Qualche giorno fa Eddyburg ha pubblicato una riflessione sulla fine della stagione urbanistica che ha avuto nel “modello Roma” il suo punto di riferimento. L’esperienza del suo PRG, avviata dalle giunte Rutelli e Veltroni a partire dagli anni ’90, viene ora valutata alla luce delle criticità emerse ancor prima che il piano venisse definitivamente approvato. (Cfr. J. Bufalini,
Il PRG di Roma, un esempio da non seguire )
La novità introdotta nella prassi urbanistica nazionale dal piano per la Capitale sono i diritti edificatori e loro successiva trasformazione in volumi edilizi attraverso il meccanismo della compensazione perequativa. Il “modello Roma” ha fatto scuola, sia nelle grandi città che nei piccoli centri, tanto che questa sembra ormai essere l’unica strategia percorribile per la pianificazione urbanistica, anche se non sono mancate le voci critiche puntualmente registrate da Eddyburg. Qui ne presento una breve rassegna.
Diritti edificatori
Cerchiamo innanzitutto di capire da cosa discende l’invenzione di questo meccanismo pensato, come si evince dal caso di Roma, per superare i limiti della costruzione della città pubblica che, ricorda Campos Venuti, è fortemente condizionata dai meccanismi della rendita fondiaria. L’assunto è semplice: i vecchi piani “dirigistici” pensati per la crescita demografica e socio-economica della stagione del boom economico ed oltre, prevedevano incrementi di popolazione e, conseguentemente di volumetrie, che non hanno trovato riscontro in ciò che poi è veramente successo. I centri urbani si sono infatti svuotati di abitanti a beneficio dell’hinterland, cresciuto sia in abitanti che in edificazioni mentre la città vera è propria diventava sempre di meno il luogo in cui si vive e sempre di più la destinazione degli spostamenti casa-lavoro-scuola-ecc.
Tuttavia, malgrado un po’ delle città da dentro i loro confini amministrativi si fossero spostate all’interno dei territori dei comuni confinanti, le previsioni insediative rimanevano vigenti anche se non realizzate, poiché, appunto, risucchiate dalle migliori condizioni di mercato offerte, sia per la domanda, che per l’offerta, dagli abbondanti terreni ex agricoli dei comuni di cintura. Quindi che farne di quel potenziale edificatorio inespresso ma computato dai vecchi PRG? E’ possibile far tornare a destinazione agricola dei terreni dove magari si coltiva qualcosa ma per i quali il piano urbanistico prevede un’edificabilità? Di primo acchito viene da rispondere sì ma questo ragionamento lineare si contra con lo scoglio della controversa questione dei vincoli urbanistici, cioè della possibilità di separare la proprietà del suolo dalla sua edificabilità.
In sostanza vincolare un terreno ad una destinazione che preveda solo marginalmente l’edificazione, come quella agricola, va di pari passo con il riconoscimento della sua funzione intrinseca, che non è quella di ospitare volumi edilizi ma di consentire la produzione di beni primari ed anche di preservarne valori paesaggistici che sono intrinsecamente connessi. Ai proprietari del suolo non edificato, secondo la giurisprudenza vigente nulla è dovuto in termini d’indennizzo per la sua mancata urbanizzazione, ci ricordano Edoardo Salzano e Vincenzo Cerulli Irelli. (Cfr. E. Salzano,
Forse che il diritto impone di compensare i vincoli sul territorio? e
E’ confermato: non esistono “diritti edificatori” né “vocazioni edificatorie” di suoli non ancora edificati, oltre al parere di
V. Cerulli Irelli ).
Il problema però si pone quando la non edificabilità di un suolo è determinata dalla sua destinazione ad una funzione di pubblico interesse, come ospitare una scuola, un parco, o un campo sportivo. Ed è qui che s’insinua il dispositivo pensato per aggirare l’ostacolo più grosso fino ad oggi incontrato dall’attuazione delle previsioni urbanistiche: il dover procedere all’esproprio delle aree vincolate per la realizzazione di servizi pubblici indennizzandole a prezzi di mercato. La distanza tra la città pubblica pensata dalla pianificazione urbanistica e quella realizzata dalle scelte della rendita immobiliare è incolmabile: tanto vale venire a patti con chi non si può battere per manifesta superiorità. E’ dalla presa d’atto della sostanziale impossibilità di regolare il mercato che si fanno avanti proposte tese, appunto, ad utilizzarne gli strumenti.
