Il seminario “I protagonisti del consumo e le trasformazioni del territorio. Quali regole del gioco?” è stato organizzato dal Centro di studi urbani dell’Università degli studi di Sassari, Dipartimento di Economia, istituzioni e società
Il tema di questo seminario (non avevo ancora ascoltato la bella relazione di Antonietta Mazzette) mi ha fatto venire in mente un duplice percorso, una duplice serie di echi. L’uno è in qualche modo legato alla storia della città e alla sua essenza: riguarda il rapporto tra la città e il consumo. Il secondo ha a che fare con l’oggi, con l’attuale forma della città - il territorio urbanizzato – e con il rapporto del territorio con l’attuale economia – con il mercato.
Consumo e città
Il rapporto tra la città e il consumo ha profondamente a che fare con il mio mestiere, l’urbanista. Un mestiere che quindi è legato ontologicamente a questa grande invenzione dell’uomo che chiamiamo città.
Ebbene, la città, così come la civiltà umana l’ha inventata e creata nell’ambito della cultura che si è attestata tra le sponde del Mediterraneo e quelle del Mare del Nord, è strettamente legata a una specifica forma del consumo.
La città è nata e si è conformata, ha trovato la sua identità, ha espresso una comunità padrona dei propri destini, quando ha trovato nei luoghi ordinati al consumo comune della comunità i suoi centri ordinatori, i suoi fuochi.
La città è il luogo che gli uomini hanno creato quando hanno dovuto vivere insieme per svolgere una serie di funzioni che non potevano svolgere da soli: custodire e difendere i frutti del proprio lavoro, il sovrappiù della loro produzione; scambiare il sovrappiù tra loro, e con gli abitanti di altri luoghi.
Come tutti sanno, la città è originariamente legata alla difesa e allo scambio: le mura e il mercato sono i primi elementi fondativi della città, le prime funzioni urbane. E le storie della città ci raccontano come le funzioni urbane si siano via via arricchite, e altre necessità e funzioni comuni si siano aggiunte a quelle della difesa e del commercio: la celebrazione dei valori e delle speranze comuni - la religione -, la tutela dei diritti e la decisione sulle liti - la giustizia -, lo scambio di informazioni e di conoscenze e l’apprendimento di esse - la scuola -, la rappresentanza e l’azione nell’interesse della comunità - la politica e il governo.
Il ruolo del “consumo comune” nell’affermazione della città
A queste funzioni hanno corrisposto specifici luoghi: i templi e le cattedrali, la piazza e il foro, il tribunale, il bargello, il palazzo del governo, si sono aggiunti al mercato e alla rocca per costituire i luoghi della comunità in quanto tale: i luoghi che si sono differenziati e distinti dalla casa, dal luogo della famiglia, in quanto erano finalizzati ad esprimere, rappresentare e servire non gli interessi del singolo individuo, ma la comunità in quanto tale; non i consumi individuali, ma i consumi collettivi, dell’uomo in quanto membro della società.
Sono proprio i luoghi del consumo comune dei cittadini quelli che hanno costituito l’anima della città, la sua ragion d’essere. La decadenza della città, la sua crisi, è cominciata proprio quando i valori comuni, le ragioni profonde dello “stare insieme”, della cittadinanza, sono stati via via erosi, scavalcati, e alla fine emarginati e sostituiti dal trionfo dei valori dell’individualismo.
A me sembra che l’emblema, il simbolo, la rappresentazione fisica della crisi della città sia nel confronto tra due assetti del medesimo spazio:
- la piazza, questo luogo topico della civiltà europea e mediterranea, il luogo dell’incontro tra gli uomini di età e di ceti sociali e di mestieri e di condizioni diversi, il luogo dello scambio di merci e d’informazioni e di sentimenti e d’affetti, il luogo dello spettacolo e della cerimonia e del gioco comune, del vedere e del farsi vedere – la piazza com’era una volta e come in alcuni luoghi felici è ancora,
- e la piazza com’è oggi: parcheggio o rotatoria o svincolo, o l’uno e l’altro insieme, orribile deposito e luogo di scorribande di quelle scatole di latta, ingombranti consumatrici d’energia e d’aria, nelle quali si esprime il consumo individuale di massa – la piazza ridotta a mero spazio urbano dal quale è stato espulso l’insieme di quei momenti che ne facevano il gioiello d’una civiltà.
