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VII - AMBIGUITÀ DELLA CITTÀ OPULENTA
1 Aprile 2004
Urbanistica e società opulenta, Laterza, Bari, 1969
1. Fine della centralità del momento produttivo Nella città del capitalismo borghese abbiamo potuto individuare una singolare ambiguità, i cui termini erano costituiti dall’alienazione dell’ordinamento formale della città - posto in crisi dall’esclusivismo della produzione capitalistica - e dalla potenzialità positiva rappresentata, per la città, dal carattere “sociale” della produzione capitalistica. Nella città dell’opulenza ciascuno dei termini di quell’ambiguità si trasforma e si sviluppa, acquistando un significato radicalmente nuovo.

Entro il quadro capitalistico-borghese, la produzione in tanto poteva imprimere un ordine all’insediamento urbano, in quanto essa costituiva il momento decisivo e culminante, il fine esclusivo e l’unica legge del processo economico, il quale era divenuto a sua volta - con la rivoluzione borghese - il cuore, il centro, lo scopo dell’intero ordinamento sociale. Poiché, in altri termini, ogni valore, realtà, qualità, dimensione della società civile aveva dovuto subordinarsi all’economia (o era stato impietosamente emarginato), e poiché all’interno di quest’ultima la produzione aveva assunto un ruolo di esclusivo predominio, ecco che il momento produttivo era venuto per ciò stesso a configurarsi inevitabilmente, per qualsiasi aspetto dell’attività dell’uomo, e dunque anche per la città, come l’unica sorgente d’ogni possibile regola.

Una simile regola, poi, benché comportasse ovviamente per la città (come per ogni altro organismo o istituto o dimensione della società civile) l’appiattimento sulla dimensione produttiva, non era tuttavia vissuta e patita come secca e arbitraria negatività da nessuna delle figure sociali decisive: da nessuno, quindi, dei cittadini. Non lo era infatti dal borghese, che era, appunto, l’organico rappresentante e protagonista dell’esclusivismo della dimensione economica e dell’attività produttiva (e aveva comunque poi sempre la facoltà di ritagliarsi una zona d’evasione signorile dalle leggi del sistema); ma non lo era neppure dal proletario, poiché il fine del continuo allargamento delle basi del processo produttivo si presentava per costui come la massima garanzia per l’occupazione della propria forza-lavoro, e dunque come la condizione necessaria per il mantenimento delle esigenze elementari della propria esistenza. Orbene, è facile vedere che nella città opulenta la produzione perde entrambe queste caratteristiche: che essa, cioè, non è più capace di ordinare l’insediamento umano, ne è più la portatrice di un’oggettiva ed elementare necessarietà sociale e umana.

Nell’ordinamento dell’opulenza, infatti, la dimensione produttiva non è più - lo si è già sottolineato - il momento centrale e decisivo, la ragione e il fine esclusivo dell’economia e dell’intera vita sociale. Essa è, invece, non solo strettamente condizionata all’indefinita e opulenta espansione del consumo, ma è anzi, in ultima analisi, subordinata a quest’ultimo; di fatto, è soltanto l’allargamento del consumo che conferisce un qualche fine al processo produttivo, il quale, tendenzialmente e al limite, perde addirittura ogni funzione economica amano a mano che si giunge - come non si può non giungere - alla saturazione del consumo opulento. D’altra parte, poiché, quando si giunge all’opulenza, i bisogni dell’esistenza fisica dell’uomo sono stati ormai certamente soddisfatti, per definizione, nella loro essenzialità; e poiché anzi - mentre non è più indispensabile allargare il processo produttivo per garantire la fruizione dei consumi relativi ai bisogni immediatamente e necessariamente comuni lo stesso problema dell’occupazione si viene a rovesciare in quello del tempo libero e del lavoro superfluo, ecco dunque che la produzione smarrisce anche quel carattere di necessarietà sociale ed umana che rendeva il suo esclusivo predominio - agli occhi del proletario come di ogni membro della società - storicamente giustificato, e quindi concretamente sopportabile.