Perequazione
Se si devono realizzare quelle dotazioni di attrezzature collettive delle quali le città italiane sono cronicamente sottodotate, in confronto a quanto avviene nel resto del mondo sviluppato, meglio quindi mettersi d’accordo con la rendita immobiliare, invece di contrastarla a colpi di vincoli sui quali si blocca l’attuazione delle previsioni di piano. Se gli indennizzi non si vogliono pagare a prezzi di mercato e se si vogliono evitare i conteziosi che spesso accompagnano la cancellazione di previsioni edificatorie, se non si vuole premiare i pochi fortunati che possiedono un terreno già edificato o di confermata edificabilità, si può tentare di distribuire equamente i vantaggi economici connessi ai cambi di destinazione d’uso. Poco e a tutti è in teoria concesso di edificare, salvo poi mettersi d’accordo sul dove e sul che cosa. E’ il principio del pianificar facendo assunto dal PRG di Roma come prassi consolidata, dopo anni di programmazione negoziata che ha consentito agli operatori di avere ampi margini di trattativa con l’amministrazione comunale.
Il maggiore problema della Capitale sono le estese periferie prive di qualità urbana e mal servite dal trasporto pubblico; da lì discende l’idea del piano approvato nel 2003 della creazione di 18 nuove centralità nei settori del vastissimo territorio comunale urbanizzati senza un disegno urbanistico. Lì si concentreranno, attraverso il meccanismo della compensazione perequativa, i diritti edificatori ereditati dalle previsioni non realizzate dal PGR del 1962, equivalenti ad un indennizzo per la parziale riconferma delle precedenti previsioni edificatorie. Si costruisce meno di quanto avrebbe consentito il vecchio piano, si salva quello che resta dell’Agro Romano e si concentrano i nuovi volumi nei settori urbani cresciuti senza servizi e, questi ultimi, saranno realizzati proprio in virtù della cessione gratuita di aree a fronte della possibilità di edificare lasciata ai privati.
Il limite di questa che sembra la soluzione di tutti i mali della pianificazione urbanistica è che la strategia si consuma solo all’interno dei confini comunali, come se lì si esaurisse la capacità degli operatori di trovare condizioni migliori per fare il loro mestiere. Non è affatto detto che del tal servizio, ceduto in cambio di una certa quantità di volumi costruiti, potrà finalmente beneficiare il tal quartiere periferico se appena più in là, nel comune limitrofo, lo strumento urbanistico consente di fare affari migliori. In sostanza il meccanismo della compensazione perequativa subordina i bisogni dei cittadini alle convenienze degli operatori immobiliari, liberi di investire dove le condizioni sono per loro più vantaggiose. Se il dimensionamento delle previsioni di piano non è fatto alla scala dell’area metropolitana, che ha assorbito negli ultimi decenni parte della popolazione precedentemente insediata dentro i confini amministrativi della città, e se ad esso non sono collegate precise strategie che riguardano la mobilità, visto che coloro che oggi vivono nei comuni limitrofi continuano in grandissima parte ad entrare in città per lavorare, studiare, fare acquisti, ecc., si rischia di regalare alla rendita immobiliare diritti edificatori in cambio di nulla.
Questi sono gli argomenti utilizzati da Vezio De Lucia e Paolo Berdini contro le strategie messe a punto dal piano di Roma ed introiettate dalla prassi urbanistica corrente. (Cfr. V. De Lucia,
Il nuovo piano regolatore di Roma e la dissipazione del paesaggio romano, e P. Berdini,
I numeri, i diritti acquisiti e la compensazione, e
Roma. Definitivamente approvato il PRG della rendita immobiliare).
