1. Con Paolo Berdini ho condiviso un’indimenticabile stagione di impegno politico, nel Pci prima, poi nel Pds, negli anni che vanno dalla primavera del 1985, quando fu sconfitta l’amministrazione di sinistra in Campidoglio, all’autunno del 1993, quando Francesco Rutelli fu eletto sindaco per la prima volta. La politica per noi coincideva con l’urbanistica. Non solo per noi. Da sempre, da Porta Pia in seguito, a Roma la politica è la politica urbanistica. Lo dimostra il fatto che in nessun’altra città ; come a Roma è stata prodotta tal e tanta letteratura in materia di urbanistica, soprattutto nel secondo dopoguerra.
In quegli otto anni fiorirono discussioni appassionate e senza fine, nel comitato federale, nella commissione urbanistica, nelle sezioni del Pci, nelle associazioni, nei circoli, nelle università, nei luoghi di lavoro, nei sindacati, nelle piazze, nelle manifestazioni, nelle feste dell’ Unità , nelle assemblee elettive. Il primo tema che affrontammo – in una discussione aspra, dura, senza complimenti – aveva riguardato una fondamentale questione di metodo e di sostanza, e cioè la necessità di restituire alla pianificazione urbanistica il ruolo di strumento irrinunciabile per il governo della città. Avevamo assunto una posizione critica verso la giunta di sinistra e verso chi aveva amministrato l’urbanistica romana dal 1976 al 1985, soprattutto per non aver messo mano a un nuovo piano regolatore, al posto di quello decrepito e pericoloso del 1962.
Capofila del nostro gruppo era Walter Tocci. Con Goffredo Bettini e altri dirigenti del Pci guidava il rinnovamento del partito dopo la sconfitta del 1985. Di quel percorso furono tappe importanti i convegni “Roma da slegare”, “Le città della metropoli”, il dossier dal titolo Chi comanda a Roma e tante altre iniziative. Cominciammo con Tocci a delineare i contenuti e la forma del nuovo piano regolatore e delle cose da fare per mettere ordine nell’urbanistica di Roma. Italia ’90, Roma capitale, lo Sdo, il vecchio e il nuovo abusivismo, il secondo Peep, l’autoporto di Ponte Galeria, il ministero della Sanità alla Magliana: sono solo alcuni dei temi allora trattati. Con modestissime risorse riuscimmo a produrre documenti e materiali di analisi e di proposta, alcuni a stampa. Lo Sdo e l’urbanistica romana , del 1989, mi sembra che sia il primo testo in cui la nostra impostazione è esposta in modo compiuto e convincente. Chiedevamo che si mettesse mano, contemporaneamente, a tre diversi piani urbanistici: una variante di salvaguardia, per confermare gli interventi già decisi e sospendere le altre previsioni del Prg allora (e oggi) vigente; il piano dell’area metropolitana di Roma, per definire le scelte strategiche a scala provinciale; il nuovo piano di Roma. La variante di salvaguardia, se ricordo bene, è stata inventata allora. Quello stesso fascicolo trattava del verde pubblico, della mobilità – proponendo, tra l’altro, un tracciato per la linea D – e dello Sdo, temi ripresi e approfonditi in altre elaborazioni.
Ai nostri dibattiti partecipava il meglio della cultura cittadina, cito per tutti Antonio Cederna, che decise di fare politica in prima persona, come deputato della sinistra indipendente e come consigliere comunale. La sua proposta di legge per Roma capitale raccoglie la parte essenziale del lavoro condotto insieme in quel periodo, soprattutto riguardo allo Sdo e al grande parco archeologico dei Fori e dell’Appia Antica. Per lo Sdo Cederna propone la soluzione che avevamo definito “a saldo zero”: i ministeri trasferiti nello Sdo non devono in alcun modo essere sostituiti da funzioni che comportino un analogo carico urbanistico. “ L’obiettivo di formare vuoti urbani attrezzati, parchi verdi e archeologici, ampie zone pedonali, eccetera, richiede la demolizione di alcuni degli edifici ex ministeriali, operazione essenziale, tra l’altro, per la più corretta valorizzazione di alcune aree di interesse archeologico oltre che opportuna per motivi di qualità urbanistica dell’ intervento”. Inoltre, secondo Cederna, lo spostamento dei ministeri non deve essere limitato a uffici secondari: “verrebbero immediatamente meno non solo l’obiettivo della riqualificazione della periferia orientale, ma gli stessi più generali obiettivi della riqualificazione del centro storico”. La difesa del centro storico si può ottenere solo se si dota la città di altri luoghi destinati a ospitare funzioni di prestigio. Cederna assume insomma, compiutamente, la filosofia dello Sdo com’era stata originariamente pensata da Luigi Piccinato: il trasferimento dal centro di alcune delle più importanti funzioni come idea forza dell’urbanistica romana, presupposto e condizione per costruire la città moderna.