Gli standard urbanistici
La trasformazione delle piazze in parcheggi è l’emblema di una mutazione e di una crisi che caratterizzano la città contemporanea e la rendono il luogo dei molteplici disagi. È una crisi che nasce un paio di secoli fa, e che è il risultato del conflitto tra il carattere sociale della città e l’individualismo dominante in due fondamentali settori: quello della proprietà delle aree urbane, e quello – che qui più direttamente ci interessa – dei luoghi del consumo comune.
Negli altri paesi si è riusciti da moltissimi decenni ad affrontare questa crisi dandole risposte positive. In Italia si è dovuto aspettare gli anni 60 del secolo scorso, alcune vistose calamità naturali provocate dall’insipienza dell’uomo, e un vasto movimento sociale per ottenere che gli spazi pubblici, almeno in termini quantitativi, riconquistassero un ruolo significativo nella città.
Fino ad allora, alle scuole e al verde, alle attrezzature collettive e ai luoghi d’interesse comune era lasciato qualche lotto marginale e scomodo, nel disegno di una città dedicata alla valorizzazione edilizia della proprietà fondiaria. Da allora, dal 1967, grazie a una volontà politica sollecitata da un vasto e durevole movimento di massa, almeno metà delle aree urbane devono essere dedicate agli spazi pubblici e d’uso pubblico. È un risultato solo qualitativo, che tecnici avveduti e amministratori lungimiranti possono tradurre (hanno potuto tradurre) nella forma di una città non divorata dall’individualismo.
Una ricerca sul modo in cui il raggiungimento del diritto sociale agli standard urbanistici si è tradotto nel disegno di una città più umana sarebbe un lavoro molto interessante nel quale accingersi. Non ora però: ora è tempo di avviarmi nel secondo percorso cui avevo accennato all’inizio: il rapporto tra territorio e mercato.
Dalla città al territorio urbanizzato
Nel corso dei secoli che abbiamo alle spalle sono accaduti eventi che hanno trasformato il modo di vivere e di pensare di masse sterminate di uomini. Molti riguardano l’argomento su cui stiamo ragionando. Vorrei sottolinearne due.
Da un lato la città, nonostante la sua crisi e l’incapacità di offrire in modo generalizzato condizioni di vita soddisfacenti ai suoi cittadini, è diventata la forma praticamente esclusiva dell’insediamento umano. Non solo nel senso che è aumentata enormemente la quota degli abitanti che risiedono negli agglomerati urbani statisticamente censiti come tali, ma anche nel senso che la città (la civiltà urbana, il modo di vivere urbano) ha interessato l’intero territorio. La città non solo si è ingrandita enormemente, ma è uscita dai suoi confini. Oggi non ha più senso parlare di città e territorio come due realtà separate: oggi si deve parlare di territorio urbanizzato.
Ma dall’altro lato è nata e si è via via consolidata la consapevolezza che il territorio non è tabula rasa, non è un insieme neutrale di luoghi amorfi, non è un’estensione omogenea e isotropa, uguale in tutte le direzioni, come la immaginavano gli economisti dello spazio e gli urbanisti dell’espansione. Il territorio è un insieme di risorse scarse, essenziale per la vita del genere umano (e delle numerosissime specie che ne accompagnano il destino). Il territorio è il deposito vivente di risorse (minerali, vegetali, energetiche; appartenenti al mondo biotico e a quello abiotico; quali antichissime, quali antiche, quali recenti, quali in divenire continuo) molte delle quali hanno la caratteristica di non essere riproducibili, e tutte quella di essere limitate.
Risorse limitate e crescita infinita
Risorse limitate, ma in una società (in un sistema economico sociale) che ha assunto quale sua ideologia di riferimento, quale suo valore massimo, quale suo metro di misura per l’efficacia di qualunque azione, quella della crescita esponenziale indefinita. Ecco allora che dinnanzi all’urbanista, dinnanzi all’operatore che aveva a che fare ieri con la città, oggi con il territorio urbanizzato, si apre una seconda contraddizione, dopo quella tra il carattere intrinsecamente sociale della città e il carattere intrinsecamente individualista della società contemporanea: la contraddizione tra limitatezza delle risorse e tendenza alla continuità indefinita della crescita.
Come diceva Kenneth Boulding, uno dei padri dell’ecologia: "Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista" [1].
