Ambiente e paesaggio sono la stessa cosa, perché comprendono lo stesso complesso di elementi che normalmente chiamiamo oggetti, e che di fatto include quasi tutto quello che vediamo. Allo stesso tempo sono cose profondamente differenti. I logici direbbero che sono termini che hanno lo stesso significato, ma non lo stesso senso, perché si riferiscono a maniere differenti con cui le medesime cose si presentano. Nel mondo astratto della geometria non vi è però spazio per la storia, e tutto è sempre osservato con lo stesso sguardo. Al contrario, storia e ambiente sono diversi pur essendo la stessa cosa perché quel che è storicamente mutato è proprio la maniera di guardarla.
Che esista l'ambiente non è per nulla scontato.
L'ambiente non è affatto la natura. Perché questa diventi quello, è necessario che l'elemento umano, si chiami fuori e si opponga al resto, si isoli in posizione frontale rispetto all'insieme circostante, si riconosca una specificità che possa fondare il proprio eccezionale statuto. Il passaggio dalla natura all'ambiente presuppone insomma la stessa rivoluzionaria separazione che in pittura, con la prospettiva, riguarda la sistematica distinzione, in precedenza sconosciuta, tra primo piano e sfondo. Oggi per noi essa è abituale, ma prima del Quattrocento, cioè prima dell'inizio della riduzione del mondo ad un unico gigantesco spazio, non lo era affatto.
Il paesaggio viene applicato come modello conoscitivo quando ci si rende conto che la conoscenza dell'ambiente è molto più complessa, sotto il profilo politico e sociale, di quanto oggi normalmente si riesca a ricordare.
L'artefice di tale operazione si chiamava Alexander von Humboldt, lo scienziato berlinese che nella prima metà dell'Ottocento riuscì con i suoi libri a convincere l'intera borghesia europea (ma anche quella russa ed americana) ad abbandonare la propria attitudine contemplativa nei confronti della natura e a dotarsi invece di un sapere finalmente in grado di garantirle la conoscenza e il dominio del mondo. La strategia politico-culturale di Humboldt, figura-chiave dell'Europa ancora alle prese con il potere di marca aristocratico-feudale, si fondava sul riconoscimento del carattere fondamentalmente estetico della cultura in possesso dei rappresentanti della società civile, fino ad allora esclusi, specie in Germania, dal sapere di governo, dalla conoscenza delle discipline necessarie al controllo delle formazioni statali. È proprio a questo pubblico, di cui ancora prima di Baudelaire Humboldt riconosce la pigrizia, che egli si rivolge parlandone lo stesso linguaggio, quello dei lettori dei romanzi di Bernardin de Saint Pierre o di Chateaubriand e delle opere dei poeti e, appunto, dei conoscitori delle opere pittoriche dei paesaggisti olandesi e italiani. Il suo scopo era di trasformare tale cultura, di matrice letteraria e pittorica, in cultura scientifica, mutandone insomma dall'interno il significato. E proprio per questo il paesaggio (che per Humboldt era quello dei dipinti dell'Everdingen e del Ruysdael, oltre che dei Carracci) venne concepito come il primo stadio della conoscenza dell'ambiente, e come schema del mondo inteso come un'armonica totalità di tipo estetico-sentimentale, espresso attraverso un'originaria impressione sull'animo e cui è estranea ogni analisi razionale.
Con Humboldt il paesaggio entra dunque a far parte dei modelli conoscitivi della cultura occidentale soltanto sulla base di un vero e proprio processo di politicizzazione del dato estetico, funzionale al passaggio dall'assetto aristocratico- feudale a quello borghese o civile che si voglia dire del quadro europeo. Ed è urgente ricordare adesso tutto questo perché oggi avviene esattamente l'oppo- sto: dalla politicizzazione dell'estetico si è passati, nei confronti dell'ambiente e della sua analisi e gestione, all'estetizzazione del politico, con il conseguente rovesciamento dell'impostazione ottocentesca e la riduzione dell'ambiente al paesaggio stesso (cioè alla forma del prescientifico modello adoperato all'inizio per tentare di afferrare la complessità di quest'ultimi).
Prova ne sia la Convenzione Europea del Paesaggio adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa il 19 luglio del 2000, la cui filosofia ispiratrice è appunto basata sulla dichiarata sostituzione del paesaggio al territorio e all'ambiente come ambito per l'applicazione di politiche di salvaguardia, riqualificazione, gestione e progettazione all'interno dei singoli Stati. Il problema al riguardo consiste nel fatto che l'idea di paesaggio si fonda sul concetto di equilibrio, di armonia, sulla pacifica coesistenza degli elementi e sulla coerenza dei loro rapporti. Al contrario oggi l'ambiente è sottoposto a pratiche sempre più squilibranti, violente e distruttive che si traducono in effetti disastrosi. Si pensi soltanto alla crescente scarsità delle fonti energetiche e insieme ai sempre più evidenti cambiamenti climatici: entrambi sono dovuti alla globalizzazione, che per il momento non è nient'altro che l'estensione all'intero pianeta della rivoluzione industriale iniziata in Inghilterra un paio di secoli fa, e fondata sull'uso di combustibile fossile. Come dunque pensare il collasso, la crisi, il disastro? Aveva ragione Gregory Bateson: l'ecologia è qualcosa che prima di tutto riguarda la nostra mente, i modelli di pensiero con cui tentiamo di venire a patti con il mondo. E oggi abbiamo un disperato ed urgente bisogno di modelli nuovi.
Il testo riassume la lectio magistralis svolta nell'ambito delle manifestazioni di Scienza e Ambiente, nell'aula absidale di Santa Lucia a Bologna. Al termine di due ore di rara intensità culturale, Franco Farinelli - allievo di Lucio Gambi - ha discusso coi presenti riprendendo i suoi rilievi alla Convenzione Europea del Paesaggio (punto di riferimento ormai acriticamente generalizzato delle attuali legislazioni in materia). In essa la sostituzione del "territorio" col "paesaggio" rimanda ad una valenza ideologica pericolosa che espunge la politica delle relazioni e della realtà a favore dell'estetica e della percezione individuale. In questo rovesciamento assoluto rispetto ad Humboldt (e a Kant...), il modello del paesaggio appare 'debole' dal punto di vista cognitivo, in quanto non adeguato ad interpretare e quindi anche a fornirci strumenti contro le alterazioni dell'ambiente e i disastri sul territorio.
Al termine, un'esortazione per tutti: " Il maggiore pericolo per la sopravvivenza dell'umanità sta nella nostra mancanza di coraggio di pensare cose nuove. Ci vuole rigore, fantasia...insomma quello che una volta si chiamava passione."