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Luigi Scano
2006. Legalità nella tutela del paesaggio: un optional?
20 Giugno 2007
Paesaggio (e territorio, e ambiente)
L’Italia è quel paese nel quale le leggi buone non vengono applicate. Il caso del Codice del paesaggio, in una nota per eddyburg

Pare che le regioni, gli enti locali e perfino gli organi dell’amministrazione statale per i beni culturali, “zitti, zitti, piano, piano”, serenamente ignorino, nell’esercizio delle competenze loro affidate in merito al controllo dell’osservanza delle disposizioni di tutela dei beni paesaggistici, buona parte delle relative norme dettate dal “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, approvato con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, e incisivamente modificato e integrato con il decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157 (d’ora in avanti: “Codice”). Per accertare l’effettiva sussistenza ed entità del fenomeno, occorrerebbe verificare, regione per regione, la legislazione, gli atti amministrativi regolamentari, gli altri atti amministrativi, gli strumenti di pianificazione, direttamente o indirettamente attinenti alla tutela del paesaggio, nonché i concreti comportamenti del sistema regionale-locale e degli organi dell’amministrazione statale per i beni culturali nell’effettuazione delle verifiche della rispondenza delle proposte di trasformazione interessanti beni paesaggistici alle relative disposizioni, nonché nel rilascio dei conseguenti atti abilitativi.

Questo scritto non si propone un siffatto obiettivo, ma soltanto quello, estremamente più limitato, di ricostruire ed esporre le norme, attualmente vigenti, relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, distinguendo, secondo una fondamentale opzione del “Codice”, quelle destinate a trovare applicazione “a regime” e quelle destinate invece ad applicarsi “in via transitoria”.

Preliminarmente, è il caso di rammentare che la Corte costituzionale ha chiarito, con ormai assai numerose pronunce, che il “Codice” contiene, contestualmente, disposizioni riconducibili sia alla “materia” denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato (comma secondo, lettera s., dell’articolo 117 della Costituzione), sia alle “materie” denominate “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, appartenenti alla legislazione concorrente, in cui “spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (commi terzo e quarto dell’articolo 117 della Costituzione).

Si sarebbe tentati di ricondurre alla prima categoria, quella delle disposizioni appartenenti alla legislazione esclusiva dello Stato, aventi di conseguenza efficacia immediatamente precettiva e direttamente operativa, proprio, essenzialmente, le norme relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, e di ricondurre alla seconda categoria, quella delle disposizioni appartenenti alla legislazione concorrente, aventi efficacia di “principi” da rispettare nella produzione legislativa regionale (all’entrata in vigore della quale ultima peraltro resta subordinata la precettività erga omnes e l’operatività dei “principi” stessi), essenzialmente, le norme afferenti ai contenuti, ai procedimenti formativi e alle efficacie della pianificazione paesaggistica. Ma sarebbe una terribile semplificazione. Infatti, anche alcune delle norme relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici palesemente richiedono, per essere pienamente applicabili, l’assunzione di determinazioni da parte delle regioni, che non si vede come non possano (o debbano) essere espresse nella forma di legge (regionale).

Per esempio, le regioni devono, ai sensi dell’articolo 148 del “Codice”, promuovere l’istituzione e disciplinare il funzionamento delle commissioni per il paesaggio, “di supporto ai soggetti ai quali sono delegate le competenze in materia di autorizzazione paesaggistica”, in assenza delle quali non potrebbero essere rilasciabili, per l’appunto, le autorizzazioni paesaggistiche, mentre diverse opzioni sulla loro composizione e sul loro funzionamento comportano diversificate conseguenze sui procedimenti di rilascio.

Ancora per esempio, le regioni, ove non intendano esercitare direttamente la funzione autorizzatoria paesaggistica, ma delegarne l’esercizio, devono farlo nell’osservanza del comma 3 dell’articolo 146 del “Codice”, essendo quindi tenute a effettuare tale delega “alle province o a forme associative e di cooperazione degli enti locali in ambiti sovracomunali all'uopo definite […], al fine di assicurarne l'adeguatezza e garantire la necessaria distinzione tra la tutela paesaggistica e le competenze urbanistiche ed edilizie comunali”. E’ bensì ammesso che le regioni possano “delegare ai comuni il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche”, ma ciò soltanto nel caso in cui la pianificazione paesaggistica (ovvero la disciplina paesaggistica dettata dalla pianificazione ordinaria) sia stata determinata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti (il Ministero per i beni e le attività culturali e il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio), “e a condizione che i comuni abbiano provveduto al conseguente adeguamento degli strumenti urbanistici”. Si soggiunge che “in ogni caso, ove le regioni deleghino ai comuni il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche, il parere della soprintendenza […] resta vincolante” (fermo restando, ritengo si debba intendere, che dalla definizione della disciplina dei “beni paesaggistici” operata dagli strumenti di pianificazione regionali, provinciali e comunali, d’intesa con le predette amministrazioni statali specialisticamente competenti, può derivare la sottrazione di taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento delle speciali autorizzazioni, venendo queste ultime, per così dire, “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata).