Uno degli aspetti del conflitto tra il dato della limitatezza delle risorse e la regola della crescita indefinita è il consumo di suolo. Per decenni abbiano considerato il suolo un bene privo di valore. Nelle città, e nelle loro sempre più estese periferie, e in quella loro aberrante mutazione che viene chiamata “città diffusa” o “villettopoli” o “sprawl urbano” (e che a me sembra un orribile BLOB urbano) – insomma, nel territorio urbanizzato il consumo di suolo è aumentato enormemente. Si valuta che, in Italia, nell’ultimo mezzo secolo, il territorio urbanizzato, sottratto alla naturalità, al ciclo biologico, alla capacità di produrre e riprodurre materia viva, è aumentato del 1000 per 100. E questo in presenza di un trend demografico nel quale le nascite non compensano i decessi.
È un conflitto grave, che ha dei riflessi pesanti e gravi non solo sul generale destino del nostro pianeta e, su di esso, del genere umano (in questo senso, un destino che è grave per noi quanto lo è per gli americani e i cinesi e gli africani), ma anche sul particolare destino, sulle particolari risorse, sulle particolari potenzialità dei nostri territori: qui in Sardegna, come nell’intera Italia, come nell’intera Europa. Qui, infatti, godiamo – grazie all’investimento di lavoro e di cultura dei nostri progenitori – di una particolare risorsa territoriale: il paesaggio, la forma che al territorio è stato impresso, nei secoli e nei millenni dalla collaborazione tra la natura e il lavoro intelligente dell’uomo.
Il paesaggio: un valore nuovo
Non si può dire che in Italia l’attenzione al paesaggio sia recente. Già nei primi decenni del secolo scorso si promuovevano studi finalizzati a formare leggi di tutela, ed è a Benedetto Croce, ministro della Pubblica istruzione all’inizio degli anni 20, che si deve la prima intuizione del paesaggio come identità del Paese: “Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo” [2].
Nel dopoguerra, l’inserimento nella parte più solida della Costituzione repubblicana della tutela del paesaggio non fu il frutto di un capriccio o di una disattenzione, ma di una consapevole scelta formata in un animato dibattito.
Certo è, però, che una consapevolezza di massa, generalizzata, diffusa del paesaggio come un valore che appartiene a tutti e a ciascuno, come un patrimonio che è colpevole ridurre o degradare o svendere è un’acquisizione abbastanza recente. L’associazione Italia Nostra nacque negli anni 50 del secolo scorso e ad essa aderivano poche decine di eletti. Oggi non si contano le associazioni ambientaliste e protezioniste, che sono centinaia e forse migliaia se a quelle nazionali aggiungiamo le moltissime che nascono e si esprimono a livello locale – magari intrecciando le tematiche paesaggistiche e ambientali a quelle della democrazia, della partecipazione, del pacifismo.
Il paesaggio è diventato un valore. E quando qualcosa diventa un valore ecco che nascono subito tre tipi di iniziative: quelle orientate a tutelarlo, quelle volte a consumarlo, e quelle dirette a sfruttarlo.
A proposito delle prime accennerò solo al fatto che, con la legge Galasso del 1985, si è passati da una concezione della tutela di alcuni “monumenti” del paesaggio mediante vincoli essenzialmente procedimentali, a una concezione del paesaggio come forma del territorio nazionale e delle sue parti e alla sua protezione mediante la pianificazione territoriale e urbanistica. Vorrei ragionare un momento di più sul consumo di paesaggio, perché mi sembra un argomento centrale in questo seminario.
Il paesaggio consumato
Il termine consumo ha un doppio significato: significa fruire, utilizzare qualcosa per crescere, per svilupparsi, per migliorare, per godere, e significa logorare, togliere qualcosa (o tutto) a ciò che si consuma, degradare, ridurre. Consumare una poesia di Emily Dickinson arricchisce ciascuno di noi ma non le toglie nulla alla composizione. Un’immagine diversa del consumo si ha invece guardando il piede della statua di San Pietro in Vaticano, ridotto a un moncherino dalle devote carezze di migliaia di pellegrini.
Nel paesaggio questi due termini sono strettamente associati. E vorrei dire che la scommessa che abbiamo di fronte, e che molti di noi sono impegnati a vincere, è proprio questa: fruire del paesaggio senza logorarlo.
