Eduardo Salzano è un urbanista molto noto e non solo in Italia. Un urbanista militante, nel senso che ha sempre coniugato la teoria, l’attività di docente alla Università IUAV di Venezia e di saggista, con le pratiche dell’impegno anche politico. Un suo libro, «Fondamenti di urbanistica» ristampato di recente da Laterza, è un raro esempio di chiarezza su metodi è obiettivi della pianificazione. Oggi tra le altre cose, cura un sito (eddyburg.it) che si occupa di governo del territorio. Negli ultimi anni ha dedicato molta attenzione alla Sardegna che considera uno dei paesaggi più importanti del Mediterraneo e sta seguendo con grande interesse il dibattito in corso sulla tutela delle sue aree litoranee. La sua posizione su questi argomenti è molto netta.
- Il ritardo nel dibattito ha pesato: i partiti, anche quelli di sinistra, arrivano tardi a riconoscere l’importanza della questione ambientale. Penso al discorso di Berlinguer sull’austerità del ‘77, che non aveva determinato conseguenze, come se mancasse il coraggio di entrare nel merito. O alla linea di prudente attesa del movimento sindacale, che poteva constatare che al consumo di territorio non corrispondeva una contropartita occupazionale accettabile.
«Mi sembra che si registrino due carenze gravi. Da una parte, un forte ritardo a dare il giusto peso alla questione ambientale. Questa viene intesa in un senso molto riduttivo, che porta a risolvere il problema a furia di maquillages e di mitigazioni, mentre quello che è irrimediabilmente in crisi è il modello di sviluppo basato sulla crescita quantitativa della produzione di merci. Non posso non riferirmi alle analisi di Claudio Napoleoni e di Franco Rodano, che hanno trovato una intelligente eco politica nella proposta dell’austerità di Enrico Berlinguer. Chi esprime oggi molto lucidamente il paradosso della crescita è Carla Ravaioli, per esempio in “Un altro mondo è necessario”, pubblicato da Editori Riuniti nel 2002.
Ma dall’altra parte, c’è un vizio di fondo della cultura italiana, che si riflette anche nelle posizioni e nelle sensibilità delle élites culturali. Un vizio che definirei come l’ignoranza del territorio. L’interazione tra azione dell’uomo e trasformazioni del territorio, e le ricadute che queste hanno sul destino vicino e futuro della società, è del tutto estraneo alla cultura corrente, anche a quella “alta”».
- Questi indugi hanno pesato anche in Sardegna: molti paesaggi costieri sono stati cancellati e i turisti più attenti cominciano ad accorgersene. Si è depauperata la materia prima, e non si avvera il meraviglioso programma: molto volume edificato uguale ricchezza per tutti. Crescono gli abitanti di alcuni centri litoranei e si prefigura un vuoto al centro dell’isola per lo spopolamento di paesi.
«I nostri territori sono pieni di ricchezze inaudite. Millenni di storia hanno lasciato il loro deposito, e hanno costruito un patrimonio di bellezza inestimabile: ancora viva, ancora presente nella vita, nei sapori e negli odori, nelle parole e nelle musiche, nei mestieri e nei saperi dei nostri popoli. Ci sono tesori di qualità nascoste nelle nostre terre, forse nelle colline e nei monti ancora più che nelle coste. Questa è la risorsa che dobbiamo utilizzare: modelli nuovi di turismo (anzi, di conoscenza, ricreazione, godimento), non più su quelli basati sullo sfruttamento rapace e intensivo di beni che sono disponibili anche altrove (sole, sabbia, acqua). Milioni di persone oggi, miliardi nei prossimi decenni, chiedono qualità, conoscenza di cose diverse, comprensione di ritmi di vita diversi da quelli affannosi delle omologate metropoli. È in vista di questi nuovi, grandi flussi che occorre lavorare; è per essi che occorre in primo luogo individuare, riconoscere e tutelare, e poi rendere disponibili a una fruizione intelligente, le ricchezze dei nostri paesaggi. C’è indubbiamente un grande ritardo nella comprensione di questa necessità, e dei grandi orizzonti che essa apre».
- Forse qui in Sardegna la politica ha in parte recuperato il ritardo e rimosso alcuni equivoci. C’è la vittoria di Soru.
«La Sardegna di Soru è un esempio di intelligenza e di volontà. È venuto un segnale forte. A me è sembrato di scorgervi una saggezza molto antica: l’orgoglio di chi rifiuta ogni colonizzazione, e sa vedere la miseria morale e la rapacità che si nascondono dietro gli orpelli della cosiddetta modernizzazione. Ma è una strada molto difficile, perché è contro una corrente che sembra travolgere tutto. Mi ha dato molta speranza, però, vedere quanto sia largo il consenso che la politica di tutela del paesaggio delle coste ha trovato nell’opinione pubblica, non solo nell’isola».
- Le case da vendere producono scarsi vantaggi. Eppure resiste il mito dell’imprenditore che viene dal mare. Nello sfondo ricompare ciclicamente la scena nel romanzo di Conrad, ogni volta che il villaggio costiero avvistava il brigantino e «cominciavano a picchiare i gong, a issare le bandiere, le ragazze si ornavano i capelli di fiori, la folla si allineava sulla riva...». Pesa la disoccupazione: una famiglia in gravi difficoltà vende anche le cose più belle che possiede...