La produzione, insomma, come non ha più alcuna ragione economica che possa consentirle di porsi come il momento decisivo e centrale dell’assetto economico-sociale, così non ha più alcun senso umano ed organicamente civile e sociale; e così appunto viene direttamente e insofferentemente avvertita dall’uomo moderno.

2. Insufficienza urbanistica del consumo opulento.

Se la produzione, perdendo l’una e l’altra caratteristica su cui fondava la sua capacità ordinatrice, non è più in grado, nell’assetto opulento, di porsi come regola per l’insediamento urbano, forse una capacità ordinatrice analoga può esser trovata nell’altro momento della dimensione economica, nel consumo?

Potrebbe sembrare, a prima vista, che a un tale quesito debba rispondersi positivamente. Infatti non abbiamo sostenuto che la società opulenta costituisce una svolta radicale rispetto a quella borghese proprio perché il consumo è divenuto il momento centrale e decisivo, la categoria dominante a cui ogni altro aspetto dell’attività economica è, in un modo o nell’altro, subordinato? Non ha insomma, in tal senso, il consumo soppiantato e sostituito la produzione? E non deve discendere quindi da tutto ciò che il consumo viene necessariamente ad assumere, entro il modello opulento, anche quel ruolo ordinatore sul piano urbanistico che la produzione manifestava nei confronti della città borghese?

Le cose, tuttavia, non sono così semplici né così schematiche. Bisogna anzitutto sottolineare che il consumo peculiare al modello opulento non è certamente - come abbiamo già osservato - un consumo legato a una effettiva e organica necessità umana. Esso infatti, nella stretta logica del modello (ma perciò anche nelle tendenze concretamente in atto), non è che consumo di dosi sempre più ampie di beni destinati ad un bisogno che, nella sua sostanza naturale, è ormai generalmente e abbondantemente soddisfatto; in definitiva è un consumo che si allarga, di continuo e all’indefinito, nella totale assenza dello sviluppo del bisogno umano, e anzi coprendo e mistificando il fatto decisivo che il bisogno della sussistenza fisica è ormai pienamente soddisfacibile e soddisfatto. Perciò il consumo opulento resta inevitabilmente contrassegnato dalla superfluità, e dunque dalla gratuità e dall’arbitrio. Ora, già per tutto questo, il consumo opulento non può apparire a nessuno come il portato di una oggettiva necessarietà umana e sociale che convalidi e giustifichi un suo ruolo egemonico e dominante nella città e nella società; ed è questo, crediamo, un primo motivo per cui bisogna concludere che il consumo non può esercitare una capacità ordinatrice nell’insediamento urbano.

Ma c’è un’altra caratteristica del consumo opulento che conferma e ribadisce la nostra tesi, e che conduce anzi a dover addirittura riconoscere la presenza di una radicale incompatibilità tra un reale ordine della città e il consumo pienamente omogeneo all’assetto opulento. Tale consumo infatti, nonostante la sua complicazione e il suo carattere capriccioso e sofisticato, è pur sempre consumo di beni ordinati al bisogno della vita fisica. Esso è dunque, per ciò stesso, legato e riferito esclusivamente a una determinata categoria di bisogni (quelli appunto della vita fisica dell’uomo) che può esser considerata pienamente umana solo se costituisce un gradino di una scala di bisogni continuamente crescente, e che invece, quando viene assolutizzata e vissuta come l’unica forma del bisogno umano, può caratterizzare soltanto un’esistenza ridotta a mero e materiale animalismo.

Una simile esistenza, infine - e la questione, come vedremo, è di decisiva importanza - è necessariamente contrassegnata dall’individualismo: in altre parole, il consumo opulento si presenta inevitabilmente come un consumo che può esser vissuto dall’uomo soltanto come esasperato e chiuso particolarismo, e che perciò, come tale, non può costituire, di per sé stesso, un sufficiente supporto alla necessaria dimensione sociale della città, e può anzi unicamente negarla e dissolverla.

