House srl (già titolare dei terreni). La società è partecipata per il 30% dalla Deb Holding creata da Daniel Buaron, il quale con la sua First Atlantic (poi Idea Fimit), pur non indagato, comparirà nell’inchiesta sull’Enpam (Istituto di assistenza previdenziale dei medici), per alcune compravendite di immobili.
In Deb Holding compare anche Maurizio Carfagna, consigliere della Banca Mediolanum di Ennio Doris e di Molmed, azienda specializzata nelle ricerca nucleare. Tra i soci di Molmed troviamo Fininvest, San Raffaele di don Luigi Verzé e Marina Del Bue, il cui fratello Paolo è tra i fondatori di Arner, la banca d’affari accusata dalla Procura di Milano di aver gestito i fondi neri della stessa Fininvest. Il Pgt di Basiglio vola. Di contorno, nel 2011 Cirillo affida una consulenza urbanistica ad Antonino Brambilla, che da lì a un anno (2012) sarà arrestato per corruzione assieme a Massimo Ponzoni, all'epoca delfino di Roberto Formigoni.

Il business plan passa. E questo nonostante l'Associazione per il Parco sud Milano e il Comitato cittadino per il territorio di Basiglio facciano strenua opposizione: “La popolazione è in diminuzione, oltretutto il 10% delle case presenti risultano vuote”. Il regolamento del comune prevede la possibilità di indire un referendum. Quorum raggiunto in pochi giorni. Si voterà. Ma solo sulla carta. Perché, rientrati dalle vacanze, i comitati si trovano ingarbugliati in una melina burocratica. Il 28 novembre il Pgt viene approvato. La giunta di Cirillo delibera la colata di cemento. La famiglia Berlusconi ringrazia. Il referendum può aspettare. Tanto più che tra pochi giorni a Basiglio si vota. Cirillo non ci sarà. Ma il Pdl resta favorito.

Dal consulente di marketing Cirillo, al dentista Giuseppe Francesco Maria Marinello, fresco presidente della Commissione Ambiente del Senato. Siciliano di Sciacca, Marinello per il suo esordio politico sceglie Forza Italia, poi passa al Pdl. Quindi l'ultima tornata elettorale lo promuove a palazzo Madama. Carriera veloce all'ombra di Angelino Alfano e Renato Schifani. Marinello in Parlamento si spende più per l'ippica che per l'ambiente. É, invece, grande sponsor della mega speculazione in contrada Verdura: la costruzione un campo da golf e di un lussuoso resort realizzati dalla Sir Rocco Forte and Family Spa. Il curriculum giusto per tutelare l’ambiente.


Verdi, ma non solo di lotta “Le utopie oggi sono al governo”
intervista a Reinhard Bütikofer, di Martina Castigliani

Dai movimenti studenteschi degli anni Settanta fino al parlamento. In Europa esistono realtà dove i Verdi non vivono relegati all’opposizione, ma partecipano attivamente al governo con politiche ecologiste e risultati. Reinhard Bütikofer, prima di essere membro del parlamento europeo e portavoce dell’European Green Party, è stato leader dei Verdi in Germania. Ora racconta di una storia di alti e bassi e di un futuro in cui i temi ecologisti dovranno per volere o per forza entrare nelle agende dei governi nazionali.

Qual è lo stato di salute dei Verdi in Europa in questo momento? Nella vita politica come in quella reale, non va sempre tutto bene e ci sono periodi più o meno buoni. Così alcuni partiti europei stanno ottenendo risultati, altri invece faticano un po’ di più. La domanda da farsi non è tanto “perché?”, ma “come facciamo a uscire da una tale situazione?”. Siamo una famiglia a livello europeo e attualmente i problemi sono uguali per tutti, dalla crisi economica fino alla disoccupazione giovanile. Il punto da capire è che viviamo nella stessa Europa.

Soluzioni che spesso ignorano le politiche per l’ambiente? Non ci voleva la crisi economica per vedere che ci sono governi che considerano l’ecologia una questione accessoria. Questo non aiuta né gli stati né le loro economie. È un dato di fatto che le potenze economiche per mantenere il loro successo debbano basarsi su innovazione e sostenibilità.

Come sono cambiate le battaglie ambientaliste nel corso degli anni? Non c’è dubbio che abbiano subito un’evoluzione. Io mi sento di dire che i Verdi europei sono riusciti in 20\30 anni a influire sull’opinione pubblica di numerosi paesi. Prima le tematiche verdi erano considerate minori o addirittura irrilevanti. Lentamente molti attori europei e politici stanno cominciando a capirne l’importanza.

Una sensibilità verde che però continua a essere isolata nel nord Europa? Bisogna stare attenti a non generalizzare. Nelle ultime elezioni europee, il partito dei Verdi in Grecia ha eletto un rappresentante a Bruxelles. Piano piano abbiamo successi anche a sud. Non posso negare però che in Germania, Francia e paesi Scandinavi ci siano per ora più risultati.

Qual è il segreto? In Germania abbiamo saputo fare buon uso di alcune caratteristiche dello stato tedesco. A livello locale, nei singoli lander, siamo riusciti a entrare nelle amministrazioni e quindi dimostrare che sappiamo stare al governo e non solo all’opposizione. E’ stato un passaggio molto importante perché abbiamo potuto dimostrare che non solo abbiamo una buona teoria e dei principi, ma anche che sappiamo metterli in pratica.

