Sembra il libro di uno scrittore sconosciuto, che parla di un luogo sconosciuto. L’uno e l’altro collocati, forse, nel mondo arabo. Ismé Gimdalcha è l’autore; “Progetto Kalhesa” il libro. Marsilio è l’editore, ed è l’unico che non sia mascherato. In realtà Ismé Gimdalcha è Giancarlo De Carlo (Ismé, come ci svela la prefazione dello stesso autore in un altro travestimento, significa “io stesso”, e Gim-dal-cha ripete le iniziali del suo nome). Ismè è dunque Giancarlo De Carlo, il grande architetto e urbanista ammirato nel mondo per Urbino, noto e stimato tra gli architetti per tanti altri progetti di grande sapiente qualità. E Kalhesa è, in realtà, Palermo. Il libro è il diario di una esperienza di lavoro, intensa e struggente, disperata e incantata, che De Carlo condusse in quella città tra il 1979 e il 1982, insieme con un altro grande intellettuale dell’architettura e dell’urbanistica, Giuseppe Samonà, e a due professionisti locali, incaricati dal Comune di redigere un progetto di risanamento del centro storico.
Il travestimento non si ferma alla copertina (e alla retrocopertina, nella quale compare una fotografia dell’autore camuffato con baffoni e occhiali neri, cappotto tirato su fino al mento e un improbabile colbaccone). Tutto il libro è in maschera. Si apre con una telefonata di Lucio Corinzio (Luigi Colaianni, allora responsabile regionale del PCI, che implora Ismé perché collabori, designato dalla Confraternita degli Austeri (il PCI), al Progetto Kalhesa, con Aristide Fragalà (Samonà), Alerto Madonnina e Baruffa Gentile, rispettivamente designati dai Reliquari (la DC), dai Ghermiglioni (i socialisti) e dai Diluvioni ed Elleridi (PSDI e PRI).
Sembra che riconoscere i personaggi veri sotto le maschere sia stato uno dei giochi preferiti dagli architetti, nelle piovose vacanze di quest’anno. E non è difficile individuare l’urbanista Teresa Cannarozzo, agitata e generosa sentinella sulle sponde dell’abisso palermitano, sotto le sembianze di Lilluntha Cavez One, i docenti dell’Istituto di ideografia di Lagunia (Architettura di Venezia) Ezra Jashar (Bruno Zevi), Manfredo Tafuri (Otiero Manfurio), Giovanni Astengo (Otto Quanto), Ignazio Gardella Telel Gard’hal), Luigi Piccinato (Kurt Smallish), Vittorio Gregotti (Gregorio Mediotti), Egle Trincanato (Glè Bevier), e ancora Le Corbusier (El Muftì), Elio Vittorini (Tor Eliogallo), Alvar Aalto (Egelin Anf), Carlo Doglio (Celso Foglio), Ernesto Belgioioso (Umberto Pulchris) e molti altri.
Più che Lagunia e gli altri luoghi dell’Internazionale dell’architettura la vicenda descrive Palermo e il suo mondo politico, sociale e culturale. E’ un racconto realistico e vero (De Carlo lo ha vissuto giorno per giorno, e lo analizza con la curiosità dell’esploratore e la freddezza dell’entomologo), ma al tempo stesso è reso astratto, quasi trasfigurato nella narrazione di una vicenda universale, dall’impiego sistematico del travestimento dei luoghi, delle persone e delle istituzioni e da una scrittura scorrevole e sapiente al servizio di un pensiero profondo.
Nel mare delle comparse due personaggi dominano il libro. Il primo è Aristide Fragalà, vero regista della complicata trama del Progetto Kalhesa (mai approdato alla concretezza, come forse si era voluto fin dall’inizio?) verso il quale l’autore rivela (verrebbe voglia di dire “smaschera”) un intensissimo rapporto di sospetto e amirazione, di rispetto e diffidenza, di distacco e di tenerezza: un rapporto complesso restituito nella sua dinamica lungo il percorso del Progetto Kalhesa, per concludersi con accenti di intensa pietas nelle pagine dedicate alla morte di Samonà.
Il secondo protagonista è il clima politico e culturale della Palermo di quegli anni. Nella città, e nel libro, si agitano confusamente i tentativi di rinnovamento degli Austeri, onesti ma impotenti per il loro esiguo peso e per la loro ingenuità, l’apparente disponibilità progressiva dei Ghermiglioni e dei Reliquari, sapienti nella tessitura delle diplomazie consociative. Ma il Deus ex machina, intuìto e ricorrentemente scrutato dalla curiosità forestiera da Ismé ma mai svelato, dissimulato com’è sotto i mille veli dell’omertoso compiacimento dei Reliquari e della Congrega del Dio operoso (l’Opus Dei?), è l’Organika, la Mafia. (Una divinità ancor oggi potente se è vero, come si afferma, che l’autore non riuscì a pubblicare il libro presso un editore siciliano, con il quale aveva già firmato il contratto e al quale aveva già restituito le bozze corrette).
Così, gli sforzi disordinati e le geniali intuizioni dei quattro architetti, diversamente coinvolti negli interessi locali (il più astratto e distaccato è Ismè-De Carlo, vuoi per la sua struttura logica e morale di settentrionale anarchico e illuminista, vuoi perché il suo riferimento è costituito dagli onesti Austeri), si insabbiano su un’inefficienza del potere pubblico generata dalla simbiosi tra la mollezza levantina del costume locale e il potere occulto di Cosa Nostra. Da questo punto di vista, la chiave del racconto è nella pagina in cui appare che l’unico che davvero conosce la città come il palmo della sua mano, e che quindi è capace di governarla, è l’uomo dell’Organika nell’amministrazione, Beppe Cianfrogna (dietro la maschera si intravede Vito Ciancimino): mentre gli uffici non riescono a redigere le carte per il progetto, si scopre che Cianfrogna possiede a casa sua un gigantesco plastico della città in cui, con legni di diverse essenze, sono rappresentati, e via via aggiornati, tutti gli edifici vecchi, nuovi e futuri distinti secondo i loro valori di mercato.
Questo episodio fa intravedere un’ulteriore, e amara, verità, cui l’autoironia di De Carlo più volte rinvia. In fondo, l’avventura cui Lucio Corinzio l’ha chiamato è un’illusione. Le lunghe discussioni, i rarefatti e acuti ragionamenti, gli scontri intellettuali apparentemente fecondi tra i due Maestri, Gimdalcha e Fragalà, non conducono a nulla. Il loro lavoro, l’apparato consociativo che attorno a loro si forma, le stesse regole lottizzatorie applicate della formazione del gruppo, il continuo rinvio della formazione di un ufficio per la pianificazione, la decisione politica di far scaturire le regole per il governo della città da demiurghi chiamati da fuori, rivelano il loro carattere strumentale.
Non è, quello di Giancarlo De Carlo, un romanzo sull’urbanistica: è la denuncia di un’urbanistica in maschera. Ormai consegnata alla storia e descritta cento anni dopo in un manoscritto fortunosamente rinvenuto da un viaggiatore in un caffè dell’Egeo, come appare nella prefazione, oppure, qui e là, ancora attuale? Ma questo è un altro discorso.
Edoardo Salzano