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Alberto Magnaghi
Il territorio come bene comune
5 Dicembre 2007
Paesaggio (e territorio, e ambiente)
Il "bene comune" come terza forma della proprietà: una verità da affermare nelle cose. Intervento al convegno dell’ ANCI Toscana Comuni, comunità e usi civici per lo sviluppo dei territori rurali (Grosseto 15 settembre 2006)

Per inquadrare il potenziale ruolo innovativo degli usi civici nella riqualificazione dei territori rurali, introduco una definizione generale di “territorio” come ilbene comune per eccellenza. Il territorio è il prodotto di lunga durata di processi di civilizzazione e di domesticazione della natura che si sono susseguiti nel tempo trasformando il medesimo ambiente fisico in un evento culturale (il paesaggio urbano e rurale) attraverso relazioni coevolutive fra insediamento antropico e ambiente. Quando si parla di sostenibilità come insieme di risorse da trasmettere alle generazioni future, parliamo innanzitutto del patrimonio territoriale che ereditiamo da millenni di processi di territorializzazione. In Toscana l’impianto infrastrutturale che utilizziamo è principalmente etrusco e romano, il paesaggio che viviamo è quello del fitto reticolo di città medio-piccole medievali e rinascimentali, il paesaggio agrario storico che ammiriamo è quello mediceo-lorenese.

Questa immensa opera d’arte vivente (prodotta e mantenuta nel tempo dalle “genti vive”, come le ha nominate Lucio Gambi), il territorio appunto, deve essere considerato bene comune in quanto esso costituisce l’ambiente essenziale alla riproduzione materiale della vita umana e al realizzarsi delle relazioni socio-culturali e della vita pubblica. Territorio non è quindi soltanto il suolo o la società ivi insediata, ma il patrimonio (fisico, sociale e culturale) costruito nel lungo periodo, un valore aggiunto collettivo che troppo spesso viene distrutto, anche da amministrazioni di centro-sinistra, in nome di un astratto e troppo spesso illusorio sviluppo economico di breve periodo, finalizzato alla competizione sul mercato globale.

Mettere al centro delle politiche pubbliche il bene comune “territorio” consente di perseguire la dimensione qualitativa, non solo quantitativa, dei singoli beni che lo compongono: acqua, suolo, città, infrastrutture, paesaggi, campagna, foreste, spazi pubblici e cosi via. La soluzione delle più importanti crisi ecologiche – ecosistemi, energia, salute, clima, alimentazione, relazioni città-campagna, impronta ecologica– passa attraverso la difesa e la valorizzazione dei caratteri peculiari di ogni luogo, nelle sue componenti urbane, naturali e agroforestali, perché è nella specifica modalità di interrelazione di queste tre componenti che si fonda in ogni luogo la forma puntuale della riproduzione della vita umana materiale e sociale.

L'insieme dei beni comuni che connotano ogni luogo e la sua specifica identità, dovrebbe costituire il nucleo fondativo, collettivamente riconosciuto, dello “statuto” di ciascun luogo e dei diritti dei cittadini rispetto ai singoli beni che lo costituiscono.

I piani che regolano le trasformazioni del territorio, a tutte le scale, dovrebbero pertanto essere preceduti e coerenti con un corpus statutario socialmente condiviso che definisce, con riferimento a un orizzonte temporale di medio-lungo termine, i caratteri identitari dei luoghi, i loro valori patrimoniali, i beni comuni non negoziabili, le regole di trasformazione che consentano la riproduzione e la valorizzazione durevole dei patrimoni ambientali, territoriali e paesistici.

Ma quali elementi del territorio possono iniziare un percorso di reidentificazione collettiva come beni comuni, non privatizzabili e non alienabili? Molti sono gli elementi in via di privatizzazione e sottrazione alla fruizione e alla gestione collettiva: le riviere marine, lacustri e fluviali, molti paesaggi agroforestali recintati, molti spazi pubblici urbani (sostituiti da supermercati e mall), gli spazi aperti interclusi della città diffusa, delle villettopoli e della disseminazione dei capannoni industriali, le gated communities e le città blindate, i paesaggi degradati e anomici delle periferie urbane, la ricca rete della viabilità storica (sostituita dai paesaggi semplificati delle autostrade e superstrade) e cosi via.