3. Una città inordinabile, ma liberata dall’alienazione all’economia

Né la produzione né il consumo - entro la stretta logica del modello opulento - sono dunque in grado di imprimere un ordine alla città. Ed è allora evidente che deve entrare definitivamente in crisi quella posizione funzionalistica che, nella città dell’Ottocento, costituiva il “braccio urbanistico” del dominio della borghesia e che, interpretando e traducendo in concreti schemi organizzativi la materiale e generica capacità ordinatrice della produzione capitalistico-borghese, perveniva a dare una qualche forma, sia pure alienata e parziale, alla città. Non vogliamo sostenere con questo che l’affermarsi dell’opulenza venga a dissolvere la posizione funzionalistica anche nella sua sostanziale radice ideologica. Infatti, è pur sempre possibile proporsi di appiattire la città al dato, al mero esistente; in tal senso, evidentemente, anche nel quadro dell’opulenza può manifestarsi e può operare una posizione funzionalistica. Però quel che certamente il funzionalismo smarrisce, nel passaggio dall’assetto capitalistico-borghese a quello opulento, è la propria capacità di conformare la città in funzione e al servizio di una legge rigorosa, derivata e desunta da una dimensione e da una realtà eterogenea, come quella dell’economia, all’organismo urbano.

Ma se le regole, se i meccanismi della dimensione economica del sistema non sono più in grado di fornire una struttura alla città e se, di conseguenza, la linea funzionalistica deve rivelare, alla fine, la propria impotenza, significa ciò forse che la storia, alla lunga, ha dato ragione agli epigoni catastrofici dell’utopismo? Erano forse degli illuminati profeti quanti predicavano l’incompatibilità assoluta e totale tra sviluppo dell’ordinamento capitalistico e sviluppo della città? E colgono il vero quegli studiosi moderni della città che pongono al centro dell’attenzione “i sinistri particolari della vita quotidiana”?

Da quanto abbiamo fin qui argomentato e descritto scaturisce con chiarezza, ci sembra, e in tutta la sua gravità, l’aspetto negativo che la svolta dell’opulenza comporta nei confronti della città. Quest’ultima, infatti, dal momento che non ha più nella dimensione economica una base che le consenta di trovare una qualche ragione per il proprio ordinamento, dal momento insomma che ha perso ogni possibilità di conservare, nel rapporto alienante con l’economia, una regola capace di conferirle una struttura e una forma, tende ormai a divenire, entro il modello opulento, una realtà che non è più in alcun modo ordinabile.

L’antica polis armoniosamente adagiata, tra la pianura e il mare, a presidio dei suoi porti e delle sue campagne, organicamente inserita nella natura, ordinatamente disposta attorno ai suoi templi e alle sue agorà; l’urbs e la civitas dei romani, cerniere e punti di forza di una geniale struttura politica e amministrativa, fuochi di un sistema di relazioni e di reciproche influenze che imprimevano un ordine e una forza a tutto il territorio lavorato dall’uomo; il borgo e la città del medioevo cristiano, luoghi nei quali i servi divenivano liberi, i liberi resistevano alla soggezione e alla violenza del signore, e gli uni e gli altri si riconoscevano uguali raccogliendosi negli edifici comuni della religione e del culto, della politica, del commercio, della vita civile; la stessa prodigiosa metropoli dell’Ottocento borghese, strutturata in funzione degli interessi, esclusivistici ma storicamente progressivi, di una classe che si disponeva a dominare il mondo, invadendolo con le merci prodotte nelle operose officine, e regolando i destini della società internazionale secondo le intese e i disegni intessuti nelle fastose e civili capitali; tutto quel che la storia dell’uomo ha faticosamente elaborato nello sforzo millenario di dare alla società un luogo nel quale ordinatamente vivere e riconoscersi, distinguendosi dall’immediatezza della natura, pare dunque irrimediabilmente finire. Tutto ciò tende a mutarsi, come il Mumford esattamente descrive, in “una massa informe e continua, qui gonfia di edifici, là interrotta da una macchia verde o da un nastro di asfalto”, che “continua a crescere inorganicamente, e anzi cancerosamente, con la continua decomposizione dei vecchi tessuti e lo sviluppo eccessivo dei nuovi”, e che trova infine la sua forma solo nella “sua informità, come la sua meta [in] una espansione senza meta”.

