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Recensione a Da grande voglio fare il poeta (ed. La vita felice), nuovo lavoro narrativo autobiografico dell'urbanista Giancarlo Consonni, che ci «illustra per quadri la versione cittadina dell’esistenza». L'Unità, 12 agosto 2013 (f.b.)

«PULVER SULFER FÈN/ TÉRA TÉPA LÈGN». Comincio dai primi sue versi di una breve poesia in uno dei dialetti della Brianza lombarda (uno dei tanti dialetti: anche la lingua smentisce l’idea balzana della Padania unita), nell’estremo sud della provincia lecchese. Cioè polvere zolfo fieno terra muschio legno: la materia, gli odori, i colori della campagna, breve poesia riprodotta sulla copertina di una raccolta intitolata Vûs, voci, pubblicata da Einaudi nel 1997, una raccolta divisa in due perché la seconda parte, che s’apre con Gruista (cito la versione in italiano: «Se mi piace/ fare il gruista?// Rinascessi uccello/ voglio tornare qui./ Quegli uomini là in basso/ scalpitanti/ e io che bestemmio/ vicino a Dio»), illustra per quadri la versione cittadina dell’esistenza, dove qualcosa della prima, umanità, solidarietà, comunità e natura, ovviamente, sopravvive, straziata però, impoverita, ai margini.

Tra campagna e città, Giancarlo Consonni, l’autore di questi versi, ritorna con un libro di narrativa, autobiografico ma non solo perché tanti e diversi sono i piani di lettura del passato e del presente e schivo è il narratore. Le origini, cioè i campi e le cascine di Verderio Inferiore (dove Consonni è cresciuto), sono la trama fitta, che di tanto in tanto si interrompe in un ostacolo, che è un ritrovarsi noi, tramontata quella civiltà, di fronte ai segni (e alle devastazioni) della nostra modernità. Giancarlo Consonni (che ha scritto un tempo spesso anche per l’Unità) è diventato poeta, come s’augurava da ragazzo e come ripete il titolo di questo libro, Da grande voglio fare il poeta, ma intanto è diventato anche professore d’urbanistica al Politecnico di Milano. Ricordiamo il poderoso saggio (con Graziella Tonon) sui «caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea», in un volume nella collana «Regioni» dell’Einaudi.

Qualcosa di un rapporto tanto stretto e continuo con l’urbanistica e l’architettura del Novecento e di questi ultimi perfidi anni resta anche in un libro che, ad apertura, si direbbe solo di memorie e quindi forse soprattutto di nostalgia. Nostalgia per i filari di gelsi, cancellati dalla meccanizzazione dell’agricoltura, per le antiche cascine a corte, disabitate, abbandonate o trasformate in condomini, dopo la fuga verso l’industria di braccia troppo numerose per quei campi immiseriti, nostalgia per una natura popolata di animali, di lupi un tempo e poi di faine, di volpi, di talpe, di uccelli di ogni genere, nostalgia per la parlata di quei luoghi, per dialetti che si incrociavano, ma che nel vocabolario e negli accenti rivelavano appartenenze precise, a luoghi però appena separati, magari, da una strada o da un canale. Ricchezza questa varietà di parole, com’era rigogliosa la natura, razionale e funzionale (anche nella ricerca estetica) l’architettura, geniale, fantasiosa, plurima l’arte di vivere e convivere (e di alimentarsi per vivere da poveri).

Fin qui può essere il ricordo, che di tanto in tante batte contro l’inevitabilità dell’oggi: la motocicletta che diventa il simbolo del successo, la villetta a schiera, il salotto inviolato nella plastica che rimpiazza il porticato e la stalla, la solitudine e l’isolamento contro la coralità dei racconti, delle interpretazioni, delle narrazioni. La lambretta e poi l’auto, le poltrone, la cucina americana: la bellezza per molti si rifugia o si riduce negli oggetti, mentre il mondo si incammina svelto sulla strada della bruttezza: «Si infittiva la schiera degli officianti del disastro: speculatori e capomastri (tutti), geometri (quasi tutti), ingegneri (molti), architetti (in crescita esponenziale)... esibizione, kitsch e cattivo gusto...». Alle spalle era quella campagna.

Viridarium è il nome antico del borgo, i personaggi come padri e madri, che si suddividono mille mestieri, come il Biagio (il mercante di formaggi di una poesia: «Nere tettazze da ungere e far rotolare/ forme che il grasso pastura il loro essere grasse/le gira e rigira fin che sembra/ un abissino che abbraccia l’Abissinia» (il grana che un tempo si ungeva di un olio nero e pesante per aiutarne l’invecchiamento), il fiume (l’Adda), i boschi, le bestie (cominciando da cavalli, asini e mucche), l’osteria, la strada, i campi. Ci sono pagine anche per i primi viaggi a Milano e il quadro è del bambino che aspetta sulla scalinata del tribunale, spazio per lui da fiaba e da gioco. L’osservazione dell’architetto a proposito del palazzone di Marcello Piacentini è folgorante: «L’architettura è importante, ma gli uomini sono più forti. E ancor più i bambini».

L’ultima scena è per il cacciatore che arriva di città che spara sulle rondini: «Uno degli atti più sacrileghi che, per noi, si potesse concepire...». È un atto di rottura: da lì comincia la «disintegrazione del mondo». Il ricordo personale sostiene la riflessione collettiva, anche politica, con una discrezione che esalta il valore del libro.

I dati ambientali dell'Istat sulle nostre aree urbane sono vagamente confortanti, anche se forse al solito è tutta colpa – o merito - della crisi economica e dei consumi. Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2013 (f.b.)

Migliora – seppure in alcuni casi di uno "zero virgola" – il profilo ambientale delle città italiane. L'indice di motorizzazione nel 2012 è sceso, le vetture meno inquinanti hanno superato le "classi euro" più antiquate, è calato il numero di città colpevoli di sforare i limiti per il Pm10, sono aumentati gli interventi per misurare l'inquinamento acustico così come è cresciuta la disponibilità pro capite di verde urbano.

Certo, i segnali di progresso sono ancora timidi, la situazione resta preoccupante in alcune aree del territorio, si notano significativi divari territoriali e appare sempre difficile reggere il confronto con l'Europa. Nondimeno nel quadro dipinto dall'ultimo report dell'Istat sui «Dati ambientali nelle città» – riferito ai 110 comuni capoluogo e focalizzato sui temi del trasporto e del verde nel contesto urbano – qualche spiraglio di luce si intravede.

Partiamo dalle auto: il tasso di motorizzazione nel 2012 segnala una contrazione dello 0,7% rispetto all'anno precedente, attestandosi a quota 609 autovetture ogni mille abitanti (con Aosta, Trento e Bolzano al top, ma per ragioni fiscali, e Venezia, Genova e La Spezia sotto quota 500). Inoltre guadagna spazio il fronte più "ecosostenibile": le auto a benzina – benché siano ancora oltre la metà del totale in tutte le macro-aree geografiche – arretrano dell'1,2%, a vantaggio di quelle a gasolio oppure bifuel (gpl e metano) e per la prima volta le "euro 4" o superiori sorpassano quelle fino alla classe 3 (tasso di motorizzaazione 305,3 contro 303,9).

Fin qui il bicchiere mezzo pieno. Mezzo pieno perché viene il dubbio che questi miglioramenti in parte rappresentino il "risvolto" positivo della crisi che perdura da anni. Il graduale esaurimento delle classi euro più obsolete è nell'ordine delle cose: non si producono più e ci sono vincoli alla loro circolazione in alcuni centri urbani, mentre la diffusione dei carburanti a minore impatto deriva sia da una tecnologia più rispettosa dell'ambiente, sia da un insieme di motivazioni economiche e di incentivi fiscali. Insomma, meno reddito disponibile uguale meno acquisti di auto con conseguente minore congestione urbana.

La pressione del traffico nelle città italiane resta però elevata, visto che – in base alle rilevazioni dell'ultimo Osservatorio Autopromotec – il nostro Paese è al top in Europa per densità automobilistica: con 61 vetture ogni cento abitanti, è superata soltanto da Lussemburgo e Islanda (indice 66 e 64), contro una media Ue pari a 51, un indice pari a 48 in Francia e Spagna, a 52 in Germana e a 50 nel Regno Unito.

Tra le cause dell'elevato ricorso al trasporto privato può esserci un'offerta di trasporto pubblico non adeguatamente sviluppata. E anche su questo versante si leggono i segni della crisi, visto che – dice ancora l'Istat – la domanda è in calo del 7,4% rispetto al 2011 (a 209 viaggi per abitante, neanche uno spostamento al giorno su bus, tram o metro): del resto meno occupazione uguale anche meno necessità di mezzi pubblici per raggiungere il posto di lavoro. Un trend confermato dall'analisi del dato relativo alle principali realtà urbane (quelle con oltre 200mila abitanti o centro di area metropolitana): è vero che qui la domanda è anche cinque volte maggiore rispetto a quella dei capoluoghi più piccoli, ma il calo è ancora più netto (-8,11%, con punte a Roma, Napoli e Catania che superano il 13%).

«Il calo del traffico si riflette anche su un leggero ridimensionamento dell'allarme per la qualità dell'aria: rispetto al 2011 è sceso infatti da 59 a 52 il numero dei capoluoghi dove il valore limite fissato per il Pm10 a protezione della salute è stato superato per oltre 35 giorni all'anno. Una volta tanto sono il Centro e il Sud a battere il Nord – osserva Domenico Adamo, uno dei curatori del report dell'Istat –. Tra le realtà settentrionali (dove peraltro la situazione è più grave già in partenza, considerate la sfavorevole posizione meteo, la maggiore concentrazione di popolazione, di fonti inquinanti e anche di attività produttive) solo un comune su cinque è riuscito a contenere gli "sforamenti" sotto i 35 giorni». Nella top ten negativa si notano quasi esclusivamente comuni piemontesi e lombardi (con Alessandria a 123 giorni, Torino a 118, Milano a 107) e due sole presenze del Centro e del Sud (Frosinone e Siracusa).

Se i progressi sul fronte del traffico e dell'aria possono in parte essere conseguenza delle minori occasioni di spostamento, di consumo e di occupazione derivanti dalla crisi, ci sono però altri due fronti monitorati dall'Istat che migliorano indipendentemente dalla congiuntura: rumore e verde urbano. Ebbene, quanto al primo, si sono intensificati gli interventi per misurare il rumore e due comuni su tre hanno approvato la zonizzazione acustica del territorio; quanto al secondo, l'area dedicata a parchi, giardini, ville, orti e aree sportive è cresciuta dell'1%, il 15% della superficie urbana risulta inclusa nelle "aree naturali protette" e ogni abitante ha in media a disposizione circa 31 metri quadrati di verde urbano, +0,5% rispetto al 2011. Ma – picchi a parte – lo spazio riservato in città ad alberi e simili resta comunque sempre poco: in media, meno del 3% del territorio complessivo dei capoluoghi di provincia.

Corriere della Sera Lombardia, 12 agosto 2013, postilla (f.b.)

PAVIA — Arriva la green economy e il valore dei terreni agricoli schizza alle stelle. Raddoppia, triplica mettendo in difficoltà produzioni e aziende che in questo modo rischiano di essere sfrattate dalla loro sede tradizionale. Sono gli effetti collaterali di una attività economica considerata in forte espansione (anche grazie all'apporto di incentivi statali) e di importanza strategica. La storia è contenuta in un verbale di gara della fondazione Policlinico San Matteo che, come periodicamente avviene, ha messo all'asta l'affitto di suoli agricoli di sua proprietà, frutto il più delle volte del lascito di benefattori.

Questi terreni si trovano nei comuni delle campagne attorno a Pavia e sono prevalentemente coltivati a mais, utilizzato poi come mangime per l'allevamento; l'assegnazione dei fondi è in genere un'operazione di routine: c'è una base d'asta e la famiglia o l'azienda che l'ha in uso presenta un'offerta di poco superiore alla cifra di partenza. Quest'anno (il verbale di gara è del 22 luglio scorso) è accaduto però qualcosa che ha scombinato le carte in tavole. Alcune delle offerte messe sul tavolo moltiplicavano la base d'asta. E' il caso del Podere Vignazza di Gambolò per il quale sono stati messi sul tavolo 51.500 euro contro un dato di partenza di 26.375; o per un altro appezzamento nello stesso comune valutato 34.400 euro e salito addirittura a 124.000.

Chi ha fatto saltare il banco? L'offerta parte quasi sempre da società con il nome simile e registrate a Torino e Aosta, riconducibili tra l'altro ai medesimi amministratori. La visura camerale rivela che tra le ragioni sociali di queste aziende, oltre a quelle tradizionali agricole compare anche «la produzione e cessione di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali o fotovoltaiche». Società dunque che appartengono alla crescente schiera degli «energy farmers», contadini che dalla produzione di cibo si convertono a quella di kilowatt: produzioni non più finalizzate alle eccellenze agricole regionali (carni e latticini in primis) ma convinte dagli incentivi statali a installare impianti per la produzione di biogas (alimentato sempre a mais) o distese di pannelli fotovoltaici.

L'esito a sorpresa della gara ha lasciato strascichi. «Il San Matteo ha scelto il criterio del massimo profitto - dichiara Giuseppe Ghezzi, presidente di Coldiretti Pavia - e dal loro punto di vista tutto è corretto. Ma ora si apre uno scenario insostenibile per gli agricoltori tradizionali edf è tutto sommato una forma di concorrenza sleale: solo chi si dedica al business del biogas è in grado di far fronte a quei costi. La nostra organizzazione bloccherà contratti che superino valori di 40 - 50 euro a pertica, altrettanto mi auguro facciano altre rappresentanze della nostra categoria». I terreni non sono ancora stati assegnati, la procedura prevede ancora un mese di tempo almeno per effettuare tutte le valutazioni del caso. Ma nei campi lombardi si è aperta una nuova era.

postilla
Salta agli occhi come la questione economica, pur grave con questo impennarsi dei prezzi, sia solo la punta di un iceberg: lo sfruttamento delle superfici agricole per qualunque attività diversa dalla produzione di alimenti (e dalla manutenzione del territorio) deve iniziare ad essere regolamentato come se tutte queste funzioni fossero assimilabili a quelle urbane, ovvero edilizia, infrastrutture, parcheggi, industria ecc. Perché è ovvio, con queste premesse, che la tendenza a concentrazioni, eventuali abusi (nel senso di illegalità) e comunque sviluppi che con l'equilibrio ambientale e socioeconomico fanno a cazzotti, vede spalancarsi territori di conquista infiniti. Anche solo restando agli aspetti socio-economici evocati dall'articolo, esclusione di operatori tradizionali vuol dire quasi sempre concentrazione nelle mani di pochi potenti soggetti, in grado di controllare così vaste porzioni di territorio con propri criteri, ad esempio di sfruttamento, ma anche sotto il profilo ambientale, degli impatti, e del rapporto con gli enti di regolamentazione e controllo, analogamente alla pratica globale del Land Grabbing ripetutamente denunciata e documentata in questo sito, Certo se si dedicasse a queste cose un decimo dell'attenzione di quella riservata ai potenziali danni delle sigarette elettroniche, avremmo fatto un bel passo avanti (f.b.)

Nell’intervista, il nuovo sindaco di Roma pronuncia parole chiare e nella direzione giusta sul destino dell’area archeologica centrale. Il progetto Fori sembra davvero più vicino. L'Huffington post, 11 agosto 2013 (m.p.g.)

All’inizio di questa storia non c’è, come tutti abbiamo immaginato, un grande intellettuale quale Giulio Carlo Argan. Non c’è una dotta discussione sul rapporto fra Antichità e Modernità. C’è più banalmente (ma quanto più felicemente) un ricordo giovanile, una passeggiata con una ragazza americana, di origini caraibiche, in visita estiva a Roma, un giro nei Fori (per farla meravigliare, per farla innamorare?), che finisce con una osservazione di lei, pratica come pratico è spesso lo spirito americano: “Ma che vi è venuto in mente di fare una strada proprio sul Foro?”

Decenni dopo Ignazio Marino, divenuto Sindaco, prova a rispondere a quel rimprovero. Se siete stati irritati o compiaciuti dalla scelta di bloccare al traffico l’area intorno al Colosseo, tenetevi pronti ad altre emozioni forti. La pedonalizzazione è infatti solo l’inizio di un progetto che “nel corso di questo mandato” avvierà nuovi scavi che porteranno alla luce i Fori più antichi che giacciono coperti dal grande viale che va dal Colosseo a Piazza Venezia. Il risultato finale sarà non solo l’ampliamento dell’area archeologica, ma uno stravolgimento totale dell’attuale volto della Capitale: come conseguenza di questi scavi, infatti, via del Fori Imperiali, la strada così fortemente voluta da Mussolini, e oggi così fortemente parte della identità della città, scomparirà, verrà smantellata. “Forse ne resterà una sezione, magari per pedoni e biciclette”, dice serafico senza giri di parole il neo-sindaco di Roma in questa intervista.

Sindaco Marino, cosa risponde a chi le rimprovera che Roma ha altre priorità di quelle da lei scelte, che le periferie sono più importanti della pedonalizzazione dei Fori?
Ho fatto in realtà molti giri di periferie. Dedico a queste visite un giorno alla settimana. Sono stato ad Ostia a San Basilio…

Sempre in bicicletta?
La bicicletta piace molto, ho scoperto. Perché la gente può fermarti facilmente, mette le mani sul manubrio e ti tiene bloccato fino a che non ha finito di parlare… In ogni caso, I primi 50 nuovi mezzi di trasporto pubblico li abbiamo tutti dati alle periferie.

Come le è venuta l’idea di pedonalizzare i Fori? È stato un progetto accarezzato a lungo o una decisione presa all’improvviso, in fretta, come un po’ è apparso?
La vera storia in realtà non ha nulla a che fare con l’essere sindaco. Nel 1988, avevo appena finito I miei studi a Pittsburgh, venni a Roma come ogni anno, per l’estate. In America avevo conosciuto un medico, Velma Skandersberg , una afroamericana di origini caraibiche, e la invitai a venire in Italia. La portai ai Fori, ricordo. La portai in giro, per farle sentire tutta la magia di essere in questi luoghi , “Ecco qui ha camminato Giulio Cesare, e Cicerone parlò in questo esatto posto”. Poi usciamo dagli scavi, arriviamo sulla strada e lei esclama: “Ma come vi è venuto in mente di costruire una strada proprio fuori da qui”. Fu lei a farmi scoprire per prima l’incongruenza di questa situazione….

Insomma, dobbiamo le sue decisioni a Velma e non, come si pensa, ad Argan.
Beh, in quegli anni ero più familiare con i libri di chirurgia che con il dibattito storico politico. La discussione sui Fori in effetti è antica, viene impostata nel 1887 da Guido Baccelli, che fu il primo a imporre il problema del parco archeologico…. Da adulto ne ho letto poi molto. Ma lei mi ha chiesto cosa c’è all’origine delle mie idee.

Altri ricordi di gioventù che dobbiamo conoscere per capire il futuro della città?
Ce n’è di sicuro un altro, che mi ha sostenuto nel prendere le mie decisioni attuali da sindaco. Ricordo che nel 1973, cito un anno a caso, io come tutti i romani andavo a Piazza del Popolo e parcheggiavo la macchina. Quella Piazza meravigliosa era una enorme distesa di vetture, e a nessuno sembrava strano. Oggi è zona pedonale. Come è avvenuto il passaggio, con quali disaccordi? Sono certo che c’è stata una discussione, che qualcuno ha preso la decisione di cambiare la destinazione d’uso della Piazza, che i commercianti avranno protestato. Ma se oggi io come sindaco volessi proporre il contrario, cioè di riaprire il parcheggio a piazza del Popolo, sono sicuro che sarei inseguito con i bastoni! È mia convinzione che tra venti anni sarà avvenuto lo stesso cambio culturale nei cittadini in merito ai Fori.

La prima settimana è passata alla fine senza grandi tensioni. Ma certo non finisce qui. Lei infatti fin dall’inizio ha fatto riferimento a un progetto più grande. In risposta, il sindaco, come pare faccia spesso, si alza e ci invita a uscire con lui sull’"affaccio”. L’affaccio è un esile balconcino aggrappato a una parete laterale a caduta libera dell’edificio del Campidoglio. La base del balcone è strettissima, non più di tre persone vi stanno dritte e affiancate, e la combinazione di strapiombo e monumenti romani, archi, colonne, Via Sacra e Senato, provoca uno smarrimento fra panico e bellezza. Tutti i sindaci che hanno guidato il Campidoglio hanno amato questo affaccio. L’accesso al modesto balcone senza nessuna pretesa artistica sul più imponente memoriale della Storia è infatti forse il vero simbolo del potere che deve gestire chi guida la città di Roma. Tutti i sindaci, dunque, usano la cortesia di offrire questa vista almeno una volta agli ospiti. Ma Ignazio Marino invece di guardare in basso ai celebri monumenti, è rivolto a sinistra, verso la strada dei Fori Imperiali, che limita e divide le antichità. Punta con il braccio verso la base del viale.
“Guardi lì sotto, vede, vede? Lì sotto ci sono altri reperti, i fori più antichi… anzi, vede? Lì sotto c’è la maggior parte del Foro”.
Guarda, insiste, e sorride. Secondo statistiche storiche, gli scavi del periodo mussoliniano vennero in gran parte ricoperti per costruire proprio la nuova strada imperiale fra Colosseo e Piazza Venezia. Dal punto di vista archeologico, le cifre sono paradossali. Nota l’urbanista Italo Insolera che “la banchina di calcestruzzo seppellì nuovamente, e sotto ben più dura scorza, parte di quanto era stato scavato”. I Fori infatti coprivano 80 mila metri quadri. Ne furono scavati 76 mila e riseppelliti 64 mila, circa l’84 per cento. “I ruderi lasciati in mostra sono indubbiamente importanti, ma rappresentano solo il 15 per cento di quanto gli imperatori costruirono”.
L’altro risultato controverso è di tipo percettivo. Osserva Antonio Cederna: “Oltre ad aver spaccato in due l’unità della zona archeologica (…) i Fori imperiali sulla sinistra di chi va verso il Colosseo sono stati sprofondati in catini (…) mentre i monumenti sulla destra presentano tutti al passeggero il didietro”.Le conseguenze della osservazione del Sindaco sono dunque piuttosto chiare.

Il suo prossimo passo è dunque liberare questa parte del Foro dalla “copertura” della strada?
Sì. Intendiamo farlo.
Come lo faremo è da vedere. Ci sono varie metodologie possibili. Per questo il primo passo da fare è organizzare un grande confronto internazionale sulle metodologie di scavo. Io certo non sono un esperto. C’è chi dice che il modo migliore è “sbancare” tutto e riportare alla luce i vecchi Fori, e chi dice che invece va scavato ma valorizzando tutte le stratificazioni. Un metodo che nel mio linguaggio da chirurgo descriverei simile a una tac.

Ripetiamo, tanto per essere certi di quello che lei vuole fare: la pedonalizzazione dell’area dei Fori imperiali è l’inizio di un progetto che porterà, in ogni caso, qualunque sarà la metodologia scelta, a nuovi scavi?
Sì, e tra 25 o 30 anni, grazie a questi scavi ci sarà al centro di Roma una situazione urbanistica completamente nuova.

