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Edoardo Salzano
20100000 La città, la società, gli spazi pubblici
14 Novembre 2011
Articoli e saggi
In "Spazio pubblico. Declino, difesa, riconquista", a cura di F. Bottini, Ediesse, Roma 2010

“Spazi pubblici: declino, difesa, riconquista”. Questo è il titolo della quinta edizione della scuola estiva di pianificazione - Scuola di eddyburg, e di questo libro. Ogni volta siamo partiti dai quattro giorni di lezioni, incontri, dialoghi tra docenti e studenti attorno a un tema e poi, dalle cose che sono state dette, abbiamo cercato di ricavare un libro. Con molte connessioni tra l’uno e l’altro elemento, ma anche con una certa autonomia dell’uno e dell’altro. Così anche in questo libro. Fabrizio Bottini ne ha spiegato la logica e le ragioni, io cercherò di trarne le conclusioni dal punto di vista della scuola e del processo formativo di cui la V edizione è un tassello importante.

Quest’anno il tema era di particolarmente rilievo. Siamo infatti convinti che lo spazio pubblico, la città e la società siano cose strettamente intrecciate. Anzi, che lo spazio pubblico sia proprio la cerniera che tiene stretti la città e la società: i due momenti essenziali dell’attenzione di ogni urbanista e studioso della città – come di ogni cittadino. Una cerniera cui bisogna porre particolare attenzione in questo momento: in questi very hard times, tempi davvero difficili, per ricordare Charles Dickens.

1. LA CITTÀ NASCE CON LO SPAZIO PUBBLICO

Nel suo contributo Mauro Baioni, il direttore della Scuola, cita una frase dell’architetto danese Jan Gehl: “First life, then spaces, then buildings – the other way around never works”. Questa idea esprime bene il conflitto tra ciò che, nel nostro paese, dovrebbe essere e ciò che invece è. La città contemporanea, quella che vediamo crescere come un blob sotto i nostri occhi inglobando e divorando ogni preesistenza, esprime proprio “the other way around”. La città della storia, quella per cui è nato il mestiere dell’urbanista, quella che in altri più fortunati paesi si tenta ancora di regolare e trasformare, è espressa da quella sequenza: prima la vita, la società di cui la città è strumento; poi gli spazi dove la società può vivere, esprimersi, regolare i propri conflitti, poi le altre costruzioni.

La città (questa è stata la premessa della nostra scuola) nasce con gli spazi pubblici. Nasce quando l’uomo, nel suo sforzo di costruire la sua “nicchia ecologica”, ha bisogno di realizzare spazi e luoghi finalizzati alla soddisfazione di esigenze comuni. La specie umana ha generato la città precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, è nata l’esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che potessero servire l’insieme della società (Salzano 1969, 2004).

La piazza, archetipo dello spazio pubblico, è il luogo dell’incontro tra le persone (i ricchi e i poveri, i cittadini e i foresti, i proprietari e i proletari, gli adulti e i bambini). É il luogo e il simbolo della libertà, l’emblema dell’antico brocardo medioevale Stadtluft macht frei (ma “l’aria della città rende ancora liberi?” - Gibelli, infra). É l’espressione della mixitè, della mescolanza di ceti, età, mestieri, appartenenze diverse (qualcosa che oggi dobbiamo difendere contro le segregazioni e i recinti, che dobbiamo tutelare come nella natura tentiamo di proteggere la biodiversità).

É nella piazza che i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità aperta. É lì che si fa “pratica di cittadinanza (Mazzette, infra). Lì celebrano i riti religiosi, s’incontrano e scambiano informazioni e sentimenti, cercano e offrono lavoro, accorrono quando c’ è un evento importante per la città. E il ruolo che svolge la piazza è sempre correlato alle condizioni della società, al tempo e al contesto cui sono riferiti: un allarme o una festa, la celebrazione di una vittoria o di una festa religiosa, la pronuncia di un giudizio o una sanguinosa esecuzione.

La piazza non è solo un luogo aperto, fine a se stesso. Costituisce lo spazio sul quale affacciano gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Il suo ruolo sarebbe sterile se non fosse parte integrante del sistema dei luoghi ordinati al “consumo comune” dello scambio e del giudizio, della celebrazione dei valori comuni e del governo della polis.