In questo quadro di processi di deterritorializzazione, va sottolineato il potenziale ruolo innovativo che possono assumere gli spazi aperti agroforestalinella produzione di beni e servizi pubblici per la riqualificazione della qualità dell’abitare il territorio e la città. Ruolo che può richiamare, con forme e attori sociali nuovi, le complesse e integrate funzioni storiche di governo pubblico dei beni comuni (nella classificazione estensiva richiamata da Giovanna Ricoveri[1]), dei beni demaniali e di uso civico come classificati più specificamente, ad esempio da Pietro Nervi[2]: Inoltre diviene fondamentale il ruolo degli spazi agroforestali nella rideterminazione di equilibri sinergici fra città e territorio, e nell’elevamento del benessere delle città (l’agricoltura periurbana, i parchi agricoli multifunzionali, ecc).

Molte di queste funzioni di produzione di beni e servizi pubblici si fondano potenzialmente su microimprese a valenza etica (in campo ambientale, agricolo e sociale), in grado di riappropriarsi di saperi produttivi, artigiani, ambientali, artistici per la cura del territorio.

E’compito dei municipi, delle province e delle regioni[3], favorire l’insediamento di questi attori negli spazi agroforestali agevolandone le attività produttive, le forme associative, (contro il dominio esogeno della grande industria agroalimentare), promuovendo forme sperimentali di ripopolamento rurale nelle quali le attività di produzione di “ beni comuni” siano riconosciute per agevolare il ritorno dei giovani (incentivi per il recupero e la riqualificazione dell’edilizia rurale, dei piccoli centri urbani e delle infrastrutture storiche come i terrazzamenti, le piantate, i fossi, i canali; remunerazione delle attività di cura ambientale e del paesaggio; servizi tecnici alle aziende; agenzie locali di sviluppo; promozione di forme associative e cooperative; promozione del microcredito, tutela degli interessi dei titolari dei diritti di uso civico, ecc).

In queste linee di rinnovamento delle politiche municipali sugli spazi agroforestali, i beni demaniali e gli usi civici residui, invertendo la deriva in atto dell’alienazione e della privatizzazione[4], potrebbero essere valorizzati, in questo contesto più generale, come laboratori sperimentali per forme collettive di ripopolamento rurale; il tema della proprietà collettiva degli usi civici si potrebbe trasferire in forme associate e pattizie fra enti pubblici e produttori/abitanti per la gestione delle terre.

L’azione di ripopolamento con queste caratteristiche di uso sperimentale degli usi civici e dei beni demaniali potrebbe avere l’obiettivo di ricostrurire comunità locali consapevoli dei beni comuni e forme comunitarie per la loro cura e gestione, attivando sinergicamente funzioni produttive, energetiche, paesistiche, economiche, e di elevamento di qualità della vita delle città, rivalutando il ruolo degli agricoltori quali fornitori di beni e servizi pubblici.

In questa prospettiva che, a partire dai laboratori sperimentali dei territori gravati da usi civici, dovrebbe riconsiderare il ruolo generale degli spazi agroforestali, non è più sufficiente considerare il territorio non edificato come bene pubblico (che lo stato, le regioni e gli enti locali possono vendere per far cassa, come sta avvenendo per molti beni demaniali); occorre che sia considerato come un bene comune, che non può essere venduto né essere usucapito, alla stregua delle terre civiche storiche. Occorre pertanto ricostruire la geografia delle terre civiche e di quelle comunitarie, da usare come laboratorio di un modello di sviluppo locale alternativo, ecologicamente sostenibile.