Possiamo dire dunque che secondo questo progetto Via dei Fori Imperiali scomparirà? Che sarà diciamo “espiantata”?
Si alla fine scomparirà. Immagino che ne rimarrà solo una parte, una sezione centrale, magari per biciclette e pedoni, magari per un tram… magari terremo le mappe dell’Impero. Questo risultato finale lo vedremo. Senza volerle sembrare un folle, mi immagino un’unica area che unisca i Fori Traiani ai Fori Imperiali…

...e che continui fino all’Appia?
Certamente. Riunificando un’area archeologica che ora è divisa.

Lei capisce che cancellare via dei Fori Imperiali, per non parlare poi delle altre strade, le porterà fino a sotto questo balcone manifestazioni furibonde. Non ultime quelle di quel nutrito gruppo di nostalgici fascisti per cui quella via è un simbolo importantissimo?
Capisco che questo nuovo schema possa far paura. Ma pensiamo ad altri esempi nel mondo. A Williamsburg, la capitale coloniale della Virginia, è stata mantenuta l’intera città, anche se gli edifici nella maggioranza dei casi erano fatti solo di legno. E a Londra a Parigi ci sono monumenti forse del valore del Colosseo che sarebbero ridotti a fare da rotonda spartitraffico?

Quanto riflesso antifascista c’è in questa sua idea di cancellare via dei Fori Imperiali, simbolo del potere Mussoliniano?
Io sono un antifascista. Ma al di là delle mie convinzioni personali non c’è nulla di antifascista in questa decisione. Tant’è che sarà un comitato internazionale a decidere, come dicevo, se e come fare gli scavi sotto quella strada.

E quanto c’è invece di odio anti-automobile?
Io non lo chiamo odio, preferisco parlare di intolleranza. Ma sicuramente c’è. Cosa pensare del fatto che a Roma ogni 1000 abitanti ci sono 980 auto, che a Roma si muovono ogni giorno si muovono 600mila persone, di cui il 60 per cento fa meno di 5 chilometri? È un assurdo. Il traffico deve essere diminuito. È una priorità anche medica.

Lei sostiene che tutto questo progetto porterà a Roma un numero maggiore di turisti. Ma perché i turisti dovrebbero essere più attratti da un Foro senza il Viale? Che differenza fa per loro?
Perché l’area sarà bellissima. Io penso che porteremo il doppio di turisti che vengono oggi . Puntiamo a superare i 20 milioni annui.

Può darci un calendario per l’attuazione di questo progetto? Tanto per poter misurare in futuro il suo impegno?
Vedrete. Avverrà tutto nel corso di questo mandato.

Vedremo, Sindaco.

Ci vorrebbe almeno un redivivo Kevin Lynch, per contrastare questa cancellazione di fatto della geografia dai nostri cervelli, oltre che dai programmi scolastici. La Repubblica, 11 agosto 2013 (f.b.)

Ventisei virgola tre chilometri, ovvero trenta minuti. Che nelle «attuali condizioni del traffico», secondo le geometriche previsioni dell’algoritmo, diventano trentasei. Da A a B in ventitré mosse. Partenza dal centro di Roma, destinazione una no man’s land dalle parti di Ponte Galeria, nota per un contestato centro per immigrati e anonimi capannoni industriali come quello che cerco. Mi avvertono che la segnaletica scarseggia. E i passanti sono una rarità in certi tratti dove l’asfalto è conquista recente. Ma né l’una né l’altra circostanza mi spaventano, pur avendo il senso dell’orientamento di un pipistrello sordo. Perché il dio delle mappe mi assiste e mi suggerisce benevolo dagli auricolari. Strada dopo strada, bivio su bivio, inesorabilmente. La città sottotitolata si dipana sotto le ruote della mia Vespa. Per una volta guidatore onnisciente taglio il traguardo in mezz’ora netta. Senza l’aiutino, a forza di domande, errori e ripartenze, ci avrei messo un bel po’ di più.

Dopo l’iniziale euforia, però, la domanda è: ho guadagnato almeno quindici minuti di vita o invece perso un altro pezzo di umanità? Brevissima premessa tecnologica. Il Global Position System (Gps) era notizia negli anni ’90, quando ne venne autorizzato l’uso civile. Sul fronte mappe, nel 2005 esordisce Google Maps, ma alla sua versione per cellulare spunta la voce solo a dicembre scorso. Chiunque ha uno smartphone, senza dover spendere per costose app, si ritrova in tasca un sistema satellitare sofisticato. Anche chi va in motorino ora ne può provare l’ebbrezza. Le mappe di Apple danno da mesi indicazioni vocali. E a giugno Waze, che dagli utenti riceve informazioni sul traffico, viene comprato da Google per oltre un miliardo di dollari. Quella dei servizi di localizzazione è ormai una partita economica gigantesca. E finalmente ci si interroga anche sulle sue implicazioni cognitive.

Perché muoversi sotto dettatura della macchina cambia in maniera radicale il rapporto con lo spazio che si attraversa. La psicologa tedesca Julia Frankenstein ha dato l’allarme in un editoriale sulNew York Times: «Più facciamo affidamento sulle tecnologie per trovare la strada, meno costruiamo quelle mappe cognitive che prima ci guidavano nello spazio». Il cervello è come unmuscolo, se non lo usi si rattrappisce. Eleanor Maguire, neuroscienziata all’University College di Londra, ha dimostrato che i tassisti britannici hanno particolarmente sviluppata la materia grigia dell’ippocampo, che immagazzina i ricordi spaziali. Se delegheranno in massa il tragitto al Tom Tom potrebbero perdere quell’attributo, come l’homo sapiens ha perso i peli o i denti aguzzi. Evolutivamente parlando, non ne avrebbero più bisogno.

Finché dura la batteria, il viaggio col navigatore inserito è altamente deresponsabilizzante. Lo dice benissimo Ari Schulman sulla rivista tecnoculturale The New Atlantis: «L’utente del Gps prima controlla sull’apparecchio per scoprire dov’è e solo in un secondo momento guarda davanti a sé per capire a cosa assomigli quel dove». È un paradosso che cominciamo a conoscere in tanti. Denunciato, tra gli altri, nel libroThe Natural Navigatordi Tristan Gooley che sostiene l’importanza di tornare in contatto con la segnaletica offerta dalla natura per muoversi nel mondo. E che il tecnoscettico di Stanford Evgeny Morozov ha rilanciato con veemenza: «C’è una differenza fondamentale tra trovare una direzione e desumerla da un ambiente». Il navigatore è insuperabile nel massimizzare il primo risultato e totalmente inetto riguardo al secondo. Perché, aggiunge Schulman, «il viaggio si eclissa, i luoghi diventano puri spazi attraversati. La consapevolezza della location e la realtà aumentata, uniti alla navigazione satellitare, ci conducono al traguardo con il minimo sforzo e con la minore attenzione possibile ai luoghi noiosi che incrociamo. Possiamo arrivare dove stiamo andando, e vedere ciò che vogliamo vedere, senza neppure dover guardare».

Una frase memorabile di George Orwell, che di scenari distopici se ne intendeva, avverte: «Vedere ciò che sta di fronte al proprio naso richiede uno sforzo costante». È vero sempre, da sempre. Se per di più sai che una specie di drone virtuale veglia su di te, sussurrandoti nelle orecchie (nel traffico il volume delle indicazioni è decisamente troppo basso: lo fanno per evitare incidenti, suppongo), guidi più con l’udito che con la vista. Scott Adams, il geniale creatore della striscia Dilbert, parla di exobrain, cervello esterno, per definire gli apparecchi elettronici a cui affidiamo sempre più funzioni di memoria o di aiuto alla scelta («Tecnicamente siamo già dei cyborg»). C’è da capire se dare in outsourcing alle macchine pezzi sempre più ingenti delle azioni che definiscono la nostra identità sia un progresso o un regresso.

Oppure un apparente vantaggio (come l’originaria delocalizzazione in Cina) che poi si rivela un boomerang (sui salari nazionali). Non c’è risposta semplice. Quando lascio casa e la voce sintetica recita, una per una, anche strade minori percorse migliaia di volte però ignorandone il nome, il beneficio mi sembra evidente. Stessa cosa mentre sfreccio senza esitazioni lungo strade mai viste, con cartelli mancanti o inintelligibili, e calcolo con buon anticipo come comportarmi sulla rotatoria (la voce, pedissequa, dice «prendere la 1a uscita» invece di «prima»). Non ho fatto cilecca una volta. Però tanto tempo fa, quando mi fermavo a chiedere ogni cinquecento metri, conobbi anche una ragazza gentile che si offrì di accompagnarmi per un pezzo. L’algoritmo lo detesta, ma nella vita il fattore serendipity continua ad avere un suo perché.

Abbiamo chiesto all’autore del saggio Giù dalla torre (Corte del Fontego editore) ed esperto dei problemi urbanistici e ambientali di Venezia, un parere sulle posizioni inaspettatamente riemerse dai Mazzarò locali contro la tutela del territorio lagunare
Ancora nove mesi fa (27 novembre 2012) l’Ufficio legislativo del Mibac ha formalmente confermato a Regione e Comune l’esistenza della tutela paesaggistica (in attesa del piano paesaggistico) per una fascia territoriale di 300 metri lungo la “conterminazione lagunare”.

La conterminazione lagunare” (cioè i confini del territorio costituente la Laguna di Venezia, tracciato e sottoposto a rigorosa tutela dalla Repubblica Serenissima) costituisce l’ambito cui si applica il vincolo procedimentale stabilito dalla legge 431/1985 (Galasso). L’obbligo di rispettarlo era già stato calorosamente discusso nel corso dell’elaborazione del nuovo Piano paesaggistico regionale. Vi era infatti chi voleva ignorare il decreto del 1990 che, dopo un lunghissimo approfondimento operato dai dicasteri interessati, aveva definitivamente fissata la delimitazione lagunare sulla base dei criteri del compenso tra terre emerse e superfici acquee, dell’equilibrio idraulico, della salvaguardia dell’officiosità delle bocche lagunari e delle zone raggiungibili dalle maree.

La controversia si è riaccesa in occasione del progetto del grattacielo Cardin, ma già un anno prima (18 novembre 2011) la Direzione Regionale del Mibac aveva firmato con la Regione Friuli Venezia Giulia un accordo che, in attesa del piano paesaggistico regionale, sanciva la tutela unitaria della laguna di Marano Lagunare e Grado per una fascia di 300 m. del territorio peri-lagunare pur “fortemente connotato da opere di bonifica e dall’argine di conterminazione”.

Occorre tener presente che il nuovo Codice del Paesaggio (2004-‘08) prescrive la pianificazione paesaggistico-ambientale di tutto il territorio (di tutte le regioni): non solo delle aree e dei beni di particolare valore da tutelare attivamente ma anche delle “aree compromesse o degradate da riqualificare” e “degli altri ambiti nei quali individuare le linee di sviluppo urbanistico ed edilizio con il minor consumo di suolo e compatibili con i diversi valori paesaggistici” (art. 135).

Una prima volta la Regione e il Comune hanno ignorato la comunicazione dell’Ufficio legislativo del Ministero che eliminava ogni incertezza; una seconda volta si è a lungo taciuta e non resa pubblica la chiarissima ulteriore risposta (del 16 maggio 2013) dell’Ufficio legislativo alla contestazione comunale (testo pubblicato inel mio saggio Giù dalla Torre, Corte del Fontego editore).

Sembra che si voglia continuare la velleitaria contestazione: qualcuno pensa veramente di far cambiare il Codice del paesaggio o il decreto della conterminazione ? Ma almeno, per tutelare gli interessi dei cittadini (e non rischiare pesanti responsabilità anche economiche), si è deciso per il futuro di far fare la corretta completa elaborazione dei progetti e chiedere la “autorizzazione paesaggistica” nelle aree sotto tutela.

La vera scommessa per Marghera e per l’intera gronda lagunare è di riuscire non solo a salvare e riqualificare alcuni rari edifici di archeologia industriale (ad es.la “Cattedrale del Mare” nell’area Vega 3) ma di sviluppare piani e progetti di qualità per bisogni reali che guardino alle prospettive di rigenerazione produttiva e riqualificazione urbana e non ad accumulare il massimo possibile di metri cubi edificabili, probabilmente così invendibili.

Analoga scommessa dovrebbe impegnare al massimo la Regione e le strutture del Ministero per accelerare il più possibile i piani paesaggistici regionali d’ambito: questi vanno formati non solo né tanto per la ricognizione dei vincoli esistenti (comunque vigenti) e la loro ‘vestizione normativa’ quanto, soprattutto e finalmente, per la effettiva pianificazione paesaggistico-ambientale, di tutto il territorio con in particolare “l’individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate” e degli “interventi di valorizzazione compatibili con le esigenze della tutela” (art. 143).

Un’intervista demenziale dell’assessore all’ambiente della giunta Orsoni di Venezia: vogliono una legge “ad futuram cubaturam”, anche per sanare l’ignorantia legis degli amministratori attuali e pregressi. La Nuova Venezia, 5 agosto 2013, con postilla

Quel vincolo è demenziale e crea molti più problemi al territorio che a Cardin». Gianfranco Bettin, assessore all’Ambiente, va giù duro con il ministero dei Beni culturali. «Abbiamo già scritto al Ministero per segnalare l’incompatibilità di quel vincolo con il nostro piano regolatore ma soprattutto con i nostri progetti di sviluppo dell’area. Non basta: se il Ministero sostiene un vincolo di questo tipo allora dovrà ordinare l’abbattimento di tutto l’esistente, che è tanta roba». Tutto verte sul termine di “conterminazione lagunare”, cioè le rive della laguna per cui esiste un vincolo paesaggistico che impedisce la costruzione entro un’area di rispetto di 300 metri. Il ministero dei Beni culturali ha bloccato il Palais Lumière sostenendo che la conterminazione si estende anche a tutti i canali che arrivano in laguna. «Una follia che non sta nè in cielo nè in terra», dice Bettin, «allora bisognerà abbattere tutto cioè che è stato costruito lungo il Canale Ovest, quindi la Fincantieri, i Grandi Molini, oppure lungo il Canal Salso andrebbe raso al suolo il Laguna Palace? Ma vi rendete conto? Quel vincolo non esiste, c’è solo nella testa di chi ha deciso a Roma senza fare i conti con la realtà. Ovvio che un vincolo lungo la vera conterminazione lagunare è sacrosanto e io gioisco a ogni abbattimento di abusi, ma di quelli veri». Poi c’è un pericolo anche per il futuro: «Se questo vincolo restasse, allora lo sviluppo e il recupero dell’intera area di Marghera e Mestre sarebbero bloccati. E non solo i progetti futuri, ma anche quelli già approvati. Penso solo a quelli avviati dall’Autorità portuale, l’Oleificio Veneto, l’Ecodistretto. Ma siamo pazzi?». Un vincolo destinato a cadere: «La prima volta che al ministero guarderanno le carte si renderanno conto dell’assurdità e cancelleranno quel vincolo che non ha ragione di essere» Anche l’assessore a ai Lavori pubblici Alessandro Maggioni è convinto dell’inesistenza del vincolo, ma soprattutto dei danni che ha già fatto. «Noi abbiamo perso una grande occasione, la città intera l’ha persa e non per sue responsabilità», spiega, «il vincolo paesaggistico del Ministero ha influito negativamente in modo determinante sui progetti di Cardin. Noi ora stiamo già operando per farlo togliere e rinnoviamo a Cardin l’invito a ripensare il suo ritiro dal progetto del Palais Lumière».

Postilla

Purtroppo agosto incide anche nell’aggiornamento di eddyburg. Solo oggi abbiamo avuto notizia dell’incredibile intervista rilasciata dell’assessore veneziano all’ambiente. La pubblichiamo perché illustra perfettamente l’estensione che ha avuto l’ideologia sviluppista (sintetizzabile nello slogan “meno ambiente più cemento”), divenuta ormai senso comune. Rinviamo il lettore alla nostra postilla a un recente articolo di Enrico Tantucci e a un articolo di commento che abbiamo chiesto a Stefano Boato

Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2013, postilla (f.b.)

Le casse dei comuni languono e il sindaco di Somma Lombardo (provincia di Varese), per rimpinguare le finanze lancia l’idea di trasformare la frazione di Case Nuove in un quartiere a luci rosse. Si tratta ovviamente di una provocazione, lanciata per riaccendere i riflettori sulla difficile situazione in cui versa la frazione che sorge a due passi dalle piste dell’aeroporto di Malpensa dove, dal varo dell’ampliamento dello scalo in poi, i residenti se ne sono andati quasi tutti, lasciando le abitazioni di Case Nuove in uno stato di abbandono pressoché totale. Negli anni gli amministratori del territorio hanno chiesto interventi per utilizzare gli immobili lasciati vuoti per effetto della delocalizzazione, ma mai nessuno ha preso seriamente in considerazione il problema.

In questi giorni è dunque arrivata la boutade che Guido Colombo (a capo di una giunta di centrodestra) ha affidato al quotidiano locale La Provincia di Varese: “Esiste un mercato parallelo davvero importante che muove grosse cifre in maniera sotterranea: perché non regolamentarlo e regolarizzarlo qui?”.

Del resto basta sfogliare un qualsiasi giornale di annunci o visitare le pagine di siti dedicati per capire quanto la prostituzione sia diffusa attorno al grande scalo aeroportuale. “C’è chi ha scelto questo “mestiere” – spiega ancora Colombo – anche se facciamo finta di non vedere o di non sapere il problema esiste nell’intorno aeroportuale”. Dunque regolamentare il fenomeno e circoscriverlo in una zona ben definita, per giunta lontana dal centro del paese, potrebbe essere una soluzione anche alla massiccia seppur discreta presenza delle prostitute nei comuni attorno a Malpensa? “Si darebbe dignità al lavoro più vecchio del mondo e si ridarebbe vita alla frazione dove ancora oggi la maggior parte delle case sono murate”, senza contare ovviamente che il comune di Somma Lombardo, accendendo le luci rosse a Malpensa, potrebbe incassare i quattrini che mancano per far quadrare i conti.

Il sindaco di Somma Lombardo non è l’unico a pensare di poter fare cassa tramite l’emersione del mercato nero della prostituzione. Prima di lui l’idea l’ha lanciata anche il primo cittadino di Mogliano Veneto, che ha proposto una raccolta firme a sostegno di un referendum che porti all’abrogazione della Legge Merlin. Evidentemente in tempi di vacche magre, con i comuni in mutande, certe idee vengono formulate più facilmente.

postilla
Premessa: ho un paio di conflitti di interesse. Il primo è che a Case Nuove, quando Malpensa era solo un piccolo scalo militare perso nei boschi, una sessantina d'anni fa ci sono nato. Il secondo è che il geometra Guido Colombo una quarantina d'anni fa, prima di portarsi a casa non so come una laurea in architettura, mi ha aiutato a trovare un posto dove dormire a Venezia, quando ero matricola. Chiariti questi conflitti di interesse, riassumo che per assecondare altri interessi un po' meno dichiarabili, prima si è sviluppata la strampalata e fallimentare idea dell'hub intercontinentale, sfondando un parco, un territorio, e tante comunità locali, senza alcun risultato. E poi, davanti all'evidente fallimento di qualsiasi, e ripeto qualsiasi, strategia di “sviluppo del territorio”, si sono continuate a partorire micidiali stupidaggini, dal centro di espulsione rapida per immigrati ventilato da Maroni (a occupare con una specie di Alcatraz razzista altri ettari di ottimo bosco dando lavoro a qualche sbirro di area politica), e adesso la puttanopoli del geometra Colombo. Che, questo l'articolo non lo dice, potrebbe accelerare la deportazione in corso delle residue famiglie e attività che nonostante tutto resistono, da anni, ai tentativi di fare dell'ex villaggio, e in genere del territorio circostante l'aeroporto, un luogo compiutamente ballardiano. Un posto dove casi come l'assassinio della sindaca di Cardano (giusto dall'altra parte delle piste farlocche) potrebbero verificarsi senza far tanto notizia, magari con un distretto speciale a denominazione anglofona, dove vige qualche legge speciale, il codice Colombo-Maroni, chissà. Mandiamoli a lavorare, togliamoceli di torno, per favore! (f.b.)

Berlusconi e il problema della casa (tanto per sorridere, nel solleone). «Siamo un popolo di proprietari, quando torna lo spirito dell'immobiliarista è tempo di elezioni», il manifesto, 10 agosto 2013

Siamo un popolo di proprietari, quando torna lo spirito dell'immobiliarista è tempo di elezioni. Da casa la prima volta, sulla casa tutte le altre. Cominciano così le campagne elettorali di Silvio Berlusconi, dalla videocassetta del 1994 registrata tra le mura domestiche di villa San Martino, Arcore, alla propaganda sulle abitazioni degli altri, di cui negli anni ha promesso la costruzione, l'estensione e soprattutto la detassazione. Così quando il cavaliere torna a parlare di casa, specie della prima casa «che è sacra» (lui ne ha altre venti profane) non si sbaglia: c'è aria di elezioni.

Partito come imprenditore immobiliare, Berlusconi ha detto più volte che vorrebbe essere ricordato come colui che ha dato una casa a chi non ce l'aveva. «Sogno un paese di proprietari di casa» risale alla campagna elettorale del 2006. Non essendoci riuscito, anche perché l'Italia era già e resta almeno all'ottanta percento un paese di proprietari di casa, ha fatto sogni diversi. Siamo nel 2009: «Una mattina mi sono svegliato e ho detto, ecco qua, cementifichiamo l'Italia. Scherzo, non c'è nessuna cementificazione, le famiglie potranno fare qualcosa che renderà più bella e più preziosa la propria abitazione. Siccome l'ho sognata io, Tremonti e Ghedini la chiamano lex Silvia». È il piano casa. Quello che doveva consentire ai proprietari di ampliarsi in libertà, fino al 30%, rilanciando così l'edilizia - che da sola «cambia il corso della politica economica», questa è di ieri - senza controlli, nel paese degli abusi e dei terremoti.

La casa. Niente che tocchi di più gli italiani. Wikipedia conta una cinquantina di proverbi sul tema, tra i quali quello che assegna al mattone anche il derby con la religione: «È buona cosa la messa udire, ma è meglio la casa custodire». Per lanciare il piano casa Berlusconi scelse un altro motto: «Padroni in casa nostra». Poi disinvoltamente esteso dai muri perimetrali alle frontiere blindate. E tale era l'identificazione del leader col popolo che tra le prime richieste di applicazione del piano casa ci fu quella della Idra immobiliare per la realizzazione di alcuni bungalow all'interno di villa Certosa in Sardegna. Ad altri lavorucci domestici tipo la costruzione di un tunnel a mare per le imbarcazioni e un laghetto artificiale si preferì ovviare con il segreto di stato.

Con la testa nel mattone, quando ha dovuto aiutare qualche amico in difficoltà Berlusconi gli ha comprato casa. Lo ha fatto con Dell'Utri, l'ha fatto con un certo numero di ragazze poi conosciute come «olgettine» (dall'indirizzo del condominio di Milano 2 dove veniva gratuitamente ospitate), l'ha fatto persino con il pianista delle notti di Arcore. E si capisce quanto gli sia spiaciuta la curiosità dei magistrati per quelle cena eleganti, anche se indotta da un'errata strategia difensiva. Sono state così violate tutte le stanze, la tavernetta della lap dance, la camera del lettone di Putin, persino il bagno fotografato da un'ospite infedele.