E però, riconosciuto e accettato tutto ciò, accolta insomma quella empirica verità che indubbiamente è sottesa alla denuncia appassionata dei più illustri epigoni dell’utopismo, non si può comunque trascurare di porre in evidenza anche il rovescio, positivo implicito nella nuova configurazione che è venuto ad assumere, con l’opulenza, il rapporto della città con la dimensione economica storicamente data.

Quel rapporto, infatti, che nel quadro dell’assetto capitalistico-borghese si era inevitabilmente tradotto nei termini di un’alienazione dell’ordinamento formale della città, è ora praticamente dissolto. Ma ciò significa allora che, con l’opulenza, la città si è liberata dal legame con un’economia che, mentre ne aveva consentito - e anzi preteso - la nascita, e mentre poi aveva potuto conferirle un ordine, l’aveva peraltro, nell’atto medesimo, alienata. E sebbene nell’ambito del modello opulento un simile affrancamento della città possa esprimersi soltanto in termini negativi è comunque certo che ormai, dal momento che è divenuta impossibile l’alienazione all’economia dell’ordinamento formale della città, è divenuta invece oggettivamente possibile la nascita di una reale, compiuta, dispiegata autonomia dell’organismo urbano.

4. Scomparsa dell’individualismo borghese dalla sfera della produzione.

Il primo termine dell’ambiguità presente nella città capitalistico-borghese - l’alienazione del suo ordinamento formale - si è dunque rovesciato, nell’opulenza, in possibilità oggettiva di autonomia, in potenziale positività. Ma come si è trasformata e modificata a sua volta quella potenzialità positiva per la città, che avevamo potuto individuare, entro l’ordinamento borghese, nel carattere “sociale” della produzione (il secondo termine, dunque, della ambiguità di cui si diceva)?

Fin dall’inizio della formazione del processo opulento, il carattere “sociale” della produzione si afferma in modo via via più massiccio, sino a divenire una connotazione decisiva e incontrastata dell’attività produttiva, e a costituirsi come la forma universale di quest’ultimo. Per comprendere con sufficiente chiarezza la ragione e il significato di un simile pieno affermarsi della “socialità” della produzione, occorre ricordare che nell’ordinamento borghese il carattere “sociale” dell’attività produttiva incontrava il proprio limite - invalicabile in linea di principio - nel privatismo proprietario peculiare alla figura sociale ed economica del borghese. E in realtà, la giustificazione e la relativa insuperalbilità di un limite siffatto derivavano sostanzialmente dalla circostanza che nella società capitalistico-borghese (in cui tutto è esclusivisticamente ordinato all’accumulazione) solo il borghese, il capitalista, poteva essere - il linea di principio come in linea di fatto - l’unico e indiscusso gestore, l’incontrastato garante, l’arbitro supremo e inappellabile dell’intero sistema.

Nella società opulenta, viceversa, mentre l’accumulazione perde il suo ruolo di dimensione centrale e decisiva dell’intero ordinamento economico e sociale, il gestore del processo produttivo viene via via a dimettere, per così dire, l’abito del borghese. Egli invero, poiché la sua attività è ormai, se non immediatamente diretta, certo strettamente condizionata all’allargamento del consumo dei produttori, e poiché anzi la sua tipica operazione non è più il fine esclusivo della vita economica e sociale, cessa di essere l’arbitro incontrastato dell’intero sistema, mentre si avvia a perdere in modo definitivo la sua antica capacità d’incidere individualisticamente e soggettivamente, in maniera pienamente libera e arbitraria, nella condotta della stessa attività produttiva. In realtà, se in una prima fase del processo opulento egli conserva ancora un residuo di quel carattere socialmente dominatore che era peculiare al privatismo borghese, deve perdere anche questa sua ultima possibilità, a mano a mano che il consumo opulento raggiunge i suoi limiti e perviene alla sua saturazione: l’imprenditore si trasforma allora a sua volta, definitivamente e totalmente, in generico e anonimo funzionario del processo produttivo.