Dall’area delimitata della piazza e del sistema degli spazi, aperti e costruiti, d’uso collettivo, il concetto di spazio pubblico si allarga. Anche qualcos’altro è pubblico, collettivo, comune: precisamente il modo in cui i luoghi peculiari al privato (la casa, il capannone, la bottega) vengono ordinati. Sono pubbliche, insomma, anche le regole che guidano l’intervento delle famiglie, degli abitanti, delle imprese. Dallo spazio pubblico passiamo decisamente alla sfera pubblica, per adoperare un termine sul quale si è ragionato in questo libro (Boniburini, Mazzette, Sebastiani).

2. SPAZIO PUBBLICO E CITTÀ DEL WELFARE

I due effetti del capitalismo

Così la città nella storia. La dinamica del rapporto tra dimensione privata e dimensione pubblica, tra momento individuale e momento collettivo, e tra spazio privato e spazio pubblico, è mutata nel tempo. Con il trionfo del sistema capitalistico-borghese ha assunto una configurazione particolarmente rilevante per la città, in negativo e in positivo .

Il prevalere dell’individualismo, tipico di quel sistema, ha portato a conseguenze negative, tali da indebolire la sfera pubblica: sia sul versante dell’ideologia, dove ha condotto all’affievolirsi dei valori sociali impliciti nel concetto di cittadinanza, sia sul versante della struttura, dove ha condotto alla frammentazione e privatizzazione della proprietà del suolo urbano, minando la base della capacità regolativa della polis.

Ma dall’altro lato le caratteristiche proprie della produzione capitalistica hanno provocato effetti di segno opposto. L’inclusione di tutti i portatori di forza lavoro - i servi sfuggiti alla miseria delle campagne e accorsi alla città, la cui aria li ha resi liberi - ha posto le premesse materiali all’allargamento della democrazia. Contemporaneamente il conflitto di classe proprio di quel sistema ha condotto al formarsi di una nuova solidarietà nel campo del lavoro. Si può dire che si è indebolita la solidarietà cittadina, ma è certamente nata e irrobustita la solidarietà di fabbrica e da questa, progressivamente, ha germogliato una nuova domanda di spazio pubblico.

Dal movimento culturale, sociale e politico scaturito dalla solidarietà di fabbrica è nata, nel XIX secolo, la spinta a ottenere il soddisfacimento di bisogni antichi negati dal prevalere del nuovo sistema e, soprattutto, di nuovi bisogni nati dall’affermarsi della democrazia. Attraverso le loro azioni e le loro rappresentanze sono entrate nel campo dei decisori le grandi masse fino allora escluse. L’incontro tra la pressione organizzata del mondo del lavoro e il pensiero critico e costruttivo degli intellettuali è riuscito, nel secolo successivo, a incidere in modo consistente sull’allargamento dello spazio pubblico, nella città e nella società. Si è visto nell’affermarsi del diritto socialmente garantito all’uso di un alloggio adeguato alle necessità, e alla capacità di spesa, delle famiglie degli addetti alla produzione. E si è visto nella nascita, e poi nel consolidamento, di servizi che soddisfano collettivamente alcuni dei bisogni che nel passato erano svolti nell’ambito familiare. Certo, ciò è avvenuto solo nell’ambito di quella parte del mondo chiusa nel recinto della civiltà atlantica, escludendo da ogni privilegio i paesi esterni a quel recinto, esportando in essi le proprie contraddizioni e saccheggiandone le risorse.

Gli “standard urbanistici”

In Italia le condizioni per la conquista degli elementi essenziali del welfare urbano si sono raggiunte negli anni Sessanta del secolo scorso, e si sono progressivamente affermate nel decennio successivo nel vivo di un conflitto molto aspro. Si è ottenuto in particolare il diritto di ogni abitante della città ad avere almeno una determinata quantità (“standard”) di spazi pubblici e d’uso pubblico, nell’ambito dei piani urbanistici. Un risultato “solo” quantitativo, hanno affermato alcuni dimenticando che “la contrapposizione tra quantità e qualità è artificiosa” (Baioni infra), e minimizzando invece la grande conquista raggiunta sul terreno del “diritto alla città”. Un risultato che ha avuto effetti positivi dove è stato applicato come strumento per migliorare le condizioni di vita in un regime di equità e di difesa delle categorie più deboli, come testimonia l’esperienza illustrata da alcuni urbanisti dell’Emilia Romagna (Malossi infra).