Essere ecologisti e governare tra i compromessi, come è stato possibile? Ad esempio siamo riusciti a far partire alcune politiche che promuovono l’uso delle energie rinnovabili sul territorio e abbiamo visto come queste possono creare posti di lavoro. E’ stato un grande successo e soprattutto ha dato credibilità a noi come partito agli occhi dei cittadini.

Perché in Italia secondo lei non siamo ancora riusciti a fare lo stesso? Esiste il partito dei Verdi in Italia e lo conosco bene. Parlo spesso con Angelo Bonelli, il presidente. Purtroppo non hanno rappresentanti in parlamento, ma so che stanno lavorando duro per le prossime elezioni europee. Vi osservo molto dall’estero e secondo me i Verdi nel vostro Paese sono deboli a causa delle troppe divisioni interne.

Cosa consiglia? Credo che se i Verdi non si disperdessero tra Sel, Pd o altre forze politiche, il partito potrebbe tornare ad avere una grande influenza. Di sicuro i Verdi europei sono pronti a dare tutto il sostegno necessario perché questo avvenga.

Il futuro è un’Europa verde? E’ ottimista? Io sono fortemente convinto che l’Europa abbia bisogno di idee verdi per uscire dalla crisi. Noi lo chiamiamo un “Green New Deal”. Se le istituzioni saranno pronte ad ascoltare il nostro appello e a implementare politiche mirate alla salvaguardia del nostro pianeta, non posso che essere ottimista. Il nostro motto è sostenibilità, non austerità.

LA STORIA
Un dicastero creato a tavolino per sorreggere il governo Craxi


FABBRICA DI POLTRONE. Il ministero dell’ambiente in Italia ha una storia molto stravagante. E’ Bettino Craxi che lo istituisce, ma non perché abbia mai patito per la condizione verde: ha solo la necessità di creare una poltrona per il Partito liberale che entra nella sua squadra di governo. E il primo ministro, quando il dicastero è quello dell’Ecologia, porta il nome di Alfredo Biondi, la stessa persona (e non l’unica) che emigrerà con molta naturalezza in Forza Italia.

Una storia da libro italico di quegli anni tutti da bere. Un ministero creato a tavolino, scorporato da quello Beni culturali, nato anche per una necessità numerica la volontà del Caf (l’asse Craxi, Andreotti e Forlani) per sorreggere la prima presidenza del consiglio al Partito socialista. Bondi non brilla come ministro. E soprattutto i liberali hanno una necessità continua di distribuire poltrone: dopo Bondi la reggenza tocca a Valerio Zanone, massone e numero uno del partito. Quando il primo agosto del 1986 il ministero dell’Ecologia diventa ministero dell’Ambiente, tocca a Francesco De Lorenzo, liberale anche lui, negli anni a seguire potentissimo ministro della sanità. Dura appena un anno e Craxi, nell’aprile dell’anno successivo non ha più i numeri e nel governo tornato nella Democrazia cristiana e affidato per la quarta volta nella storia ad Amintore Fanfani va all’indipendente Mario Pavan.

Fanfani è una scelta di transizione. Tra il 1987 il 1992 si susseguono quattro governi (Goria, De Mita, Andreotti VI e Andreotti VII) e l’Ambiente resta sempre nelle mani del socialista Giorgio Ruffolo. Nel periodo tangentopoli arriva il primo ministro Verde ed è Carlo Ripa di Meana che poi passa il testimone a un giovanissimo Francesco Rutelli. Gli anni più recenti, invece, vedono l’allargamento dei poteri del ministero (delega anche sui porti) e la fa da padrone Altero Matteoli. Emiliano Liuzzi

Ministero delle seggiole Sarebbe meglio abolirlo
di Mauro Corona

L’ambiente è tutto ciò di cui non si occupa il ministro dell'Ambiente. Soprattutto là, dove c'è ancora un patrimonio naturale integro, ma mancano i servizi. Quassù, nella Valcellina, manca tutto, eppure le istituzioni permettono furti di ghiaia. Una vera mafia dell'oro bianco: con la scusa delle esondazioni non sistemano le strade, ma fanno prelevare la ghiaia. Stessa cosa con l'acqua. Abbiamo vinto un referendum, ma si continua comunque a concedere le centraline ai privati. E ancora: si blocca l'acqua dei torrenti, che è il bene più importante, anche da vedere. Perché il ministro dimentica anche che c'è un patrimonio psicofisico dell'occhio, che è lo stesso occhio di quando si ascolta una so-nata di Mozart o di Beethoven.

