È una questione di cultura, innanzitutto. I paesaggi campani sono tra i più antichi e nobili del mondo: basta pensare ai terrazzamenti della costiera amalfitana e di quella sorrentina; basta pensare ai feracissimi terreni della piana tra Napoli e Caserta, resi tra i più fertili del mondo dalle millenarie ceneri vesuviane. Basta pensare ai Campi Flegrei, straordinari per l’intreccio di rarità geotermiche e lasciti greci e romani.
È una questione di sicurezza per le vite e le risorse umane. Desta orrore leggere che sulle pendici a rischio del Vesuvio, nella “zona rossa”, si concede ancora di costruire (si veda il Corriere della sera del 25 ottobre, che denuncia: “Ai piedi del Vesuvio ogni giorno si scoprono nuovi cantieri. Nei paesi della zona rossa, quelli a più alto rischio in caso di ripresa dell’attività eruttiva del vulcano, si continua a costruire. E non abusivamente, ma con tanto di licenza edilizia”). E com’è possibile che si debba oggi ancora temere ad ogni pioggia per i paesi e i paesani nella piana del Sarno?
Ed è infine una questione delle risorse economiche offerte da un’agricoltura pregiata. Il valore (anche economico) delle uve e dei limoni, degli ortaggi e dell’olio, delle albicocche e delle cerase, dovrà scomparire per il proliferare di case, casarelle, capannoni e capannoncini, così come sono scomparsi dalla Piana del Sarno i famosi Sammarzano cacciati dai veleni industriali e da quelli degli additivi chimici? Proprio oggi, che le produzioni agricole di qualità (e di nicchia) cominciano a essere fruttuosamente commercializzate e trovano accoglienti mercati nel mondo?
La Campania ha tre importanti scadenze, e tre possibili strumenti, in questa settimane. Quello che richiede un intervento più urgente è il Piano territoriale provinciale di Napoli. Ha preoccupato molto l’affermazione dell’assessore all’urbanistica, secondo il quale il piano tutelerebbe 30mila ettari di aree a produzione agricole: meno del 30% della superficie territoriale, contro il 45% attuale (e l’80% del 1960). Come preoccupano le norme che affidano al completamento urbanistico i 15mila ettari denominati “aree di frangia”: aree che comprendono le terre murate, gli aranceti e gli arboreti promiscui della penisola sorrentina, porzioni significative dei versanti collinari flegrei, con gli orti arborati ad elevata complessità strutturale dei ciglionamenti medievali, e infine quote cospicue degli orti arborati ed albicoccheti del pedemonte Vesuviano. Si è nella fase delle osservazioni: si può correggerlo
La regione sta predisponendo due atti: il piano territoriale, e la legge urbanistica regionale. Potrebbero essere strumenti utilissimi, se mettessero dei paletti seri all’occupazione edilizia dei territori aperti. Se il primo non fosse una mera descrizione della realtà e l’indicazione di “direttrici strategiche”. Se la legge non fosse tutta di procedure volte a razionalizzare il trend, ma ponesse alcune coraggiose scelte di merito.
Per esempio, se stabilisse che “nessuna risorsa naturale del territorio può essere ridotta in modo significativo e irreversibile in riferimento agli equilibri degli ecosistemi di cui è componente”. Che “le azioni di trasformazione del territorio devono essere valutate e analizzate in base a un bilancio complessivo degli effetti su tutte le risorse essenziali”. Che “nuovi impegni del suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti quando non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e infrastrutture esistenti”. Che il territorio agricolo non vale solo per la generica funzione produttiva, ma anche per il suo valore e la sua utilità“storico-culturale, estetico-percettiva e paesaggistica, di mantenimento dei cicli idrologici e biogeochimici e di riproduzione delle risorse di base (aria, acqua, suolo)”, e per la sua idoneità a costituire delle “cinture verdi per l’attenuazione degli impatti locali e globali dei sistemi urbani, di risorsa per lo svago e la vita all’aria aperta”. Che alla pianificazione provinciale spetta, tra l’altro, “di evitare ingiustificati consumi di suolo e di tutelare l’integrità funzionale e strutturale dei sistemi ecologico-naturalistici, agro-forestali, paesaggistici e storico-culturali”. Che il piano comunale ” garantisce l’integrità strutturale e funzionale del territorio agricolo, forestale e naturale”. Che, a tal fine, “il piano comunale determina come invariante strutturale la linea che separa il territorio urbano da quello aperto”, e stabilisce che in quest’ultimo “è vietata qualunque trasformazione che non sia finalizzata agli usi specifici del territorio rurale stabiliti dalla legge regionale”.
Una legge urbanistica che ponesse questi paletti sarebbe una legge utile. Un piano regionale che avesse alla sua base questi principi, sarebbe un documento condivisibile. Un piano territoriale provinciale che fosse emendato in questa direzione, sarebbe adeguato alle esigenze del futuro.
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Paesaggi della Campania, dai Sistemi di terra di Antonio Di Gennaro, dal sito di Risorsa