Prima questione: i “diritti edificatori” dei privati. In questo sito la questione è stata ampiamente trattata, e penso che i lettori abbiano compreso che nessun diritto è riconosciuto dalla legge (e dalla giurisprudenza) a chi ha goduto di una previsione urbanistica lucrosa. Le misure “compensative” non sono quindi una necessità, ma una libera scelta della politica. I Reggitori del Campidoglio l’hanno compreso e – a quanto sembra – hanno fortemente ridotto il ricorso all’ambiguo strumento. Bisognerebbe propagandare questa informazione nella altre città d’Italia, perché gli equivoci non germogliano solo nell’Agro romano.
Seconda questione: il consumo di suolo. Ciò che ha unito quelle opposizioni al piano che volevano migliorarlo e non cancellarlo (la grande maggioranza, per fortuna) è la critica al sovradimensionamento e alla sottrazione di altra preziosa risorsa “territorio aperto”; la riduzione delle aree sottratte alla campagna è la correzione più forte che è stata apportata dal Consiglio comunale. Forse i tempi sono maturi per affermare un principio nuovo (in Italia, ma consolidato in altre società). Ogni sottrazione di suolo al ciclo naturale, ogni trasformazione di un paesaggio agrario in un incerto paesaggio urbano, è un prezzo: un prezzo che la società può pagare, ma se ciò è proprio necessario. Occorre perciò dimostrare rigorosamente che ci sono esigenza che la comunità non può soddisfare se non urbanizzando nuovi territori. Occorre commisurare strettamente, rigorosamente e trasparentemente le nuove aree urbanizzate agli accertati bisogni. Occorre, anzi, che il limite che separa le aree urbanizzate e urbanizzabili dal territorio aperto sia la prima scelta di un nuovo piano regolatore, e che sia un confine fisso, invalicabile, una invariante strutturale.
Terza questione: l’urbanistica e la politica. Il piano regolatore non è (non deve essere) uno strumento per regolare il valore economico dei suoli. Questo può essere un effetto, non l’obiettivo. L’obiettivo è (deve essere) porre le premesse perché la città sia amica delle donne e degli uomini, li aiuti a vivere, a risolvere i loro problemi: di fruizione dei servizi, di mobilità sul territorio, di incontro, di accesso ad un’abitazione a prezzi sostenibili, di godimento di ciò di bello e buono che natura e storia hanno prodotto. Assumere questo obiettivo, tradurlo in indirizzi concreti di uso del territorio e di trasformazione dei suoi modi di organizzazione, scegliere le soluzioni tecniche giuste perché ciò avvenga nei necessari atti amministrativi, è compito della politica. È l’urbanistica che è ancella della politica, non viceversa. Ma la politica deve effettivamente guidare la tecnica, deve chiederle di rispondere ai suoi quesiti, di soddisfare le esigenze che le pone in nome delle cittadine e dei cittadini, di oggi e di domani (oppure, se preferisce, in nome dei proprietari fondiari, dei promotori immobiliari, delle componenti dello sfaccettato “blocco edilizio”: ma ciò deve essere esplicito). Ma allora la politica deve assumere la pianificazione urbanistica come un suo compito centrale: quindi deve conoscerla, saperla adoperare per svolgere il suo peculiare servizio. I soprassalti tardivi, le correzioni dell’ultima ora, testimoniano della buona fede e dell’onestà, non della cultura politica, nè della consapevolezza degli strumenti impiegabili per raggiungere i fini.