Tutto il circuito «padronale» delle mura domestiche della villa di Arcore da privato è diventato pubblico. Quella villa il cui acquisto è all'origine di uno degli incontri più importanti nel destino del cavaliere, quello con l'avvocato Cesare Previti curatore degli interessi della marchesina Anna Maria Casati passato rapidamente dalla parte del cavaliere acquirente. L'affare fu concluso, si stima, per un quarto del valore reale dell'immobile e dei suoi arredi. E si sa che il primo gesto d'amore per una casa consiste nell'ottenere uno sconto sull'acquisto. Certo non a tutti capita come a Berlusconi di trovare all'interno quadri e libri di valore compresi nel prezzo, ma col tempo abbiamo scoperto che il cavaliere non è solo un costruttore, è anche un arredatore. Come aveva già avvertito Giuliano Ferrara nel volume agiografico del 2001 spedito per posta agli italiani: «Arredare le case è un suo hobby, cura ogni particolare, dalle foto in cornice ai fiori, alle luci studiate in un certo modo». La prova sta nelle immagini che accompagnavano Una storia italiana, perché quelle stanze furono presentate al pubblico molti anni prima che ci ficcassero il naso i pubblici ministeri. E quasi a concludere il ciclo, Natale 2011, in pieno Ruby-gate, ecco il desco di Arcore che splende di rosso e oro nel paginone centrale di Chi. Trentacinque a tavola, accanto a Berlusconi un prete (cugino).

Quando negli affari ha comprato una catena di negozi l'ha chiamata «la casa degli italiani», quando in politica ha fondato una coalizione «la casa delle libertà», quando ha voluto distruggere un avversario politico si è concentrato su una casa (di Montecarlo), quando si è messo a risolvere il problema dei rifiuti ha detto ai napoletani di «considerare le strade come le vostre case», quando si è dedicato ai terremotati dell'Aquila ha spianato le colline per impiantarci le C.A.S.E (complessi antisismici sostenibili ecocompatibili) e poi è andato ad accogliere i terremotati in diretta tv con lo spumante nel frigo: «Le donne cadono nelle mie braccia incredule». Quando, in quella che sembra la fine di tutto, ha pianto sulle sue sorti di condannato, l'ha fatto da un palchetto costruito - pare abusivamente - davanti al portone di casa, rientrandoci poi svelto con fidanzata e cagnolino. E se saranno arresti saranno arresti domiciliari.

Le reazioni parlamentari al tentativo di smantellare le tutele con il nuovo pianopaesaggistico. La giunta taglia i beni protetti. In provincia di Sassari da 500 a 80. Il compito affidato a 24 tecnici esterni.Interrogazione firmata, per ora, da esponenti di SEL e M5S. La Nuova Sardegna, 8 agosto 2013

CAGLIARI. Sassari e lasua provincia hanno cinquecento beni paesaggistici tutelati dal Ppr.L’intervento di revisione che la giunta Cappellacci presenterà a metà settembreprevede un taglio drastico: ne resteranno ottanta. È solo un esempio, perché latask force di ingegneri precari del progetto Scus voluta dall’amministrazionedi centrodestra lavora su una parola d’ordine perentoria: sclassificare. Comedire togliere ai diecimila tra siti storici e archeologici, luoghi di valoreidentitario e tratti di costa sarda la tutela finora garantita dallo strumentodi pianificazione approvato nel 2004 per considerarli semplicemente «componentidi paesaggio» e abbandonarli di conseguenza alla speculazione.

I ventiquattrotecnici ingaggiati con un costo di 634 mila euro in due anni e mezzodall’assessorato all’Urbanistica guidato da Nicola Rassu hanno ricevutodisposizioni precise: un Ppr più leggero, con meno vincoli e più spazio per leattività immobiliari. Quanto finora è vietato potrebbe diventare possibile,senza che i dirigenti e funzionari regionali a suo tempo impegnatinell’elaborazione del Ppr possano mettersi di traverso: costituiti formalmentei gruppi di lavoro con una determinazione firmata il 15 giugno scorso, ildirettore generale dell’urbanistica Marco Melis ha di fatto mandato in panchinai titolari degli uffici regionali per affidare la partita del cemento a unastruttura parallela, di sua stretta fiducia e sotto il pressante controllodella politica.

Gli effetti si possono valutare fin d’ora, malgrado il nuovoPpr sia annunciato per l’inizio dell’autunno: sono a rischio aree costiere diimportanza straordinaria come quella di Bosa, dove la Condotte srl prepara indiverse versioni un’abbondante colata di cemento, possibile solo se la leggesul golf supererà le barriere normative del «vecchio» Ppr. E potrebbero tornarea correre pericoli reali luoghi finora salvati miracolosamente da progetti giàdefiniti, come il colle archeologico di Tuvixeddu a Cagliari e l’area di CalaGiunco a Villasimius. D’altronde l’obbiettivo è chiarissimo e viene messo inevidenza nell’interrogazione al governo presentata dai parlamentari MichelePiras (Sel), Gennaro Migliore (Sel) ed Emanuela Corda (M5s) dopo uno studioaccurato dei carteggi regionali compiuto in questi mesi da Maria Paola Morittudi Italia Nostra.

Il giudizio di Piras è categorico: «La giunta Cappellacci siè distinta in questi anni per la volontà ostinata di scardinare, aggirare,eludere il Ppr, collocandosi come riferimento del partito trasversale delmattone. Piani casa, legge sul golf, usi civici, il progetto Qatar,costituiscono un manifesto programmatico ed ideologico. Noi – scrive ildeputato – continuiamo a pensare che l’isola non possa trarre alcun giovamentodal consumo indiscriminato del territorio e sui beni comuni daremo battagliaperché il futuro possa essere uno sviluppo di nuova generazione, rispettosodell’ambiente, della salute delle persone, dei diritti». Fin qui il giudiziopolitico, condiviso dalle associazioni ecologiste e dal M5s. Ma le domanderivolte ai ministri dell’Ambiente e dei Beni culturali sono innumerevoli, tutteriferite a norme. Emerge, secondo il fronte dell’opposizione, l’idea diintegrare un Ppr riveduto sulla base di regole più permissive con le due leggivarate nella legislatura Cappellacci: quella sul golf, che minaccia Tentizzos,e quella sulla revisione degli usi civici, da affidare ai Comuni. Chiedono itre parlamentari: come si potrà far passare all’interno dello strumento cardinedella pianificazione regionale norme che sono state già impugnate comeanticostituzionali, in palese contrasto col Ppr attuale e quindi con il Codicedel paesaggio, quando i 102 Comuni costieri hanno già a lavorato per adeguare ipropri piani urbanistici alle indicazioni regionali?

Ancora: «Come si intendeagire – è scritto nell’interrogazione – per la tutela delle aree gravate da usicivici, dichiarate beni paesaggistici ai sensi del Codice Urbani, consideratala proposta di legge 357 che la Regione ha appena approvato e qualiprovvedimenti si intende adottare per impedire l’applicazione della leggeincostituzionale e la violazione degli accordi sottoscritti il 16 maggio 2012con la Regione?». Eppure il progetto è manifesto: rimettere in discussione letutele per rivolgere un invito sorridente all’impresa immobiliare azzoppata dalPpr di Renato Soru. Con un’idea di Sardegna del tutto diversa, forse opposta,rispetto al modello ancorato alle sensibilità che lo strumento attuale,ispirato dal pianificatore Edoardo Salzano, ha cercato di alimentare.

Progettonon facile da realizzarsi, quello della giunta Cappellacci. Perché i marginilegali per opporsi sembrano ampi: «I signori della politica sappiano che cibatteremo metro su metro – annuncia Stefano Deliperi, del Gruppo diintervento giuridico – e che utilizzeremo con impegno ogni strumentoche la legge ci offre per fermare questa devastante revisione del Ppr».

Inserto del giovedì sul manifesto, "L'Italia che va" 8 agosto 2013. Il problema della casa, irrisolto per i deboli numerosi dopo decenni di lotta per un diritto. Soluzioni che aprono speranze per una città più equa. Articoli di D. Chanaz, S, Medici, D. Bevilacqua, E. Scandurra, G. Salvetti

Spazi di libertà
di Dafne Chanaz

Dagli squat urbani agli ecovillaggi, l'abitare diventa un atto rivoluzionario, antiliberista ed ecologista. Le nuove parole d'ordine sono cohousing, autorecupero, autocostruzione. Mentre si riscopre il mutuo soccorso ottocentesco e le nuove Comuni ricordano il '68

«L'ecovillaggio è la cellula del futuro corpo sociale, trasformazione in atto - o se volete "rivoluzione" - dal basso, non violenta e silenziosa, che ha dimensione mondiale e prefigura una fuoriuscita radicale dal sistema. In Italia (...) il raddoppio in pochi anni del numero degli ecovillaggi costituiti e dei progetti in fase di realizzazione mette in luce un nuovo corso, esistenziale e politico, soprattutto tra le giovani generazioni». Una tale affermazione può sembrare forte a chi non abbia fatto esperienza diretta di queste forme di vita comunitaria che partono dal rapporto con gli ecosistemi per costruire modelli relazionali più equi, conviviali e soddisfacenti. Può sembrare ottimista a chi non abbia visto fiorire la Rete Italiana dei Villaggi Ecologici, anno dopo anno, fino all'ultimo incontro di fine luglio 2013, gremito di giovani e ricco di così tante nuove esperienze. Versione italiana del Global Ecovillage Network, la Rive si è formalizzata nel 2007 - grazie anche all'iniziativa del mensile Terranuova , che funge da organo ufficioso della rete - ed è già un punto di riferimento e d'ispirazione per moltissimi. Chi erano gli oltre 500 partecipanti al raduno di quest'anno e cos'è un ecovillaggio? Gran parte erano giovani romani, ma anche persone provenienti da tutte le regioni d'Italia e dall'estero (Spagna, Slovenia, Brasile) interessati alle conferenze ed ai workshop offerti (bioedilizia, cesteria...) e ad apprendere qualche cosa circa alternative di vita concrete ed accessibili, lontane dalla nevrosi urbana e dal precariato. Poi c'erano una trentina di volontari che avevano allestito il campo e coordinavano le operazioni. Ed infine un centinaio erano rappresentanti degli oltre 20 ecovillaggi toscani, milanesi, bresciani, padovani, vicentini, siciliani, calabresi...

NUOVI IMMAGINARI
Sperimentiamo l'autogoverno
di Sandro Medici

La devastante spinta edilizia favorita e coltivata dall'urbanistica deregolata di fine secolo, quel voluminoso flusso di cemento che ha rovinosamente impattato su città e territori, sta ormai consumando i suoi ultimi cantieri. È il tramonto di una parabola che ha tuttavia alterato e deformato interi paesaggi, lasciando nelle pianure piantagioni di prefabbricati industriali vuoti e abbandonati, quartierini di affettate palazzine dai tristi balconcini ai bordi delle città, malinconici villaggi finto-leziosi sulle coste e nelle valli e perfino sui monti. Ora non si costruisce più, nel nostro paese. Finalmente. Ma non grazie a quell'auspicato rinsavimento invocato per decenni dalla cultura del limite, dalla critica al produttivismo, dalle tante soggettività indignate per i danni alla natura e le ferite alla bellezza. Quanto, più crudamente, per l'esaurirsi di profitti e rendite nel mercato immobiliare. Uno dei più vistosi effetti, quest'ultimo, della crisi economica in corso. Gli stabilimenti chiudono, le case non si vendono, le attività commerciali languono. Le banche non finanziano più iniziative imprenditoriali e progettazioni espansive, né, ancor meno, assicurano mutui alle famiglie. E sono ormai migliaia e migliaia le concessioni edilizie, un tempo spasmodicamente agognate, che si accumulano nei cassetti degli uffici tecnici comunali. È l'esito di un processo che fin dal suo esordio conteneva un inganno, oltreché un errore strutturale. Ritenere cioè che, in forza delle sue esclusive dinamiche, il mercato avrebbe riequilibrato il settore edilizio componendo con efficacia sviluppo immobiliare e fabbisogno alloggiativo. Una scelta socialmente rovinosa, che nel corso dell'ultimo ventennio ha finito per sovrabbondare l'offerta ma non per questo soddisfare la domanda. Una domanda che è sensibilmente cresciuta, perché a quella cronicamente inevasa si è aggiunta nell'ultimo scorcio quella degli esodati, affittuari morosi e quindi sfrattati, piccoli proprietari inadempienti a cui le banche pignorano casa, oltre ai tantissimi giovani che restano in famiglia, respinti dai costi eccessivi delle nuove abitazioni. Il panorama immobiliare italiano in questo momento è dunque gravemente scompensato: un paradosso che né favorisce gli affari né soddisfa le necessità. È aumentata la disponibilità e nel contempo si è ampliato il bisogno. Affidarsi alle ritmiche del mercato, a quella logica d'impresa che avrebbe dovuto far felicemente incontrare offerta patrimoniale e domanda sociale, s'è rivelato tanto illusorio quanto tragicamente fallace. E così, oggi, c'è sempre più gente senza casa e sempre più edilizia invenduta. Non c'è che dire, un vero capolavoro di idiozia economica e ferocia sociale. Reso possibile da norme urbanistiche sempre più permissive e compiacenti, attraverso generose concessioni per valorizzare, ristrutturare, razionalizzare (leggi: sfruttare), facilitazioni nei cambiamenti di destinazione d'uso di suoli e fabbricati, affidamento commerciale di beni demaniali e perfino culturali. E poi con la cartolarizzazione e la privatizzazione del patrimonio abitativo pubblico, insieme alla definitiva rinuncia a realizzare nuova edilizia popolare.

L'intero pacchetto, insomma, delle scelte politiche che hanno accomunato negli ultimi decenni centrosinistra e centrodestra, entrambi penosamente travolti da quei furori liberisti che inevitabilmente hanno generato disagio, esclusione, collera, conflitto.Quei sentimenti che stanno oggi animando una reattività sociale sempre più estesa e combattiva. E che si deposita nelle centinaia di occupazioni che si susseguono nelle nostre città. Effetto inevitabile di una situazione completamente chiusa e bloccata. Con un mercato immobiliare inaccessibile perché totalmente gestito dai privati, società d'impresa o finanziarie che siano, in assenza di alternative di edilizia sociale o comunque calmierata, senza alcuna offerta alloggiativa pubblica perché ormai estinta, cosa volete che facciano tutte quelle persone che si ritrovano in mezzo a una strada, che vivono nelle auto, che s'affollano da amici e parenti, che s'accampano nei parchi o sugli argini dei fiumi, tutto quel popolo nomade per necessità, se non per destino? Dunque ci si sistema laddove ci sono spazi inutilizzati, nei fabbricati abbandonati o nelle palazzine invendute, nelle fabbriche dismesse o nelle scuole svuotate, in tutta quella volumetria residuale che giace malinconica agli angoli delle città. In natura, così come in politica, il vuoto non esiste: prima o poi viene riempito. E torna a vivere. Sono quasi commoventi le facce speranzose di chi di chi per la prima volta si ritrova con un tetto sulla testa, con un bagno dove lavarsi, con un letto solo suo, con una stanza dove appendere una vecchia fotografia. C'è gente, in questi edifici recuperati, in questi nuovi falansteri, che prima d'ora non aveva abitato da nessuna parte. Ma le occupazioni non solo soltanto abitative. Si occupa anche per avviare un'attività produttiva, per inventarsi un lavoro, per riconvertire un impianto e rimetterlo in moto, per sviluppare un progetto collettivo, per riattivare un vecchio teatro, un cinema abbandonato, accendere insomma una speranza culturale. E anche in questo caso, avviene per quell'impellente necessità di dare senso a un luogo, a uno spazio, oltreché a se stessi. Quanti ragazzi, quante ragazze nelle nostre città hanno bisogno di lavorare o anche soltanto di esprimersi, di mettere a disposizione la propria passione, la propria creatività? Chi raccoglie queste aspirazioni, quando, al contrario, si fa di tutto per comprimerle e marginalizzarle? Allora succede che ci si organizza e ci si riappropria di ciò di cui si ha diritto. E sapete come va a finire? Be', c'è da restarci davvero sorpresi. Perché in queste occupazioni di nuovo conio si sviluppano attività "utili", soprattutto alla città e ai cittadini: si avviano progetti, si realizzano servizi, si organizzano mercati, si allestiscono spettacoli, ci si diverte, si sta bene, arriva gente, si chiacchiera, si sta insieme. Si fanno tutte quelle cose che andrebbero fatte ma che nessuno più fa. Quelle cose insomma che rispondono ai bisogni di quartieri e territori: case-famiglia, palestre, centri anti-violenza, biblioteche, spazi espositivi, sportelli d'ascolto, laboratori culturali, saleprova, osterie sociali,attività per l'infanzia. Soddisfano esigenze diffuse e in più che creano quella preziosa qualità immateriale, fatta di socialità, relazioni umane, solidarietà, allegria e piacere. Non ci si crederà, ma producono anche economie e redditi: di sussistenza, certo, ma quel tanto o poco che comunque consente di gestire al meglio l'occupazione. Se è proprio necessario definirlo, questo modello si chiama autogoverno. E l'impressione è che si tratta di un processo destinato a estendersi. È una risposta sociale e culturale alla crisi dell'economia e all'opacità della politica.

ROMA
Gli invisibili della Capitale
di Dario Bevilacqua

Gli scrittori a Communia, il mercatino Terra Terra al Forte Prenestino, il jazz all'ex Snia, le palestre popolari e le ciclofficine. Ecco dove batte il cuore della Roma alternativa

All'inizio di giugno, presso il centro sociale Communia, nel quartiere romano di San Lorenzo, si è tenuto il festival Letteraria , con dibattiti, reading , rappresentazioni teatrali e conferenze che hanno coinvolto, tra gli altri, anche Carlo Lucarelli e il Collettivo Wu Ming. Ogni prima e terza domenica del mese, nel centro sociale Forte Prenestino, a Roma, si tiene il mercato Terra terra che mira a consentire, come fanno ogni settimana i tantissimi Gruppi di Acquisto Solidale (Gas) diffusi sul territorio, l'accesso a prodotti buoni, puliti e giusti, riducendo i passaggi della catena distributiva degli alimenti. All'Esc Atelier, spazio occupato nel cuore di San Lorenzo, sono attivi sportelli legali per i diritti di cittadinanza e di tutela del lavoro precario. Oltre a concerti, rassegne e iniziative serali, Esc ospita gli incontri della Lum - Libera Università Metropolitana - un esperimento di autoformazione e laboratorio che organizza, inter alia , seminari e ricerche. Al centro sociale Strike, a Portonaccio, dal martedì al venerdì è aperta la cucina sociale "Strkitchen Stirkespa", che presenta ogni giorno un menu diverso di ottima qualità, a prezzi modici. In via delle Isole Curzolane, nel quartiere Tufello, la Palestra popolare Valerio Verbano organizza corsi di Ginnastica Artistica, Boxe, Kick Boxing, Ginnastica posturale, Karate e Fung Fu, a prezzi accessibili. A Casal Bertone, il Centro sociale La Torre mette in piedi una serie di attività di vario tipo, dal bioristoro e forno della Riserva della Valle dell'Aniene La Trattoriola, alla Palestra Popolare Corpi Pazzi, passando per il laboratorio informatico Bugslab e il progetto MediaMemoria, che lavora alla costruzione di laboratori di ricerca storica nelle scuole medie e si attiva per restituire vive le memorie della Resistenza partigiana al nazifascismo. Infine, presso il Centro sociale Ex Snia, dal 14 giugno, per 5 venerdì consecutivi, si tengono i concerti di Jazz al Popolo, con concerti e iniziative musicali, che quest'anno confluiscono nell'alveo di Artindipendenti 2013, un'ecofesta che intende convogliare differenti arti per promuovere la cultura. Sono solo alcune delle numerosissime attività e iniziative messe in piedi dai vari spazi occupati e autogestititi che popolano la capitale.