Le condizioni sociali e politiche che consentirono di raggiungere quella conquista, l’intreccio tra azione sociale, pensiero esperto e sintesi politica che fu necessario, e la preziosa sostanza del patrimonio di diritti sociali e di consolidamento della sfera pubblica che in Italia si raggiunsero in quei decenni sono emersi con chiarezza nel dialogo a più voci con Marisa Rodano, Oscar Mancini e Vezio De Lucia, raccolto e rielaborato in questo libro (Salzano infra). É un dialogo nel quale si raccontano esperienze, vicende, riflessioni che gettano una luce del tutto controcorrente su anni (la sesta e la settima decade del XX secolo) che trasformarono profondamente la società italiana e la dotarono di strumenti essenziali per un ulteriore progresso: strumenti che da allora si tentò in tutti i modi di cancellare, e che costituiscono ancora oggi le trincee della resistenza e i capisaldi di una possibile ripresa di un processo riformatore.

Non si tratta solo degli standard urbanistici, della politica della casa (con tutto l’arco dei provvedimenti che vanno dalla legge 167/1962 fino alla legge per l’equo canone), della generalizzazione della pianificazione urbanistica. Questi risultati si aggiungono e s’inquadrano a quelli, rilevantissimi, ottenuti su altri terreni: dallo statuto dei diritti dei lavoratori al servizio sanitario nazionale, dalla libertà di interrompere la gravidanza all’introduzione degli asili nido e delle scuole materne, dal voto ai diciottenni all’estensione dell’obbligo scolastico. Occorre riflettere oggi soprattutto sulle condizioni che, allora, resero possibili i risultati positivi.

Illuminante per il nostro futuro è ricordare il ruolo allora svolto dalle componenti più attive della società civile: il movimento per l’emancipazione della donna, negli anni dal 1962 al 1968, le lotte studentesche e quelle operaie dopo il 1968. É significativa la testimonianza del modo in cui nuove esigenze sociali (la liberazione dal lavoro casalingo, la conquista del diritto ad abitare la città) abbiano trovato negli esperti le parole mediante le quali esprimersi, nella politica e nelle istituzioni gli strumenti per tradurre le parole in norme e politiche.

3. IL DECLINO DELLO SPAZIO PUBBLICO

Oggi la situazione della città e l’orientamento delle politiche urbane sono radicalmente diversi da quelle che la storia della città e della società ci suggeriscono. Tutte le riflessioni e le testimonianze lo confermano: il carattere pubblico della città è profondamente in crisi, è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della collettività di decidere gli usi del suolo, o attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), oppure attraverso quello di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.

Gli standard urbanistici sono in decadenza, e se ne propone addirittura l’abolizione o la “regionalizzazione”: come se il diritto di disporre di scuole, parchi, piazze, mercati, attrezzature sanitarie, biblioteche, palestre fosse diverso per gli abitanti della Puglia e quelli del Veneto. Le aree già destinate dai piani a spazi pubblici, e quelle già acquisite al patrimonio collettivo, sono erose da utilizzazioni private, o distorte nel loro uso dalla commercializzazione. Il gettito finanziario originariamente destinato dalla legge alla realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche, gli “oneri di urbanizzazione”, viene dirottato verso le spese correnti dei comuni, utilizzato per pagare gli stipendi o le grandi opere di prestigio.

Si sono svuotate le piazze reali, caratterizzate dall’essere luoghi aperti a tutti, disponibili a tutte le ore, e per diverse attività (passeggio, incontro, gioco, ecc.), luoghi inseriti senza discontinuità negli spazi della vita quotidiana. E si è fatto invece ogni sforzo per attirare le persone nei “non luoghi” tramutati in “superluoghi”: le grandi strutture esplicitamente finalizzate al consumo (i centri commerciali, i mall, gli outlet), oppure quelle nate per altri ruoli (aeroporti, stazioni ferroviarie, ospedali, stadi) e “arricchite” da funzioni commerciali. Strutture in tutti i casi caratterizzate dalla chiusura ai “diversi” (in nome della sicurezza), dall’obbligo implicito di ridurre l’ interesse del frequentatore all’ acquisto di merci (per di più sempre più superflue).

Ha certamente aiutato in questa operazione, contribuendo alla generale decadenza della città e della società, il diffondersi di quelle “variegate forme di dispersione urbana” (Mazzette infra) che sempre più caratterizzano l’habitat dell’uomo. Uno sprawl in gran parte causato dall’abbandono della pianificazione, dalle distorsioni di un mercato immobiliare deformato dalla rendita urbana, dalla costruzione di nuovi immaginari collettivi creati dalla propaganda (Somma infra). É un tema che, come Scuola di eddyburg, avevamo esplorato nella nostra prima sessione, sottolineando un problema grave fino allora ignorato dalla cultura urbanistica ufficiale, e naturalmente dalla politica dei partiti (Gibelli-Salzano 2006).