E abbiamo bisogno anche di quello, altrimenti andiamo avanti tutta la vita lavorando e mangiando escrementi senza godere di nulla. Quindi il patrimonio è sì ambientale, ma anche fatto di servizi, perché se si va a vedere un tramonto e ci si siede su un forcone, quel tramonto non lo si ama più. Si ha tutta un'altra visione, un altro sapore. Noi abbiamo patrimoni di ambiente che vengono tassativamente massacrati. A volte sotto l'egida dell'Unesco, a volte sotto quella dei Beni Culturali, a volte sotto l'egida di questo ministro dell'Ambiente (questo ma anche quelli precedenti, dato che uno vale l'altro). Non hanno alcuna idea di ciò che bisogna risparmiare e di ciò su cui invece bisogna investire. Occorre capire che l'ambiente è una fabbrica che si rinnova da sola.
Lo diceva anche il vecchio Mario Rigoni Stern, mio carissimo amico ed enorme scrittore. Diceva che il bosco, ad esempio, lo si deve lavorare, lo si deve sfruttare. Perché lì, dove si è tagliato 15 anni prima, si riformerà di nuovo il legname, senza investire nulla. Ricresce da solo. Invece, le istituzioni permettono lo scempio dei boschi, quello portato avanti da famigerati boscaioli, che tirano giù dieci o dodici camion di legname al giorno. Oppure, ancora peggio, lo lasciano incolto. Ad esempio, siamo invasi da boschi abbandonati con alberi rachitici, striminziti. Perché un faggio non può crescere assieme ad altri venti. Va liberato, per fargli tirare il fiato. Di venti faggi cresciuti in cespuglio quindi, bisogna lasciarne otto o nove.
L'ambiente può dare il massimo del suo frutto, il massimo della resa, recuperandosi da sé. E questo è importantissimo, perché un prodotto come il legno è fondamentale. C'è chi l'ha capito. L'architetto Renzo Piano, ad esempio, ha scoperto quello che i boscaioli e i montanari sanno da sempre. Ossia che il legname dura più del cemento. Per questo ha cominciato a usare il legno per i suoi progetti.

L'ambiente poi è anche pastorizia. Noi qui, ad esempio, abbiamo un parco (non mi piace molto parlare sempre di noi, ma devo farlo perché stiamo soffocando nell'ambiente incolto) dove hanno vietato il pascolo alle greggi. A Longarone per far passare il Giro d'Italia hanno bloccato per giorni la transumanza delle pecore: le cacche delle pecore sporcavano la strada e davano fastidio alle bici. Ma è mostruoso, perché la transumanza è una cosa che avviene da secoli. Le pecore brucano e lasciano escrementi che concimano la terra.

Bisogna poi recuperare i vecchi lavori. Perché ai ragazzi non si insegna il lavoro del bosco (qui ce ne sono di immensi)? Perché non gli permettiamo di recuperare la manualità, facendo sentieri, lavorando la legna, per poi magari vendere il ricavato alle cooperative? In questo modo si potrebbe avere un occhio attento all'ambiente. Dobbiamo capire che l'ambiente è una fabbrica a getto continuo. Che non si sfrutta con gli impianti di sci, dove si ruba e si spreca acqua per la neve artificiale. Ma investendo in altro, come percorsi per bambini, dove portare le scolaresche in gita, e insegnare loro le diverse specie di alberi, la loro carta d'identità, dove la corteccia è il viso e le foglie i capelli. Allora perché non facciamo percorsi per i bambini e i loro genitori? La mancanza di strade e sentieri è gravissima.

Siamo isolati in una valle che il grande scrittore Carlo Sgorlon definì l'ultima valle, l'ultimo tesoro. Siamo isolati. Perché, ad esempio, non costruiscono duecento metri di sopraelevata che risolverebbe tutti i problemi quando i torrenti, con le piogge, scappano dall'alveo? Perché? Perché se la fanno, poi non hanno più la scusa per rubare quell'oro bianco che è la ghiaia. Venga qui il ministro dell'Ambiente, gli facciamo vedere noi cosa siamo diventati. Non vengono fatti i servizi per mantenere l'ambiente incontaminato e i paesi si spopolano. Qui è tutto proibito, anche toccare una pianta. Non si può fare una strada, non si può fare niente, perché è tutto protetto. Ma così è peggio, si rischia di lasciarci soffocare sotto il peso dell'abbandono. Poi tanto là dove si vuole, si fanno ruberie dell'ambiente e stragi. In una zona della val Gardena, per citare un caso, c'è un sindaco che vuole ridisegnare e retrocedere i confini decisi dall'Unesco, così da riuscire a costruire un impianto di risalita nuovo. Allora quanto valgono queste istituzioni? Quanto vale l'Unesco?

Aveva ragione il grande scrittore, Jean Giono, l'uomo che piantava gli alberi: il vero bisogno sta nelle piccole valli, dove ci si può chiamare da una costa all'altra. Qui non abbiamo servizi, non abbiamo negozi alimentari di frutta e verdura. Non abbiamo un tabacchi, una macelleria, e non abbiamo un'edicola. Eppure si vive anche di giornali, è inutile dire di no: serve anche leggere i quotidiani, visto che siamo tra le nazioni che leggono meno. Allora se l'ambiente fosse gestito da uno che sa come cavare un albero, che sa quando tagliarlo, e come sfruttarlo, si salverebbe questo patrimonio immenso, creando anche dei posti di lavoro. E invece si dedicano solo alle chiacchiere e alla cementificazione. Pensano a costruire ponti, autostrade, impianti di risalita, seggiovie e funivie, invece di incentivare il camminare e fare dei progetti per dei percorsi a piedi.

Dove sono le istituzioni? Dov'è questo governo? Lo dico a Letta, non vada a rinchiudersi in un convento a fare il frate, venga invece a vedere i problemi reali della gente. La Valcellina è tempestata di tir che rubano la ghiaia e li fanno passare da una strada del 1901. La domenica siamo bombardati dalle gare motociclistiche - perché pare che la Valcellina, da Longarone a Montereale, sia la più bella pista d'Europa - e nessuno ti protegge da un inquinamento acustico mostruoso.