Cosa vuol dire centro sociale? Quale modello di centralità propongono questi luoghi? E perché sono tenuti ai margini dell'ufficialità? Poiché molti di questi luoghi sono occupati illegalmente - anche se in tal modo sottratti all'abbandono e riqualificati dalle persone che li gestiscono - i centri sociali sono mal visti dalle amministrazioni e molti sono sotto sfratto o a rischio sgombero. C'è un'ufficialità che non digerisce certe realtà magmatiche e autorealizzate, ostacolando la loro vitalità, frutto della risposte alle esigenze reali della popolazione, soprattutto giovanile, o di chi è vissuto e cresciuto nel quartiere. Ciò nondimeno, mentre le istituzioni cittadine e nazionali confermano che l'Italia non è un Paese per giovani, questi luoghi altri, non ufficiali, resistono e crescono. Esattamente perché consentono ai giovani, che non riescono a esprimersi altrove, di trovare e definire nuovi spazi e perché forniscono un contributo fondamentale per chi risiede a Roma, elaborando e diffondendo cultura, organizzando e offrendo corsi, aiutando concretamente cittadini e migranti, riqualificando periferie, sollecitando continuamente alla riflessione chi li frequenta. Il nuovo nuovo sindaco Marino si trova di fronte non pochi problemi. Intanto quello gigantesco della mobilità: la città detiene il record di macchine per abitante (in un rapporto che è quasi di 1 a 1) e dispone di mezzi pubblici inadeguati. Segue l'esplosiva emergenza abitativa, che riguarda migliaia di famiglie.
Ora, mentre le nuove e inutili costruzioni sono destinate a rimanere vuote, si diffondono nel territorio isole di resistenza, che offrono un contributo importante alla diffusione di modelli alternativi a quelli istituzionali, sia in tema di mobilità privata che dei bisogni abitativi. Si pensi alle ciclofficine, diffuse in quasi tutti i centri sociali della Capitale, e alle Ciemmone, che con cadenza regolare vedono gruppi sempre più nutriti di ciclisti invadere pacificamente la città. Significative a tal proposito le occupazioni che nell'ultimo anno hanno interessato edifici vuoti e abbandonati, reazione eterodossa a una gestione affaristica degli alloggi popolari e a una rimozione dell'edilizia pubblica popolare dall'orizzonte politico. Le attività che hanno luogo nei centri sociali occupati o autogestiti, nelle palestre popolari e in altri piccoli spazi di quartiere, nati grazie alla buona volontà di poche persone e contro pregiudizi e ostacoli ufficiali, contribuiscono a caratterizzare i quartieri e a forgiare la cittadinanza, rendendo i romani maggiormente consapevoli delle potenzialità del territorio, dei propri diritti e dei propri doveri. È grazie alla cultura, tra le altre cose, che una città prende vita ed emancipa i suoi abitanti, che acquistano sicurezza e desiderio di viverne i luoghi, uscendo dalle anguste mura domestiche e dalla passività. È con la diffusione delle idee, delle buone pratiche, dei saperi, che il cittadino può sentirsi al centro della polis , di un progetto volto al futuro e al miglioramento. Lo si è visto, con risultati alterni, anche con le Estati Romane, in questi ultimi anni, tuttavia, sempre più lontane dal modello iniziale nato dal genio di Renato Nicolini: sempre più dispendiose e dispersive, sempre più mondane e omologate a una cultura mainstream appiattita sugli sponsor privati e sulle idee dei promotori istituzionali. La forza della cultura e delle buone pratiche si vede ancor di più nelle iniziative dal basso di questa "Roma alternativa": concerti, teatro, corsi, trattorie, palestre, tutto è funzionale ad arricchire lo spirito di chi li frequenta, e tutto nasce dall'impegno di persone volenterose e da piccole associazioni, con un costo basso per chi organizza - se non in termini di tempo ed energia - e un prezzo accessibile per chi fruisce. Infine, questi spazi influiscono sull'identità e sulla crescita culturale di interi quartieri. La presenza di centri sociali in zone periferiche - dal Tufello a Cento Celle, passando per Casal Bertone, Portonaccio, San Lorenzo e il Pigneto - ha contribuito a trasformare aree una volta degradate, difficili, inospitali, in luoghi vivi, attraenti e sicuri. In tal modo non solo si è favorito l'accesso all'offerta culturale di chi vive o frequenta questi posti, ma si è anche fortemente limitata la diffusione di criminalità. È politica con la P maiuscola, è politica di sinistra e intervento sul territorio e dal basso. Che rappresenta un'Italia - perché Roma non è l'unico caso - che non si dà per vinta, che non si piange addosso, che cresce, con entusiasmo, grazie alla vivacità delle idee e alla bontà dei progetti. E che andrebbe incoraggiata, sostenuta, alimentata, seppur senza ingabbiarla nella burocrazia, nei vincoli e nei veleni dei canali ufficiali. Anche solo prendendo parte alle iniziative, godendo delle loro offerte fruitive e culturali. La maggioranza hanno tra i 10 e i 20 abitanti, ma con dei picchi a 200 (il Popolo degli Elfi) e 600 (Damanhur). Si tratta di comunità intenzionali ecosostenibili, gruppi umani che intendono dare ai luoghi in cui vivono più di quanto vi hanno trovato , e che hanno scelto come impegno prioritario di condividere la loro esistenza con altre persone in virtù di una visione comune (di ordine etico, spirituale, ecologico, sociale). A differenza del cohousing , chi va a vivere in un ecovillaggio, oltre a fare una scelta abitativa a basso impatto ambientale, decide di aprire la propria vita professionale, economica ed affettiva al gruppo di persone e al luogo scelti. Le realtà più grandi hanno strutture produttive, falegnamerie, scuole autogestite ispirate ai modelli libertari e percorsi didattici per i bambini delle scuole intorno. Questi luoghi, infatti, sono veri e propri laboratori di scambio di saperi intergenerazionale ed università del fare a cielo aperto. La Comune di Bagnaia Un esempio? Provate ad immaginare 19 adulti di età e professionalità diverse - insegnanti, pensionati, artisti di strada, impiegati, agricoltori, artigiani - che versano in una cassa comune i propri stipendi e che una volta prelevata una paga uguale per tutti, impiegano le restanti risorse per le spese comuni, ovvero per le cure mediche, educazione dei bambini, parco auto, energia, cibo, abitazione ecc. Un'utopia? Eppure è quanto avviene da quasi quarant'anni nella Comune di Bagnaia. La Comune infatti esiste dal lontano 1979 ed insiste su un podere di 80 ettari sui colli senesi, i suoi abitanti, dopo aver acquistato il podere ne hanno ceduto la proprietà all'associazione. Oggi metà di loro lavorano fuori e metà nel podere che produce vino, olio, miele, carne, ogni genere di ortaggi, conserve, pane, formaggi e insaccati. C'è un parco auto con ottimi sconti assicurativi, ne bastano 6 o 7 per tutti. Si produce un secchiello scarso di spazzatura al giorno in 18, poiché si compra all'ingrosso, il latte delle mucche e le verdure dell'orto non hanno imballaggi, le bucce e gli scarti organici vanno al compost. Così rimangono solo i tovagliolini di carta da buttare! Le decisioni vengono prese con la metodologia del consenso e le idee che accomunano i membri sono di stampo pacifista e libertario, laico. Gli ecovillaggi sono tutti molto diversi tra di loro, ma ci riconciliano con un aspetto che anche i progressisti hanno perso per strada, nella misura in cui le loro azioni muovono da concetti astratti in società statalizzate costituite di regole e relazioni anonime: la dimensione comunitaria , a volte tribale, che si reinserisce a pieno nella modernità attraverso un dialogo stimolante. Gli ecovillaggi risvegliano i fondamenti stessi delle democrazie: così come l'Agorà ateniese (piazza del mercato dove confluivano le messi delle campagne dell'Attikì), sono luoghi nei quali il rapporto tra le persone è indissolubilmente legato al rapporto tra la civiltà e la natura circostante.
Un altro modo di vivere Francesca Guidotti, che oggi compie 27 anni ed è la neo-presidente della rete nonché l'autrice del libro Ecovillaggi e cohousing , ci racconta: «Chi cerca un posto per questo tipo di esperienza parte dal bisogno di trovare un punto fisso per la propria vita, spesso lontano dalla città, sia per ritessere un rapporto con la natura, sia perché le aree rurali permettono di soddisfare almeno parte del proprio fabbisogno alimentare. Le chiavi sono il vivere comunitario, il pensare ecologico e il volersi migliorare. Trasformare un territorio dismesso o abbandonato è un modo per oggettivare la scoperta di sé, come fece Carl Gustav Jung verso la fine della sua vita costruendo una casa-simbolo del suo lavoro psichico. Appartenere ad un luogo dà la misura fisica dei cambiamenti che siamo in grado di operare, su scala locale e globale. Stranamente però questo dono di sé al luogo non crea attaccamento ed i moderni ecovillaggisti si spostano molto: grazie anche al supporto della comunità sono più liberi e meno vincolati rispetto ai componenti delle piccole famiglie contadine». E conclude: «La vita di tutti i giorni tuttavia pone problemi molto concreti e per risolvere gli eventuali conflitti bisogna attrezzarsi. Risulta così indispensabile dotarsi di strumenti adeguati sul piano della facilitazione e della progettazione condivisa: comunicazione non violenta, comunicazione empatica, metodologia del consenso, dragon dreaming , permacultura, sono alcune delle tecniche usate nella maggior parte degli ecovillaggi. Infatti dal dopoguerra in poi, abbiamo sviluppato una cultura fortemente individualist a in cui paghiamo per avere ciò che vogliamo e non dobbiamo chiedere più nulla a nessuno. Abbiamo disimparato a chiedere, a contrattare. In questo caso invece del denaro si impara ad usare la mediazione e la relazione per arrivare a realizzare i propri desideri. Non ultima poi la dimensione spirituale, una caratteristica diffusa in molti eco villaggi. quelli a matrice spirituale o dotati di forti ideali sono i più saldi, poiché le pratiche di consapevolezza, i rituali e gli obiettivi condivisi tessono fili invisibili ed aiutano a trovare una guida nelle proprie scelte».

PISA
La «nuova polis» pisana dell'ex Colorificio
di Enzo Scandurra

Arrivato alla stazione di Pisa, viene a prendermi Fausto. Ci riconosciamo subito come succede spesso - e misteriosamente - tra compagni. Mentre ci rechiamo all'ex colorificio liberato, mi parla del convegno, dell'occupazione, delle attività che si svolgono nell'area dismessa. Lo fa senza ostentare fanatismo, con un tono quasi professionale da cui traspare però passione e speranza. Ero già stato a Pisa anni prima sempre invitato da Serena, quando ancora l'occupazione riguardava Rebeldìa. Dal 20 ottobre quel gruppo ha invece liberato, e occupato, una ex fabbrica, un ex colorificio di 14mila metri metri quadrati, non distante dalla Piazza dei Miracoli. Fausto mi parla del convegno: due giorni di discussione con architetti e urbanisti sul tema delle aree dismesse e di come utilizzarle per rivitalizzare la città di Pisa. Nel programma è ben messo in evidenza come si voglia superare il concetto di "valorizzazione" immobiliare e dell'irremovibilità del costruito nell'interesse della collettività: basta consumare suolo e risorse. Fausto ci tiene a farmi visitare l'ex colorificio, mostrarmi i lavori e le iniziative già allestite. Laboratori di aggiustaggio e falegnameria, di ceramiche, una ciclofficina di biciclette, sala del teatro. In una delle grandi sale c'è anche un trapezio per equilibristi; in un'altra sono state realizzate pareti artificiali per l'allenamento alle scalate. Fanno parte della comitiva esplorativa due altri compagni che non conosco e che poi si presentano come architetti che lavorano su altre aree di Pisa, come lo stadio di calcio ormai in disuso. Fausto ci fa vedere altre sale vuote in attesa di decidere che iniziative potrebbero accogliere. Dovunque ci sono persone affaccendate in qualche lavoro: la fabbrica funziona di nuovo, ma per altri scopi e per produrre altre merci, diverse da quelle fordiste: adesso si producono beni comuni, relazioni, convivialità; si coltivano speranze. A me viene in mente quel vecchio film di Truffaut, Fahrenheit 451 , ambientato in un futuro opprimente dove una società despotica e autoritaria ha messo al bando (anzi al rogo) i libri diventati merce clandestina e antisociale. Il corpo dei vigili urbani è continuamente al lavoro per bruciare i libri nascosti da abitanti sovversivi. Così si infoltisce la comunità - il popolo-libro - di coloro che, perseguitati e ricercati dalla polizia, trovano rifugio nelle foreste. Ognuno di loro, per salvaguardare il patrimonio di sapere dei libri, ne impara uno a memoria. Ogni uomo diventa un libro vivente, dal Pinocchio di Collodi al David Copperfield di Dickens. Quando inizia il dibattito, mi sento inadeguato. Mi sembra che tutto quello che avrei da dire sul tema stabilito dal convegno, "Cartografia del desiderio. Per la creazione di una nuova Polis", loro lo stanno già tentando di realizzare. Stanno progettando anticipazioni di un futuro di città. I crateri che emergono dalle macerie della città fordista, si riempiono di iniziative sociali. Serena fa il medico all'ospedale, è una delle principali protagoniste dell'occupazione. Qui, dentro l'ex fabbrica fordista, mi sento finalmente a casa, sento che si sta tentando di realizzare qualcosa di importante. Fuori il mondo impazzito che magari in quest'area vorrebbe realizzare case, centri commerciali, multisale e chissà quali e quante altre diavolerie con la scusa di ripianare i debiti comunali, valorizzare le aree, fare profitti. Mi chiedo se ce la faranno Serena, Fausto e tutti gli altri a tenere, a resistere e anzi a trovare una sponda nell'amministrazione. Non sono isolati, si sta tentando di attivare una rete che colleghi queste esperienze che proliferano sempre di più in tante città italiane. Il Teatro Valle Occupato, il cinema Palazzo a Roma sono ormai riferimenti nazionali che producono speranze e aspettative, contagiano. Faccio fatica, con la mia vecchia educazione al posto fisso, a convincermi che qui si sprigiona un'energia nuova, che si tenta di ripristinare vecchi mestieri e sapienze andate in malora con la mitologia dello sviluppo. Dico a Serena che ho un cagnolino che mi aspetta a casa, non posso restare oltre le otto di sera, c'è l'ultimo treno che ferma a Termini. Lo dico per darmi una ragione per non rimanere, perché questo invece desidererei fare. Fermarmi qui con loro non tanto per continuare a parlare, ma per trovare un mio posto dove materialmente partecipare alla costruzione di questo futuro ancora incerto e pieno di aspettative e speranze. La festa deve ancora iniziare ma Serena e Fausto mi fanno preparare un piatto di pasta e un dolce. Ecco, sto a casa, in una grande famiglia, accolto come un vecchio amico, magari uno zio. Peccato non aver portato il mio cagnolino. Insieme potevamo restare.

MILANO
Il centro sociale degli sfrattati
di Giorgio Salvetti

Uno Spazio di mutuo soccorso per senzacasa nella Milano dell'Expo. Dove il mercato immobiliare è crollato, 5 mila persone sono state sfrattate e altre 19 mila lo saranno

Ale ha 19 anni. Ha passato tutta la sua giovane vita tra occupazioni e sgomberi. È un "abusivo", se così si può chiamare chi è costretto a combattere in prima persona per avere un tetto che le istituzioni non sono in grado di garantire. Si chiama diritto alla casa. E a Milano, come in molte altre città italiane, è sempre più una chimera. Adesso Ale ha finalmente trovato un posto sicuro dove vivere con suo padre e sua madre che hanno 60 anni. Si chiama Sms, Spazio di Mutuo Soccorso. Sono tre palazzine di quattro piani occupate lo scorso 24 aprile dal centro sociale Cantiere e dal comitato degli abitanti del quartiere di San Siro. Dopo due mesi qui ci vivono 20 nuclei familiari, un totale di una sessantina di persone, bambini e anziani compresi. Ma non si tratta solo di un luogo abitativo. A Sms hanno trovato casa anche molte altre iniziative: una università popolare, spazi espositivi, prossimamente anche una palestra popolare. È un altro modo di abitare la città e di renderla viva e attiva. Case da matti Milano negli ultimi decenni ha vissuto sul business del mattone. Dopo i fasti dell'epoca industriale i soldi hanno girato intorno alle speculazioni nelle aree dismesse grazie a enormi crediti delle banche, alla connivenza dei politici e a non poche ingerenze della malavita. Una colata infinita di cemento e di malaffare. Lo skyline della città è cambiato e si è riempito di gru e grattacieli avveniristici destinati a ospitare uffici e abitazioni di lusso, le uniche che ancora si riescono a vendere. Poi è arrivata la crisi, il mercato immobiliare è crollato. Alcune dei suoi protagonisti sono falliti - come Zunino o Ligresti - ed è caduto anche Roberto Formigoni. L'ultimo scossone che ha messo fino all'impero del governatore Celeste è stato l'arresto del suo assessore alla casa, Domenico Zambetti, accusato fra le altre cose di comprare i voti dalla 'ndrangheta. Mentre non si faceva altro che costruire la città si impoveriva e sempre più persone non riuscivano ad avere un tetto sopra la testa.

A Milano ci sono 23 mila famiglie in lista d'attesa per avere una casa popolare, ogni anno ne vengono assegnate solo mille: 500 in virtù delle graduatorie, l'altra metà per rispondere ai casi di emergenza che sono in vertiginoso aumento. Nel 2012 sono stati effettuati 4.924 sfratti quasi tutti per morosità e le richieste di sfratto sono 19 mila. Eppure ci sono ben 5 mila case popolari vuote, riscaldate, ma chiuse da inferriate di ferro: duemila del comune e 200 dell'Aler, l'ente che gestisce l'edilizia popolare e che dipende dalla Regione. Gli appartamenti privati sfitti sono ben 80 mila. Senza contare l'enorme numero di spazi inutilizzati per uffici, ex caserme e ex fabbriche. Il centro sociale Macao dieci giorni fa ha deciso di andarli a segnalare: hanno scritto le cifre dei metri quadrati inutilizzati a caratteri cubitali sulle pareti degli edifici fantasma. Ecco solo qualche esempio: ex macello in via Lombroso, Torre Galfa, ex provveditorato in via Ripamonti 9.000. In totale 916 mila metri quadrati vuoti, per una superficie pari a quasi 85 campi da calcio. Spazio di mutuo soccorso Il cancelletto di Sms si apre con un pulsante elettronico, come in qualsiasi palazzo che si rispetti. «Abbiamo anche il telecomando del cancello grande». Si fa sul serio. C'è anche la madonnina storica che veglia su un ampio cortile alberato. C'è il bar, il palco, la domenica si fanno grigliate e il martedì il cineforum. Al primo piano del primo palazzo c'è l'area di mutuo soccorso, si chiama Crise , ed è un mercatino di scambio solidale per affrontare attivamente la crisi. Una serie di ampi locali appena imbiancati ospita oggetti di ogni tipo, vestiti, libri, attrezzi per la casa, lo spazio per i bambini con i laboratori, info point con i computer e la rete. Al primo piano è già funzionante l'università popolare. Nelle aule con tanto di parquet e lavagne si tengono lezioni di italiano per stranieri, di inglese, spagnolo e arabo, oltre a corsi di aggiornamento per gli insegnanti. Negli altri due piani vivono le famiglie. Così come nel palazzo accanto. Dove al pian terreno si sta allestendo una grande palestra popolare. I muri dell'intonaco dei palazzi sono ancora scrostati ma sono in parte ricoperti da grandi graffiti. Il terzo edificio non è ancora abitato, per il momento ospita una mostra artistica e fotografica sugli sfratti in Italia (ci sono anche le lettere dei vari prefetti conservate in teche di vetro). La storia di questi palazzi è tipica. Sono di proprietà di una grossa immobiliare che da vent'anni sfratta gli abitanti e lascia andare tutto in malora in attesa di far fruttare gli stabili in ben altro modo. Gli abitanti di San Siro Sotto gli edifici ci sono le "cantine sociali". Il vino non c'entra. Sono destinate a ospitare i mobili e gli oggetti di chi è stato buttato fuori casa e non sa dove tenerli. Ale sa di cosa parla. Tra uno sgombero e l'altro, ha dovuto vivere con i suoi genitori dentro una baracca costruita in un orto di periferia abbandonato. È lì che doveva tenere le sue cose, mobili compresi, in attesa di ritrovare un tetto. Ha fatto tanti lavoretti, in famiglia adesso lavora solo sua madre, fa le pulizie in un ospedale, ma i soldi per un affitto non ci sono. L'ultima volta è stato sgomberato con la forza dalla polizia in assetto antisommossa che ha caricato gli abitanti del quartieri in presidio, compresi i bambini e le donne incinta. A San Siro dal 2009 si è costituto un comitato di abitanti, "abusivi" e non. All'inizio si trovavano in piazza Selinunte per organizzare manifestazioni e picchetti anti-sgombero, Poi sono cresciuti, adesso hanno uno sportello per la casa dove offrono assistenza ma chiedono in cambio partecipazione. A Sms non ci sono solo ex occupanti per necessità, ma anche persone che hanno perso la casa, classe media, colpita dai pignoramenti sempre più frequenti. Il comitato mette tutti insieme e impedisce che si sviluppi una guerra tra poveri dove tutti sono sconfitti. Adesso fanno parte di "Abitare la crisi", la rete nazionale che chiede lo stop degli sfratti e degli sgomberi e che manifesterà il 19 ottobre a Roma con molte altre realtà. Spazio comune A Milano, in piena era Pisapia, gli sgomberi continuano. Sia degli occupanti di case che degli occupanti di spazi sociali. La pasdaran della legalità a tutti i costi in tema di case, l'ex segretaria Sunia Carmela Rozza, prima è stata capogruppo del Pd a Palazzo Marino e poi è stata promossa assessore ai lavori pubblici. Il vice sindaco Lucia De Cesaris pochi giorni fa ha bacchettato i ragazzi del Cantiere che avevano organizzato una sessione di writing per colorire una squallido cavalcavia proprio di fronte ai mega grattacieli appena costruiti in zona Garibaldi-Repubblica. Pisapia qualche mese fa si è fatto fotografare con tutina bianca e pennello mentre copriva i graffiti. Immagini simbolo che stanno compromettendo il rapporto tra la giunta e quel vasto movimento che l'ha portata alla vittoria. Nel giro di poche settimana è stato sgomberato il centro sociale Zam - con tanto di manganellate ai cittadini venuti a protestare davanti a palazzo Marino - e Remake, ovvero l'occupazione del cinema Maestoso, uno spazio immenso inutilizzato in zona corso Lodi. In quell'occasione i manifestanti sono riusciti a entrare a Palazzo Marino e hanno scambiato qualche battuta con la vice-sindaco che per lo meno ha accettato un breve confronto. Nulla di più. Il comune ha appena annunciato di voler destinare uno grande spazio da 1.550 metri quadri vicino alla strada dei vip, corso Como. Sarà destinato a creativi, spazi espositivi, show room, coworking e il bando per l'assegnazione è aperto fino al 30 settembre. Ma per risolvere la fame di spazi della città ci vuole ben altro. Intanto Palazzo Marino sta cercando di capitalizzare - ovvero liquidare - una quarantina di palazzi di sua proprietà per far fronte a un bilancio sempre più magro e spolpato dalle enormi somme destinate a Expo 2015. E Pisapia dovrà trovare il modo di convincere il nuovo governatore lombardo, Roberto Maroni a rifinanziare l'Aler che, dopo vent'anni di Formigoni, ha un buco di 80 milioni di euro. A Ferragosto i ragazzi del Cantiere e gli abitanti di Sms offrono un festa a base di tango proprio sotto le finestre di palazzo Marino sperando che il Comune li ascolti. Si tratta di una delle tante iniziative della kermesse itinerante "Occupy Estate" che coinvolge tutti gli spazi sociali e i movimenti milanesi e che si concluderà con un grande concerto ai primi di settembre.

La Nuova Sardegna, 7 agosto 2013

Il Piano paesaggistico regionale (Ppr) è diventato lo strumento ufficiale della pianificazione del territorio sardo il 25 novembre del 2004 e rappresenta ancor’oggi un esempio di tutela avanzatissimo. Preceduto dalla legge salvacoste, che congelò i progetti edificatori in corso all’epoca, venne elaborato dall’Ufficio del piano, coordinato dalla dirigente regionale Paola Cannas, su «ispirazione» di un gruppo di lavoro guidato da Edoardo Salzano, che stabilì un quadro di regole perfettamente ancorato alle disposizioni del Codice del Paesaggio o Codice Urbani, la legge nazionale che disciplina gli interventi sul paesaggio e la sua difesa secondo i dettami costituzionali. Sostenuto dagli ecologisti e contestato da diverse aree politiche e dalla grande impresa immobiliare, il Ppr ha retto a tutte le prove giudiziarie, uscendo rafforzato da sentenze del Consiglio di Stato che ne hanno confermato la legittimità. Le norme del Ppr servono a tutelare i beni culturali, identitari e paesaggistici della Sardegna in nome dell’interesse generale alla loro conservazione come patrimonio collettivo.

Fin dalla campagna elettorale, il governatore Ugo Cappellacci ha annunciato che la sua giunta avrebbe lavorato alla modifica di queste norme, considerandole troppo restrittive, per favorire la ripresa dell’attività edilizia anche sulle coste. Ad oggi il Ppr in vigore è quello approvato nel corso del governo Soru, ma le recenti leggi su golf e usi civici annunciano una revisione profonda delle tutele che potrebbe cambiare il futuro della Sardegna.

E’ una corsa contro il tempo:meno di un mese e mezzo per modificare il piano paesaggistico regionale e renderlo compatibile con la legge sul golf, la famigerata legge che minaccia il paradiso naturale di Tentizzos, e con la versione riveduta e corretta degli usi civici. Appena rientrato da un incontro romano col ministero dei Beni culturali, Ugo Cappellacci promette di raggiungere l’obbiettivo annunciato («percorso avviato, andremo avanti») e l’assessore all’urbanistica Nicolò Rassu gli fa eco: «I tempi stabiliti a marzo saranno rispettati». Metà settembre dunque, massimo l’inizio dell’autunno e gli uffici di viale Trento consegneranno alla giunta lo strumento destinato a migliorare - così sostengono - il Ppr di Renato Soru, quello ispirato alle idee del grande pianificatore Edoardo Salzano. Il primo di ottobre, stando sempre alle previsioni, si dovrà firmare il protocollo d’intesa col Mibac che spianerebbe la strada all’adozione del nuovo Ppr.