In questa operazione di mutazione delle basilari regole di vita della città il decisore effettivo – chi aveva il potere di utilizzare la città come strumento per accrescere la sua ricchezza - ha saputo cogliere strumentalmente quanto del passato permane nell’immaginario collettivo, scimmiottandone le forme. Si è finito così “per produrre e perfezionare spazi che forse assomigliano vagamente a un modello urbano, ma certamente nulla hanno a che spartire coi comuni processi di conflitto, sedimentazione e consenso collettivo che caratterizzano l’evoluzione della città” (Bottini2 infra). Si è ridotto il cittadino a cliente, il portatore di diritti a portatore di carta di credito.

Ci siamo ovviamente domandati perché tutto questo sia successo. La ragione di fondo sta nel mutato rapporto tra uomo e società. L’aspetto centrale è la rottura dell’equilibrio che lega tra loro le due essenziali dimensioni d’ogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. É quell’equilibrio che si esprime fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento della vita che si svolge nell’abitazione.

In effetti, negli ultimi decenni è giunto a un punto di svolta un processo avviato molti secoli fa. Mentre da un lato, infrangendo i tabù dell’autoritarismo e del controllo sociale, si sono liberate le energie derivanti dalla piena esplicazione dei diritti individuali, dall’altro lato si è smarrita la consapevolezza dell’essenzialità, per lo stesso equilibrio della persona, della dimensione sociale.

Contemporaneamente, l’uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. L’alienazione del lavoro prima, l’alienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.

Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’economia, si è appiattita sul breve periodo, è divenuta priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.

Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città. Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne è una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’ è mai stata un’amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite. La tendenziale privatizzazione d’ogni bene comune che possa dar luogo a guadagni privati: dall’acqua agli spazi pubblici, dall’università alla casa per i meno abbienti, dall’ assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti. La progressiva riduzione degli spazi di vita collettiva e di partecipazione sociale, soprattutto a partire da due momenti: quando l’obiettivo della “governabilità” è diventato dominante rispetto a quello della “partecipazione”, e si sono impoveriti alcuni decisivi momenti della democrazia nell’ ambito di tutte le istituzioni, dallo stato ai comuni; quando il crollo delle Twin Towers e il riemergere, in Italia, della xenofobia e del razzismo hanno fornito la giustificazione – o l’ alibi – alla pratica della priorità assoluta della sicurezza su qualunque altro bisogno, esigenza, necessità sociale.

Nei confronti degli spazi pubblici si produce quindi una devastazione che ne colpisce l’uno e l’altro versante: la loro consistenza fisica e la loro consistenza sociale. Si riducono sempre di più gli spazi pubblici nei quali vivere insieme, come si riducono gli spazi, reali e virtuali, per la discussione, la partecipazione, la critica o la condivisione della politica.

4. TENSIONI POSITIVE VERSO LA RICONQUISTA

L’analisi della realtà rivela anche, nell’odierna città del neoliberismo, tensioni e pulsioni che reagiscono al maistream e attivano pratiche nuove non solo di difesa dello spazio pubblico, ma di conquista di nuovi spazi. É il caso di numerose storie di formazione di “spazi pubblici non intenzionali” (Boniburini infra), nelle quali si esprimono sollecitazioni diverse, non sempre complementari: l’insopprimibile tendenza, soprattutto da parte dei gruppi sociali che la città neoliberista tende a emarginare, di trovare i luoghi nei quali con-vivere, riconoscersi, difendersi, passare dall’Io a un primo livello del Noi; la ricerca di alternative al fatto che la maggior parte degli spazi è stata chiusa perché adibita a specifiche ed esclusive funzioni settoriali (Sebastiani infra); l’aspirazione di uno spazio loose “uno spazio sciolto, non imbrigliato, libero, indefinito e in quanto tale passibile di una pressoché indefinita varietà di significato e usi” (Forni infra). Ed è il caso delle esperienze, che sono emerse soprattutto nel convegno conclusivo della Scuola e alimentano la terza parte di questo libro, dove sono raccontate le attività di gruppi di cittadini attiva: comitati sorti spontaneamente, o strutture consolidate che esprimono un rinnovato impegno nelle pratiche territoriali. Ne vogliamo ricordare due, particolarmente emblematiche: la conquista, a Caserta, di un ampio spazio patrimonialmente pubblico destinato ad attività militari, rivendicato e conquistato per riempire, almeno in parte, il pauroso deficit di standard urbanistici (Caiola infra); la difesa, a Giulianova (TE), di una piazza che l’amministrazione comunale voleva, per fare cassa, vendere a privati (Arboretti infra). Da entrambe le esperienze è nata la formazione di liste civiche, che hanno conquistato un seggio nel consiglio comunale e hanno così guadagnato nuove armi per la battaglia di difesa e riconquista dello spazio pubblico.