Oggi ci si comincia a rendere conto che – come ha scritto Carla Ravaioli - “è stato il turismo, ricco o povero, di massa o d’élite, la causa prima della mostruosa cementificazione delle coste, non solo italiane, ma spagnole, greche, turche, nordafricane, e via via del mondo intero, invase da alberghi albergoni pensioni seconde e terze case”[3]. Ce ne siamo resi conto nelle città più belle, e soprattutto e innanzitutto in quelle dove la limitata dimensione accentuava l’effetto dissacrante e massacrante delle masse di turismi: prima quindi a Venezia e a Firenze che a Roma e a Parigi. Ma anche nelle valli alpine, e soprattutto nelle coste più belle. E se nelle prime spesso la consapevolezza delle popolazioni ha saputo tradursi in regole amministrative che hanno salvaguardato gli interessi di lunga durata delle popolazioni locali (come nelle valli ladine delle Dolomiti), nelle seconde, nelle coste, la grande domanda di fruizione si è incontrata con la propensione allo sfruttamento immediato; con il terzo tipo di iniziative, dunque, alle quali sopra alludevo.
Il punto è che dobbiamo imparare sempre meglio a distinguere il consumo che nasce da un bisogno autentico dell’uomo (bisogno di conoscenza, di ricreazione, di riposo, di godimento) da quello che nasce da un’esigenza del sistema produttivo dato (bisogno di vendere le merci, magari inutili).
Il turismo
Stiamo parlando del turismo. E stiamo in bilico tra il passato e il futuro. Sullo sfondo di un mondo in faticoso trapasso da un´economia del possesso a un’economia dell´accesso, come ha scritto Jeremy Rifkin.
Stiamo ancora nell’ambito di una concezione e una prassi del turismo come industria che trasforma, distrugge le materie prime per costruirne altre (tendenzialmente tutte uguali, tutte ugualmente ricche di kitch e di cattivo gusto “perché così vuole la gente”), totalmente artificiali, lontane dalla cultura e dalla storia quanto lo sono dalla natura e dall’identità del sito.
E stiamo cercando di passare verso una concezione e una prassi del turismo come momento della conoscenza del mondo, dell’approfondimento di sé attraverso la frequentazione degli altri e dei loro mondi – così belli e nuovi perché così diversi da quelli frequentati tutti i giorni, così pregevoli perché ricchi di valori e di costumi e di storie così diversi da quelli che erano i soli nostri.
Siamo in bilico tra
- un turismo che acchiappa qualche pezzo di territorio, lo ritaglia dal resto, lo rende omogeneo a quei villaggi di bengodi che le soap opera ci hanno abituato (hanno abituato gli stupidi) a considerare il paradiso in terra – con le loro villette isolate o a schiera, i loro shopping center o le loro plaza, i loro praticelli rasati col tosaerba, i loro parchi robinson dove abbandonare i bambini e i parcheggi nascosti tra oleandri per abbandonare le automobili,
- e un turismo, invece, che abbia la sua base e il suo inizio nel rispetto di ciò che c’è e di ciò che c’è stato, nel sapore e nell’odore dei luoghi così come sono, e li sappia visitare in punta di piedi, e che perciò trasformi il meno possibile, e si addentri il più possibile nei rapporti che legano la vita di oggi a quella di ieri.
Sono convinto che solo a questo tipo di turismo possiamo attribuire il termine di sviluppo, se con tale termine non intendiamo l’irragionevole crescita oltre ogni misura delle grandezze quantitative, ma il miglioramento della qualità della nostra vita – insieme, di quella dei visitatori e di quella delle popolazioni che in quei luoghi risiedono stabilmente.
La pianificazione
Cercare di rendere possibile questo nuovo tipo di turismo richiede certo sforzi notevoli, perché significa percorrere strade alternative a quelle del mercato. Significa comprendere e proteggere i luoghi in quanto beni, in quanto oggetti dotati di loro specifiche qualità e potenzialità, anziché usarli in quanto merci, cioè cose fungibili, trattabili, alterabili, falsificabili. Ma il mercato è lungi dall’essere lo strumento capace di risolvere qualsiasi problema, di comprendere qualsiasi valore. È lungi dal poter costituire l’unica regola.