Qualcosa però non torna: se per la ricognizione degli oltre diecimila beni tutelati dal Ppr nell’isola e le prescrizioni d’uso erano stati previsti almeno 210 giorni di attività, i gruppi di lavoro chiamati a operare per la revisione del piano sono stati costituiti meno di due mesi fa, la determinazione firmata dal direttore generale dell’urbanistica Marco Melis è datata 10 giugno. Da allora ad oggi i funzionari chiamati a collaborare non hanno messo mano ad alcuna pratica legata al Ppr, non uno studio, una cartografia, niente di niente. Quindi a meno che Cappellacci e Rassu non intendano precettare gli uffici, bloccare i piani ferie e imporre in pieno agosto ai funzionari ritmi di lavoro forsennati, è impossibile che un intervento delicatissimo e complesso come quello annunciato possa essere realizzato alla scadenza confermata ancora ieri. L’altra volta, quando la Regione mise in moto la macchina del nuovo Ppr, l’assessorato aveva dato agli uffici dodici mesi di tempo: era il 2010 e fu la Procura della Repubblica - ricordiamo quei fatti in un servizio a parte - ad accertare come al 28 dicembre 2011 il lavoro di revisione non fosse neppure cominciato. Esattamente la stessa situazione di oggi, a sentire i funzionari che sulla carta dovrebbero essere impegnati alacremente nell’esame analitico di vincoli e tutele territoriali. Allora com’è che i vertici regionali si dichiarano certi di farcela?

Escluso che si tratti di un bluff, una risposta ci sarebbe: si chiama progetto Scus - Schema per il corretto uso del suolo - finanziato con la legge 14 del 14 luglio 2012. In pillole: un folto e articolato gruppo di lavoro esterno, chiamato a collaborare con i comuni per adeguare i piani urbanistici al Ppr. La Regione ha messo in conto 635 mila euro da spendere in due anni e mezzo per pagare 24 tecnici reclutati al di fuori dai ruoli pubblici, che da mesi operano sotto la vigilanza del comitato tecnico e del direttore generale Melis, occupandosi del nuovo Ppr, formalmente all’insaputa dei funzionari dipendenti dall’amministrazione regionale ma negli stessi uffici. A coordinarli è un ingegnere, Stefania Zedda, anche lei chiamata dall’esterno e considerata vicina al direttore generale Marco Melis. Come dire che cancellato l’ufficio del piano - allestito da Soru e dall’allora assessore all’urbanistica Gianvalerio Sanna, ingegneri e altre forze interne alla Regione messe insieme per elaborare il materiale tecnico alla base del Ppr - Cappellacci sembra aver affidato l’intervento di revisione del piano paesaggistico a un gruppo parallelo di strettissima fiducia, selezionato con criteri non dichiarati e pagato in base a contratti co.co.pro sconosciuti anche ai sindacati. Chiamato dalla Nuova Sardegna a chiarire se è così che il lavoro sta andando avanti e il perché di questa scelta, l’assessore Rassu ha risposto attraverso il suo addetto stampa di essere impegnato in attività istituzionali. Neppure cinque minuti per spiegare come siano stati reclutati i componenti del gruppo di lavoro per il progetto Scus, perché al 6 agosto 2013 i gruppi di tecnici interni siano ancora con le mani in mano e per quale motivo funzionari regionali di grande esperienza, che conoscono il Ppr per averci lavorato due anni sotto la giunta Soru, siano stati in parte inseriti nei gruppi ma finora esclusi dall’attività. In attesa delle risposte, alcuni funzionari regionali si preparano a ostacolare la fase conclusiva del lavoro di revisione: alla fine potrebbe mancare qualche firma fondamentale.

In ballo c’è l’ok delle sovrintendenze: senza quello il nuovo piano finirebbe nel nulla.
Nell’ampia intervista al neo Assessore all’Urbanistica di Roma, Giovanni Caudo, ritorna finalmente una visione della città governata da una regia pubblica, sulla base di obiettivi chiari e trasparenti. Il Sole 24Ore, Edilizia e Territorio, 5 agosto 2013 (m.p.g.)

La stagione degli accordi di programma progettati dai privati e dove l'amministrazione mette un "timbro" è chiusa. Sugli accordi con i privati ci sarà una regia forte dell'amministrazione capitolina e una tutela altrettanto forte dell'interesse pubblico. Per l'urbanistica romana si apre una nuova stagione all'insegna della "qualità" a tutto campo: qualità architettonica, cioè sul singolo manufatto, qualità urbanistica, che armonizzi gli interventi a livello di quartiere, qualità di gestione amministrativa dell'intero processo, per monitorare l'intervento dopo la convenzione in modo da prevenire contenziosi. Inoltre i privati possono dire addio agli ambiti di riserva: le aree verdi dell'agro romano non si toccano, saranno cancellate.

In compenso il Comune troverà le aree - ma anche i fabbricati da trasformare - per realizzare le case che servono. A partire dalle fasce più basse della popolazione. La Capitale ha bisogno subito di almeno 3mila alloggi per altrettante famiglie povere. Lo strumento principe della trasformazione urbana sarà il Print, cioè lo strumento previsto dal piano regolatore, ma rimasto sostanzialmente inutilizzato. Basti pensare che su 162 programmi integrati, solo uno, quello di Pietralata, è arrivato a maturazione. Le regole saranno riviste. Ci sarà anche una "manovrina" urbanistica, necessaria per risolvere la questione delle cosiddette "aree bianche", cioè le perimetrazioni che sono sfuggite, per errori o imprecisioni, alla zonizzazione di dettaglio del Prg. Non si tratta di poca cosa: sono state censite 228 di queste "aree bianche", di ampiezza variabile tra i 2.000 mq (per l'80%) fino ad arrivare a 5.000 mq. In definitiva si tratta di riassegnare funzioni a un'estensione di circa 480mila metri quadrati di territorio. Contestualmente, la manovrina urbanistica servirà anche a riaggiornare le funzioni dei servizi, dopo la scadenza dei vincoli fissati dal Prg. Ma oltre a governare l'urbanistica della Capitale, la sfida che il nuovo assessore ha preso di petto fin dal primo giorno di insediamento è quella di saltare sul treno dei fondi europei. Non è un caso che appena insediato come assessore all'Urbanistica, Giovanni Caudo, ha dedicato il primo atto amministrativo a spronare i suoi uffici a lavorare sulle proposte sulle quali chiedere le risorse 2014-2020 a valere sui fondi Fesr. L'altro obiettivo è quello di strappare risorse per la rigenerazione urbana anche dal Pon, dove Roma è in competizione con altre 12 città metropolitane (Torino, Milano, Genova, Bologna, Venezia, Firenze, Napoli, Bari, Messina-Reggio Calabria, Catania, Palermo, Cagliari).

Per dedicarsi interamente al governo dell'urbanistica romana, Giovanni Caudo ha pensato bene di sospendere la sua attività di docente interrompendo per ora i suoi corsi di Urbanistica alla Terza università di Roma. In questa articolata intervista "programmatica" rilasciata a «Edilizia e Territorio», Giovanni Caudo, tratteggia le linee guida del suo mandato nella nuova giunta guidata da Ignazio Marino. E comunica subito quali saranno i grandi progetti simbolo sui quali si misurerà la capacità del nuovo sindaco di Roma di migliorare la Capitale. I cinque macro-obiettivi che entrano nelle priorità dell'agenzia urbanistica sono l'asse Tiburtina-Pietralata; l'asse Roma-Fiumicino; gli ambiti del Tevere e dell'Aniene a Nordest; lo sviluppo urbano tra Roma e il mare; la valorizzazione delle aree archeologiche dell'Appia Antica e dei Fori. Questi nuovi "landmark" urbanistici della giunta Marino, sui quali cercherà di catalizzare i fondi europei per le politiche urbane, prendono il posto degli obiettivi della scorsa amministrazione Alemanno, tra cui la maxi demolizione di Tor Bella Monaca o la riqualificazione del waterfront di Ostia o la trasformazione della vecchia Fiera di Roma. II messaggio forte che Caudo vuole lanciare è che il prodotto finale sul territorio, sia esso il singolo edificio, sia esso l'assetto urbano a dimensione di quartiere, risponderà sempre a principi di qualità, architettonica e urbana. Per questo, quando possibile, si utilizzerà lo strumento del concorso di progettazione. Il sigillo di "qualità" di questo processo sta in una "certificazione" che sarà anche la garanzia che consentirà l'utilizzo delle risorse comunitarie. La struttura interna chiamata a governare questo processo sarà potenziata, con la creazione di unità operative, che Caudo sta selezionando, «a partire dalle risorse interne», sia pescando tra i 459 dipendenti dell'assessorato all'Urbanistica, sia tra i 676 impiegati della Spa capitolina Risorse per Roma.

Assessore, nel suo ruolo di docente universitario ha dedicato una particolare attenzione ad approfondire il tema casa. Secondo lei, esiste un'emergenza casa nella Capitale?
Certo che c'è un'emergenza. La casa è un'emergenza reale. In cima alla lista di chi chiede un alloggio popolare ci sono 3mila richieste di altrettante famiglie che hanno raggiunto il massimo del punteggio. Serve una risposta immediata, serve un piano straordinario di 3mila alloggi di edilizia sovvenzionata per dare una casa a queste famiglie. Sicuramente va affrontato anche il tema del disagio abitativo per quanti non riescono ad avere accesso né alla casa economica e nemmeno a quella del mercato libero.
Per rispondere a questa esigenza era stato varato il fondo dei fondi finalizzato all'housing sociale gestito dalla Sgr della Cassa depositi e prestiti. È un modello che funziona secondo lei?
A distanza di qualche anno dall'avvio dell'iniziativa i risultati sono deludenti, se confrontati con le aspettative. Ma la strada non può che essere un incontro tra privati e un investitore "paziente", di lungo periodo. Al modello del fondo dei fondi però manca qualcosa. Non è stato messo bene a punto.
Cosa manca?
Non abbiamo sviluppato la figura del gestore sociale, che in Italia manca e che invece nelle esperienze positive di altri Paesi assicura l'utilità sociale. La cosa che più si avvicina in Italia a una figura di questo genere è la cooperativa a proprietà indivisa.
Come si può garantire la qualità progettuale degli interventi di social housing?
Bisogna verificare tre condizioni: il suolo si deve comprare a basso costo, le risorse economiche non devono avere carattere speculativo e la gestione non deve gravare sul canone, altrimenti si rischia di non conseguire l'obiettivo. Per questo ultimo punto fondamentale è la qualità del progetto. Sempre all'estero, i piani di manutenzione ordinaria e straordinaria vengono fissati a monte, solo a quel punto la qualità del progetto è più garantita.
A Roma le aree ci sono? Non serve attingere alle aree di riserva?
Gli ambiti di riserva saranno cancellati. Le aree pubbliche esistono. E un patrimonio enorme. Immobili pubblici, aree ed edifici, localizzati spesso nelle aree già urbanizzate e dotate di infrastrutture di trasporto possono costituire un importante fattore in mano al soggetto pubblico per governare i processi di trasformazione urbana e per coinvolgere in questi processi i privati. All'interno di questa strategia si possono reperire le aree per l'edilizia sociale.
Quale ruolo deve avere il pubblico nella trasformazione della città? Azioni concrete da cui partire?
Per anni il rapporto pubblico-privato ha scontato una carenza della regia pubblica. Ci sono centinaia di contenziosi aperti tra il Comune e i privati che scaturiscono da un mancato controllo qualitativo della convenzione e della sua attuazione. Il nostro dipartimento ha un grande potenziale. La riorganizzazione della struttura a cui sto lavorando punta ad assicurare la qualità di questa fase del processo amministrativo. Anche perché da questi processi dipendono risorse importanti per l'economia della Capitale. Questo dipartimento immette nel sistema economico 420 milioni di euro, 200 milioni in moneta e 220 milioni di opere, cui si aggiungono 320 milioni di euro di opere a scomputo. Da permessi di costruire il Comune ricava 60 milioni di euro. E un importante ingranaggio per l'economia locale, anche se nell'ultimo anno i valori si sono dimezzati, e sono anzi aumentati i casi di imprese che restituiscono i permessi.
E secondo lei quale deve essere il rapporto del pubblico con i privati?
Abbiamo visto interventi scritti dai privati e accettati dall'amministrazione senza pensarci più di tanto. E sono fallite, vedi le ex Torri delle Finanze all'Eur (che dovevano lasciare il posto a un complesso residenziale di lusso promosso da Fintecna, ndf). Abbiamo davanti i ruderi della finanza ad alta intensità speculativa - come l'edificio tra Viale Giustiniano Imperatore e viale Cristoforo Colombo oppure il complesso per uffici a piazza dei Navigatori (entrambi promossi da Acqua Marcia, ndf) - che la città non può permettersi. Vogliamo invertire questa tendenza e dare certezza sia alle imprese, sia all'amministrazione. L'80% delle trasformazioni urbane lo realizziamo già oggi insieme ai privati, questo rapporto non può essere gestito in modo così approssimato come negli anni passati. Vogliamo dare certezze alle piccole e medie imprese che ci sarà una Pa che controllerà il rapporto pubblico-privato, che vigileremo sui tempi e le procedure. E questo approccio cercheremo di farlo permeare in tutte le iniziative, grandi e piccole.
Servirà una riorganizzazione interna?
Assolutamente sì. E una priorità. Risorse per Roma oggi conta 676 dipendenti (mentre nel 2008 erano 198) e le risorse interne all'assessorato sono 459. Riorganizzare il dipartimento non è mai stato oggetto di investimento, aree operative non sono strutturate secondo precisi obiettivi. La struttura che ho trovato riflette una pianificazione di vecchia maniera. Sto formando un unità operativa che verifichi il controllo della qualità, una che si preoccupi di farla permeare in tutte le iniziative, individuando di volta in volta gli strumenti più adatti. Una mia priorità è la certificazione, non solo degli edifici ma dei quartieri, con l'obiettivo di intercettare i finanziamenti europei per la rigenerazione urbana.
Cosa intende per certificazione?
Dobbiamo alzare l'asticella delle aspettative. Deve essere un obiettivo condiviso dalla Pa, costruttori, progettisti. Una mission del pubblico e del privato. In questo contesto promuoveremo anche dei concorsi di architettura e per temi urbanistici. In particolare ai giovani, forse ai giovani architetti romani potremo chiedere idee sperimentali per una nuova idea di trasformazione urbana.
Concorsi. Ha già qualche idea per qualche tema?
Nel Progetto Urbano Flaminio che intendiamo riprendere, dove si colloca anche l'intervento sulle Caserme di via Guido Reni, e dove il sindaco Ignazio Marino vuole realizzare il Museo della Scienza a pochi passi dal Maxxi, in quel caso lo strumento giusto è quello del concorso di progettazione internazionale.
E per i giovani?
Se immaginiamo un nuovo modello di Print, potremo costruire tanti spazi pubblici dove oggi manca un disegno urbano. Paesi come Olanda e Spagna fanno lavorare anche i loro giovani professionisti in questi contesti. Perché non possiamo fare altrettanto?
La precedente giunta ha lavorato per far decollare progetti ambiziosi, annunci che per ora non hanno avuto fortuna. Secondo lei, quali grandi progetti prioritari per Roma?
Non credo che Roma oggi abbia bisogno di progetti che lasciano il segno, dovremo governare bene le aree in cui è già in atto una trasformazione. Penso al quadrante Est dove c'è la nuova stazione Tiburtina che oggettivamente oggi non funziona, dove salirà la nuova sede di Bnp Paribas e si sta costruendo un nuovo insediamento in via della Lega Lombarda.
Si riferisce all'area di Pietralata?
Insieme 1 comprensorio di Pietralata e all'adiacente Print, si configura uno dei più grandi interventi di trasformazione urbana in Europa. Sarà interessante monitorare il processo di valorizzazione anche del tessuto minuto. Ci sono ampi lotti ancora disponibili. Il tutto collocandoci anche in un contesto di città metropolitana.
Come contate di affrontare l'operazione dell'ex Fiera di Roma, uno dei progetti che Alemanno ha ereditato dalla giunta precedente?
A breve incontrerò gli uffici della Fiera che si occupano del progetto per discuterne. Ma la vera questione non è tanto la vecchia fiera da trasformare, bensì il piano industriale della nuova Fiera. Cioè capire come vuole crescere e posizionarsi in un circuito internazionale e di come vuole aumentare la sua capacità attrattiva, valorizzando l'asse Roma-Fiumicino. Se invece la valorizzazione immobiliare è solo vista in funzione di ripianare i debiti della nuova Fiera, la questione è malposta.
Che ne pensa della trasformazione di Tor Bella Monaca?
Sono sempre stato contrario alla soluzione Alemanno. A Roma ci sono altri 113 quartieri come Tor Bella Monaca dove vivono 500mila abitanti, servono azioni meno eclatanti ma che siano più utili alla città, a tutta la città. Intendiamo tenere insieme la città, lavorare su più fronti, creando occasioni anche per chi vuole fare impresa.
Avete già incontrato i rappresentanti dei costruttori?
Sì. I costruttori dell'Acer hanno capito e condiviso il messaggio della nuova amministrazione. L'impresa potrà svolgere la propria azione e all'amministrazione spetta una regia pubblica della trasformazione urbana per affermare il principio che la città è pubblica.
Ha ancora senso parlare di centralità, il simbolo della città policentrica?
Buona parte delle centralità è stata pianificata. Ci sono alcune grandi aree di privati da pianificare.
Le principali sono Romanina e Acilia Madonnetta.
Su Acilia Madonnetta abbiamo attivato un'unità operativa che si occupa dell'area tra Ostia e il mare, che è una sorta di "città che non c'è". Una città che oggi non ha una maglia strutturale ma che potenzialmente vale molto anche per la presenza della pineta, di Ostia Antica, della rete dell'abitato: si tratta di un'area con 220mila abitanti. Va pensata in questo contesto complessivo.
E Romanina? Il proprietario Scarpellini ha proposto una versione molto densificata per sostenere i costi delle opere pubbliche.
Per noi la memoria di giunta sulla base della quale è stato modificato il dimensionamento non ha rilevanza. Ripartiremo da quanto prevede il piano vigente.
Intendete riaprire il cantiere urbanistico rimettendo in discussione le scelte del Piano regolatore?
Il Prg va attuato e chiuso. C'è nel frattempo una serie di pronunciamenti sulle compensazioni che stiamo valutando e che vanno governati.
In passato è stato fatto largo ricorso allo strumento dell'accordo di programma. Continuerete a fare accordi di programma per iniziative private?
Ci aggiungeremo una "U". La "U" di utilità sociale.
Il suo primo atto è stata una memoria di giunta sull'Agenda urbana nazionale, per intercettare i fondi europei.
Il tema è fondamentale e urgente. E per questo che ho subito dato impulso agli uffici per lavorare su cinque aree strategiche di riferimento per la città, in modo da definire piani di fattibilità e progetti da inserire nei piano operativo nazionale - lavorando con il ministro Trigilia - e nel piano operativo regionale del Lazio 2014-2020. Il tutto per arrivare all'Agenda urbana che permetta alle città di essere coinvolte nelle strategie di sviluppo finanziate con i fondi Fesr. Per l'Italia significa attingere a circa due miliardi di risorse complessive per lo sviluppo urbano sostenibile, e di cui Roma può legittimamente aspirare a conquistare una parte consistente.
È difficile progettare la qualità?
Non è difficile ma bisogna superare abitudini consolidate. Ci vuole veramente poco per includere nei progetti elementi innovativi tesi al risparmio energetico, all'efficienza, alla qualità architettonica. E non ci vuole molto, basta un 2% in più per fare di una cosa tradizionale una cosa migliore in grado di essere finanziabile con risorse Ue.
Più in generale, come vi muoverete per completare l'attuazione del Prg?
A ottobre promuoveremo una Conferenza urbanistica per recuperare la tradizione romana ma anche con l'obiettivo di avvicinare le esigenze della città alle azioni dell'urbanistica. Per noi sarà un'occasione di ascolto. Il Comune sarà promotore. Abbiamo incaricato l'Inarch di fare da regista. Ragioneremo su parole chiave, parte da qui la nostra sfida.
Continuerà a insegnare?
No, ho deciso di prendere un periodo di aspettativa. Ma per non perdere il contatto con gli studenti cercherò di fare un corso opzionale, ritagliando uno spazio nella giornata di sabato.
Roma non ha un Urban Center. Lei pensa che questo spazio serva alla città? Lo realizzerete?
La Conferenza urbanistica potrebbe essere il primo passo ma io non credo che per comunicare l'urbanistica alla città serva solo l'Urban Center. Ci sono tanti modi possibili per interloquire con la città. Comincerò inserendo sul sito dell'assessorato uno spazio per contattare l'assessore, la cosa più banale ma che oggi non c'è.
Il progetto Campidoglio2 andrà avanti?
Premetto che non rientra fra le mie competenze. Detto questo, credo che vadano valutati costi e convenienza. Dal mio punto di vista posso dire che il nostro dipartimento si organizza in cinque sedi distinte, per tre di queste paghiamo un affitto a Eur Spa di oltre quattro milioni. Manteniamo Eur Spa.

Un amministratore non applica una legge: non merita di essere condannato? La decisione della Cassazione direbbe di si. Quanti sindaci ha avuto Venezia dalla definizione della "conterminazione lagunare", cui applicare la legge Galasso? La Nuova Venezia, 7 agosto 2013, con postilla

Giù dalla Torre. È il titolo del saggio che l’urbanista veneziano Stefano Boato, docente dell’Iuav, ha dedicato proprio alla vicenda del progetto del Palais Lumière, uscito in questi giorni per la collana «Occhi aperti su Venezia» di Corte del Fontego Editore. Il testo ricostruisce in dettaglio tutti i passaggi amministrativi e burocratici della vicenda, compreso anche il carteggio intercorso tra il Comune e i Beni Culturali sull’esistenza del vincolo e le molte contraddizioni che l’hanno accompagnata.