Il crollo del dominio borghese sulla società mondiale e la parallela affermazione economica, sociale e politica della classe proletaria; la crisi definitiva dell’“economia di mercato” e il progressivo ampliarsi di quegli interventi che determinano l’economia programmata: non costituiscono, forse, questi decisivi momenti dello sviluppo storico contemporaneo, altrettanti colpi mortali inferti all’individualismo e al privatismo connaturati alla figura del borghese?

5. Una città che non può più essere bella per pochi

Se nella società opulenta la zona del privatismo viene via via a ridursi - nel campo dell’attività produttiva - in misura sempre maggiore, e se, parallelamente e di conseguenza, il carattere “sociale” della produzione capitalistica si libera del proprio limite borghese, tutto ciò non significa che si sia sviluppata, che abbia acquistato maggior peso e rilevanza quella potenzialità positiva che, per la città, è costituita, in linea di principio, dalla “socialità” della produzione. Infatti, benché la dimensione produttiva sia ormai - come si è detto - pressoché totalmente caratterizzata da quella natura “sociale” che è propria al capitale, sta comunque di fatto che la stessa dimensione produttiva è venuta a perdere via via - come abbiamo più sopra osservato - la propria centralità: il ruolo decisivo che essa svolgeva nell’ordinamento capitalistico-borghese è stato soppiantato e sostituito, nell’ordinamento dell’opulenza, dal consumo.

Ciò significa che il decadere del privatismo nella attività produttiva non provoca, nella città, alcuna positiva conseguenza? Certamente, i contrapposti effetti dell’allargamento della “socialità” della dimensione produttiva e del parallelo ridursi della centralità e dell’importanza di quest’ultima si vengono, per così dire, a sommare algebricamente fino ad annullarsi l’un con l’altro. C’è tuttavia una conseguenza rilevante e positiva, che discende dalla tendenziale liquidazione del privatismo borghese. Quella liquidazione comporta infatti, sul piano della città, la fine di una serie di mistificazioni che agivano pesantemente nella città capitalistico-borghese e che, condizionando l’opera razionalizzatrice dei funzionalisti, facevano della città il luogo dei “liberi consumi” e, soprattutto, dell’importanza sociale di una soltanto delle classi che vi risiedevano: della classe borghese.

I borghesi potevano infatti ordinare la città al servizio di quei “liberi consumi”, di tipo sostanzialmente signorile, che a loro, e solo a loro, erano permessi e garantiti dal privilegio proprietario, e con cui si manifestava e si celebrava la centralità dominatrice della loro funzione sociale. Ora invece, nella società opulenta, poiché quel privilegio ha perso ogni ragione, ogni senso e ogni riflesso egemonico, poiché il borghese si viene anzi a mutare e a ridurre in semplice e subordinato funzionario del processo produttivo, poiché, quindi, gli è impedito ormai di erigersi singolarmente e individualisticamente in signore, deve per ciò stesso scomparire, nella città, ogni aspetto fastoso ed esclusivo, ogni simbolo e ogni struttura conformati per celebrare il potere, la libertà (e il peculio) dei membri della classe dominante. Scompare, dunque, la possibilità di dissimulare l’anarchia, il disordine, la bruttura dei tessuti residenziali destinati ai proletari dietro le facciate costruite e adornate per la signorilità dei borghesi; scompare ogni copertura di qualità signorili, fondate sul privilegio e sulla divisione; scompare insomma, definitivamente, l’illusione che la città possa essere bella senza esserlo per tutti.

