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Eddytoriale 74 (9.6.2005)
10 Giugno 2008
Eddytoriali 2005
Battersi contro i mulini a vento non è sempre impresa da folle. A volte, quando i mulini a vento sono davvero giganti minacciosi, è saggio arginarne la prepotenza. Niki Vendola, il saggio presidente (per favore, non dite “governatore”) della Puglia non è il primo, e non sarà l’ultimo a tentar di frenare la devastazione che minaccia il nostro territorio, grazie a un’industria miope e a un governo (non solo quello di Berlusconi) incapace di governare.

A prima vista, appare un paradosso. Ma come, gli ambientalisti predicano la necessità di incentivare le energie alternative, e poi protestano quando finalmente si cerca di passare dalle parole ai fatti! Così hanno scritto Valentini, Manfellotto e tanti altri bravi giornalisti. Così pensa una parte consistente, forse maggioritaria, dell’opinione pubblica, e perfino qualche componente dell’ambientalismo. Tanto è vero che Massimo Serafini e Mario Agostinelli (persone del cui giudizio mi fido) hanno invitato Vendola a ripensare al suo decreto di moratoria agli impianti eolici in Puglia e ad adottare soluzioni più soft. Cerchiamo di ragionare, senza schierarci: o meglio, prima di schierarci, per comprendere se ci si debba schierare o no, e da quale parte.

Le ragioni di chi difende le energie alternative, utilizzatrici di risorse rinnovabili, sono fuori di ogni dubbio. Ma ogni energia, anche alternativa, ha bisogno che venga realizzata una “interfaccia”, un apparecchio o un complesso di apparecchi che trasformi la sorgente di energia in energia accumulabile, trasmissibile, consumabile. E ogni energia, anche alternativa, provoca trasformazioni del territorio: modeste o cospicue, in parti del territorio più o meno dotate di qualità e di fragilità.

Ora il fatto è che tra le proposte degli ambientalisti e la loro pratica traduzione in opere si inserisce, di fatto, un solo soggetto: l’industria, senza alcuna guida, senza alcun indirizzo, senza alcuna definizione delle prestazioni richieste e delle condizioni da rispettare. Manca, insomma il governo: il government, l’autorità pubblica garante dell’interesse generale. E l’industria, miope per definizione (è guidata esclusivamente dalla ricerca del profitto, in assenza del quale fallisce), produce oggetti progettati con l’unica finalità di produrre il massimo di energia al costo più basso.

Va bene questo? Non va bene: lo dimostra la documentazione raccolta da Carlo Ripa di Meana e dal suo Consiglio nazionale per il paesaggio, e la ricca letteratura in proposito che è stata prodotta in Europa e negli USA. Non va bene soprattutto in Italia, dove il paesaggio costituisce la maggiore ricchezza della nazione, e una delle maggiori fonti di reddito per il futuro (oltre all’intelligenza, la quale peraltro comincia anch’essa a scarseggiare): e dove le amplissime piantagioni di impianti eolici (produttori di quote molto modeste di energia) stanno trasformando in modo irreversibile delicatissimi paesaggi degli Appennini, spesso “protetti” da provvedimenti europei, nazionali o regionali.

Domandiamoci allora – visto che per di più siamo in una fase di definizione dei programmi elettorali – che cosa un governo lungimirante ed efficace dovrebbe fare.

In primo luogo, dovrebbe elaborare un piano energetico nazionale, nel quale si stabilisca, in relazione alle risorse energetiche disponibili e alle loro concrete capacità d’impiego, quali impiegare e per quale quota: e questo è un compito del tutto tradizionale, che qualunque mediocre governo in una società moderna adempie come normale amministrazione. È ragionevole che in Italia dal 1988 non si sia fatto un Piano energetico, e che (peggio ancora) con la riforma del titolo V delle Costituzione la materia sia stata attribuita alle 20 regioni? È ragionevole che si sia avviata una iniziativa per la diffusione massiccia dell’eolico, senza neppure prima verificare – per esempio – se nella concreta situazione paesaggistica e meteorologica della penisola sia più conveniente l’eolico o il solare?

In secondo luogo, il governo dovrebbe definire le prestazioni richieste agli impianti relativi a ciascun tipo di energia. Per far questo sarebbe ovviamente necessario un potenziale di ricerca applicata direttamente gestito dallo Stato, con la massima autonomia rispetto all’industria. Sarebbe necessario definire (da parte dello Stato e delle Regioni) le caratteristiche dei progetti di impianti in relazione alle collocazioni possibili nei nostri territori, con un’attenzione particolare ai paesaggi urbani e a quelli territoriali. Sarebbe necessario definire le caratteristiche dei siti capaci di ospitare gli impianti e le altre infrastrutture necessarie per la loro gestione, le modalità mediante le quali gli strumenti della pianificazione territoriale e urbana debbano decidere le specifiche localizzazioni e le regole della loro attivazione. E su tutto ciò, sulla rigorosa applicazione delle regole definite e degli strumenti individuati, occorrerebbe esercitare controllo e monitoraggio.

Sono giuste, allora, le critiche alla opposizione degli ambientalisti a interventi devastanti? Finché chi governa non avrà fatto il suo dovere, la mia opinione è che gli ambientalisti, poiché non governano, abbiano il dovere di proporre e di denunciare: non è a loro che spettano i compromessi. E chi governa, nell’incertezza derivante dall’assenza delle condizioni indispensabili per agire, ha ragione se applica il principio di precauzione: provvida perciò la moratoria, e il contemporaneo avvio di un’iniziativa che consenta di decidere a ragion veduta, di scegliere con piena cognizione di causa. Per governare, e per non essere governati dai poteri forti.

Il disegno è di Pablo Picasso, "Don Quijote y Sancho Panza", 1955

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