Il Palais Lumière e il vincolo paesaggistico che c’è sempre stato, anche se nessuno - dal Comune alla Soprintendenza - sembrava essersene accorto. Il Comune ha già contestato e lo farà ora nuovamente, per iscritto - come ha ribadito ieri l’assessore all’Urbanistica Andrea Ferrazzi - la validità del vincolo sulla fascia paesaggistica di 300 metri dalla laguna previsto dai decreti Galasso, già in vigore da circa vent’anni. Nel frattempo, però, come è stato confermato ieri, per autotutela lo applicherà su tutti i nuovi progetti che verranno portati per l’approvazione all’attenzione di Ca’ Farsetti. A far scoppiare il caso, com’è noto, proprio la conferma dell’esistenza del vincolo paesaggistico sull’area in cui Pierre Cardin voleva realizzare il suo gigantesco palazzo di luce a Marghera e che l’Ufficio legislativo del Ministero ha ribadito nel maggio scorso al Comune, che chiedeva chiarimenti. «L’Ufficio conferma l’esistenza della fascia di tutela - scrivono tra l’altro i Beni Culturali rigettando il parere legale di Ca’ Farsetti - e la delimitazione dell’unitarietà dell’ecosistema lagunare consente di delimitare la fascia di rispetto paesaggistico di 300 metri». E non è possibile, escludere dal vincolo i canali artificiali, come chiedeva il Comune. «L’estensione del vincolo ai canali artificiali trova conforto nella giurisprudenza», replica il Ministero che a proposito dell’area di Marghera dove era previsto il Palais Lumière precisa: «L’area in questione necessita di riqualificazione paesaggistica e urbanistica anche in funzione di rivitalizzazione economica». «Noi non contestiamo il vincolo dei decreti Galasso - ha ribattuto ieri Ferrazzi - ma questa interpretazione di esso che viene data dal Ministero e che ci penalizza fortemente, visto che nessuno intervento realizzato fino ad oggi è mai stato assoggettato alla procedura paesaggistica». Ma l’applicazione del vincolo non comportebbe il blocco dell’edificabilità nelle aree della laguna a esso sottoposte ne l’«abusività» di quanto già edificato, come teme e sostiene il Comune, Ma la presentazione di una relazione paesaggistica per ogni nuovo progetto - compreso eventualmente quello del Palais Lumière - e il parere successivo della Soprintendenza, che lo autorizzi o no, come già accade. Difficile che il Governo si convinca a cambiare una legge dello Stato, che non vale solo per Venezia, perché al Comune non piace o non è mai stata effettivamente applicata. Perché il vincolo c’era già, anche se nessuno, evidentemente, lo aveva mai raccontato a Pierre Cardin nel lungo e tormentato iter del progetto del Palais Lumière.

postilla
Scrive Stefano Boato, nel saggio citato all’inizio dell’articolo di Tantucci: «Le aree comprese entro una fascia di 300 m dalla delimitazione lagunare sono soggette a tutela paesaggistica. La conterminazione della Laguna è stata definita dopo un lunghissimo approfondimento che si è basato sui criteri del compenso tra terre emerse e superfici acquee, dell’equilibrio idraulico, della salvaguardia dell’officiosità delle bocche lagunari e delle zone raggiungibili dalle maree. La delimitazione è sancita dal decreto 22 febbraio 1990, ai sensi della legge del 1963 sulle lagune di Venezia e Marano (cfr. Magistrato alle Acque. Lineamenti di storia del governo delle acque venete, a cura di A. Rusconi, P. Ventrice, Roma 2001, Ministero dei lavori pubblici). Da allora si sono susseguiti i sindaci Ugo Bergamo, Massimo Cacciari, Paolo Costa, Giorgio Orsoni.

Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2013 (m.p.g.)

Diego Della Valle va annoverato tra i padri della Patria o è un furbetto che vuole fare le scarpe al Colosseo? La risposta è nel contratto di sponsorizzazione firmato nel gennaio 2011 tra il padrone delle Tod's e l'allora commissario dell'archeologia di Roma, Roberto Cecchi. Come è noto, in quell'occasione Della Valle si impegnò a donare 25 milioni di euro (deducibili fiscalmente) per finanziare il restauro dell'Anfiteatro.

In cambio di cosa? La Tod's dichiara che costituirà l'Associazione Amici del Colosseo: non, come il nome indicherebbe, una libera riunione di cittadini capace di autodeterminarsi attraverso il voto, ma una fondazione controllata da Della Valle. E quasi tutti i benefici riservati allo sponsor vengono girati da Tod's a questa fondazione.

E i benefici non sono da poco: «realizzare in esclusiva un logo raffigurante il Colosseo»; «gestire in esclusiva l'attività di comunicazione relativa agli interventi di restauro e pubblicizzare l'attività di restauro del Colosseo»; «realizzare, direttamente o tramite Tod's, un "Centro" nelle vicinanze del Colosseo per l'accoglienza dei sostenitori dell'Associazione». Tutto questo, per quindici anni dalla costituzione della fondazione stessa. Non è finita: per due anni dalla fine dei lavori la Tod's potrà utilizzare il logo con il Colosseo abbinato al proprio; stampare il proprio marchio sul retro dei biglietti d'ingresso e sulla recinzione del cantiere; «pubblicizzare in abbinamento a propri prodotti e/o marchi l'erogazione del proprio contributo».

Non c'è bisogno di spiegare perché tutto questo metta in allarme chi ancora crede nella funzione costituzionale del patrimonio artistico: cioè nella sua alterità rispetto al mercato, nel suo legame con la conoscenza, nella sua dimensione egualitaria. In nessun paese occidentale si potrebbe trasformare in un logo l'immagine di uno dei monumenti simbolo del paese stesso (per secoli il Colosseo è stato al posto della corona civica sulla testa delle allegorie dell'Italia), né concedere un monopolio pluriennale sulla comunicazione di una ricerca scientifica (qual è, comunque lo si paghi, il restauro del Colosseo). E costruire ex novo un edificio, per quanto provvisorio, nell'area vincolatissima dei Fori è una bestemmia inaudita.

Ma Diego Della Valle appare in perfetta buona fede. Quando mi ha chiamato per protestare contro le mie critiche, ho capito che davvero non si capacita che qualcuno storca la bocca di fronte a tutto ciò. E la buona fede emerge anche dal contratto stesso. Se quelli che avete appena letto sono i diritti che gli sono stati offerti, Della Valle ha infatti voluto scrivere che non ne approfitterà appieno: per esempio «Tod's non abbinerà l'immagine del Colosseo ai suoi prodotti», e cederà il retro dei biglietti ad associazioni umanitarie.

In qualche modo, Della Valle si rende dunque conto che sarebbe sbagliato usare commercialmente un simbolo dell'identità culturale italiana, ciò che pure uno Stato alla frutta gli ha consentito di fare: non è Della Valle ad essere invadente, è lo Stato che non esiste più. Non c'è molto da stupirsi, perché la controparte pubblica del contratto fu Roberto Cecchi (già direttore generale dei Beni artistici, e poi sottosegretario ai Beni culturali di Monti): che è sotto processo alla Corte dei Conti per il danno erariale causato dall'acquisto del crocifisso implausibilmente attribuito a Michelangelo. E il pdl Francesco Giro (ex sottosegretario ai Beni culturali della brillante fase Bondi-Galan) vorrebbe che l'Associazione Amici del Colosseo fosse presieduta da Andrea Carandini: il noto archeologo che, dopo aver restaurato il castello di famiglia con 288.973 euro pubblici, lo apre ai cittadini per ben due ore al mese (comodamente: il primo lunedì, dalle 9 alle 11). Insomma, non proprio una costellazione di strenui difensori dell'interesse pubblico.

Ma il problema è generale. Per dirla con le parole di Don Raffaé di Fabrizio De André: «Lo Stato che fa? / Si costerna, si indigna, si impegna / e poi getta la spugna / con gran dignità». Anche il seguito è illuminante, e ben si applica al Ministero per i Beni culturali: «mi scervello, e mi asciugo la fronte / per fortuna c’è chi mi risponde». Ecco, è opinione diffusa che all'abdicazione dello Stato non ci sia rimedio se non la taumaturgica apertura a «chi risponde» (naturalmente per interesse), cioè i privati: oggi tocca ai beni culturali, domani sarà la volta di sanità e scuola.
Anche all'interno del governo Letta la partita è proprio questa. La sottosegretaria ai Beni culturali Ilaria Borletti Buitoni ha dichiarato che trova esemplare l'operazione Tod's-Colosseo, e sta cercando di imporre in ogni modo l'ingresso dei privati nella gestione del patrimonio. E siccome il ministro Massimo Bray prova invece a tener fede alla Costituzione su cui ha giurato, il conflitto è feroce. Nell'ultimo Consiglio dei ministri è stato il ministro della Difesa Mario Mauro a cercare di far passare la privatizzazione del patrimonio artistico, dicendo che questa è la linea del suo partito, Scelta Civica (nelle cui liste è stata eletta la Borletti Buitoni, dopo un'oblazione di ben 710.000 euro).

Ma siamo proprio sicuri che la scelta sia tra la Tod's e la rovina del nostro patrimonio? Non è così. Innanzitutto è prioritario incrementare il bilancio dei Beni culturali (siamo ormai a un miserrimo miliardo l'anno: contro i 26 di spese militari, cui si aggiungono i 13 per i bombardieri F35). Infine, anche volendo far partecipare i privati, c'è modo e modo di farlo. Sul web è facile scaricare un altro contratto di sponsorizzazione, quello che dal 2004 regola le donazioni ad Ercolano del miliardario americano David W. Packard. Se si vuol spiegare la differenza tra sponsor e mecenate, basta confrontare articolo per articolo questo contratto con quello Tod's. Packard chiede solo che il logo della sua fondazione benefica compaia nelle pubblicazioni scientifiche della Soprintendenza, e che a Ercolano venga apposta una targa di «dimensioni concordate con la Soprintendenza». Una bella differenza, no? Ma Packard è americano, e chi legga anche solo qualche pagina – per dire – di Tony Judt o di Joseph Stiglitz sa che in America si è superata da qualche decennio l'ideologia privatistica reaganiana cui sono fermi gli apostoli italiani della religione del privato.

In conclusione, Della Valle non è un furbetto, ma neanche un padre della Patria. Perché la Patria si è suicidata.

Un intervento sul “progetto Fori che leggiamo come una sollecitazione al Sindaco Marino ad andare avanti sulla strada iniziata, e non come una critica al primo passo nella direzione giusta (dopo gli anni di Rutelli, Veltroni e Alemanno).

Da sabato 3 agosto, nella capitale prende il via il "Progetto Fori" in salsa Marino. Niente più che una banale soluzione “viabilistica” che toglie al traffico, ma non pedonalizza, una manciata di metri di strada. Come se bastasse evocare il ricordo di un’idea di città per realizzarla. Da segno del fascismo che non si è voluto cancellare, il Progetto Fori sarebbe invece tutto da ripensare, a partire dall'unica misura possibile per realizzarlo: cancellare il debito che stritola Roma.

In alcune capitali europee, quando si è messo mano a grandi trasformazioni urbanistiche si è fatto riferimento alla “scienza urbana”, a come intervenire su quelle specifiche parti che, trasformandosi, avrebbero modificato l’intera città. Non come quando si è intervenuto con edifici spettacolo per creare “città evento”; quelle dove l’architettura è “il prodotto dell'incontro tra la scala mobile e l'aria condizionata, concepito in un’incubatrice di cartongesso” (Koolhaas), ma con progetti a larga scala in aree centrali. Solo qualche esempio nella seconda metà del novecento: Les Halles di Parigi, la terza sistemazione del centro di Mosca, la Berlino ovest riprogrammata “centralmente” prima dell’unificazione. Luoghi che, pur facendo oggi parte dell’immaginario complessivo di quelle città, non reggono il confronto con il “Progetto Fori”. A Parigi l’area non è estesa, a Mosca non ci sono reperti archeologici, a Berlino il programma della trasformazione faceva riferimento, sostanzialmente, all’espansione ottocentesca della città.

Il “Progetto Fori” parla con due parole precise: area archeologica e disegno urbano. Viene da lontano, visto che i primi a scavare nell’area dei Fori furono gli archeologi di Pio VII e che i lavori proseguirono sia sotto l’amministrazione napoleonica che con il nuovo governo italiano. Fu solo però nel 1978 - quando la via dell’Impero (oggi Fori imperiali) era stata tracciata da tempo (1932) e sembrava non dispiacere neppure troppo alla Repubblica che l’usava (usa) come location per la propria esibizione muscolare in occasione del 2 giugno e collettore del sempre crescente traffico automobilistico - che l’allora Soprintendente archeologico Adriano La Regina pose in modo esatto i termini della questione urbana. “Nel giro di pochi decenni perderemo tutta la documentazione della storia dell’arte romana”, scrisse. Presentando una serie di rilevamenti e studi che dimostravano come, proprio in quell’area, si concentrasse un’altissima concentrazione di smog tale da determinare la corrosione dei marmi, lanciò così il progetto in tutto il suo significato complessivo: “Il problema fondamentale non è tanto quello dei fondi per il restauro dei monumenti, perché ciò che costerà enormemente sono gli interventi di riorganizzazione della città”.

Da allora non è vero che, come dice il neo sindaco Marino, in 36 anni non si è fatto nulla. Si è fatto, invece, troppo e troppo poco. Troppo perché si è redatto un Piano regolatore di “offerta” verso il mercato, invasivo e sovradimensionato; troppo poco perché, così facendo, si è sancita la rinuncia definitiva alla pianificazione, saldando di fatto anche questo ultimo strumento a quanto si era andato facendo per tutto il novecento. È il Piano Regolatore di Veltroni ad aver condannato il Progetto Fori. Non perché non lo comprenda, ma perché ha scelto di non intervenire su quella che, scritta da Adriano La Regina come “riorganizzazione della città”, andava letta come “idea di città”.

Il Progetto Fori metteva in discussione su scala urbana, con l’assetto viario della città, il muoversi e l’abitare. Raccogliendo l’invito del Sindaco Argan, «o i monumenti o l’automobile», non lanciava anatemi o crociate ideologiche contro le macchine, ma proponeva di allontanare da questo “tesoro”, non scoperto, ma ritrovato, le funzioni che, svolgendosi all’intorno, le attirano.

Non dovette sembrare troppo poco ai molti che iniziarono a lavorare intorno questo tema per almeno un decennio (Cederna, Benevolo, Nicolini, la medesima Soprintendenza Archeologica) per lo smantellamento graduale dell’ex via dell’Impero e l’esplorazione archeologica, per riportare in luce le antiche piazze imperiali, creare il parco unitario Fori Imperiali-Foro Romano. Non solo una straordinaria campagna di scavo, ma la convinzione progettuale di ridefinire ampliandolo il centro storico con la conseguente mission di «arricchire Roma e i romani di un incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo, per tacere del contributo che lo scavo stratigrafico darà alla conoscenza della storia della città; e con il riassetto ambientale della zona tra il Colosseo e le mura aureliane”e giungere alla “creazione del gran parco dell’Appia Antica, prosecuzione extra - moenia del parco archeologico centrale» (A. Cederna e altri: Interventi per la riqualificazione di Roma Capitale della Repubblica.Camera dei Deputati. X legislatura aprile 1989).

Non mettendo mai in cantiere questo progetto, Roma non si è costruita come metropoli. Rinunciando a far coincidere l’idea di metropoli con la realizzazione di un grande progetto identitario, all’interno del quale ripensare le forme stesse della metropoli, non ha fatto da argine proprio alle più devastanti forme metropolitane che, da allora, hanno iniziato a propagarsi nella città. Ad iniziare dall’arrendersi, senza alcuna condizione, a quei fenomeni della rendita immobiliare che il piano regolatore non sa contenere, che anzi a volte incoraggia, e che hanno trasformato l’intero territorio comunale in merce, ingoiato come è da una strategia di comando che taglia servizi, ogni assistenza, nega diritti, interviene direttamente sulla vita di ognuno di noi dragando denaro (facendo cassa) dall’annientamento della città pubblica.

Oggi quel progetto si riduce ad una soluzione “viabilistica” che toglie al traffico, ma non pedonalizza, una manciata di metri di strada. Come se bastasse evocare il ricordo di un’idea di città per realizzarla.

Intorno alla chiusura odierna si sono scatenate già molte polemiche. Ma chi si lamenta prevedendo assalti automobilistici all’intorno e chi chiede radicalità nell’intervento, pensando che il neo sindaco in realtà abbia solo dato un segnale mediatico, sembra non comprendere che riparlare del Progetto Fori nei termini (e con le medesime polemiche) di come si è iniziato a fare oltre tre decenni fa significa non chiedersi come rendere attuale l’idea del parco archeologico al tempo della crisi, in una città che ha attentato a tutte le scelte che avrebbero dovuto accompagnare questo progetto.

Lo SDO, il sistema che avrebbe dovuto liberare il centro dal peso delle funzioni pesanti, è diventato poca cosa: striminziti scampoli di funzioni pesanti; le centralità veltroniane che avrebbero dovuto fare altrettanto sono diventate (e diventeranno) ricettacolo dell’invenduto residenziale; altre funzioni continuano a sommarsi in centro senza alcun controllo o dove meglio gli aggrada (Porte di Roma, Eur Castellaccio…). Si può ancora parlare di un progetto possibile?

Si potrà farlo, abbandonando i tatticismi e le furbizie (questo mezzo può passare, questo no…) e le dichiarazioni ad effetto del tipo di quelle che hanno costruito la festa/evento della notte tra sabato 3 e domenica 4 agosto (ora troviamo i fondi, serve intercettare un grande manager, siamo solo all’inizio, per ora iniziamo con “la banda dei vigili che accompagnerà le autorità”….). Si potrà farlo considerando questo progetto come un restauro a scala urbana.

Come ogni restauro, anche il Progetto Fori deve avere delle ragioni “certe"" da cui iniziare. In questo caso la ragione non può essere che l’obbligo di farlo. Nell’inventare questo ritorno al futuro non c’è solo il “liberare” un suolo. È l’occasione per ricostruire le condizioni originarie del paesaggio. Nel rendere leggibili le relazioni tra i manufatti, si costruisce la nuova topografia. Nel continuare lo scavo del Foro della Pace, nel tirar via da sotto la strada il tempio, si fa dell’aggregazione dei Fori il cardine della trasformazione urbana, la grande piazza “riconoscibile” del mondo. Non si parla dell’eliminazione di una strada; né del risarcimento al piccone demolitore di Mussolini. È il tentativo di resistere al declino delle città imposte dal liberismo. Si crea uno straordinario spazio pubblico.

È un progetto a riconoscere che non è solo un decreto ministeriale, una delibera comunale, una categoria urbanistica, una consuetudine a definire i confini del centro. È un progetto a definire che di questo dovrà far parte come un’area viva lo spazio sistema che da piazza Venezia si spinge verso il Colosseo, il Circo Massimo, si attacca alle mura per spingersi verso il cuneo verde dell’Appia; luoghi tutti, oggi, isolati nella loro splendida solitudine. Che scavare vuol dire conquistare e raccordare tra loro la quota archeologica del Foro della Pace ( +17mt), attraverso la creazione di un museo, con quella del Colosseo (+23mt). Che conoscere la stratificazione storica è capire la modalità che la città si è data per costruirsi nel tempo, che non ci sono classifiche di importanza; che intrecciando tra loro il Foro della Pace e quello di Traiano si libera un grande quadrato a ridosso del tessuto rinascimentale che ancora esiste. Ritrovare quello che è esistito e quello che si è costruito sul costruito. Scoprire, come è accaduto in questi giorni, che insieme al ritrovamento di un gigantesca colonna di 15 metri in granito si è rinvenuto anche un cantiere di spoliazione dei marmi del secolo XII e, scendendo con lo scavo, un impianto di produzione di metalli del secolo IX.

Serve denaro e servono finanziamenti appropriati, certo. Bisognerà programmarli e i soldi non ci sono, e allora? Allora si potrà fare, facendo una scelta mai fatta a Roma: legare tra loro gli interessi scientifici, quelli urbani e quelli sociali. Si potrà fare pensando proprio alla realizzazione, da subito, del Progetto Fori come alla risposta dei cittadini al processo di espropriazione da parte del mondo economico finanziario che, operando offshore anche rispetto alle forme di rappresentanza, vogliono continuare a strangolare Roma. Si potrà fare con un atto d’indirizzo preciso: non riconoscere il debito immane di Roma Capitale, che si frappone alla realizzazione di questo progetto.

È nel debito che s’annida il nostro impoverimento, la precarizzazione del lavoro, è il debito a non farci vedere vie d’uscita, a legarci al quotidiano, a dire che dobbiamo guardare ai soldi dei privati e assistere impotenti al fatto che in cambio dobbiamo cedergli pezzi, sempre più pregiati, del patrimonio pubblico.

Non riconoscere il debito prodotto dalle banche del mondo e dai loro titoli, e destinare piuttosto al Progetto Fori quella massa monetaria, avrà anche il significato di coinvolgere il mondo in un progetto che non potrà vedere impegnati soltanto noi. La vasta opera di restauro a scala urbana vorrà dire operare sulle singole aree per giungere alla definizione del dettaglio e permettere di “vedere” i manufatti riportati alla luce. Un lavoro lungo, imponente, un progetto in continua evoluzione che non va avanti in base ai flussi di finanziamento, ma con l’intelligenza di inventare, scavo dopo scavo e con la partecipazione di tutti, l’idea di città dove vogliamo vivere.

Corriere della Sera Lombardia, 4 agosto 2013, postilla (f.b.)

MORBEGNO (Sondrio) — «Maledetto caldo, chi lo sopporta più. E' colpa di Stige se scappiamo». Alle 8.50 il sole già brucia l'asfalto. L'afa fa boccheggiare i milanesi Alberto e Franca Bonfanti, marito e moglie, due figli. Sono nel parcheggio del centro commerciale che si affaccia sul chilometro zero della statale 36 a Cinisello Balsamo. Fatta la spesa, stanno partendo: «Andiamo in Valtellina. Lì abbiamo riscoperto la seconda casa: per la crisi e perché adesso i tempi di percorrenza si sono accorciati di quasi un'ora». S'infilano in macchina, l'aria condizionata al massimo, il bagagliaio che scoppia. Come la famiglia Bonfanti, sono migliaia i lombardi fuggiti dalle città. Un viaggio anche solo per un weekend, come vuole il nuovo turismo mordi-e-fuggi: invitati anche dalle nuove infrastrutture (la galleria di Monza, aperta lo scorso 3 aprile, e il nuovo tratto della statale 38 in provincia di Sondrio, inaugurata lo scorso mercoledì) che promettono di avvicinare la Valtellina al resto della Lombardia.
Ore 9. Partenza da Cinisello Balsamo. In un paio di minuti ci si infila nei 1.800 metri del tunnel di Monza, nuova «porta della Brianza». Limite di velocità a 90 all'ora. In 80 secondi, Monza è già alle spalle: prima servivano da 30 a 45 minuti. La galleria è costata 75 milioni di euro, che salgono a 330 milioni se si contano i lavori della connessione della Statale 36 con la rete autostradale. Lecco dista 49,9 km, la circolazione è intensa, ma fluida. Oltre ai vacanzieri, in strada c'è il popolo dello shopping, perché su entrambi i fianchi la Nuova Valassina è una giungla di vetrine. Il termometro segna 33,5 gradi. Lissone, Desio, Seregno, Carate e Giussano. Poi segue un saliscendi fra le colline. Ore 9.40. Ecco Lecco e lo snodo per la Valsassina, che calamita una scia di auto, moto e camper. Ma per Sondrio si prosegue dritto, nel tunnel del San Martino. All'uscita, ecco il ramo lecchese del lago di Como, con scorci da cartolina. Ore 10. Area di servizio di Mandello Est. C'è l'assalto a caffè, brioches e panini: processione alla cassa, giornate da triplo incasso rispetto al solito, dicono gli addetti.
Dopo 15 minuti di sosta, si riparte lungo la statale 36: unica nota dolente, un ingorgo fra Bellano e Dervio, che sull'orologio mangia 20 minuti, per la chiusura della galleria Monte Piazzo e annessa deviazione dalla corsia nord alla sud. Ore 11. Eccoci allo svincolo del Trivio di Fuentes. A sinistra Colico, a destra una cattedrale dello shopping da 60 negozi. Qui c'è il bivio: la Ss 36 prosegue per il Passo dello Spluga, mentre per la Valtellina bisogna immettersi sulla fiammante statale 38: sono 9,3 km fino a Cosio, costati 240 milioni di euro. L'asfalto è come un tappeto da biliardo. Tempo di percorrenza? Dieci minuti, mentre prima erano almeno 30. Poi le due corsie si restringono nell'imbuto di Morbegno: 5 km in 20 minuti. «Speriamo che facciano presto la nuova tangenziale, così libereremo il centro», sospira il sindaco Alba Rapella. Le fa eco Agostino Pozzi di Confartigianato di Sondrio e titolare di un'azienda di autotrasporto: «Ci auguriamo che questo nuovo tratto sia l'inizio di un progetto di rapida realizzazione e più ampio».
Ore 11.30. A due ore e mezza dalla partenza, a Morbegno, percorsi 115,7 km, eccoci alla meta del nostro viaggio. Ma per chi invece è diretto a Tirano, Bormio, Livigno, la statale 38 è ancora lunghissima.
postilla
Naturalmente nessuno ci parlava di questi problemi, quando poche settimane fa in pompa magna autorità e stampa marciavano trionfali sul megatunnel di Monza, diaframma caduto fra la regione produttiva e il suo cuore nevralgico nel capoluogo. Eppure basta poco (basta appunto l'esperienza di una Famiglia Bonfanti in Vacanza, ce ne sono milioni) a intuire che tutto si tiene, e se lascio andare un grosso fiotto di qualcosa da un buco, finirà per intasare un buco successivo in assenza di altri sbocchi. Esiste un piano? Certo, ma non riguarda la mobilità e il suo rapporto con gli insediamenti, lo sviluppo socioeconomico, la sostenibilità ambientale. Riguarda solo gli interessi di chi di fatto crea ad arte il diaframma successivo (ce n'è sempre uno in attesa) per poi farlo crollare a spese del territorio e del contribuente. Perché nessuno apriva bocca quando tutte le possibili vie di circonvallazione degli abitati venivano puntualmente ostruite da nuove lottizzazioni? O qualunque idea di mobilità alternativa su ferro si rinviava sine die? Ed eccoci qui, con le famiglie già preparate a infuriarsi per il prossimo tappo, e a votare per il politico che promette di farlo saltare … ad libitum (f.b.)