6. Esiste nella città opulenta una speranza per il futuro?

Ma se tutta la positività presente nella città opulenta fosse costituita dalla fine dell’alienazione all’economia e dalla liquidazione dell’importanza sociale del privilegio proprietario - e fosse dunque esprimibile unicamente in termini negativi -, bisognerebbe allora concludere che la pessimistica e disperata denuncia degli epigoni dell’utopismo è, nonostante tutto, un atteggiamento pienamente legittimo e giustificato. Nella città del nostro tempo, infatti, se le cose stanno soltanto come fino a ora le abbiamo descritte, non sarebbe consentito di individuare un appiglio dispiegatamente positivo, un germe non illusorio di speranza, e soprattutto una realtà dalla quale muovere e su cui far leva per costruire, sopra le ceneri delle negatività antiche, liquidate dall’opulenza, una città pienamente e creativamente padrona di se stessa e capace di darsi, perciò, un autonomo ordinamento formale. Ma c’è un punto, di fondamentale importanza, sul quale dobbiamo ancora soffermarci; c’è una tesi decisiva che dobbiamo dimostrare, prima di poter considerare esaurito - sia pure nelle linee di fondo - il nostro esame della città opulenta. Dobbiamo trarre cioè una conseguenza dal fatto (che assume per la città, come vedremo, un massimo rilievo) che nell’assetto opulento il consumo di tutti i produttori diviene la dimensione centrale dell’ordinamento sociale ed economico.

Su di una circostanza è tornata sovente la nostra attenzione; sul fatto cioè (da noi individuato nell’ambito di un ragionamento di tipo storico) che la possibilità di esprimere una forma autonoma dell’insediamento umano è stata sempre condizionata dalla presenza di determinate qualità. Tali qualità erano già presenti, ed erano state anzi elaborate, nel mondo signorile, ma non potevano esser utilizzate come base dell’ordinamento formale di un insediamento definibile come città, perché erano vissute dal signore come libera e individualistica attività meta economica, e venivano perciò fruite mediante un “consumo” che, mentre era meramente particolaristico e individuale, rimaneva riservato esclusivamente ai membri di quella classe “dei pochi e degli eletti” che, quasi per diritto divino, si elevava al di sopra della moltitudine comune dei servi.

Esse, invece, sono state utilizzate come matrici per una forma autonoma della città solo quando, nel borgo e nella primitiva città borghese in lotta con il “castello”, si sono manifestate come consumo comune dei cittadini. E tuttavia, a causa della sostanziale meta-economicità di tale consumo comune, le qualità che lo nutrivano dovevano (nell’ordinamento capitalistico-borghese, esclusivamente finalizzato alla produzione del sovrappiù) rapidamente dissolversi, o venir emarginate e spazzate via. Appunto per questo, appunto per la fragilità di principio di uno schema urbano fondato su di un consumo comune ma metaeconomico, l’autonomo ordinamento formale della città classica e medievale doveva conoscere la propria rovina nel corso della crisi storica che ha condotto al pieno affermarsi dell’assetto capitalistico-borghese.

Orbene, già da quello che abbiamo più sopra osservato circa il ruolo che il consumo di tutti i produttori svolge nella società opulenta, si può facilmente intuire come la storia, nel condurre il sistema sociale dall’assetto signorile e da quello capitalistico-borghese a quello dell’opulenza, sia venuta ad accumulare le ragioni per un radicale salto di qualità dell’organismo urbano; come la storia, cioè, sia venuta a porre in essere una situazione in cui, mentre è sempre possibile che continui il dissolversi della città in un insediamento amorfo e inordinabile, sono però presenti le condizioni per un definitivo trascendimento dei limiti che hanno impedito, da sempre, il manifestarsi di una solida e dispiegata autonomia dell’ordinamento formale della città: le condizioni positive, dunque, per la costruzione di una città realmente e pienamente tale.

7. Centralità del consumo nella città e nel modello opulento

Un primo elemento sul quale dobbiamo soffermarci per svolgere la nostra argomentazione, è costituito da una caratteristica che - come già si è detto - si pone come una connotazione essenziale e di principio della società opulenta: il fatto, cioè, che in tale società il consumo, sebbene rimanga pur sempre ordinato a un bisogno cristallizzato e definito nella forma del bisogno della vita fisica dell’uomo, diviene comunque il momento decisivo e centrale della dimensione economica e dell’intera società civile. Il consumo, in altri termini, non è più definito come una funzione esclusiva della produzione, come il semplice costo della forza-lavoro necessaria a sviluppare il processo produttivo. Esso diviene invece, per la produzione medesima, da mero strumento (quale è inevitabilmente un consumo ridotto a consumo produttivo), reale problema: non si presenta forse il consumo, già dal primo affermarsi dell’opulenza, come una realtà che è indispensabile indurre per poter continuare a espandere l’attività produttiva? Non è comunque l’espansione produttiva ormai strettamente condizionata a un indefinito allargamento del consumo?