Anche le strategie del Piano di Governo del Territorio di Milano, vuoi per la natura dello strumento urbanistico, vuoi per una precisa scelta dell’amministrazione comunale, sono pensate per esaurirsi dentro i confini comunali. Il piano adottato nel 2010 è il punto di arrivo di un percorso di ridisegno della ex Capitale morale iniziato nel 2002 con il Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali intitolato Costruire la grande Milano, funzionale alla gestione delle trasformazioni della città per parti, in deroga al piano generale e secondo la nuova versione della programmazione negoziata introdotta con i Programmi Integrati d’Intervento.
L’impostazione del documento, che subordina le strategie del piano alle iniziative del mercato, da una parte - sostiene Edoardo Salzano – ricostruisce correttamente la necessità di modificare la legislazione urbanistica in relazione ai cambiamenti avvenuti, dall’altra però apre la strada all’idea che interesse pubblico ed iniziativa privata siano sullo stesso piano, idea poi effettivamente assunta dalla riforma della legge urbanistica della Lombardia. (Cfr. E. Salzano
Il modello flessibile a Milano).
Nel piano del 2010 la grande Milano avrebbe dovuto riguadagnare gli oltre 250.000 abitanti persi nei precedenti 30 anni e, appunto, acquisiti dall’area metropolitana, ma il meccanismo flessibile con il quale si sarebbe dovuto incentivare l’iniziativa privata, cioè la possibilità di utilizzare i diritti edificatori su tutto il territorio comunale, avrebbe determinato la possibilità di incrementare la popolazione per quasi il 50% di quella insediata attualmente (circa 1.300.000 abitanti).
Tutta la superficie comunale, anche i parchi pubblici ed i servizi come gli ospedali, secondo il PGT di Milano approvato dalla giunta Moratti, generano diritti edificatori da utilizzarsi all’interno degli ambiti di trasformazione urbana. Il meccanismo viene regolato dall’istituzione di una “borsa” che consente il loro scambio tra detentori ed acquirenti. Questo meccanismo di valorizzazione immobiliare si sarebbe applicato anche ai suoli agricoli che a sud ancora cingono Milano, secondo quella proposta di piano sulla quale si sono concentrate le critiche di Giuseppe Boatti, Fabrizio Bottini e Maria Cristina Gibelli. (Cfr. G. Boatti,
Milano PGT: Privati Gestiscono Tutto, F. Bottini, M.C. Gibelli,
Milano: rilanciare la metropoli è possibile!).
Il piano di Milano tuttavia non ha abbandonato, anche dopo la revisione voluta dalla giunta Pisapia, lo strumento della perequazione come via maestra della sua attuazione, così come non è riuscito ad introiettare la visione dell’area metropolitana come riferimento delle scelte insediative. Sono queste le criticità del piano adottato nel 2012 sottolineate da Boatti e Gibelli. (Cfr. G. Boatti, PGT: il piano che non serve a Milano, e M.C. Gibelli, Ma Pisapia si sta (pre)occupando dell’urbanistica milanese?, e PGT di Milano: manca il coraggio o manca la sinistra?).
La dimensione dell’area vasta e le sue relazioni con le strategie per la mobilità, ampiamente sottovalutate dal piano milanese, sono gli aspetti verso i quali si indirizzano le critiche di Giorgio Goggi, il quale sottolinea inoltre come il PGT dimentichi la tradizione milanese nel campo dell’edilizia sociale, che ha supportato la crescita demografica della città costruendone interi settori, e rinunci alla previsione chiara del sistema dei servizi proprio in nome di quella flessibilità dell’attuazione del piano determinata dai meccanismi scarsamente controllabili dello scambio dei diritti volumetrici e della loro distribuzione perequativa. (Cfr. G. Goggi,
Criticità del PGT 2012: mobilità, edilizia sociale, regole e servizi).