Il ministero dell'Ambiente, a questo punto andrebbe abolito, perché non esiste, non serve a niente. È popolato da seggiolai. Anzi nemmeno, visto che qui i seggiolai impagliavano le sedie, loro invece le sedie le scaldano e basta. E l'Unesco è una patacca fasulla, farebbe bene a riprendersi il suo marchio che è vilipeso tutti i giorni. Mi secca fare la parte del grillesco, ma è così e lo è sempre stato.

Qui il paese di Erto non esiste più. Cinquant'anni fa hanno ammazzato duemila persone. Un genocidio. E quel 9 ottobre 1963 i telegiornali nazionali non hanno detto una parola, nemmeno di 3 secondi, mentre venivano uccise migliaia persone. Anche quello era ambiente. Lo scriveva Jorge Luis Borges: nell'ambiente ci vive l'uomo. E il vescovo George Berkeley: la mela non si può gustare da sola, perché ci vuole la mela e il palato che la gusta. Quindi l'uomo deve essere il palato che gusta questo ambiente, che gusta la natura. Ma deve trovarla buona la mela, ancora tutta intera. Invece la troviamo marcita, per l'incapacità di avere idee.

E non è che il ministero faccia di tutto per deturpare l'ambiente, semplicemente non ha idee. Quelle idee che dovrebbero provenire da chi l'ambiente lo vive. Ecco perché mi schiero contro la Tav, perché non si tratta solo di danneggiare l'ambiente ma anche l'anima di chi vive lì da secoli. Loro, gli abitanti della Val di Susa, hanno paura di veder la loro terra sconvolta, così come è stato fatto qui nel Vajont. La gente dovrebbe scendere in piazza non con i fucili, ma con le zappe. In tempo di crisi, in cui non si possono vendere scarpe, né vestiti, né occhiali, né automobili, bisogna tornare al bene primario: la legna per scaldarsi, il cibo per nutrirsi. Questo si deve vendere. Ed è l' ambiente che ti dà il cibo e il legno. Sarà la terra a darci i prodotti. Partiamo da lì. Impariamo a procurarci il cibo e a sfruttare i boschi. Saremo salvi e con un sacco di tempo libero. E la terra tornerà a fiorire e sorridere.

(testo raccolto da Emiliano Liuzzi)

Mauro Corona è nato nel 1950 e vive nella sua Erto (Pordenone), a due passi dal Vajont. É scrittore, alpinista e scultore. È autore di molti libri che raccontano l’uomo e le montagne. Tra gli altri: “Il volo della martora”, “Le voci del bosco”, “Finché il cuculo canta”, “Gocce di resina”, “La montagna”, “Nel legno e nella pietra”, “Aspro e dolce”, “L’ombra del bastone”, “Vajont: quelli del dopo”, “I fantasmi di pietra”, “ Storia di neve”, “La fine del mondo storto” (premio Bancarella 2011), “La ballata della donna ertana”, “Venti racconti allegri e uno triste”. L’ultima sua opera è “Confessioni Ultime”.

a Bologna, lo scorso 4 maggio, la terza assemblea nazionale del Forum “Salviamo il Paesaggio, Difendiamo i Territori”. Resoconto, con postilla (m.b.)

Riportiamo il resoconto della terza assemblea nazionale, tenuta il 4 maggio scorso a Bologna, tratto dal sito del Forum Salviamo il paesaggio dove si possono scaricare la relazione introduttiva, il verbale dell'assemblea e la mozione finale.

Dalla sua nascita, nell’ottobre 2011 a Cassinetta di Lugagnano, la crescita del Forum non si è arrestata: sono oggi 151 i comitati Salviamo il Paesaggio costituiti e 911 le associazioni – nazionali e locali – aderenti.
Convegni, seminari ed assemblee hanno fatto crescere nel tempo l’importanza del Forum, che è arrivato a dialogare con parecchi ministeri ed a moltiplicare l’attenzione generale sul nevralgico tema del consumo di suolo. Un lavoro importante che, negli ultimi mesi, ha ottenuto alcuni risultati di grande rilievo: a gridare “basta sprecare territorio” sono, oggi, anche molte forze imprenditoriali come i Costruttori edili dell’ANCE/Confindustria, Confcommercio, Confcooperative, Confartigianato, il sindacato Fillea Cgil, forze politiche e molte amministrazioni comunali. Il “chiodo fisso” delle nuove edificazioni sta lasciando spazio al recupero dell’esistente: è un salto culturale enorme, di cui possiamo andare fieri. Ma che dobbiamo saper “governare” …
Durante la mattinata si è svolta l’assemblea plenaria, a cui nel pomeriggio si sono affiancati alcuni gruppi di lavoro, fra cui quello sull’obiezione di coscienza, che ha visto partecipare professionisti del settore (geometri, ingegneri, architetti, progettisti) coinvolti nel trovare risposte nei confronti di progetti che prevedano nuovo consumo di suolo anziché recupero dell’esistente.

Un altro tavolo di lavoro si è occupato delle attività di redazione del sito nazionale del Forum, che è ormai diventato il più importante riferimento sul tema presente in rete, oltre che fondamentale collante tra i gruppi e le iniziative.
Qualche rapida informazione:
Confermata la centralità della campagna di “censimento del cemento”: i nostri Comitati locali continueranno a sollecitare tutte le (tante, troppe …) amministrazioni comunali che ancora non hanno compilato e restituito la nostra scheda censuaria.
Accelerazione della definizione del testo della nostra possibile Proposta di legge d’iniziativa Popolare, attraverso una apposita Commissione.
Creazione di una sorta di albo di “soccorso verde” che includa urbanisti, architetti, geometri, paesaggisti, agronomi, legali, amministrativisti ecc., per contribuire all’analisi e alla prima consulenza su nuovi progetti, regolamenti, norme.
Impegno più rigoroso da parte di tutte le grandi organizzazioni nostre aderenti nelle azioni quotidiane del nostro lavoro.
Intensificazione delle nostre azioni di stimolo per le future scelte di Governo e Parlamento.
Creazione di un nostro Ufficio Studi.