Non risulta che in alcuna regione presentemente vigano disposizioni sulle deleghe della funzione autorizzatoria paesaggistica pienamente aderenti agli ora esposti dettati del “Codice”, talché ogni regione deve ritenersi impegnata a rivedere, più o meno profondamente (ma tendenzialmente in termini assai incisivi) la propria legislazione in argomento. La qual cosa, per il vero, non pare essere granché problematica, stante che quella che dianzi si è chiamata disciplina “a regime” dei procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici è previsto (comma 1 dell’articolo 159 del “Codice”) entri pienamente in vigore soltanto dopo il 1° maggio 2008, ovvero dopo la data, se antecedente, di approvazione di piani paesaggistici conformi alle relative disposizioni del medesimo “Codice”, o di adeguamento a tali disposizioni dei piani paesaggistici in essere. E nessuna regione si accinge ad approvare, in tempi brevi o anche soltanto medi, piani paesaggistici conformi alle pertinenti disposizioni del medesimo “Codice”, o varianti di adeguamento a tali disposizioni dei propri pregressi piani paesaggistici.

Anche l’unica regione che ha avviato, con grande solerzia ed eccezionale impegno culturale e politico, una propria pianificazione paesaggistica dopo l’entrata in vigore del “Codice”, attenendosi, seppure grazie a interpretazioni creative di rimarchevole intelligenza e saggezza, alle sue pertinenti disposizioni (ci riferiamo alla Sardegna), non potrà dirsi dotata in tempi brevi di un piano paesaggistico “concernente l’intero territorio regionale” (come esige il comma 1 dell’articolo 135 del “Codice”, con un disposto a cui la giurisprudenza della Corte costituzionale ha riconosciuto piena la dignità e la forza di principio fondamentale della legislazione dello Stato), avendo operato la scelta (sacrosanta!) di sottoporre prioritariamente e in tempi brevissimi a pianificata disciplina di tutela le parti più mortalmente a rischio del proprio territorio, cioè le fasce costiere e adiacenti.

Per cui i legislatori regionali possono tranquillamente procedere a rivisitare la vigente normativa delle proprie regioni, in argomento (anche) di procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, attenendosi pienamente ai precetti del “Codice”, e quindi, tra l’altro, subordinando alle dianzi indicate condizioni la vigenza della disciplina destinata a trovare applicazione “a regime”, e differenziando da questa la disciplina destinata piuttosto ad applicarsi “in via transitoria”. Invece, tra i suddetti legislatori regionali, non è mancato chi (errando, ed errando gravemente) ha preteso di stabilire l’immediata vigenza di una disciplina mutuata (più o meno fedelmente) da quella dettata dal “Codice” (nella sua versione originaria) come destinata a trovare applicazione “a regime”, prescindendo dalla condizione essenziale della vigenza di una pianificazione paesaggistica conforme a quella prefigurata dallo stesso “Codice”, e trovandosi oggi ancora più “spiazzato” (in conseguenza di alcune rilevanti innovazioni introdotte dal d.lgs. 157/2006).

Esposte queste corpose, ma necessarie, notazioni preliminari, è possibile dare conto assai sinteticamente (e omettendo talune disposizioni particolari e di dettaglio, seppure non prive di rilevanza) delle norme, relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, attualmente vigenti, ma destinate a trovare applicazione soltanto “a regime”.

E’ stabilito (articolo 146 del “Codice”) che “i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo” di beni paesaggistici “hanno l'obbligo di sottoporre alla regione o all'ente locale al quale la regione ha delegato le funzioni [nel rigoroso rispetto del comma 3, dianzi riportato e commentato, dello stesso articolo che si va ora esponendo] i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, affinché ne sia accertata la compatibilità paesaggistica e sia rilasciata l'autorizzazione a realizzarli”. Che “l'amministrazione competente, acquisito il parere della commissione per il paesaggio […] e valutata la compatibilità paesaggistica dell'intervento […] trasmette al soprintendente la proposta di rilascio o di diniego dell'autorizzazione, corredata dal progetto e dalla relativa documentazione, dandone comunicazione agli interessati”. Che “il soprintendente comunica il parere entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla data di ricezione della proposta”, e che tale parere, come già è stato detto, “è vincolante”, salvo il caso in cui la pianificazione paesaggistica sia stata determinata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti, e sia intercorso l’adeguamento a essa degli strumenti urbanistici comunali (ma comunque non qualora le regioni deleghino ai comuni il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche). Che “decorso inutilmente il termine per l'acquisizione del parere, l'amministrazione competente assume comunque le determinazioni in merito alla domanda di autorizzazione”. Che, decorsi inutilmente i termini stabiliti, “è data facoltà agli interessati di richiedere l'autorizzazione alla regione, che provvede anche mediante un commissario ad acta”, e che “laddove la regione non abbia affidato agli enti locali la competenza al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, la richiesta di rilascio in via sostitutiva è presentata alla soprintendenza competente”. Che “l'autorizzazione costituisce atto autonomo e presupposto del permesso di costruire o degli altri titoli legittimanti l'intervento edilizio”, per cui “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”.