Attivando queste politiche è possibile superare la dicotomia fra uso pubblico e uso privato del territorio e dei suoi beni patrimoniali, reintroducendo il concetto “terzo” di uso comune di molte componenti territoriali: innanzitutto riconoscendone il valore di bene (o fondo) comune dotato di autonomia rispetto ai beni privati e pubblici; e individuando forme di gestione attraverso processi partecipativi di cittadinanza attiva che consentano di riprendere il senso (non necessariamente la forma storica[5]) degli usi civici: la finalità non di profitto ma di produzione di beni, servizi e lavoro per i membri della comunità e, più in generale, beni e servizi di utilità pubblica generale; la comunità costituita da una pluralità di abitanti/produttori di una collettività territoriale, che in qualche modo si associano per esercitare un uso collettivo dei beni patrimoniali della società locale; questo uso, essendo collettivo, conforma le attività di ogni attore allo scopo comune della conservazione e valorizzazione del patrimonio, la salvaguardia e valorizzazione ambientale, paesistica, economica del patrimonio stesso in forme durevoli e sostenibili (autoriproducibilità della risorsa), sviluppando forme di autogoverno responsabile delle comunità locali.

Il problema principale di questa prospettata inversione di tendenza è infatti che non si può dare una gestione del territorio come bene comune se esso è gestito da una sommatoria di interessi individuali in una società individualistica di consumatori[6]. E’ necessario dunque che esistano forme di reidentificazione collettiva con i giacimenti patrimoniali, con l’identità di un luogo, ovvero che sia agevolato un cambiamento politico-culturale (che ho denominato coscienza di luogo [7]) attraverso processi di democrazia partecipativa che ricostruiscano propensioni al produrre, all’abitare, al consumare in forme relazionali , solidali e comunitarie[8].

La coscienza di luogo si sviluppa anche come attivazione (e riattivazione) di saperi per la cura del luogo: conoscenza densa e profonda dei valori patrimoniali dal punto di vista ambientale, estetico, culturale, economico; capacità di distinguere le trasformazioni coerenti con la loro tutela e valorizzazione da quelle distruttive; capacità di attivare saperi e tecniche per la loro trasformazione (riappropriazione di saperi ambientali, territoriali, produttivi, artistici, comunicativi, relazionali)

L’introduzione di questo terzo attore comunitario (attraverso la proprietà collettiva di beni comuni) nella gestione e governo del territorio, favorirebbe una trasformazione politica generale, nel senso di contenere i processi di privatizzazione e mercificazione di beni comuni e di riattribuire all’ente pubblico territoriale il ruolo di salvaguardia dei beni stessi e della valorizzazione del patrimonio civico; favorirebbe inoltre la ricostituzione di momenti comunitari di gestione delle risorse favorendo la crescita di economie solidali nel campo alimentare, ambientale, paesistico, turistico, artigianale, culturale, formativo

[1] “una prima categoria include l’acqua, la terra , l’aria, le foreste e la pesca e cioè i beni di sussistenza da cui dipende la vita….saperi locali, spazi pubblici, biodoversità;…spazi di autorganizzazione delle comunità locali; una seconda categoria comprende i beni comuni globali come l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare, la pace… su cui non esistono diritti comunitari territoriali; una terza categoria è quella dei servizi pubblici: acqua, scuola, sanità, trasporti…”

G. Ricoveri, “Il passato che non passa” in: G. Ricoveri, Beni comuni fra tradizione e futuro,EMI, Bologna 2005

[2] a) produzione di beni: forestali legnosi e non legnosi, pascoli, frutti, selvaggina, prodotti dl sottobosco, qualità e tipicità alimentare, risorse del sottosuolo; reti corte di produzione e consumo, produzione energetica locale; b) produzione di servizi naturali finali: salvaguardia idrogeologica e valorizzazione dei sistemi fluviali, produzione di equilibri ambientali, conservazione della biodiversità, fruizione escursionistica, caccia e pesca, funzioni culturali (informazioni ecomuseali), funzioni estetico-paesaggistiche ; c) base territoriale di risorse naturali e antropiche trasmissibile alle generazioni future: il carattere intergenerazionale del demanio e degli usi civici ne determinano il carattere “costituzionale” di autosostenibilità nella riproduzione temporale delle risorse. In: Pietro Nervi, “La gestione patrimoniale dei demani civici fra tradizione e modernità” in G. Soccio (a cura di), Terre collettive ed usi civici , Edizioni del Parco del Gargano, Foggia 2003