Quest’ultimo insomma, il consumo, acquista nella società opulenta un peso e un’incidenza decisivi e determinanti indipendentemente dal fatto di essere un input della produzione, un suo momento interno; esso si afferma e si sviluppa con una sua specifica autonomia, e dunque, in definitiva, proprio in quanto consumo. Tutto ciò significa allora - ed è questo che soprattutto ci interessa sottolineare - che una categoria, di cui abbiamo riconosciuto la decisività per l’operazione urbanistica, acquista ora, con l’opulenza, una dimensione assolutamente nuova. Quel consumo che, manifestandosi nel borgo e nella città primigenia come meta-economica fruizione comune delle qualità religiose, politiche, civili, estetiche, consentiva il sorgere di una forma autonoma dell’insediamento urbano; quel consumo, che la vittoria capitalistico-borghese sull’assetto signorile doveva invece asservire seccamente alla produzione, alienando per ciò stesso l’ordinamento formale della città; quel consumo, infine, di cui i padri dell’urbanistica moderna (gli Owen, i Fourier, i Godin) dovevano intuire la fondamentale importanza per la città, ponendolo al centro e al cuore dei loro utopistici insediamenti, quel medesimo consumo si è ora trasformato, nell’assetto opulento, in una realtà economica e sociale dalla quale non si può prescindere.

8. Il rischio dell’opulenza.

Certo, il consumo può - anzi, nelle condizioni storiche date, deve - rimanere opulento, e dunque necessariamente arbitrario e individualistico: questa infatti è la tendenza connaturata allo sviluppo evolutivo del sistema in atto. E in tal caso, come si è già osservato, il consumo, poiché è arbitrario, non è capace di fornire il sostegno di alcuna legge alla città, e poiché è individualistico, tende anzi a dissolverla, eliminandone la radice sociale. Se il consumo rimane quindi strettamente caratterizzato dall’opulenza, l’insediamento umano ripercorre all’indietro il proprio cammino: esso si riduce a una dispersione anarchica e casuale, o a una mera e informe aggregazione di residenze, simile a quella che era costituita dall’insediamento peculiare all’età delle “pompose Babilonie”. La città, in tal caso, non solo decade, ma giunge alla propria catastrofe. Dal momento che tutti, o per meglio dire che ciascun abitante dello insediamento opulento può - e addirittura deve - allargare all’indefinito i propri consumi, e dal momento che una simile indefinita espansione non ha alcuna regola realmente comune che possa consentire di conferirle un qualche ordine, ecco che la città si avvia alla propria definitiva crisi lungo due direzioni alternative.

Da un lato, infatti, la proliferazione disorganica dei consumi individuali conduce - ove e finché si rimanga nell’ipotesi di un insediamento concentrato - a una crescente e irrefrenabile congestione, che porta - in una prospettiva di cui siamo già in grado di conoscere e di patire, nelle nostre odierne metropoli - l’iniziale manifestarsi -a una completa e insanabile paralisi della vita urbana. Dall’altro lato, a mano a mano che le condizioni d’esistenza entro un simile convulso aggregato si rivelano umanamente insostenibili, non esistendo più alcuna ragione di rimanere vicini gli uni agli altri per fruire degli individualistici consumi opulenti, si è sollecitati e sospinti alla dispersione delle residenze. Ciascuno tende sempre più, o almeno per un maggior tempo, a insediarsi singolarmente e isolatamente in questa o in quell’altra parte del territorio, in una inconsapevole e grottesca restaurazione dell’insediamento dell’autoconsumo. In definitiva, la città si dissolve.