Quanto all’area centrale, secondo Cederna, la valorizzazione delle antichità romane non può essere garantita solo dall’opera di restauro, manutenzione e consolidamento: è necessario intervenire sul piano urbanistico. Il parco Fori Imperiali-Foro Romano arricchirà Roma e i romani di un “incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo”. Il parco archeologico centrale proseguirà extra moenia nel grande parco dell’Appia Antica. Ma soprattutto, “coll’ eliminazione dello stradone che negli anni Trenta ha spianato un intero quartiere e con la creazione del parco centrale si sancisce l’ incompatibilità del traffico con il centro storico e con la salute dei monumenti”.
2. Paolo Berdini racconta come e perché non resta nulla degli obiettivi e della strategia fin qui descritti. Il libro di Berdini si colloca nella scia di Roma moderna . Insolera si occupa di un secolo di urbanistica romana, dall’unità d’Italia alla metà degli anni Settanta. Berdini tratta solo degli ultimi sei anni, ma uguale è la passione civile e il rigore della documentazione 1 . Per quanto mi riguarda, mi limito a riprendere soltanto tre temi, che però mi sembra che siano quelli decisivi per il futuro di Roma: l’ assetto della direzionalità o, se volete, dopo lo Sdo; il progetto Fori, a vent’anni dall’elezione a sindaco di Luigi Petroselli, che fu l’artefice e il fondatore di quel progetto; e, infine, il problema, che pare senza fine, del nuovo piano regolatore.
Lo Sdo è accantonato, in parte ridotto a un’appendice delle operazioni immobiliari Fs. Il documento del Dipartimento politiche del territorio, “Verso il nuovo piano regolatore di Roma”, del maggio 1998, conferma “la cancellazione dell’asse attrezzato quale nervatura di un decentramento funzionale e strutturale ancora troppo a ridosso del centro urbano”. Ma sullo stesso documento, due pagine prima, a proposito dei nodi di interscambio, si legge che “le aree ferroviarie e comunque le aree di diretta pertinenza di tali nodi diventano aree privilegiate dove collocare servizi qualificati, direzionalità, funzioni dotate di forte attrazione e di elevato standard funzionale e di immagine”. E’ appena il caso di ricordare che le aree ferroviarie utilizzabili sono tutte più centrali dello Sdo.
L’operazione Fori invece procede, e si deve dar atto all’ amministrazione Rutelli di averci rimesso mano dopo tre lustri di abbandono, e di aver ripetuto l’esperienza delle domeniche pedonali. Ma questa è solo una parte del progetto Fori, che aveva la sua ragione, urbanistica , prima ancora che archeologica, nell’incompatibilità fra le automobili e gli antichi monumenti. O le une o gli altri. Il sindaco Rutelli e la sua giunta non hanno mai fatto i conti, veramente, con la questione delle automobili. E alla fine delle automobili sono diventati sudditi. Non è vero che l’eliminazione della via dei Fori Imperiali determinerebbe insostenibili problemi di traffico. E’ vero il contrario. L’ esperienza fatta a Napoli con la pedonalizzazione di piazza del Plebiscito, e poi di via Toledo, dimostra che può essere abbondantemente ridotta la congestione nei centri storici. Il traffico di via dei Fori finisce tutto nel marasma di piazza Venezia, uno dei luoghi più inquinati d’Europa, dove cerca di fare del suo meglio l’ultimo vigile urbano che regola il traffico a mano. L’irrisolta questione delle automobili ha determinato anche il disastro del sottopasso di Castel Sant’Angelo e del parcheggio sotto il Gianicolo, che Berdini efficacemente ricorda. Ci si aspettava che, in occasione di un evento epocale come il Grande Giubileo, Roma fornisse al mondo l’esempio del possibile uso pedonale delle città storiche nel terzo millennio. Ha dimostrato invece il contrario, e cioè che, sventrando e snaturando, si può andare in automobile dovunque, anche in piazza S. Pietro.