L’Assemblea si è conclusa con l’approvazione di un documento programmatico che sintetizza i principali temi-cardine delle nostre proposte “politiche” e con la scelta del nuovo coordinatore nazionale, essendo giunto al termine il mandato di Alessandro Mortarino, che nella sua relazione introduttiva aveva suggerito una opportuna turnazione di ruoli.
L’assemblea ha però ritenuto che il positivo lavoro svolto dalla nostra segreteria nazionale in questo primo anno e mezzo dovesse trovare ancora una continuità annuale e, all’unanimità, ha chiesto ad Alessandro di accettare un secondo mandato. Il calore con cui la richiesta è stata avanzata ha ottenuto il risultato atteso: un “Mortarino bis”…


Postilla.
Segnaliamo un aspetto non evidenziato nella mozione conclusiva, che avevamo sottolienato nel nostro messaggio. Per fermare il consumo di suolo occorre puntare anche, e contemporaneamente, al recupero e alla trasformazione delle città esistenti. Tuttavia, le aree dismesse, sottoutilizzate o degradate possono essere oggetto di investimenti speculativi, con la stessa logica che ha generato la disordinata espansione edilizia degli ultimi decenni. Una deriva che riguarda soprattutto le aree pubbliche. Le politiche nazionali incoraggiano le amministrazioni locali e i soggetti para-pubblici (le aziende sanitarie, le ferrovie dello stato, i gestori delle reti) a disfarsi di queste aree per fare cassa e ripianare (o camuffare) i bilanci, anziché considerarle come beni comuni. Sappiamo che occorre fare tutt'altro, e che attraverso il recupero del patrimonio pubblico si può soddisfare i fabbisogni sociali e restituire vivibilità ai centri urbani. Tutto si tiene: non si salva il paesaggio senza salvare le città. (m.b.).

Una trasformazione che sintetizza il declino di Venezia: un palazzo che da sede di un prestigioso istituto del Consiglio nazionale delle ricerche diventa una nicchia per iperdotati nella catena della “infrastruttura globale”. La Nuova Venezia, 12 maggio 2013

A Palazzo Papadopoli , ex sede del Cnr, il nuovo albergo della Aman Resort: 24 suite tra cui l’Alcova del Tiepolo

Settestelle sette, non una di meno, sparse tra gli affreschi del Tiepolo, gli alberi di mandarino, le vasche da bagno grandi come piscine e l’altana incastonata tra i tetti dalla quale si comprende perchè l’esigentissima catena di Singapore Aman Resort abbia detto (quasi) subito sì, lo voglio. Era un Palazzo Papadopoli un po’ acciaccato, ex sede del Cnr, di proprietà della famiglia Arrivabene Gonzaga; è ora un Palazzo Papadopoli trasformato in albergo da firmamento (il primo in Italia), affidato ai guanti di velluto di Dottor Group che ha salvato tutto quello che si poteva recuperare – inclusa l’ultima serratura in ottone dell’ultima porta – garantendogli una seconda vita in ottima salute, dall’ammirevole memoria e di deliziosi privilegi. L’Aman Canal Grande è uno scrigno di storia e tecnologia nel quale gli stucchi e le cineserie convivono con le torrette che contengono (e nascondono) cavi e fili che consentono di variare lo scenario delle luci a seconda dell’ora; nel quale le cucine sono distribuite una per piano e una per portata, collegate da un monta vivande più veloce della luce: il primo piano per i primi, il secondo per i secondi, il terzo per i dolci; nel quale gli scarichi finiscono in un depuratore potenziato che rovescia in laguna acqua teoricamente potabile. Tutto questo si sa ma non si vede. Quello che si vedrà (apertura in occasione della Biennale e inaugurazione il 3 giuno) è un palazzo del Cinquecento, affiancato da uno più recente, che, vestito di futuro, accoglierà gli ospiti nelle sue 24 suite, nei due giardini e nei due ristoranti con fasti serenissimi, arredi minimalisti e cortesia orientale. L’arrivo sarà via acqua, con sbarco su piccolo deck in legno. Il tempo di vedere Ca’ Foscari a sinistra e il ponte di Rialto sulla destra e gli ospiti entreranno direttamente nella storia. Il portego con il mavimento di marmo, lo scalone monumentale, i vetri piombati, le porte originali, i lampadari smontati pezzo per pezzo, portati da Galliano Ferro a Murano per una radicale remise en forme e rimontati nel salone da ballo, i pavimenti di legno del Settecento consolidati e levigati, le stoffe di Rubelli e di Bevilacqua, i mobili intagliati del Brustolon, la libreria con le pareti rivestite di cuoio decorato con foglia d’oro. I lavori di restauro, durati 16 mesi e monitorati centimetro quadrato dopo centimetro quadrato dalla Soprintendenza, hanno fatto risplendere nuovamente il camino del Sansovino che ora dà il nome a una delle suite più spettacolari; hanno restituito luce, aria e voluttà agli affreschi di Giovan Battista Tiepolo dell’Alcova Tiepolo sotto i quali si potrà dormire sonni vicini alla beatitudine tra pareti e porte cinesi dipinte a mano; hanno reso possibile la suite Canal Grande con finestra ad arco sul pelo dell’acqua, a due metri dalle gondole. D’ispirazione orientale i bagni, con i radiatori di cristallo e docce grandi come camere da letto. E se le coccole non bastassero all’ultimo piano c’è la spa con palestra. I prezzi? Dai duemila euro in su. Dettagli.