Non è solo una novità commerciale o tecnologica, l'arrivo del mercato nel settore dell'auto urbana condivisa, vuol davvero dire potenzialmente molto per la città. La Repubblica Milano, 4 agosto 2013, postilla (f.b.)

Si apre la concorrenza per il car sharing. Il Comune ha esaminato e accolto il piano con cui i tedeschi di Car2go sbarcheranno in città con una flotta di Smart per usi brevi e parcheggi in libertà sulle strisce blu. Autorizzazione accordata. E così il debutto delle nuove auto in affitto è previsto probabilmente già giovedì prossimo, al più tardi dopo Ferragosto. Le macchine sono già pronte.

I tedeschi di Car2go (gruppo Daimler-Mercedes) sono stati i primi (e anche gli unici, per ora) a rispondere all’avviso pubblico con cui Palazzo Marino da un mese sta aprendo il mercato dell’auto in affitto anche ad operatori privati, portando così un po’ di concorrenza in casa Atm che finora ha avuto il monopolio del servizio con 135 vetture e circa 5.400 abbonati a GuidaMi. I tedeschi già presenti in 12 città europee, l’ultima Vienna, e nove tra Canada e Stati Uniti, hanno presentato la manifestazione di interesse che il Comune, venerdì, ha accolto. Quindi, solo il tempo dei passaggi burocratici e si parte.

Se si riuscirà già da giovedì prossimo: è su questa data che l’azienda sta ragionando. E solo se il completamento dell’iter burocratico rallenterà i tempi, si lascerà passare la metà del mese per il debutto. Le miniauto benzina Euro 5 sono già parcheggiate nei depositi della Mercedes in città. Immatricolate, targate e pronte. Saranno disponibili su strada e non nelle aree sosta. Si inizierà con 150, per la prima fase del debutto, ma a regime si salirà a 450, alcune già attrezzate per i disabili. Iscriversi costerà 19 euro (online ma anche in alcuni concessionari Mercedes in città), mentre la tariffa di noleggio al minuto sarà di 29 centesimi, inclusa di assicurazione, sosta, Iva e ticket di Area C. Si prenoterà soprattutto via cellulare. L’applicazione sarà operativa sugli smartphone: visualizzerà l’auto disponibile più vicina.

Tra le novità, il fatto che l’auto non dovrà essere riconsegnata nel punto esatto dove la si preleverà — il principale limite contestato dagli utenti a Guida-Mi — ma dove si desidera sulle strisce blu. One way, dicono gli addetti ai lavori: l’operatore paga difatti un forfait al Comune per garantire questa chance all’utente, circa 1.100 euro all’anno per ciascuna Smart. Per queste auto sarà vietato invece il passaggio sulle corsie preferenziali, concesso invece ad Atm. Dalle stime comunali sono circa 15mila i potenziali utilizzatori di car sharing a Milano. Ma Car2go punta in realtà più in alto, almeno al doppio. L’intenzione è di raggiungere i 30mila utenti all’anno registrati a Vienna in pochi mesi. Per il debutto, i tedeschi assicurano una squadra di tutor già istruiti, attivi in giro per la città a dirigere il servizio e dotati di palmari. Per il primissimo periodo sperimentale, potrebbero anche regalare minuti di traffico gratuito ai milanesi per far conoscere il loro servizio.

Si vedrà nei prossimi mesi se, come emerso anche durante il convegno per operatori fatto dal Comune nei mesi scorsi, ci saranno altri operatori interessati a contendersi il mercato milanese. Come i tedeschi di DriveNow, gli americani di Zip Car già sbarcati in Europa e pure i francesi di Autolib’, anche se questi ultimi meno nell’immediato perché si tratta di un servizio solo elettrico e, prima, servirebbero milioni di interventi infrastrutturali per le ricariche delle auto.

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Il primo segnale di rottura è una cosuccia che l'articolo soltanto accenna: il servizio è gentilmente offerto dal signor Mercedes. Non per dire di griffe prestigiosa, ma per sottolineare il passaggio da fabbrica a erogatore di servizi integrati, che finalmente sbarca a anche tangibile da noi: demotorizzazione non significa fatalmente famiglie piangenti perché il papà è stato lasciato a casa dalla catena di montaggio. Mal che vada, lui ha riciclato la sua professionalità nella rete di manutenzione diffusa sul territori, o la mamma sta nell'amministrazione dei servizi informativi locali. Insomma il paese a scimmiottare il peggio di Detroit è solo un incubo, almeno per chi lega comparto auto e sistema della proprietà privata. Poi ci sono gli aspetti urbani e di mercato, con l'innovazione del poter lasciare la macchinina nei parcheggi: vuol dire rivolgersi a una clientela vera, a un'utenza metropolitana concreta e vasta, non al mondo circoscritto e rigido degli spostamenti pendolari regolari (con ritiro e consegna nel medesimo punto). In definitiva, si scarica potenzialmente una grossa pressione sulle arterie cittadine: meno mezzi privati circolanti, meno auto ferme in un parcheggio a far nulla per 23 ore su 24, più possibilità di aree a circolazione mista regolamentata pedonale ciclabile e di veicoli a motore a bassa velocità, ovvero più spinta (e di mercato, non del decisionismo astratto pubblico in fondo poco amato da tutti) per le politiche del Piano per la Mobilità Urbana Sostenibile. Che si attua notoriamente sommando e coordinando progetti, anche privatissimi come questo (f.b.)

Recensione all'ultimo lavoro di Bernardo Secchi, La Città dei Ricchi e la Città dei Poveri (Laterza), dove si denuncia tra l'altro la «diretta responsabilità degli urbanisti nell'aggravarsi delle disuguaglianze». Corriere della Sera, 3 agosto 2013

Sul tema del mutamento futuro della città (o forse dell'idea stessa di città) si sono concentrate non solo le attenzioni tradizionali di architetti e urbanisti, ma soprattutto di economisti, sociologi, teorici della creatività e persino talvolta di politici professionali. Per ora gli «architetti delle città» rappresentano poco più del cinquanta per cento degli abitanti del globo e si prevede che essi saliranno al sessanta per cento attorno al 2025.

Ovviamente di città, o meglio di insediamenti urbani, ve ne sono di diversissimi tipi: dai villaggi alle postmetropoli, che hanno dato nuovo significato alle antiche metropoli, sembrano, crisi o non crisi, destinate ad aumentare in numero e in estensione sia insediativo che di popolazione. Ma soprattutto secondo alcune previsioni di queste «città mondiali» di comando, come le aveva definite molti anni or sono Saskia Sassen, sedi privilegiate e interconnesse della urban élite, esse sembrano destinate a decidere i destini del globo in modo sempre più indipendente da luoghi, culture e organizzazioni nazionali.

L'Europa, nonostante la presenza importante di Londra e Parigi, le uniche che superano i dodici milioni di abitanti, di queste postmetropoli non ne ha nessuna, a meno di considerare confini urbani i suoi sistemi insediativi regionali interconnessi, che nascono dalla specialissima fittezza della rete insediativa europea. Alcuni propongono la distinzione dei due significati della parola confine in quanto limite o in quanto bordo, o si dichiarano per una città aperta. Ma anche qui certamente aperta sociologicamente all'altro, al diverso, allo scambio, contro ogni gated community, ricca o poverissima, ma come ci si regola nell'estensione territoriale con le difficoltà dei trasporti, la moltiplicazione dei servizi, i costi delle infrastrutture, la presenza dei servizi rari e le superfici aperte (agricoltura o parchi) inglobate tra il costruito?

Ovviamente il giudizio sulle postmetropoli (da Città del Messico a Mumbai, da Shanghai a Seul, e persino all'invenzione di qualcun'altra del tutto nuova che viene talvolta temerariamente proposta) è estremamente differenziato e in radicale opposizione alle tesi ambientaliste e di nuovo equilibrio con una produzione agricola diffusa. Quindi non una città territorio senza confini, ma capace di un dialogo per la costruzione di un paesaggio multicentrico interconnesso. Tutto questo anche se, nonostante gli aumenti previsti, le superfici occupate dagli insediamenti urbani non superano oggi il 2,5% della superficie del globo e, nonostante il loro incessante sviluppismo anche in termini di possibilità, sono, per ora, soprattutto la rappresentazione della disuguaglianza sociale assai più che dall'importanza organizzativa della vita collettiva.

Sono proprio le comunicazioni immateriali di massa e intersoggettive che propongono forme di autocolonizzazione globale a servizio dei mercati e volte ad eliminare le differenze tra le culture, culture che sono talvolta produttrici di scontri ma anche portatrici di fondamentali possibilità di confronti dialettici tra differenze e soprattutto di quelle che io definisco «le possibilità necessarie», dell'abitare civile futuro. A queste riflessioni, almeno nella sua interpretazione, è dedicato il nuovo libro di Bernardo Secchi dal significativo titolo La città dei ricchi e la città dei poveri (Laterza, pp. 90, 14), con cui egli richiama la diretta responsabilità degli urbanisti nell'aggravarsi delle disuguaglianze.

«La paura rompe la solidarietà, fa emergere sistemi di intolleranza e la speculazione separa la popolazione in funzione del reddito, che a sua volta costruirà le proprie gated community o promuoverà per i diversi di razza, di censo o di religione le favelas per poverissimi».
A tutto questo contribuisce — scrive Secchi — a partire dalla fine del diciottesimo secolo, anche l'idea della «casa di famiglia» come microcosmo da difendere, e una progressiva «politica di distinzione», un po' in tutto il mondo. Gli esempi che Secchi racconta sono molti e assai differenziati, dal Sud America ad Anversa, sino alla formazione e poi interpretazione (sociologica e progettuale) delle periferie o alle contraddizioni conflittuali delle «città diffuse», costruite a partire «dall'ideale utopico della casa singola».

Dopo aver rivisitato il contributo teorico sulla questione della «città delle disuguaglianze» di Foucault e di Barthes degli anni Settanta, Secchi accenna alla tradizione postbellica della politica urbanistica europea e ai suoi tentativi fondati sul «welfare state», terminando con una riflessione che cerca di domandarsi se al di là della crisi economica, esista una specifica crisi della città stessa, che si evidenzia anche nella riduzione della necessità di persone impegnate nella produzione a causa dei progressi tecnici della produzione stessa, e del conseguente indebolimento dell'idea di classe sociale che si è enormemente estesa come classe media, con un numero di ricchi forse minore ma enormemente differenziato. E, aggiungo io, senza alcuna cultura di classe, ma solo quella dei poteri costituiti dall'impero del capitalismo finanziario globale. Così il costo delle disuguaglianze è enormemente aumentato: costo in denaro, costo politico e incertezze nelle proposte ragionevoli della città futura.

«Mai sono apparse così gradualmente trascurate e lasciate a se stesse come da una ventina di anni a questa parte. Bagnoli è solo l'emblema massimo». Corriere del Mezzogiorno, 1 agosto 2013, con postilla

«Ci chiediamo esterrefatti quanto tempo ancora dovrà passare perché Napoli torni a essere una città civile. Perché essa – sia detto a chiare lettere – oggi non lo è». Così inizia una lettera di tale Vittorio Gennarini a La Stampa, apparsa venerdì 26 luglio, che si conclude affermando che «questa è una città per modo di dire, in cui anche i più pazienti non possono continuare a vivere». Il motivo dell'inciviltà napoletana? Le condizioni dei trasporti cittadini, poiché «nelle domeniche d'estate alcuni autobus pubblici scompaiono completamente dalla circolazione, spesso per intere mattinate, ricomparendo poi all'improvviso, quando i passeggeri in attesa alle fermate si sono già sentiti male per l'angoscia e il sole che picchia».

Gennarini (un nome di chiara origine meridionale, se non proprio napoletana) doveva avere un forte mal di pancia quando ha scritto una tale lettera sulla civiltà di Napoli, e stupisce che un giornale di grande tradizione come La Stampa l'abbia pubblicata senza nemmeno una parola di commento. Noi, però, saremmo pronti a scommettere che il Gennarini abbia vissuto le sue avventure estive domenicali aspettando qualche mezzo di trasporto in qualsiasi parte dell'ampio arco periferico napoletano da San Giovanni a Bagnoli. E lo crediamo perché, malgrado i grandi progressi fatti con la metropolitana collinare e urbana, le comunicazioni rimangono in quelle periferie, a dir poco, problematiche.

Con una Cumana, i cui orari sono spesso una scommessa, con una Vesuviana, lontana ormai da quella puntualità e regolarità che una volta ne facevano un modello europeo, con altre carenze a tutti ben note, il trasporto urbano è diventato uno dei tanti settori critici della Napoli odierna, ma ben più che critico proprio per l'arco periferico della città. E magari fossero solo i trasporti a essere critici in questo arco! È vero che per tutta la città l'attuale amministrazione è del tutto al di qua del mostrarsi capace di delineare un progetto o un'idea di città, un disegno urbano da perseguire in tutto o in parte, con un ritmo d'insieme o modulare.

Che cosa intenda dire il sindaco quando dice che sta trasformando la città, nessuno ha finora capito. Trasformando in che cosa? L'impressione non a caso prevalente è che siamo nel pieno di una faticosa marcia verso il nulla in un contesto di inefficienza operativa quotidiana inconsueta anche nella non brillantissima storia amministrativa napoletana. E se questo è vero per la città nel suo insieme, certo molto di più lo è per le periferie.

L'attuale periferia della città si è formata con l'ampliamento della circoscrizione cittadina operata nei primi tempi del fascismo, attuando, male e parzialmente, una delle geniali intuizioni di Nitti all'alba del Novecento. I comuni allora inclusi nel perimetro cittadino rimpiansero a lungo la loro perduta autonomia municipale, che però non molto giovava né ad essi, né a Napoli. Il negativo non era nell'annessione e nella loro perduta personalità municipale. Il negativo è derivato dal modo come è stata effettuata e poi sviluppata l'annessione. Mai, tuttavia, le periferie napoletane sono apparse così gradualmente trascurate e, infine, lasciate a se stesse come da una ventina di anni a questa parte. Bagnoli è solo l'emblema massimo, e forse insuperabile, di questa tristissima verità. Ma se si parla di Napoli Est o della periferia Nord o di quartieri come quelli occidentali, il bilancio non migliora per nulla, ed è così negativo da esimere dal fermarsi sui particolari. Eppure, quelle periferie rimasero per un bel po' un polmone vivo e compartecipe della vita cittadina.

La geografa Anna Maria Frallicciardi, con una lettera inviata a questo giornale, ha ricordato la Bagnoli della sua infanzia. Io ricordo la Bagnoli della mia infanzia, prima della guerra, che era un grande e ameno lido popolare della città, così come lo era, anche se meno ameno, San Giovanni a Teduccio; ricordo che Barra e Ponticelli ospitavano anche villeggianti d'estate con la loro posizione già vesuviana; che Secondigliano e altri rioni erano mete di gite e scampagnate non solo popolari; ricordo il gioiello che era la conca di Agnano. Cose del tempo che fu, dissolte dalla nefanda espansione edilizia che ha rovinato tanta parte della città dal Vomero alto e basso a Posillipo, da Capodimonte a Capodichino, o, in pieno centro, ai Fiorentini. E, tuttavia, pur nel corso di questa dissennata moltiplicazione edilizia, sempre di volta in volta vi fu un disegno di città o almeno l'esigenza di un disegno di città, che salvaguardasse la fisionomia storica alla quale Napoli deve la sua grande ed evidente importanza urbana mediterranea ed europea; e in questo disegno un certo luogo era riservato anche alle periferie, come negli ultimi tempi è accaduto sempre meno, sino all'attuale vuoto, non pneumatico, di ogni progettualità urbana. Ancora trent'anni fa si disegnava con Andrea Geremicca un «piano delle periferie», e poco dopo si disegnavano altri scenari urbani. Ora il nulla è completo sotto questo aspetto, come su questo giornale è stato ricordato con una bella pagina dedicata a Benedetto Gravagnuolo, e, per le periferie, con l'inchiesta qui ad esse dedicata.

Intanto, condizioni materiali della città si sono andate deprimendo oltre ogni possibile previsione, costituendo l'attuale terreno sociale e umano minato, che in molti sempre più indicano nel drammatico rilievo delle sue emergenze il sindaco non ci racconti, perciò, che egli sta trasformando la città, né se la prenda coi poteri forti, la camorra, la magistratura, i giornali e i giornalisti cattivi, e soprattutto non si arrocchi nei trenta mesi che ancora (salvo imprevisti) gli restano del suo mandato. Faccia altri discorsi, e soprattutto faccia qualcosa che non sia la minacciata e minacciosa rimozione dei marciapiedi di via Caracciolo (!). Dopo di essere passato dall'arancione al grigio, non precipiti in un nero profondo, aggravando ancora, come ha aggravato finora, la già così brutta condizione della città. Certo, non è che, andando via lui, si risolvano i problemi napoletani. Ma è convinzione ormai comune a Napoli e fuori che, se egli voleva «scassare tutto», c'è brillantemente riuscito; e che se qualcosa si può fare per la città, ne è un indispensabile preliminare un altro tipo di amministrazione e di attività amministrativa.
Dalla società dell’eguaglianza, che parlava di pieno impiego e di fine delle povertà materiali, si è così passati ad una società della diseguaglianza, dove distanze abissali dividono le persone.

postilla
Lo sguardo degli storici ha una lunga gittata, a volte vede le epoche, non i lustri e gli anni più vicini. E così l'amico Galasso, quando denuncia, giustamente, il degrado cui la giunta De Magistris ha portato Napoli, ricorda, dei decenni a noi più vicin, il "piano delle periferie promosso da Andrea Geremicca ma non ricorda il successivo sviluppo di quella esperienza negli anni della prima giunta Bassolino: fino all'approvazione del PRG del 2004. Se avesse abbassato lo sguardo fino a quegli anni avrebbe forse anche ricordato che il primo atto scriteriato del sindaco De Magistris fu lo scioglimento di quegli uffici comunali che erano riusciti a condurre una delle più interessanti e positive esperienze di pianificazione urbana, nella quale salvaguardia del territorio, soddisfacimento delle esigenze sociali, ampie dotazioni di spazi pubblici ed efficace riorganizzazione del sistema della mobilità trovavano la loro sintesi. Il lettore che voglia documentarsi meglio e che conosca ancora poco eddyburg potrà condividere il nostro giudizio scorrendo i documenti raccolti nella cartella dedicata a Napoli dell'archivio di eddyburg.

Dalla crisi finanziaria di Detroit la riflessione del premio Nobel si sviluppa verso un'altra constatazione: lo sprawl ammazza la società, oltre che l'ambiente. La Repubblica, 1 agosto 2013, postilla (f.b.)

Detroit è un simbolo del vecchio concetto di declino economico. L’abbandono non ha colpito solo il centro della città; in tutta la sua area metropolitana, tra il 2000 e il 2010 la popolazione ha subito un calo più drastico di quello registrato in altre grandi città. Per converso, Atlanta può essere citata ad esempio di sviluppo impetuoso. In quello stesso periodo, il numero dei suoi abitanti è aumentato di oltre un milione: un incremento paragonabile a quelli di Dallas e Houston, senza la spinta aggiuntiva del petrolio.

Ma al di là di questo netto contrasto, c’è un fattore che accomuna una Detroit in bancarotta a un’Atlanta in piena crescita. Sembra che anche qui, nonostante il boom, il “sogno americano” sia ormai svanito. Chi nasce in una famiglia povera difficilmente riesce a migliorare la propria condizione. Di fatto, l’ascensore sociale – o in altri termini, la possibilità di raggiungere uno status socioeconomico più elevato rispetto alle proprie origini – ad Atlanta sembra funzionare anche peggio che a Detroit, dove il livello di mobilità sociale è comunque basso.

Uno studio recente promosso dall’Equality of Opportunity Project (EOP) e diretto da un gruppo di economisti delle università di Harvard e Berkeley si basa su una serie di confronti tra i tassi di mobilità sociale di diversi Paesi. Ne risulta che l’America di oggi, che pure continua a considerarsi come la terra delle opportunità per tutti, ha un sistema classista ereditario persino più rigido di altre nazioni avanzate. Gli autori del progetto hanno peraltro riscontrato notevoli differenze, in materia di mobilità sociale, anche all’interno degli Stati Uniti. Ad esempio a San Francisco, chi è nato in una famiglia appartenente al 20% inferiore (in termini di reddito) della scala sociale, ha l’11% di probabilità di elevarsi fino al “top fifth”, cioè al 20% con i livelli di reddito più alti; mentre ad Atlanta questa prospettiva è limitata al 4% di chi nasce povero.

Gli studiosi hanno poi cercato di individuare i fattori collegati ai tassi più o meno elevati di mobilità sociale, giungendo a risultati in parte sorprendenti. Contrariamente alle aspettative, il fattore razziale sembra giocare un ruolo relativamente modesto. È invece emersa una correlazione significativa tra il grado di sperequazione sociale esistente e le probabilità di miglioramento In altri termini, quanto più debole è il ceto medio, tanto minori sono le probabilità di ascesa sociale. Questo risultato trova riscontro anche a livello internazionale: nelle società relativamente egualitarie come quella svedese, la mobilità sociale è molto più elevata che nell’America di oggi, con i suoi stridenti contrasti tra poveri e super-ricchi. È inoltre emerso un altro dato significativo: la correlazione tra la segregazione abitativa – cioè la condizione delle fasce sociali relegate in quartieri molto distanti delle città estese a macchia d’olio – e le probabilità di riscatto da una condizione di indigenza.