Esiste insomma nella società - a saperla guardare con intelligenze attente, libere dalle angustie dei recinti disciplinari, aperte alle voci che si esprimono con linguaggi inconsueti - una tensione verso la riconquista di spazi pubblici nei quali esercitare pratiche di cambiamento. Spazi pubblici da difendere, o riconquistare, o conquistare ex novo per avviare un percorso di ricostruzione della città – e della società.

5. CHE FARE PER RICONQUISTARE?

Non meravigli il linguaggio militare che in questa narrazione è spesso adoperato. Una “guerra per lo spazio pubblico” questo è l’evento in corso, ed è per questo che bisogna attrezzarsi. Dobbiamo imparare: chi ha scatenato l’offensiva per impadronirsi dello spazio pubblico adopera la propaganda come uno degli strumenti principali, perciò che chi vince la battaglia dell’informazione vince la guerra” (Somma infra). L’informazione è il primo passo della formazione. Non è infatti dall’informazione mediatica che è partita quella trasformazione dei cervelli che ha ridotto l’Essere all’Apparire magistralmente illustrata dal film di Eric Gandini, Videocracy?

Di fronte all’ideologia corrente, che domina nello spazio pubblico usurpato dalla comunicazione mediatica, la costruzione di immaginari e pratiche contro-egemonici sta forse già iniziando nelle diverse azioni che hanno per oggetto lo spazio pubblico (Boniburini infra). I primi materiali che abbiamo raccolto in questo libro sono l’inizio di un lavoro di documentazione che è necessario proseguire, e in cui eddyburg.it vuole impegnarsi. Ma accanto a questo è necessario utilizzare anche un altro percorso: occorre partire anche dalla riconquista della storia.

Un grave danno è stato provocato alla coscienza civile dell’Italia da quella rimozione della memoria che è stata compiuta negli ultimi decenni. Marcuse affermava che “il ricordare è un atto sovversivo, perché evidenzia il distacco tra il reale e il possibile (Valentini, infra). Cancellare il passato, la nostra storia, è particolarmente grave se ci si propone di costruire un futuro diverso dal presente, come oggi è indispensabile. Quindi per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle nostre spalle, delle nostre radici, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile.

Come tener conto oggi dei suggerimenti della storia, senza appiattirsi sulla stanca ripetizione del passato o sull’ingannevole nebbia della nostalgia? Occorre in primo luogo individuare i nuovi bisogni che nascono dalla società di oggi, e che esprimono la necessità di una società nuova. Con quali gambe, però, camminare nella direzione giusta?

Ricostruire la politica

É alla politica – alla dialettica tra le parti che essa esprime, per il tramite di quelle strutture organizzative che sono i partiti – che spetterebbe configurare e proporre un “progetto di società”, e in relazione a questo, un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così. Oggi non si può fare affidamento alla politica dei partiti. Nessuno dei partiti esistenti ha le carte in regola. Oggi occorre ricostruire la politica. Per farlo bisogna lavorare su due fronti, guardare a due tipi di interlocutori.

In primo luogo – già ne abbiamo accennato - i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.

Il lavoro molecolare dei gruppi di cittadinanza attiva costituisce un modo di ricostituire la politica che è già in atto. É già “politica”, nel senso proprio di volontà e, non raramente, di capacità di partecipare al governo della cosa pubblica. É già politica, se questa è “la pretesa e la capacità di definire collettivamente i beni comuni e di agire d’intesa per produrli” (Sebastiani infra). Confessava del resto, agli albori del Sessantotto, un allievo della Scuola di Barbiana: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica” (Milani1967:14) .