Con la trasparenza e accessibilità totale dei dati – scelta prima politica che tecnica – si aprirebbero sia le prospettive di smart city che di sviluppo economico per le applicazioni. Articoli di M. Sideri e A. Farkas, Corriere della Sera, 12 maggio 2013

Open Data
di Massimo Sideri

«Open + data»: due termini che stanno entrando nel linguaggio comune, ma la cui pacifica convivenza non è così scontata. Dati e numeri, dunque «informazioni» su qualcuno che in un dato momento e in un dato luogo fa qualcosa, aperti, dunque accessibili liberamente tramite la Rete. Per decenni questi due concetti hanno fatto a botte: il sostantivo informazioni era quasi l'antitesi dell'aggettivo aperte. Pensiamoci. Lo Stato silente. Il segreto di Stato. La Guerra fredda con le sue macchine di spionaggio e controspionaggio in cui nemmeno lo Stato alla fine sapeva cosa fosse vero. Nel film premio Oscar di Florian Henckel von Donnersmarck, «Le vite degli altri», gli abitanti di Berlino Est devono aspettare la fine della Ddr e la caduta del Muro di Berlino per conoscere cosa la Stasi sapesse di loro.

Ma anche venendo all'oggi possiamo trovare mille esempi di un'eterna lotta tra informazioni e loro diffusione. Pensiamo alla potenza, a tratti rivoluzionaria e a tratti distruttiva, di WikiLeaks. Se tutti i dati fossero liberi, accessibili, se le informazioni non fossero anche al centro della forza che definiamo «Potere», non ci sarebbe spazio per Julian Assange. D'altra parte una delle più efficaci definizioni di Potere l'ha data lo storico banchiere di Mediobanca, Enrico Cuccia, dicendo che il bello delle informazioni è tenersele per sé, non darle.

La storia moderna vede contrapporsi uno Stato che annovera tra i suoi compiti la «difesa» del dato e dall'altra il cittadino che non ha quasi il diritto di sapere la verità, almeno non tutta. La filosofia del «meglio che non sappiano» è stata uno dei valori condivisi delle scuole di politica del Novecento. Ora la gara App4Mi, lanciata dal Comune di Milano in collaborazione con Corriere e Rcs, può essere un punto di incontro di buone volontà. Una nave rompighiaccio. L'amministrazione locale che usa la Rete come luogo di trasparenza con i suoi Open data. E lo sviluppatore cittadino che li trasforma in app, rendendoli fruibili e utili dopo averli strappati a una massa accessibile di informazioni che però, se lasciata disordinata, può produrre un fastidioso rumore di fondo.

Molto c'è ancora da fare. Secondo un rapporto presentato al recente Festival del giornalismo di Perugia da il Diritto di sapere e da Access Info Europe con l'esplicativo nome «The Silent State», risulta che nel 77 per cento dei casi di specifiche richieste alla Pubblica amministrazione inviate da giornalisti e blogger le informazioni non sono state fornite (con buona pace del decreto trasparenza). Nel 65 per cento dei casi gli uffici amministrativi non si sono degnati nemmeno di rispondere.

Ma anche dal punto di vista commerciale immaginiamo come stia cambiando il «Potere», anche qui, delle società specializzate in sondaggi e proiezioni con gli Open data e i Big data (per chi non avesse chiara la distinzione possiamo dire che i due concetti-movimenti culturali sono cugini: con Open data si fa riferimento alla massa enorme di informazioni sulla nostra vita in società, dai rifiuti alla mobilità, controllate dai soggetti locali e nazionali della Pubblica amministrazione. Con Big data ci si riferisce invece alle informazioni detenute dal settore privato: banalmente, pensate a tutti i dati sugli accessi a Internet immagazzinati da Microsoft, Cisco, Ibm, Apple, Facebook e Google, oppure a quelle in mano agli operatori telefonici, tanto per fare degli esempi). Ci sarà un momento in cui anche l'Istat, così com'è oggi, diventerà obsoleta.

Ora — a.D. 2013, era della socializzazione di massa e del dibattito infinito sulla Rete — siamo maturi e pronti per sapere. In questo senso quello dei dati aperti ha una natura ambivalente che solo alla fine del percorso si dissolverà: da una parte è una nuova forma di politica, soprattutto locale, una politica di trasparenza per amministrazioni illuminate e moderne di città come New York e Londra ma anche Milano, Firenze, Roma. Dall'altra è un movimento culturale che spinge dal basso, una nuova forma di cittadinanza.

Che però corre il serio rischio di restare una battaglia potenziale, un diritto latente più che un risultato. La massa è nemica della trasparenza, avere accesso a tutto vuole dire in sostanza non sapere nulla. Stiamo parlando di terabyte di dati in continua evoluzione. Fiumi di fogli Excel senza capo né coda.