Ed eccoci al terzo, e fondamentale, tema, quello del nuovo piano regolatore generale. Siamo a sei anni e mezzo dall’elezione di Rutelli, e del nuovo piano – nonostante gli impegni ripetutamente e solennemente assunti, anch’essi ricordati da Berdini, a cominciare dal programma ufficiale della giunta del 1993 – esistono solo bozze e brandelli. Per quel poco che se ne sa il nuovo piano pare meglio di quel che si temeva: non sovra-dimensionato, non afflitto dalle ossessioni perequative dell’Inu. Avremo occasione di approfondirne la conoscenza e di discuterne nei prossimi mesi. Qui ora ci interessa il modo in cui si sta procedendo, a cominciare dalla questione dei tempi. Quand ’anche si arrivi all’adozione del piano, ci si arriverà allo spirare delle due amministrazioni Rutelli. Come dire che si chiudono i cancelli quando i buoi sono fuggiti. Oppure, se volete, che la politica di piano, le sue regole, il suo rigore, vanno bene per quelli che verranno dopo.
Non si può tacere un’altra considerazione relativa al messaggio che la capitale trasmette al resto d’Italia: fare un nuovo piano è un’impresa quasi disperata, forse è meglio rinunciare, come hanno deciso i sindaci di Milano e di Salerno.
3. Il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, cui va riconosciuto il merito di un sorprendente miglioramento dell’ambiente urbano della sua città, in occasione della visita del presidente del consiglio, Massimo D’Alema ha dichiarato che si guarda bene dal mettere mano a un nuovo piano regolatore. Credo che anche a Roma siano in molti a pensarla così, ma non hanno la stessa franchezza del sindaco De Luca.
Ben più ambizioso è il comune di Milano che ha recentemente posto in discussione un documento titolato “ Ricostruire la grande Milano ”. La notizia l’ho letta su Ilsole-24 ore , che ha presentato il testo come “un vademecum per fare le varianti con l’accordo di programma”. “La giunta Albertini – ha scritto ancora il quotidiano della Confindustria – punta in modo netto sulla flessibilità, sulla deregulation e sulla contrattazione pubblico-privato come strumento prevalente per effettuare le trasformazioni urbane”. Percorso da un brivido ho cercato e letto il testo milanese. E’ il De profundis per l’urbanistica.
Luigi Scanoha scritto che “i primi quattro capitoli della prima parte del documento costituiscono indubbiamente una delle più cospicue elaborazioni prodotte in Italia al fine di contestare radicalmente la prassi e ancor più la cultura della pianificazione territoriale e urbanistica consolidata, negandone non specifiche forme e modalità applicative, ma gli stessi presupposti concettuali, con ciò aggredendo assunti la cui valenza è ben più ampia di quella attinente il governo del territorio. Non poche delle posizioni affermate mettono infatti in discussione, o francamente contestano, elementi informatori generali dell’ordinamento costituzionale e giuridico italiano. La più spettacolare di tali affermazioni – continua Scano – è senza dubbio quella per cui nel ‘continuo confronto tra ragioni’, al quale dovrebbe sostanzialmente ridursi l’attività di governo del territorio, ‘lo stato ha una voce autorevole, ma pur sempre una voce tra le voci’. Forse non siamo all’estinzione dello stato di leninista memoria, ma certo siamo a una delle più spinte concezioni di stato minimo mai avanzate dall’anarchismo reazionario, o liberismo libertario”.
A Milano è una tradizione evidentemente irriducibile quella di derogare dalle disposizioni degli strumenti urbanistici: negli anni Cinquanta si chiamava rito ambrosiano, ed era legittimato da mediocri giustificazioni formalistiche. Oggi nessuna ipocrisia fa velo alle intenzioni eversive. Mi limito a riportare qualche brano del documento. Nel paragrafo 18, sotto l’ amabile titolo “L’indebolimento del piano regolatore generale”, si legge che “la trasformazione normativa introdotta negli ultimi anni comporta da parte di ogni ente competente il riconoscimento che l’ esercizio del potere di pianificazione del territorio non esclude, anzi implica il coinvolgimento diretto dei soggetti privati nella fase progettuale delle scelte di pianificazione, e non limita l’accordo con gli stessi alla sola fase esecutiva o attuativa”. Dopo aver reso omaggio all’urbanistica contrattata, si conferma che i nuovi istituti introdotti dal legislatore negli anni Novanta (programmazione negoziata, intesa istituzionale, accordo di programma quadro, patto territoriale, contratto di programma e contratto di area) “costituiscono veri e propri strumenti di pianificazione finalizzati ad agevolare la trasformazione e la riconversione di ampie zone del territorio prescindendo dalle regole stabilite per tali zone dal piano regolatore generale. E questo nuovo assetto urbanistico non scaturisce da un atto autoritativo, ma da un accordo con i privati che confluisce nell’accordo di programma e costituisce lo strumento fondamentale per la realizzazione dell’intervento di trasformazione urbana”.