Che il mercato non fosse uno strumento adeguato a raggiungere obiettivi nell’interesse di tutti lo compresero un paio di secoli fa, a New York, nel cuore pulsante dell’America capitalista ed individualista. Allora si comprese che il mercato non solo non riusciva a dare razionalità all’uso del suolo, ma ansi – nel campo delle decisioni sull’uso del suolo urbano – provocava conflitti, disagi, caos, diseconomie crescenti che il mercato subiva ma non riusciva a contenere.
È lì e allora (a New York nel 1811, e non a Mosca nel 1917) che nacque la pianificazione urbanistica, come unico metodo, e insieme di strumenti, capace di conferire ordine, razionalità, coerenza alle trasformazioni del territorio. La pianificazione urbanistica, per governare nell’interesse collettivo il funzionamento e le trasformazioni della città. La pianificazione territoriale, quando si comprese che la città aveva travalicato i propri confini e invaso l’insieme dei luoghi raggiungibili e utilizzabili. La pianificazione paesaggistica, quando emerse e si affermò la consapevolezza che la tutela del paesaggio, di questo grande patrimonio collettivo che non può essere privatizzato, trasformato e goduto nell’interesse di pochi, ma deve esserlo nell’interesse della collettività, non può essere assicurata da un sistema di vincoli, ma trovando una sintesi tra le diverse esigenze che il territorio deve soddisfare.
Una sintesi – affermano molti – nella quale i valori della bellezza, del futuro e della storia, abbiano il primato sugli altri, e i diritti delle popolazioni future non siano calpestati in nome delle miopie di oggi.
In Sardegna, oggi
Vedo oggi, in questa bellissima isola, molti sforzi impegnati nel tentativo di costruire una simile sintesi. Vedo le iniziative della Regione Autonoma e del suo presidente Soru, e condivido pienamente la valutazione che ne faceva Mazzette. Esprimo anch’io la speranza che le iniziative sacrosante per la difesa del paesaggio non restino un’isola, ma conquistino il Continente. E vedo uno sforzo per molti aspetti analogo nelle iniziative e nelle ricerche del cantro di Studi Urbani di questa Università, al quale sono onorato di aver chiesto l’adesione.
Ma ha ragione Fois: la sintesi deve tradursi in regole. A mio parere la premessa delle regole è in questa proposizione: il suolo è un bene comune. Di questa frase voglio sottolineare entrambi i termini: il territorio è un bene, non una merce; ed è un bene comune, appartiene a tutti, gli uomini e le donne di oggi, e quelli di domani. Aveva ragione Bonnes a sottolineare il carattere severo di sostenibilità nell’accezione originaria, quella della Commissione Brundtland: voglio vedere i politici e gli amministratori, e la stessa cultura d’oggi, a misurare effettivamente la trasformabilità del territorio adoperando questo metro di misura, e rinunciare a tutto ciò che riduce le risorse non riproducibili.
Per conto mio, nella situazione data in Italia e in Europa, porrei al centro due regole. La prima: arrestare lo sprawl urbano, adoperando i due strumenti impiegati ormai in molte realtà europee e statunitensi: la definizione di un limite invalicabile all’espansione delle città, la decretazione della non trasformabilità delle aree extraurbane. La seconda regola: non privare le città del commercio, che è stato la ragione della loro nascita ed è la ragione della loro vita; una vita pesantemente minacciata dalla costruzione delle grandi cattedrali dello commercio.
Ho sentito dire anche qui che le grandi multinazionali del consumo, preoccupati del declino delle cattedrali che hanno costruito, vogliono arricchirle di contenuti, trasformare in città. Questo mi fa venire in mente un’ulteriore domanda, e un’ulteriore preoccupazione: chi realizzerà la nuova città a partire dalle Outlet Factories del commercio o dai Villaggi Vacanze? Le multinazionali, o gli istituti della democrazia? In altri termini, chi stabilisce le regole? Forse dovremo difendere la democrazia e i suoi istituti, come difendiamo la città e la sua complessità e il territorio e le sue risorse.
Grazie.
[1] Kenneth E. Boulding, The economics of the coming Spaceship Earth, in: H. Jarrett (editor), “Environmental quality in a growing economy”, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1966, p. 3-14
[2] Benedetto Croce, Relazione al disegno di legge per la tutela delle bellezze naturali, Atti parlamentari, Roma 1920.
[3] Carla Ravaioli, Il turismo inquinante, in http://eddyburg.it/article/articleview/2531/0/142/