Questo è dunque il destino che è riservato alla città se il fatto nuovo, costituito dall’affermarsi del consumo, rimane entro la stretta logica del modello opulento. Ma ciò significa allora che esiste dal punto di vista dell’urbanistica un massimo di necessità e di urgenza di superare la fase opulenta. La disciplina urbanistica, in altri termini, può sviluppare la propria operazione solo a patto di impegnarsi, sul suo specifico terreno, nello sforzo di contribuire a dar vita a uno sviluppo della città - entro un generale sviluppo della società - che sia radicalmente diverso da quello che è peculiare al modello dell’opulenza. E del resto, precisamente a causa del particolare ruolo svolto, nell’assetto opulento, dal consumo di tutti i produttori, e proprio in ragione della decisività di quest’ultimo per l’operazione urbanistica, si presenta oggi anche un massimo di possibilità di utilizzare le condizioni, il terreno, la situazione storica dell’opulenza, per iniziare la costruzione di una città nuova; di una città, in altri termini, che colga l’occasione dell’opulenza per superare i limiti e le alienazioni antiche e, insieme, le odierne minacce.

9. L ‘occasione dell’opulenza.

In effetti esiste, nel concreto, la possibilità di far giocare il consumo in modo diverso da come è comportato nell’opulenza. Tale possibilità è insita in una contraddizione di fondo implicita nel consumo opulento. Abbiamo visto che l’ordinamento dell’opulenza è caratterizzato - in linea di principio e in linea storica - dal fatto che in esso acquista un massimo di centralità e di decisività il consumo di tutti i produttori. Anzi, poiché la qualifica di produttore, di lavoratore, tende sempre più a risolversi in un attributo formale, in una giustificazione sociologica, o addirittura nel sostegno e nell’alibi psicologico di un’esistenza umana che, fuori del lavoro, non riesce a trovare una propria regola; poiché insomma, per quei motivi che abbiamo più sopra largamente accennato, l’esser produttore si avvia in sostanza a divenire, per l’uomo, solo un titolo per poter consumare, si può quindi affermare senz’altro, e decisamente, che nell’ordinamento dell’opulenza la realtà centrale e dominante è costituita dal consumo di tutti gli uomini.

Ma d’altra parte (e anche su questo punto ci siamo già soffermati) il consumo di tutti viene poi, nel quadro dell’opulenza, individualisticamente fruito, per la ragione fondamentale che è rimasto esclusivamente consumo di beni necessari alla soddisfazione del bisogno della vita fisica: di quel bisogno, cioè, che, ove sia assolutizzato e vissuto come l’unico possibile, non postula, per il proprio appagamento, alcuna realtà comune e sociale.

Ecco, dunque, i termini della potenziale contraddizione implicita del consumo opulento. Da un lato, esso è consumo di tutti; è un consumo generalizzato, egualitario, democratico, che come tale pretende di trasformarsi in consumo comune: che pretende, cioè, d’esser fruito dagli uomini in quanto membri di una comune società. Ma dall’altro lato, esso è un consumo vissuto nella forma individualistica; è un consumo, perciò, che incontra nell’individualismo non solo l’insuperabile limite per la piena esplicitazione della sua tensione comunitaria, ma la vera ragione del suo permanere in amorfo consumo di massa.

Ora è proprio nel nodo costituito dalla contraddizione latente nel consumo opulento che l’azione degli urbanisti può inserirsi; è proprio incidendo in tale contraddizione e contribuendo a risolverla che la loro opera può raggiungere una sua positiva efficacia. Ed è allora evidente che l’operazione urbanistica viene ad agire, in tal modo, entro una linea d’azione che comporta la prospettiva del definitivo trascendimento dell’opulentismo e del suo vizio di fondo (la riduzione del bisogno umano ai bisogni della sussistenza fisica dell’uomo), ma che nello stesso tempo, poiché è una linea d’azione che può cominciare a realizzarsi nell’immediato, costituisce già, per ciò stesso, un inizio concreto di superamento dei limiti, degli errori, delle mistificazioni dell’opulenza.

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