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Eddytoriale 20 (14 luglio 2003)
9 Giugno 2006
Eddytoriali 2003
14 luglio 2003 – Esaminando le due proposte di legge sul governo del territorio presentate dalla Margherita e dalla “Casa delle libertà”, e trovandole singolarmente allineate sulla medesima linea culturale, mi sono posto una domanda: quale dovrebbe essere il contenuto di una legge convincente e utile? Parlandone con alcuni amici abbiamo convenuto su alcuni punti, che vorrei proporre qui.

Il primo principio non può che essere (mi piace ribadirlo proprio oggi, anniversario della presa della Bastiglia e dell’instaurazione dei valori della rivoluzione borghese) la prevalenza dell’interesse pubblico. Accanto a questo ne porrei altri due:

- il principio di pianificazione, ossia la regola che le decisioni sul territorio vengono espresse con atti precisamente riferiti al territorio, sintetici (ossia comprendenti l’insieme delle scelte sul territorio che competono all’ente decisore), formati con procedure trasparenti che comprendano la partecipazione dei cittadini o delle loro rappresentanze, e il

- il principio di competenza, ossia la prescrizione che la formazione degli atti di pianificazione compete solo agli enti elettivi di primo grado: Stato, Regione, Provincia e Città metropolitana, Comune.

In una legge nazionale mi sembrerebbe indispensabile generalizzare la prassi della co-pianificazione, ossia della concertazione istituzionale: le conferenze di pianificazione instaurate da alcune regioni sono una buona strada, a condizione che ne siano definite con chiarezza le modalità; le intese tra interessi pubblici di settori diversi, introdotta da l’articolo 57 del decreto legislativo 112/1998, possono divenire efficaci se diventano prassi generalizzata. La “carta unica del territorio” potrebbe diventare un obiettivo non irrealizzabile a queste condizioni, ed una enorme semplificazione per il cittadino e per l’operatore.

A questa prassi dovrebbe però affiancarsi il principio che gli accordi di programma, e in generale gli strumenti che prevedono il concorso nelle decisioni di soggetti, pubblici o privati, diversi dagli organi degli enti elettivi di primo grado, non possono comunque derogare rispetto alle scelte stabilite dal sistema ordinario della pianificazione.

Una ulteriore serie di principi dovrebbe regolare alcune questioni decisive del rapporto tra interessi privati e interessi collettivi nelle trasformazioni territoriali: le questioni attinenti l’edificabilità e i relativi “diritti”, i vincoli e così via. Ma prima di questi (o al vertice di questo gruppi di temi) ne porrei uno che riguarda i diritti dei cittadini: Si tratta della questione che, negli anni Sessanta, portò anche il nostro paese a stabilire dei requisiti minimi essenziali di vivibilità che dovevano essere garantiti a tutti i cittadini: i cosiddetti “standard urbanistici”. Questi devono certamente essere rivisti, aggiornati e integrati, tenendo conto delle nuove esigenze sociali e di antiche esigenze mai risolte (come quella alla casa), ma certamente alcuni “limiti non derogabili” di tali requisiti devono essere garantiti a ciascun cittadino della Repubblica, quale che sia la regione in cui abbia il suo domicilio.

Per gli altri aspetti del rapporto tra interessi privati e interessi pubblici ciò che andrebbe stabilito, ribadendo con chiarezza posizioni giuridiche spesso radicate nella dottrina e nella giurisprudenza, si può sintetizzare come segue:

- la facoltà di edificare (ciò che taluni chiamano “diritti edificatori”) si costituiscono solo in presenza di atto abilitativo (concessione edilizia o approvazione di progetto che sia) e ove i lavori siano iniziati;

- i vincoli ricognitivi, quelli cioè che costituiscono la concreta individuazione sul territorio di beni appartenenti a categorie tutelate da leggi nazionali e regionali (beni architettonici, ambientali, storici, paesaggistici) non sono indennizzabili, come stabilito da una costante giurisprudenza costituzionale;

- i vincoli funzionali, quelli cioè che derivano dalla scelta di riservare determinate aree (diverse da quelle di cui al punto precedente) alla realizzazione di servizi o impianti di pubblico interesse e pubblica fruizione, possono essere compensati nel rispetto delle prescrizioni urbanistiche vigenti;

- la perequazione tra proprietari di aree cui il piano attribuisce differenti possibilità di utilizzazione, può essere praticata solo nell'ambito di ciascun comparto d’intervento operativo, come del resto previsto, sia pure con qualche ambiguità, dalla proposta dei deputati della Margherita.

Infine, se sostenibilità significa non lasciare ai posteri meno risorse di quante ne possiamo godere, e se le risorse non sono soltanto acqua, aria, terra ed energia, ma anche cultura, storia e bellezza, allora mi sembra maturo il momento per riprendere ed estendere la tutela dei valori essenziali che la nostra storia ha sedimentato nel territorio accrescendo la sua qualità estetica. È giunto il tempo di dichiarare che il paesaggio rurale, come quello naturale, sono beni che non devono essere sottratti al godimento delle generazioni presenti e di quelle future, e quindi i terreni esterni a quelli definiti come urbani o urbanizzabili devono essere preservati da qualsiasi edificabilità. Nell’occasione, non sarebbe male riproporre per i centri storici una tutela più immediata, generalizzata e legata a programmi d’intervento finanziati, come aveva a suo tempo (1997) proposto l’allora ministro Veltroni.

Ho iniziato questa nota con l’affermazione che le due proposte di legge presentate dai deputati della Margherita e dalla “Casa della libertà” sono riconducibili (sia pure nella loro indubbia diversità) a una medesima matrice culturale. Ho argomentato questa tesi in un articolo scritto per la rivista Archivio di studi urbani e regionali, per cui ho appunto proposto il titolo: “Due le proposte di legge, una la matrice culturale”. Come di consueto, una bozza non corretta è in eddyburg. (agg. 17.7.03)

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