[3]“In questo spirito, invitiamo gli Enti Locali (Comuni, Province e Regioni) a salvaguardare e difendere gli usi civici presenti nel loro territorio, garantendone in primo luogo l’inalienabilità e la proprietà collettiva, contro il moltiplicarsi degli abusi e delle usurpazioni di interesse esclusivamente privato che oggi vi allignano e, d’intesa con i legittimi proprietari e le comunità locali, a favorire e promuovere forme innovative di gestione associata e cooperativa di questo patrimonio ai fini della salvaguardia e valorizzazione ambientale ed ecologica del territorio” (appello contro la privatizzazione degli usi civici promosso dall’associazione Ecologia Politica, 1995)

[4] “La Regione Toscana ha proceduto alla messa in vendita del patrimonio agricolo e forestale, attraverso la legge 9 del 29 gennaio 1997. Dopo avere reso disponibile ciò che fino a qualche anno prima faceva parte del demanio pubblico, gli enti locali hanno fatto un inventario dei loro beni individuando quelli suscettibili di vendita. La cultura della privatizzazione risulta ben evidente dal titolo stesso della legge dove si parla di “valorizzazione ed alienazione”: non può esistere valorizzazione senza appropriazione da parte di soggetti privati. Con questo orizzonte culturale, la legge ha permesso la vendita, in due successivi bandi, di circa 345 beni, comprati in parte dai concessionari (40%) e da soggetti stranieri (5%)”.

Riccardo Bocci, La privatizzazione delle terre pubbliche in Toscana , Relazione al Seminario:”Terra e usi civici in Italia”,Ecologiapolitica. Ricerche per l’Alternativa, in collaborazione con la Rete del Nuovo Municipio, Terra Futura, Firenze l’8 aprile 2005.

[5] ..”le comunità titolari dei diritti civici non esistono più, talora fisicamente – perché i vecchi contadini sono morti o sono emigrati lontano, in città – talora culturalmente – perché non sanno e non sono interessati a sapere dei diritti che pur potrebbero esercitare. La proposta che Ecologiapolitica avanza in proposito è quella di mantenere ferma la destinazione d’uso e il vincolo di incommerciabilità dei demani civici e insieme di iniziare a ricostituire le comunità proprietarie, associando in tutte le forme possibili i soggetti che vi hanno titolo – affidando per esempio la coltivazione delle terre e la manutenzione dei boschi a cooperative concessionarie, garantendo loro tutti i finanziamenti reperibili ed i servizi minimali: la casa, mediante l'acquisizione e il restauro degli abitati abbandonati; le strade, che vanno di regola risistemate e non solo per le gite domenicali; le scuole, che vanno riattivate, ecc., in modo che su queste terre si possa condurre una vita civile, traendone reddito ed assicurando nel contempo una gestione conservativa dell'ambiente”. In: G. Ricoveri, relazione al seminario Terra e usi civici in Italia, seminario Terra Futura cit.

[6] “fondamentali sarebbero, ove venisse attuato il ruolo della pianificazione paesistica, la tutela e la valorizzazione della proprietà collettiva….sono proprio le terre collettive a evidenziare che nessun funzionamento, normativa, azione di controllo, riuscirebbero a gestire correttamente l’uso sociale del territorio in assenza di consapevolezza da parte dei residenti e quindi di impegno da parte delle amministrazioni comunali” Pietro Federico, “Usi civici e ambiente” in Serafina Bueti (a cura di ) Usi civici, Grosseto, 1995

[7] vedasi il mio: Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000

[8] Il processo partecipativo deve consentire di avviare processi di trasformazione di produttori alienati e atomizzati, consumatori passivi, appendici della democrazia televisiva, in cittadinanza attiva in grado di associarsi per la gestione e la produzione dei beni comuni, di decidere sul futuro delle città, di ricomporre le figure di produttore, abitante e consumatore ricostruendo identità comunitarie e relazioni sociali capaci di autogoverno e di pensare collettivamente futuro e di praticarlo.

L’homo civicus si da in una società civile che si associa e si occupa, attraverso un patto fra individui, gruppi, rappresentanze di interessi, della cosa pubblica.

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