Ad Atlanta, la distanza fisica tra i quartieri bene e quelli abitati dalle fasce più povere è enorme. Sembra dunque che esista un rapporto inversamente proporzionale tra la dispersione urbana e il grado di mobilità sociale: un argomento in più per chi promuove le strategie urbane di “smart growth” (crescita intelligente) con centri urbani compatti e facilmente accessibili ai mezzi di trasporto collettivi. Quest’osservazione andrebbe tenuta in considerazione anche nel più ampio contesto di una nazione che sta deviando dalla propria rotta, e continua a parlare di pari opportunità mentre si rivela incapace di offrirle a chi più ne ha bisogno.

Copyright The New York Times Traduzione di Elisabetta Horvat

postilla

Vera fortuna, che una personalità assai ascoltata come Paul Krugman si sia accorta di almeno una parte delle ricerche sul rapporto fra socioeconomia e sprawl. Dai primissimi tempi della suburbanizzazione galoppante si intuiva qualcosa di malsano, nel frammentare la società in piccole tessere familiari, in molecole di consumatori isolate dentro la villetta autosufficiente, e unite solo dalla fabbrica, dall'ufficio, dal momento del rito collettivo al centro commerciale o allo stadio, anch'essi isolati e dispersi. Oggi, già inequivocabilmente nelle ricerche della Brookings Institution, ad esempio sugli effetti occupazionali dei primissimi investimenti dell'amministrazione Obama anticrisi, i dati confermano l'encefalogramma piatto della dispersione insediativa, anche oltre quello delle sue casalinghe disperate o dei loro compagni travet. Insomma, al contrario di quanto pensa il giovane rampante Edward Glaeser, che magari aspira pure lui al massimo riconoscimento dell'accademia delle scienze svedese, il trionfo della città non è tale se si tratta solo di trasformare territorio e mungere quattrini. Si tratta anche di farlo in modo sostenibile: dal punto di vista ambientale, sociale, e di conseguenza economico. Cambiando l'ordine dei fattori in questo caso il risultato cambia, eccome se cambia (f.b.)

Dal nuovo inserto del manifesto, che esce ogni giovedì, l'Italia che Va, 1 agosto 2013, due riflessioni, fra cui quella del sindaco di Roma, sul potenziale delle biciclette per le città e l'ambiente (f.b.)

Rivoluzione su due ruote
di Luca Fazio

A parte una buona dose di coraggio, per cambiare profondamente il volto di una città basta un numero magico (il numero 30). E non ci vogliono nemmeno troppi soldi. A Parigi, per esempio, con soli 2,6 milioni di euro di stanziamenti, l'amministrazione di Bertrand Delanoe ha messo a punto un piano rivoluzionario. Un format esportabile in qualunque città europea (Italia compresa): dal prossimo settembre su 560 km di rete stradale il limite massimo di velocità consentito alle automobili sarà di 30 Km/h (il 37% delle strade cittadine). Il nuovo piano "La rue en partage" ("la strada in condivisione", ndr ) non dovrebbe essere un dramma, eppure le questioni della mobilità urbana provocano sempre accesi dibattiti politici e sociologici. Anche a Parigi. Per semplificare, da una parte ciclisti che rischiano la vita e dall'altra adepti del culto motorista sempre più rancorosi e su di giri. E dire che in nessuna metropoli europea la media di chilometri percorsi da un'auto ingolfata nel traffico si avvicina al numero magico: ovunque la bicicletta è il mezzo più veloce per spostarsi nelle aree urbane. A Parigi questo limite verrà fissato in una trentina di quartieri, che vanno ad aggiungersi ad altre 74 zone della città dove la velocità è già regolata in questo modo. Ma non c'è limite al meglio: nella capitale francese sono già attive 23 "zone di incontro" dove le auto non possono superare i 20 Km/h; qui pedoni e ciclisti sono padroni della strada, e le automobili sono "avvisate" da strisce bianche perpendicolari alla carreggiata formate da piccoli rettangoli tipo pixel, una via di mezzo tra segnaletica e arte di strada, un modo poco invasivo per invitare gli automobilisti a rallentare.

L'obiettivo di questo programma che per noi sembra lunare è piuttosto semplice, invitare gli automobilisti a scegliere il mezzo di trasporto più semplice e moderno del mondo: la bicicletta. E a rispettare le due ruote: i ciclisti, nelle zone 30, potranno anche "bruciare" il semaforo rosso per svoltare a destra. Di questo passo, le automobili a Parigi diventeranno un mezzo di trasporto in via d'estinzione, e del resto lo confermano le statistiche: già ora il 60% degli spostamenti si fa a piedi, il 27% con i trasporti pubblici, il 7% in automobile e il 4% in bicicletta. Percentuali impensabili per l'Italia, il paese europeo più in ritardo rispetto allo sviluppo della ciclabilità e alla cultura della mobilità alternativa. Londra, per esempio, giusto per non restare indietro rispetto a Parigi, sta pensando di estendere l'attuale percentuale di zone 30 (oggi circa il 19% delle strade urbane) a quasi tutta la città - rimarrebbero escluse solo le arterie ad alto scorrimento. Possibile? Per Isabel Dedring, responsabile dei trasporti londinesi, non ci sarebbero problemi: «Andrà a finire come capitò con il divieto di fumo nei locali, nessuno lo riteneva possibile fino a quando non è successo».

Bisognerà solo convincere i distretti, ma già alcuni hanno imposto i 20 miglia all'ora in tutte le strade, con risultati molto soddisfacenti e dunque contagiosi. A Monaco, altra città virtuosa, sono così visionari che entro il 2025 puntano ad avere la quota di spostamenti in automobile al di sotto del 20% nelle zone centrali (taxi compresi). Lo ha annunciato Hep Monatzeder, vicesindaco della città dove ha sede la Bmw - provate adesso ad immaginare il sindaco di Torino Piero Fassino e la Fiat di Marchionne. Monaco, per raggiungere l'obiettivo, solo nell'ultimo anno ha già stanziato 10 milioni di euro per la ciclabilità. In Italia (2.556 ciclisti morti negli ultimi dieci anni), sull'onda di un'evidenza che ha trasformato la bicicletta nello strumento più efficace per praticare più che sognare un mondo diverso, soprattutto nelle città, anche la politica si è dovuta accorgere che qualcosa si sta muovendo. Con ritardo e inconcludenza imbarazzanti. A parte i sindaci volonterosi che ci deliziano con improbabili pedalate propagandistiche, diverse associazioni hanno presentato una proposta di legge proprio per introdurre il limite dei 30 Km/h nei centri urbani (già sottoscritta da circa sessanta deputati di tutti gli schieramenti).

L'obiettivo della Rete della Mobilità Nuova, seppure meritevole, dice a che punto siamo rispetto alle esperienze europee: obbligare i sindaci, entro due anni, a far scendere gli spostamenti motorizzati con mezzi privati almeno sotto al 50%. Un'impresa disperata visto che la quasi totalità delle risorse per la mobilità vengono destinate all'alta velocità e alla rete autostradale, anche se le lunghe distanze assorbono meno del 3% degli spostamenti di persone e merci. Eppure, nonostante l'ottusità del sistema, in Italia le campagne di sensibilizzazione per sostenere il limite di velocità di 30 km/h si stanno moltiplicando con diverse iniziative dal basso. Il rischio però è che per un difetto di comunicazione non si riesca a far comprendere la portata di un semplice provvedimento che nelle nostre città sarebbe a dir poco storico, se non irrinunciabile: qui non ci sono in gioco solo i diritti (o le pretese) di qualche scanzonato cittadino che vuole liberarsi dalle automobili per pedalare in santa pace. C'è ben altro.

Proviamo a mettere tra parentesi - anche se è impossibile - lo studio approfondito appena realizzato dall'Istituto dei Tumori di Milano che ha dimostrato una stretta relazione tra l'inquinamento e il rischio di tumori al polmone (300 mila le persone testate, 36 i centri europei coinvolti). È stato misurato l'inquinamento dovuto alle polveri sottili (Pm10 e Pm2,5) causato in gran parte all'emissione dei motori a scoppio e agli impianti di riscaldamento. La conclusione è drammatica: per ogni incremento di 10 microgrammi di Pm10 per metro cubo presenti nell'aria, aumenta il rischio di tumore al polmone di circa il 22%. Sono cifre da ecatombe, questo tipo di tumore rappresenta la prima causa di morte nei paesi industrializzati, e solo in Italia nel 2010 si sono registrati 31.051 nuovi casi. Non bisognerebbe aggiungere altro per imporsi l'obiettivo di rottamare il mezzo di trasporto più mortifero, ma torniamo al limite dei 30 Km/h per entrare nello specifico dei tanti benefici per tutti. Automobilisti compresi. Prima di tutto si abbasserebbe la mortalità. In Europa, tumori a parte, ogni anno muoiono 35.000 persone a causa di incidenti stradali (un milione e mezzo rimangono ferite). L'Italia contribuisce alla statistica con 5 mila morti all'anno (e 300 mila feriti): quasi un quarto delle vittime sono pedoni e ciclisti. Tutta colpa della velocità? Sì.

Come dimostra uno studio londinese, quasi tutti gli incidenti che hanno ucciso ciclisti sono avvenuti in strade con un limite fissato a un minimo di 48 Km/h. I dati sui pedoni sono inconfutabili: se un'automobile investe una persona a 65 Km/h la uccide nel 90% dei casi, a 50 Km/h nel 20% dei casi, a 30 Km/h nel 3% dei casi. Data per scontata la maggior vivibilità delle strade con l'istituzione delle "zone 30" - cosa di per sé gradevole ma che per alcuni potrebbe non essere prioritaria - va sottolineata anche la considerevole riduzione dei costi sanitari a fronte di una diminuzione dei sinistri (il Pil annuale perso a causa degli incidenti viene valutato attorno al 2%). Inoltre, la riduzione della velocità, come dimostrano alcuni studi effettuati ad Amburgo, farebbe diminuire dal 10 al 30% l'emissione di gas inquinanti. Sul banco degli imputati ci sono gli automobilisti che si ostinano a guidare in città, eppure il numero magico funzionerebbe anche per loro: consumerebbero meno carburante (12% secondo una ricerca tedesca) e anche loro morirebbero con minor frequenza.

Il mio sogno: Roma ciclabile
di Ignazio Marino

Quello con la bicicletta è stato un incontro casuale. Non sono un appassionato della prima ora. Ho scoperto la bellezza della pedalata per necessità, solo nel 2002. Mi ero da poco trasferito negli Usa con la mia famiglia. Arrivati a Philadelfia avevamo deciso di acquistare un'auto, poi è stata sufficiente una piccola ricognizione della città per accorgerci che avevamo tutto a pochi chilometri di distanza dalla nostra casa: la scuola di mia figlia e l'ospedale dove sarei andato a lavorare. Decidemmo così di fare a meno delle quattro ruote optando per le due. Da quel giorno non ho più smesso di pedalare. A volte le cose belle capitano per caso e per caso ho scoperto tutti i vantaggi del muoversi in bicicletta: non inquina, non ha costi di gestione, rispetta l'ambiente e aiuta a rimanere in forma. Da sindaco ho un piccolo grande sogno: modificare radicalmente il rapporto tra la città e le due ruote. Basta osservare la città per rendersi conto come in questi anni sempre più persone scelgano la bicicletta per muoversi, e non solo nel centro storico.

Roma, rispetto ad altre città europee, è rimasta indietro. Le piste ciclabili non sono ancora integrate alla viabilità cittadina; il servizio di bike sharing non solo non è mai decollato ma è fallito, con conseguenti danni economici per le casse del comune. Voglio fare solo un paio di esempi per far comprendere a tutti quanto l'uso della bicicletta possa essere rivoluzionario per Roma. Nella Capitale, tra le persone che utilizzano l'automobile, il 60% lo fa per un percorso non superiore ai 5 chilometri. Il nostro compito sarà offrire loro un'alternativa all'auto privata, per mezzo di un servizio di bike sharing capillare in tutta la città e in prossimità delle stazioni della metropolitana. Servono inoltre corsie preferenziali con percorsi protetti e sicuri.

Provvedimenti necessari a decongestionare il traffico nonché a migliorare la qualità della vita nella città e a tutelare la salute di tutti. Ma non solo. La mobilità su due ruote può diventare anche un'attrazione turistica e una risorsa per l'economia romana. Sono sempre più numerosi gli stranieri che visitano Roma in bicicletta, un nuovo modo, ecologico e pulito, per scoprire le bellezze della città. La Giunta comunale, nel corso di questo mandato, dunque, lavorerà per raggiungere alcuni importanti obiettivi: una delle prime azioni sarà investire, seriamente, in un programma finalizzato al rilancio del bike sharing. Roma è una delle poche capitali europee che non lo possiede. Vogliamo, inoltre, ridurre il traffico privato, anche attraverso la realizzazione di aree pedonali sempre più vaste. Non si può prescindere, infine, da un miglioramento e da un potenziamento del trasporto pubblico. Il progetto della pedonalizzazione dei Fori va in questa direzione: chiudere lo spazio alle auto private e restituirlo alle persone, alla storia e alla cultura. Sarà un grande cambiamento per Roma. Sono sicuro che i romani lo apprezzeranno.

Mariastella Gelmini nipotina prediletta caricaturale di certe distorsioni della nostra cultura, e un'istruzione sganciata dalla realtà territorialesociale, ed economica. La Repubblica, 1 agosto 2013 (f.b.)

DALLE mie parti, per indicare qualcuno su cui non è possibile fare affidamento, sulla cui opinione è meglio non contare, si dice che “non sa da che parte è girato”, ed espressioni simili ci sono in altre lingue, come lo spagnolo “no saben donde están parados”. Pare che il buon senso popolare opponga un'inappellabile diffidenza verso chi non si sa orientare nello spazio. Non conosce i posti in cui si trova, non riconosce i riferimenti di base quando li vede. Si è appena chiuso il quarto anno scolastico dopo il cosiddetto “Riordino Gelmini” e il prossimo anno sarà quello in cui si diplomeranno i primi ignoranti autorizzati in fatto di geografia. È una cosa a cui penso spesso nei miei tanti viaggi. Penso a quanto oggi è possibile sapere e conoscere, di un territorio, anche senza spostarsi. Però... Internet certamente è una risorsa preziosa, la globalizzazione ci ha consentito l'accesso a una mole di informazioni che a volte persino intimidisce.

Ma avere l'accesso alle informazioni non significa, di per sé, acquisire competenze. Per quelle ci vuole un processo più lungo e possibilmente ben guidato, che si chiama, genericamente, scuola. E invece molti studenti, e purtroppo ormai anche tanti adulti, quando si parla di geografia dicono cose tipo: «Perché studiare geografia? Quello che hai bisogno di sapere te lo può dire un navigatore satellitare». Uno degli effetti indesiderati di un'acritica tendenza alla sempre maggiore velocità è una certa qual cialtronaggine del pensiero, che porta a considerare appaiabili concetti e idee che nei fatti sono ben distinti. Occorre ormai un certo sforzo intellettuale per ricordarsi costantemente che c'è differenza tra parlare (o scrivere) e comunicare, tra presenziare e partecipare, tra spostarsi e viaggiare. Forse è proprio a causa della forzata sinonimia tra questi ultimi due termini che l'allora ministro per l'Istruzione, Maria Stella Gelmini, decise, nel 2008,di varare il cosiddetto “riordino” che, a partire dal 2009, fece sostanzialmente sparire l'insegnamento della geografia dalle scuole superiori.

Detto così forse è fuorviante e potrebbe sembrare che il provvedimento non sia stato guidato da precisi criteri. Invece si sono fatti dei distinguo, e vale la pena sottolinearli. Licei: l’insegnamento della geografia non esiste più in forma autonoma; è accorpato con “storia” (3 ore settimanali), ed è affidato a non specialisti. Istituti tecnici commerciali: la materia, che prima si studiava solo nel triennio, ora si studia solo nel biennio. Quindi un anno in meno. Nel triennio si fa poi “Relazioni internazionali” e “Geopolitica”, a cura degli insegnanti di diritto e di Economia aziendale. Istituti tecnici e professionali: non si fa più geografia nel biennio (che ora però è parte dell'obbligo scolastico). Istituti nautici, professionali per il turismo e alberghieri: udite udite, l'insegnamento della geografia è stato semplicemente eliminato.

È da quest'ultima informazione che parte lo sbigottimento: siamo un paese che regge una buona parte della sua economia sulle produzioni agroalimentari di qualità, le quali sono legate a specifici territori, e sia per questa peculiarità sia per lo straordinario patrimonio artistico siamo anche un paese che basa sul turismo un'altra bella fetta di Pil, e noi cosa facciamo? Perché lavoriamo per far sì che le prossime generazioni di operatori turistici e alberghieri non solo non colgano le peculiarità culturali di chi arriva, ma non sappiamo nemmeno presentare quelle dei territori in cui lavorano? E come se non bastasse, sforneremo anche liceali ignoranti in geografia, i quali andranno all'università e poi faranno carriera e poi alcuni di loro diventeranno ministri, magari dell'Agricoltura, o dei Beni culturali.

E a proposito di ministeri: più o meno nello stesso momento in cui la Gelmini varava il riordino, nasceva, ad opera del ministero dell'Agricoltura, la Rete rurale nazionale, un coordinamento di attori istituzionali e della società civile che porta avanti la riflessione sullo sviluppo rurale partendo dal principio sacrosanto che non esiste una ricetta unica, ma ce ne sono tante quanti sono i territori, con le loro caratteristiche fisiche e culturali. Era, ed è, una buona idea; peccato che a minarla alla base stessa del suo senso sia proprio l'opera di un ministro del medesimo governo.

Chi si occupa di agricoltura e di ruralità sa, infatti, che i territori si raccontano attraverso i prodotti, ma quei racconti bisogna saperli ascoltare, bisogna conoscere la lingua che i prodotti parlano. È una lingua fatta di climi, composizioni del suolo, storie economiche e sociali, guerre, religioni. Il successo dei mercati contadini, così come quello di eventi come il Salone del Gusto o Cheese sta nel fatto che l'assaggio di un prodotto, la conversazione con il suo artefice sono le chiavi per aprire porte di territori da esplorare. Ma come si potrà in futuro raccontare le peculiarità dei pascoli lucani, se chi ascolta farà fatica a ricordare dove si trova la Basilicata? La nuova ministra per l'educazione vorrà porre rimedio a quel “riordino”? Si torni a studiare la geografia nelle scuole, e si affidi questo insegnamento a docenti preparati. Perché di gente che “non sa da che parte è girata” ne abbiamo intorno a sufficienza.

Da sabato le superfetazioni stradali ai Fori romani saranno chiusieal traffico Il sindaco: «Passeremo da 1.200 veicoli all’ora a 40». Per festeggiare l’evento una lunga notte di festa tra spettacoli, performance e cultura. La Stampa, 29 luglio 2013, con postilla

Il parco archeologico più grande del pianeta e un Colosseo liberato dalla morsa delle auto. Era il sogno di Antonio Cederna. E non solo. I Fori imperiali pedonalizzati, primo atto del sindaco di Roma Ignazio Marino, li volevano anche due suoi illustri predecessori, Ernesto Nathan e Luigi Petroselli. Dopo decenni e decenni di dibattiti e di tentativi, sabato tre agosto alle 5.30 scatterà la pedonalizzazione: via le auto private e una festa notturna, la Notte dei Fori, per celebrare quella che per romani e non solo sarà una vera rivoluzione. Di viabilità ma anche di prospettiva, di visione della città.

«Mi ritengo fortunato per poter dare avvio a qualcosa sulla quale si riflette da moltissimi anni - sottolinea Marino in una conferenza stampa con l’assessore alla cultura Flavia Barca- a chi protesta chiedo: può il Colosseo essere una rotatoria?». E Marino non vuole fermarsi qui. «Andremo avanti e nei tempi più brevi possibili arriveremo ad una pedonalizzazione completa. Sarà una passeggiata nella storia», spiega. E snocciola i numeri del sondaggio lanciato per capire il gradimento dell’iniziativa senz’altro coraggiosa. «Abbiamo provveduto a chiudere il sondaggio che abbiamo lanciato il 25 luglio. Il 75% si è detto favorevole alla pedonalizzazione – dice - A rispondere in tutto sono state 24 mila persone e di queste la maggior parte è tra i 40 e i 49 anni. Più del 40% ha dichiarato di transitare abitualmente con il proprio mezzo sui Fori e oltre il 50% è consapevole delle conseguenze della pedonalizzazione». Lo stesso Marino su twitter racconta: «Da giovane parcheggiavo anche io a Piazza del Popolo, ora chi si sognerebbe di farlo?».

Insomma, sembra dirci il sindaco, le cattive abitudini, come quella di scorazzare con l’auto sotto il naso del Colosseo, si abbandonano subito. «Vogliamo restituire il Colosseo non solo ai romani ma a tutto il pianeta», chiosa e già sogna non solo la chiusura totale al traffico ma come valorizzare il patrimonio storico-archeologico. La pedonalizzazione, fa notare il sindaco di Roma, «è solo l’inizio di un percorso che dovrà portare a competizioni internazionali per scegliere qual è la strategia migliore per proseguire gli scavi archeologici. Sotto questa striscia di asfalto che divide in due il Foro romano dai Fori imperiali ci sono il Foro di Cesare, di Augusto, di Nerva e Traiano. Credo che abbiamo la responsabilità non di possederli, ma di valorizzarli». «Dobbiamo aprire un dibattito internazionale sulle scelte da compiere - aggiunge Marino - se ad esempio riportare alla luce i resti o utilizzare strategie differenti che mettano in risalto la stratificazione architettonica dei secoli». Per ora tutto è pronto per dire addio al traffico privato. E per festeggiare l’inaugurazione della pedonalizzazione sabato 3 agosto arriva la “Notte dei Fori”, una specie di Notte bianca in miniatura all’ombra del Colosseo, con acrobati, artisti di strada, musica, teatro ma anche danzatori, video e foto proiettati sui monumenti e un funambulo che camminerà su un filo teso sopra le rovine romane. La serata sarà dedicata a Renato Nicolini, l’ideatore dell’Estate Romana scomparso l’anno scorso, e per ricordarlo i lampioni su via dei Fori spegneranno le loro luci e gli spettacoli si fermeranno poco prima della mezzanotte. Poi la festa ricomincerà. E i romani da quella notte inizieranno ad abituarsi a guardare i Fori e il Colosseo da un’altra prospettiva. Che non sarà quella dei finestrini delle loro auto.

postilla

Finalmente si comincia. Eliminare lo smog, il frastuono e l’ingombro del traffico è un primo passo significativo per realizzare «il parco archeologico più grande del pianeta», e per restituire ai cittadini romani la dignità della loro storia e agli abitanti attuali e futuri del pianeta una patrimonio che è di tutti . Ma oltre alla morsa del traffico c’è quella del cemento. Si dovrà affrontareil problema di liberare quello che sarà il parco archelogico dallo stradone militare (non è forse in contrasto, almeno ideale, con l'articolo 11 della Costituzione?) che ne ha interrotto la continuità. Bisognerà allora rivolgersi a tecnici delle demolizioni e per operare una rimozione della superfetazione. Poi, più (e invece) di concorsi internazionali occorrerà costituire un pool di archeologi che esplorino e analizzino i differenti strati della storia del sito e saggiamente suggeriscano al decisore come restituire alla conoscenza e alla meditazione di tutti ciò che la storia ha lì accumulato. E magari includendo nel numero dei decisori anche il sovrano, il popolo. Il quale, come testimoniano i risultati del referendum organizzato dal sindaco, sembra interessato al miglior uso del patrimonio avito.

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