A proposito di accordi di programma e simili, è bene ricordare quanto ha scritto Edoardo Salzano nella sua comunicazione alla Conferenza nazionale sul paesaggio: “Ciò che accomuna la quasi totalità di questi piani anomali è che enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore l’interesse particolare e subordinano ad esso l’interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di pianificazione anomali è quella di consentire a qualunque intervento promosso da attori privati di derogare alle regole comuni della pianificazione ordinaria. Di derogare cioè alle regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia della pubblicità delle decisioni prima che divengano efficaci e della possibilità del contraddittorio con i cittadini)”. In effetti, le varianti urbanistiche autorizzate con il ricorso agli accordi di programma non sono soggette alle osservazioni dei cittadini, com’è previsto dalla legge urbanistica del 1942 per le procedure ordinarie, e gli stessi consigli comunali sono in larga misura spodestati. Con tanti saluti alla partecipazione e alla questione morale.
Tutto ciò non interessa il comune di Milano che assume un solo inconfutabile valore: la flessibilità. Ne lla prospettiva del modello flessibile si assume che “in sistemi urbani densi e ad alta infrastrutturazione non sia utile conferire un valore normativo alle previsioni di piano regolatore – ad esclusione di particolari salvaguardie –, ma che programmi e progetti di trasformazione urbana debbano essere decisi in attuazione delle strategie della Amministrazione e a seguito della valutazione dei risultati attesi”. “In altre parole, la realizzabilità di una strategia è provata nel momento in cui viene tradotta in progetti operativi. La redazione dei progetti serve per verificare se una strategia è concretamente realizzabile o, se non lo è, per individuare gli ostacoli a realizzarla, cioè se siano tali gli stessi criteri fissati dall’Amministrazione e/o vincoli determinati dal contesto”. Niente insomma è definito una volta per sempre. In estrema (ma non distorcente) sintesi: il pressoché unico compito assegnato alla pianificazione pubblica del territorio sembra quello di assicurare la (crescente) valorizzazione degli immobili, e la riduzione al minimo del rischio d’impresa per i proprietari e gli operatori immobiliari.
4. Il modello delineato dal comune di Milano merita una riflessione vasta e ben condotta, senza trascurare le questioni legate alla trasparenza. Finora non è successo nulla, non c’è stato scandalo. Non sono stati svegliati dal letargo quanti, in particolare nel mondo della politica e della cultura di sinistra, hanno dimenticato da qualche anno di occuparsi di urbanistica, non vedendo che in gran parte d’Italia città e campagne sono più di prima esposte a ogni insulto, grazie proprio a quegli strumenti micidiali, elencati prima, accordi di programma, eccetera, non a caso esaltati dal comune di Milano.
E’ impossibile avviare ora una discussione approfondita. Si può solo accennare allo scenario che tende a configurarsi a mano a mano che guadagna consensi il modello milanese. Bisogna in primo luogo considerare che l’affermazione dell’urbanistica contrattata è andata di pari passo con la diffusione degli strumenti di pianificazione specialistici e di settore: piani di bacino, piani paesistici, piani dei parchi, piani dei trasporti. In verità, per ora siamo solo alle buone intenzione, ma è innegabile che si tratta di una novità importante, grazie alla quale si potranno offrire alla collettività garanzie di tutela di diritti e di interessi vitali: la difesa del suolo, la qualità estetica e ambientale del territorio, il godimento della natura, migliori condizioni di mobilità. L’insieme delle pianificazioni specialistiche e di settore tende a coprire gran parte del territorio, in particolare gli spazi aperti. Che cosa resta fuori? Restano fuori soprattutto i luoghi destinati o da destinare a trasformazioni urbane. In buona sostanza, lo scenario si scompone in un diffuso sistema di vincoli e di tutele, mentre le aree più pregiate, quelle del business , della contrattazione, dei piccoli e grandi affari sono oggetto di decisioni al riparo da sguardi indiscreti. Si opera, insomma, con procedimenti discontinui che frammen tano e disarticolano lo spazio. Si sta rinunciando, in qualche città si è già rinunciato, all'idea razionale (e razionalista) del piano urbanistico comunale esteso a tutto il territorio, all' universitas del patrimonio territoriale.