Gli ultimi commi dell’articolo che si è appena sopra sunteggiato, riguardanti il divieto di rilascio di autorizzazioni paesaggistiche in sanatoria e le relative eccezioni, l’impugnabilità delle autorizzazioni paesaggistiche, le speciali disposizioni dettate in relazione alle attività minerarie e a quelle di coltivazione di cave e torbiere, richiederebbero, ognuno, resoconti e commenti di entità pari a quella di tutto il presente scritto, per cui ci si guarda bene dall’inoltrarvisi.

Anche per procedere a esporre, altrettanto sinteticamente (e anche in questo caso omettendo talune disposizioni particolari e di dettaglio, seppure non prive di rilevanza, nonché disposizioni che richiederebbero peculiari e corposi commenti) le norme relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici che è prescritto trovino applicazione “in via transitoria”, fino al termine temporale di cui già precedentemente s’è detto, oppure al realizzarsi delle condizioni che pure già si sono precedentemente rammentate.

E’ stabilito (articolo 159 del “Codice”) che “l'amministrazione competente al rilascio dell'autorizzazione dà immediata comunicazione alla soprintendenza delle autorizzazioni rilasciate, trasmettendo la documentazione prodotta dall'interessato nonché le risultanze degli accertamenti eventualmente esperiti” e che “la comunicazione è inviata contestualmente agli interessati”. Che “la soprintendenza, se ritiene l'autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela del paesaggio […], può annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa, completa documentazione” (formulazione che, alludendo espressamente a una valutazione “di merito”, palesemente vuole riproporre nel contesto del nuovo regime costituzionale e legislativo la possibilità di tale valutazione, la quale era stata negata nel previgente regime dalla giurisprudenza, che aveva sempre affermato essere il sindacato statale sulle autorizzazioni limitato ai profili di legittimità). Che “l'autorizzazione è rilasciata o negata entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla relativa richiesta e costituisce comunque atto autonomo e presupposto della concessione edilizia o degli altri titoli legittimanti l'intervento edilizio”, per cui “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”. Che “decorso il termine di sessanta giorni dalla richiesta di autorizzazione è data facoltà agli interessati di richiedere l'autorizzazione stessa alla soprintendenza, che si pronuncia entro il termine di sessanta giorni dalla data di ricevimento”.

Come si è precedentemente fatto presente, stante la presente situazione della pianificazione paesaggistica in tutte le regioni italiane, non v’è dubbio che quella ora sunteggiata, e puntualmente sancita dall’articolo 159 del “Codice”, è la disciplina dei procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici che dev’essere applicata. E oserei sostenere che, trattandosi di disciplina da un lato riconducibile a “materia” appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato, e quindi, almeno potenzialmente, avente efficacia immediatamente precettiva e direttamente operativa, e da un altro lato non richiedente, fattualmente, per trovare applicazione, l’assunzione di determinazioni regionali, è essa disciplina che presentemente dovrebbe essere fatto obbligo di osservare e praticare da parte delle amministrazioni presentemente riconosciute (dalle regioni, in base alla legislazione previgente) competenti al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche. E ciò anche laddove il legislatore regionale abbia preteso, come si è fatto presente dianzi, di stabilire l’immediata vigenza di una disciplina mutuata (più o meno fedelmente) da quella dettata dal “Codice” come destinata a trovare applicazione “a regime”.

Stando a quanto si sente dire in molti e vari luoghi d’Italia, sembra invece che le diverse amministrazioni agiscano nei modi più diversi, ma raramente in quelli che sinora si sono sostenuti corretti.

Non soltanto a fini di accertamento conoscitivo di tale complessa fenomenologia, ma anche, e soprattutto, allo scopo di esercitare le irrinunciabili funzioni statali di coordinamento e di indirizzo, e di perseguimento e concorso alla garanzia del rispetto della legalità nell’azione amministrativa da parte di ogni soggetto istituzionale, sarebbe altamente auspicabile che il Ministero per i beni e le attività culturali attivasse quella generale e puntigliosa verifica che si è prospettata e auspicata nel primo capoverso di questo scritto.

Per non rassegnarci all’ormai famosa battuta per cui, nel nostro Paese, di legale resta soltanto l’ora. E per non confermare il destino dell’Italia d’essere “non donna di province [oggi di regioni], ma bordello”.

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