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Edoardo Salzano
20050507 Qual è il territorio della pianificazione territoriale?
7 Luglio 2008
Interventi e relazioni
La rivista Scienze regionali pubblicherà, nel prossimo numero, un saggio di John B. Parr dal titolo “Spatial Planning: Too Little or Too Much?”, accompagnandola con alcuni brevi scritti di commento. Tra cui questo. In appendice il testo di Parr

La pianificazione spaziale cui si riferisce lo scritto di Parr è quella finalizzata alla «predisposizione di cornici generali e principi a orientare la localizzazione dello sviluppo e delle infrastrutture fisiche» e a ottenere «il coordinamento strategico di varie decisioni pubbliche e private (di solito decisioni di investimento) in un dato spazio entro un determinato periodo di tempo». È qualcosa di simile quella a cui si lavorò in Italia quando Antonio Giolitti era Ministro per il Bilancio e la programmazione economica (Progetto 80: la proiezione territoriale della programmazione economica. A mio parere non ha molto senso interrogarsi «sulle situazioni in cui la pianificazione spaziale è pericolosa»: come gli esempi illustrati dall’autore a questo proposito dimostrano, non è pericoloso lo strumento (la pianificazione), ma l’uso che se ne è fatto (le scelte dei decisori).

Quel particolare tipo di pianificazione (la proiezione sul territorio della politica economica) mi sembra patisca peraltro un grave limite, al quale Parr allude quando afferma che le definizioni correnti «non spiegano che cosa si intenda come “spaziale” nella definizione di “pianificazione spaziale”». La mia impressione è che la pianificazione spaziale che, per così dire, “nasce dall’economia”, si riferisce a uno spazio astratto, non molto diverso da quello praticato da Walter Christaller. Ancor oggi lo spazio al quale ci si riferisce è quello nel quale le decisioni possono essere rappresentate con «strumenti come i colori, elaborate ombreggiature, grosse linee con frecce che indicano le future aree di comunicazione».

A me sembra che una simile concezione dello spazio (e quindi del rapporto tra politiche territoriali e spazio) poteva essere comprensibile cinquant’anni fa, oggi molto meno. Cercherò di argomentarlo, partendo proprio da una delle definizioni della pianificazione spaziale cui Parr si riferisce.

Uno degli obiettivi della pianificazione spaziale, ricorda Parr, è il coordinamento delle azioni pubbliche. Ma da almeno un paio di decenni a questa parte tra le azioni pubbliche hanno assunto un peso crescente quelle orientate alla tutela e all’impiego sapiente delle risorse territoriali: dalle diverse componenti dell’ambiente (suolo, acqua, energia) a quelle del paesaggio e del patrimonio culturale e storico. Coordinare questo “settore” delle politiche pubbliche con quelli orientati alla trasformazione del territorio (infrastrutture, zone industriali, edilizia, turismo di massa, agricoltura intensiva ecc.) non determina forse conflitti che il “coordinamento” dovrebbe proprio sforzarsi di risolvere? Ma le tutele e l’impiego sapiente delle risorse territoriali esigono una rappresentazione del territorio (e, prima di questo, una “considerazione” del territorio, per adoperare il termine della legge Galasso) enormemente più corposo e “realistico” di quello impiegato della pianificazione spaziale di matrice economica.

Il fatto è che nell’ultimo mezzo secolo vi sono stati due movimenti convergenti, entrambi orientati a riconoscere nel territorio (quello fatto di suolo stabile o soggetto a dinamismi, di vegetazione allevata e brada e selvatica, di centri e manufatti e percorsi storici, di morfologie differenziate e di identità culturali diverse, di acque superficiali e profonde, correnti e ferme e stagnanti, e soprattutto di intricati intrecci tra queste diverse componenti dello spazio reale) un soggetto di diritti. Da una parte, infatti, si è compreso che le dimensioni delle trasformazioni provocate dai benefici dello sviluppo capitalistico incontravano un limite non valicabile nella scarsità e nella irriproducibilità di talune risorse naturali, costitutive del territorio. Dall’altro lato, si è generalizzata (almeno in una parte del mondo) la consapevolezza del fatto che la forma del territorio (ciò che può essere sintetizzato nel termine “paesaggio”) esprime qualità e valori che costituiscono una risorsa di cui non si può fare a meno.

A mio parere la scienza economica non si è ancora fatta carico né dell’una che dell’altra di queste componenti dell’odierna consapevolezza comune. Che non abbia compreso il concetto di limite è stato colto con spietata ironia da Kenneth Boulding, quando ha scritto che «chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista». Che trovi difficoltà ad attribuire valore alle qualità che non siano riconducibili a merci (e quindi trasformabili, fungibili, omogeneizzabili, standardizzabili) è testimoniato dal fatto che, dopo aver sapientemente distinto il valore di scambio dal valor d’uso, ha ridotto quest’ultimo a mero e generico supporto del primo.

Lo scritto di Parr sollecita quindi a riflessioni che forse legano tra loro linguaggi e punti di vista di discipline e mestieri diversi e, oggi, scioccamente lontani: le scienze del territorio da un lato, quelle dell’economia dall’altra. Ma c’è un altro versante dei saperi oggi rilevanti verso il quale Parr implicitamente invita e riflettere: quello della politica.

In tutte le definizioni di pianificazione spaziale assume rilievo il termine “pubblico”. Parr sembra condividere (giustamente) l’opinione secondo la quale la pianificazione (almeno quella spaziale) sia un’attività di competenza delle pubbliche amministrazioni. Ha consapevolezza del fatto che esistono diversi livelli territoriali di competenza delle amministrazioni pubbliche (sebbene la sua lettura si limiti a quelle nazionale e regionale). Non si pone però il problema del modo in cui il “coordinamento” possa risolvere i conflitti tra i diversi livelli di governo.

Nel sollevare questo problema forse mi lascio condizionare troppo dalla situazione italiana, dove le competenze in materia di territorio (di scelte che provocano o postulano impiego o trasformazione di risorse del territorio) sono ripartite tra molte autorità elettive di primo grado (governo nazionale, regione, provincia e area metropolitana, comune). Ma a me sembra che questo sia un problema cruciale per l’efficacia della pianificazione: non risolverlo correttamente significa aumentare considerevolmente quelli che Parr chiama «i rischi della pianificazione spaziale» (e che io, come ho detto, definirei i rischi della cattiva applicazione della pianificazione spaziale). Riferirsi al coordinamento, e in particolare a quello “verticale”, è certo opportuno; è quello, del resto, che hanno previsto numerose regioni nelle nuove leggi urbanistiche (dal 1995 in poi), e che alcune di loro stanno attuando da anni. Mi riferisco alla prassi delle “conferenze di pianificazione”, che sono la struttura decisiva, per esempio in Toscana, quando nella pianificazione territoriale si devono assumere decisioni la cui portata travalica i confini di competenza dell’una o dell’altra struttura amministrativa.

E tuttavia, ogni volta che una pluralità di soggetti deve decidere insieme, è certo importante l’individuazioni di sedi dove il confronto possa svolgersi e l’accordo maturare, ma è almeno altrettanto importante sapere a quale soggetto spetterà la responsabilità della decisione nel caso che l’accordo non si trovi. Può aiutare a individuare soluzioni corrette a questo proposito una corretta applicazione del principio di sussidiarietà, nell’accezione europea e nel filone culturale aperto da Jacques Delors (a ogni livello la responsabilità delle scelte che a quel livello possono essere governate con maggiore efficacia), meglio che in quella italiana, nel filone culturale aperto da Umberto Bossi (tutto il potere al basso).

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