Ma una città può fare a meno di discutere del suo futuro? E che cos’è un piano regolatore se non la discussione e la decisione sul futuro di una città? Nel dibattito sull’urbanistica di Roma dopo la sconfitta dell’amministrazione di sinistra del 1985 intervenne Italo Insolera con una memorabile intervista all’ Unità : “Quattordici anni dopo il piano regolatore i comunisti alla guida della città non rompono decisamente con il passato, non rivedono quel disegno, non lo riaggiustano secondo le ispirazioni che li avevano guidati nelle lotte precedenti. Non voglio dimenticare nulla, né la sparizione delle borgate, né le estati romane. Ricordo tutto e lo apprezzo […] Dico che mancò una filosofia complessiva del cambiamento, non si cambia nel profondo se si insiste nell’abbandono di ogni ideologia come ispiratrice dei fini e dei mezzi. E se qualcuno sostiene che la pianificazione non occorre, sono costretto a ricordargli che non occorre alle classi dirigenti, ma alle altre sì”. Credo sia questo il punto da cui è necessario ricominciare.
5. Torniamo al libro di Berdini dove, con rigorosa documentazione, si da conto dell’urbanistica romana degli ultimi anni. Si parla delle cose ben fatte, che non sono poche: la politica dei parchi e del verde, la nuova sistemazione di strade e piazze nel centro storico, e soprattutto la variante di salvaguardia che ha posto al riparo dai disegni speculativi ben 50 mila ettari in agro. Ma il libro dimostra soprattutto che Roma, negli ultimi anni, ha preceduto Milano nella pratica dell’urbanistica contrattata. Molti dei 52 milioni di metri cubi calcolati da Berdini sono stati autorizzati con il ricorso alle deroghe, mentre si continuava a promettere il nuovo piano regolatore generale: è questo il “pianificar facendo”?
Che succederà con il nuovo piano, si continuerà con gli strumenti derogatori? Il piano sarà ancora un paravento, al riparo del quale continuerà l’urbanistica contrattata, o si cambierà registro? Ci piacerebbe vedere l’urbanistica di Roma alternativa a quella di Milano. Un formidabile scontro politico e culturale. Ma la svolta dovrebbe essere autentica. E perché sia tale i protagonisti dell’urbanistica capitolina degli ultimi anni dovrebbero sapersi mettere in discussione, cominciando con il fare buon uso del libro di Berdini.
Un primo campo di verifica è la politica nazionale. L’urbanistica della sinistra a Roma, più ancora che quella dell’Emilia Romagna, ha rappresentato sempre il modello per le politiche e le proposte legislative nazionali (dagli standard, alla legge 167, al programma poliennale di attuazione, eccetera). Oggi non è così. Nessuno stimolo è venuto dall’urbanistica romana. Anzi, se si tiene conto dell’assetto generale dell’urbanistica romana (e milanese), se si tiene conto del “ ;pianificar facendo”, occorre riconoscere che il disegno di l egge – finalmente un buon disegno di legge – predisposto da Rita Lorenzetti, presidente della commissione Lavori pubblici della Camera dei deputati va in controtendenza rispetto alla prassi seguita a Roma (e teorizzata a Milano): esso infatti prevede fra i principi generali il divieto del ricorso a istituti derogatori. Un’esplicita e formale condivisione di quest’ obiettivo sarebbe un buon viatico per una svolta romana.
Un secondo campo di verifica riguarda l’autentica disponibilità al confronto e alla discussione. Prevale oggi l’attitudine alla propaganda. Né le istituzioni, né i partiti si sono misurati in confronti pubblici. Anche le cronache romane dei grandi quotidiani, Il Corriere della sera, Il Messaggero, la Repubblica , che in passato avevano sostenuto iniziative e posizioni critiche verso l’ ;urbanistica capitolina, sono scrupolosamente allineate sulle posizioni della giunta. La lettura del libro di Berdini può essere l’occasione per ricominciare.