Ecco che per permettere a questa corrente sotterranea di cambiare le nostre vite quotidiane abbiamo bisogno della forza creatrice degli sviluppatori. La storia di Max Stoller e della sua DontEat.at (vedi nella pagina a fianco) ne è l'emblema pratico. E adesso App4Mi — come gli altri di questo genere che, speriamo, seguiranno — permetterà di trasformare quei papiri digitali di dati in servizi utili sulla mobilità, l'Area C, la raccolta dei rifiuti, la sanità. Creando, punto non secondario, posti di lavoro. L'Unione Europea, in maniera lungimirante e moderna, ha appena risolto l'equivoco: gli Open data possono essere usati per finalità commerciali, per creare imprese, fatto salvo il rispetto della privacy. I dati aperti possono essere una nuova forma di elettricità. Ma gli sviluppatori con le loro idee saranno le (nostre) lampadine.

E Bloomberg sbucciò la Grande Mela
di Alessandra Farkas

Per anni, nel pieno della notte, molti ristoratori della Grande Mela hanno riversato illegalmente tonnellate di olio da cucina usato nelle fognature del loro quartiere, intasando più della metà dei tubi di scarico dell'intera città. Come stanare i colpevoli? Il mistero, degno di uno Sherlock Holmes moderno, è stato svelato dalla Geek Squad messa in piedi dal sindaco di New York Michael Bloomberg nell'Ufficio Municipale di fronte al ponte di Brooklyn.

Dai cubicoli stipati di scartoffie, computer e dossier digitali nel cuore dell'Office of Policy and Strategic Planning, la nuova task force ha passato al setaccio per giorni i dati dell'agenzia incaricata di certificare che tutti i ristoranti newyorchesi abbiano un servizio per l'asportazione dell'olio usato. Con pochi e veloci calcoli, raffrontando la lista dei ristoranti sprovvisti di rimozione dei rifiuti con i dati territoriali delle tubature intasate, il team è riuscito a fornire agli ispettori nomi e indirizzi degli esercizi sospetti.

L'asso nella manica? I cosiddetti Open data: strumenti ormai indispensabili per i geni informatici che hanno compreso come i dati liberamente accessibili a tutti, privi di brevetti o altre forme di controllo che ne limitino la riproduzione, oggi sono uno strumento cruciale al servizio delle amministrazioni pubbliche e dei privati cittadini, per risolvere gran parte dei loro problemi e migliorarne la qualità della vita.

Richiamandosi alla più ampia disciplina dell'open government, la dottrina in base alla quale la Pubblica amministrazione dovrebbe essere aperta ai cittadini, tanto in termini di trasparenza quanto di partecipazione diretta al processo decisionale, la Geek Squad di Bloomberg ha usato gli Open data per smascherare i negozi che vendono sigarette di contrabbando, accelerare la rimozione degli alberi abbattuti lo scorso ottobre dall'uragano Sandy, indirizzare gli ispettori immobiliari verso abitazioni a rischio crollo o incendio.

Grazie a Bloomberg, New York è oggi la città più digitalizzata del mondo. «La massa sterminata di informazioni che New York ha raccolto sui suoi 8 milioni di abitanti è incredibile», scrive il New York Times, «dal numero degli infarti e degli incendi nei condomini alle denunce per scarafaggi e rumori molesti, dalle auto in sosta vietata agli evasori fiscali, dai voti degli studenti alle preferenze degli anziani nei trasporti pubblici».

«Il rapporto tra i newyorchesi e la loro amministrazione è molto profondo», teorizza il capo della Geek Squad Michael Flowers, «e quella relazione è immortalata in un oceano di dati». Ad agevolare la continua raccolta di informazioni sono innumerevoli app, gratuite e a pagamento, per pc, smartphone e tablet, che consentono ai newyorchesi e ai turisti di destreggiarsi tra i numerosi servizi e attrazioni della Big Apple.
Vuoi sapere quando arriverà il prossimo treno della metropolitana? Cerchi un appartamento a basso costo a Soho? Hai un'emergenza medica alle 3 di notte? Sogni una prenotazione da Red Rooster, il famoso ristorante di Harlem frequentato dagli Obama? La risposta a migliaia di domande come queste è letteralmente a portata di mano: basta consultare sul proprio cellulare l'app più adatta al caso.
Le app gratuite messe a disposizione dal comune di New York sono infinite. C'è NYC Way, pacchetto gratuito di 60 applicazioni promosso da Michael Bloomberg, che, tra le altre cose, consente ai turisti di conoscere gli eventi gratuiti della città, gli indirizzi di farmacie e uffici postali. E Don't Eat.at che, collegandosi agli Open data sulle ispezioni pubbliche, avverte gli avventori di darsi alla fuga quando entrano in un ristorante dove vi sono state violazioni delle norme igieniche nelle cucine.
Quest'ultima app, creata dallo studente della NYU, Max Stoller, si è aggiudicata nel 2010 la prima edizione di NYC Big Apps Competition, la gara fortemente voluta da Bloomberg per fare di New York la prima vera Smart City Usa. «Quest'anno, grazie all'esponenziale aumento di Open data, prevediamo idee ancora più creative», ha annunciato Bloomberg lo scorso marzo, presentando la quarta edizione della NYC Big Apps Competition, «idee che aiuteranno a rafforzare il ruolo di New York come capitale mondiale dell'innovazione, oggi e in futuro».