«Mi ha colpito molto la lucidità di Soru nello svelare, all’assemblea dei sindaci del 6 settembre scorso, la truffa nascosta dietro quel mito. Come ho scritto nel presentarlo su eddyburg.it, ho apprezzato la consapevolezza del ruolo della Regione, la responsabilità di rappresentare anche le generazioni future, la fermezza nel sostenere che “il turismo non è vendere la terra”. Sono tre aspetti strettamente collegati tra loro. Governare è in primo luogo responsabilità: non è solo mediare tra gli interessi presenti. Responsabilità nei confronti di valori che non appartengono solo al “locale” né solo al “presente”. La bellezza che natura e storia hanno costruito non può essere degradata per gli interessi dei pochi proprietari attuali. Ciò che i millenni hanno creato deve essere tutelato nell’interesse delle generazioni future. Chi può rappresentarle, se non provvede un governo lungimirante?»
- Però in alcune aree della Sardegna e forte l’insofferenza nei confronti di vincoli a tutela del paesaggio o di altri beni culturali che vengono dallo Stato o dall’Europa: tarda a passare l’idea della solidarietà ecologica e generazionale.
«Sono meno pessimista di te. Grandi eventi (lo tsunami in Asia, la guerra nel Medio Oriente, le grandi epidemie moderne, l’inquinamento delle metropoli) fanno comprendere a gruppi sempre più vasti di cittadini che il destino delle civiltà umane è solidalmente legato, e che da soli non si resiste al male del mondo. Un giorno si comprenderà anche quali sono le cause, e allora si sarà maturi per sanarle. Io ho molta fiducia nell’uomo, soprattutto da quando ha scoperto (sta scoprendo) che è maschio e femmina».
- L’impressione è che le scelte più vicine al bene ambientale siano molto condizionate. Una disposizione che viene da lontano, è più rigorosa ma ha spesso la debolezza di non essere condivisa localmente. Non è una questione semplice: il principio di sussidiarietà è normalmente letto nel senso di garantire ad un’autorità inferiore una certa indipendenza rispetto ad un potere centrale.
«Ci sono cose che si vedono bene da vicino, e cose che si vedono bene da lontano. La sussidierietà rettamente intesa (all’europea, non alla padana) consiste proprio nel dire che a ciascun livello di governo spettano tutte, e solo, le decisioni su argomenti che solo a quel livello possono essere efficacemente governati. Ora mi sembra del tutto evidente che la tutela dell’ambiente naturale e storico e lo sviluppo di un turismo aperto alla prospettiva e chiuso alla rapina, sono questioni la cui responsabilità ricade sul livello regionale. Sostenere il contrario significa avere i paraocchi, e vedere solo il sacco di biada che si porta appeso al collo».
- La Regione dopo l’approvazione della legge di provvisoria salvaguardia deve redigere nuovi strumenti per sostituire i piani paesistici che due diverse sentenze hanno bocciato. Servirebbe indicare il metodo, anche considerando i tempi che non sono lunghi.
«A me sembra che lo sforzo da fare consiste nel tenere insieme due cose: una risposta tempestiva (nel tempo stabilito dalla legge) all’esigenza della salvaguardia, e l’avvio di un processo di conoscenza, governo e monitoraggio sistematico delle trasformazioni. Io partirei perciò da tre compiti pratici da svolgere in parallelo: 1) costituire un ufficio formato da personale prevalentemente interno, qualificato e soprattutto motivato (Roosvelt diceva che sarebbe un errore esiziale affidare la gestione di una riforma a personale che non ci crede); 2) utilizzare le conoscenze, e le proposte di tutela, che derivano dal lavoro fatto per la predisposizione degli atti bocciati dalla giustizia amministrativa, per una prima stesura di un piano; 3) mettere in piedi un sistema informativo territoriale capace di costruire e sistematicamente aggiornare il quadro conoscitivo essenziale per individuare, catalogare, riconoscere i dati del territorio, diffonderne la conoscenza, definire le regole per la sua conservazione / trasformazione».
- C’è la questione degli obiettivi. E non è cosa di poco conto se si guarda il dibattito di questi mesi: c’è chi ancora dà per scontata l’idea di trasformabilità, con qualche eccezione, delle aree che hanno fortunatamente resistito.
«A mio parere la questione va posta diversamente. Il nostro territorio è costituito da parti, elementi, componenti, ciascuna delle quali ha una sua individualità, delle qualità ancora riconoscibili, soggette dalla storia a trasformazioni le quali le hanno a volta arricchite a volta degradate. Si tratta di leggere questo processo e i suoi esiti. Si tratta di individuare insomma le regole che la storia (quella antica e quella recente) hanno seguito. Criticamente: nel senso di distinguere quelle che hanno dato risultati positivi, e di queste incoraggiare e promuovere la permanenza, cioè la conservazione attiva del paesaggio che hanno determinato. E di distinguere, per converso, le regole che hanno degradato e distrutto, e queste modificarle promuovendo trasformazioni che migliorino la qualità del paesaggio. Per fare un esempio, proprio il caso della villa di Soru che Pili ha presentato come uno scandalo. Lì Soru ha trasformato una brutta casa in stile tirolese in una tranquilla e sobria costruzione (senza aggiungere un metrocubo), e ha sostituito un bosco di essenze importate dall’Australia con piantagioni di alberi e arbusti tipici di quei paesaggi».