Alle conquista di spazi comuni per ottenere che il frutto del lavoro collettivo venga sottratto alla speculazione e restituito alla città. L’Unità on line, dal blog “Città e città”, 9 maggio 2013

“Omnia sunt communia. Con questa programmatica parolad’ordine le ex Fonderie Bastianelli, quartiere san Lorenzo, il 24 aprile sisono coperte di striscioni. Un collettivo di studenti e precari hanno deciso dipresidiare un palazzo da tempo abbandonato a una gigantesca speculazione.

Cosa sono le Fonderie Bastianelli? Uno stabilimento diarcheologia industriale aperto all’inizio del 1900. E’ certo che le fucinefossero attive nel 1908. Da lì vengono gran parte dei chiusini di Roma, fatecicaso. Da lì vengono parti (le altre furono fuse nella fabbrica di san Michele aRipa) della statua equestre di Vittorio Emanuele, quella che campeggia sull’altaredella Patria. A ricordarlo la foto, datata febbraio 2011, dell’inaugurazioneinformale, una cena da ventiquattro coperti allestita nella pancia del cavalloa celebrare la conclusione dell’opera: tra i commensali, oltre al sindacoTorlonia e lo scultore Trentanove, anche il fonditore Bastianelli.
Qui il Comune di Roma aveva concesso alla società Abrizla demolizione totale dell’edificio, considerato di nessun valore storico ma inrealtà vincolato, e la costruzione di un palazzone di cinque piani con trelivelli di box interrati. Grazie alla mobilitazione del quartiere il progetto èstato fermato, ma non cancellato: tra gli appunti del Comitato di quartiere,anche il fatto che la copertura di eternit è stata demolita con segheelettriche e nessuna delle precauzioni doverose in presenza di amianto. Qui il videogirato dai residenti. In rete e quil’appello per restituire al quartiere un pezzo della sua storia, trai firmatari Simone Cristicchi, Paolo Berdini, Piero Bevilacqua, Wu Ming,Daniele Biacchessi, Valerio Mastandrea, Il muro del canto, Johnny Palomba,Marco Bersani, Elio Germano, Assalti Frontali, Pino Cacucci…
In attesa del nuovo progetto, il collettivodi studenti Communia ha occupato l’edificio. E’ già attivo uno sportellolegale, sale studio per studenti, palestra popolare, cineforum. E undoposcuola, cioè lezioni di recupero per ragazzi delle medie e delle superiori,quelle lezioni che le scuole falcidiate dai tagli non fanno più. Non perché sivoglia “privatizzare” un servizio che dovrebbe essere pubblico, ma appunto persottolinearne la necessità. A insegnare i laureandi e gli insegnanti precari diCommunia, ovviamente gratis. In via dei Reti ci sono due aule e 25 volontari,le lezioni sono aperte il lunedì, il mercoledì e il venerdì dalle 16 alle 19.Chi è rimasto indietro in fisica, matematica, greco ora lo sa: la risposta latrova in fonderia.

Annamaria Cacellieri, da un lato, Nitto Palma dall’altro. Si riapre la guerra contro i malefici condoni dell’abusivismo. Tornando sempre più indietro ci toccherà combattere le guerre puniche. La Repubblica, 10 marzo 2013

Riaprire i termini del condono edilizio in Campania. A meno di ventiquattr’ore dalla difficile (e contestata) nomina a presidente della Commissione Giustizia del Senato, Nitto Palma torna a far discutere. L’ex guardasigilli del governo Berlusconi, ai microfoni di Radio 24,
ripropone ancora una volta il colpo di spugna su migliaia di immobili abusivi spuntati negli anni sul territorio campano. «La maggior parte di questi sono abitazioni di necessità», si giustifica il senatore.
La difesa degli scempi campani è a tutto tondo: «Vi invito ad andare sui territori e vi renderete conto che da circa 35 anni, in una terra dove governava il centro-sinistra, si è costruita una città grande come Padova e adesso qualcuno intende abbattere uella città». Secondo Palma, «stiamo parlando di circa 700-800 mila persone, e non ci sono le risorse finanziarie per procedere agli abbattimenti, non ci sono le discariche dove inserire l’abbattuto e principalmente non c’è la possibilità di riallocare i soggetti che vivono in quelle abitazioni». Tanto vale salvarle, condonandole, perché «vi sono dei mostri edilizi e anche abitazioni di speculazione », concede Palma, «ma la maggior parte sono di necessità», appunto.

Il magistrato romano, eletto proprio in Campania dove è anche coordinatore regionale del Pdl (in virtù di questa carica, subito dopo l’elezione di febbraio, è andato a trovare Cosentino in carcere, si è saputo ieri), ritorna dunque a difendere il suo bacino di voti. «Non deve creare scalpore una posizione che tende ad ottenere la parità di trattamento per tutti i cittadini italiani», prosegue la sua arringa, visto che
«sul territorio nazionale c’è stata una disparità tra le Regioni, dovuta a due leggi della Campania che sono state dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale».

«Nitto Palma vuole intervenire sulla legge nazionale, prorogando i termini del condono del 2003 per aggirare la legge regionale del 2004 che rende insanabili gli immobili abusivi in aree vincolate e impedire le demolizioni disposte dalla magistratura. Letta deve intervenire rapidamente e spiegare», attacca Legambiente. Così Ermete Realacci, presidente pd della Commissione Ambiente della Camera, per cui «riaprire il condono sarebbe da irresponsabili». Schierati con Nitto Palma il presidente della Provincia di Napoli, Antonio Pentangelo, e il presidente del Consiglio regionale campano Paolo Romano, entrambi del Pdl.

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