Il lavoro

Il quadro temporale nell’ambito del quale ci muoviamo sollecita anch’esso in questa direzione. La crisi che investe l’intero mondo non è solo una crisi finanziaria: è una crisi di sistema, nella quale disastro dell’economia data, disastro del pianeta Terra e disastro della democrazia sinistramente si congiungono, e devono essere affrontati insieme (Mancini infra). Il disagio che nasce dal degrado dell’ambiente naturale e di quello antropizzato (di cui la città è componente essenziale) si lega strettamente a quello che nasce dalla condizione sempre più umiliata che viene fatta al lavoro, “lo strumento, peculiarmente umano, attraverso cui l’uomo raggiunge i suoi fini” (Napoleoni 1980:4) e mediante il quale può conoscere il mondo e trasformarlo. Si può dire che il lavoro è anch’esso un bene comune, oggi pesantemente minacciato. Hanno minato gli strumenti che nel corso di qualche secolo erano stati costruiti per difenderlo: addirittura il diritto di sciopero – l’unica arma di cui i possessori della forza lavoro dispongono per contrattare, con i possessori del capitale “morto”, le condizioni del loro sfruttamento. Ma prima ancora la difesa del lavoro era stata indebolita dalla sua precarizzazione, dalla dispersione sul territorio, dalla tendenziale liquidazione di quella condizione originaria per difesa di classe che è la solidarietà di fabbrica. Il valore della “contrattazione territoriale”, rilanciata nel 2004 dalle Camere del lavoro e oggi rientrata al centro dell’attenzione della Cgil costituisce un’importante ragione della collaborazione tra sindacato dei lavoratori e persone che si aggregano attorno a eddyburg e alla Scuola, come testimonia questo libro, e le altre attività condotte congiuntamente da Cgil ed eddyburg

Le istituzioni

L’altro interlocutore essenziale di un’azione volta a difendere e riconquistare lo spazio pubblico è costituito dalle istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti, ma non dimenticando mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia. Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, dalla città, alla regione e alla nazione, all’Europa e al mondo.

Nel confronto con le istituzioni locali, e nel tentativo di spingerle a un’azione virtuosa, l’ostacolo maggiore che si incontrerà sarà costituita dal profondo dissesto delle finanze locali, provocato dalla strozzatura operata dai poteri centrali, nella logica – ahimè bipartisan - del “privato è bello” e del “meno stato e più mercato”. A questo si aggiungono i perversi effetti della teoria secondo la quale tra le città deve esercitarsi la “competizione”, anzichè la pratica, storicamente rivelatasi vincente, della collaborazione e cooperazione, e del funzionamento “a rete”. Anche con gli amministratori, lo sforzo deve essere diretto a convincerli delle ragioni più profonde delle scelte, che è nel rifiuto dei modelli di comportamento della “società opulenta”.

Gli intellettuali

Un compito grande spetta agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro specifico campo d’azione. Gli intellettuali sono depositari d’un sapere che devono amministrare al servizio della società. Devono saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta.

Devono innanzitutto demistificare: rivelare in che modo le scelte sul territorio ordinate a fini diversi da quello del benessere dei suoi abitanti siano perniciose. In questo senso l’azione svolta da esperti che militano nei movimenti sociali è particolarmente utile. In questo libro se ne registrano buoni esempi (Lironi infra). E devono proporre. A questo proposito è utile ricordare che oggi più che mai se le dinamiche di mescolanza, inclusione, coesione sociale devono riacquistare rilevanza, e contribuire alla ripresa della democrazia e della civiltà, è essenziale che continuino “a esserci spazi pubblici accessibili e liberi da impedimenti” (Mazzette infra).

Aiuta in questa direzione il confronto con le esperienze di altri paesi europei. Quelle che conosciamo testimoniano come le istituzioni, là dove la politica assume la questione dello spazio pubblico come tema centrale, possono fare molto, sia a livello statale che a livello locale.

Vi sono due insiemi di aree che vanno tutelate e aperte all’uso pubblico: quelle necessarie per lo svolgimento di determinate funzioni urbane, e quelle che meritano la tutela e l’accessibilità pubblica per le loro caratteristiche intrinseche. Due insiemi, che possono anche coincidere in talune parti, in uno dei quali prevale l’esigenza della funzionalità del servizio reso, nell’altro la tutela e la fruizione responsabile delle qualità intrinseche.

In numerosi dei testi qui raccolti emergono indicazioni di lavoro utili ad avviare un cammino nuovo rinnovando e generalizzando itinerari già esplorati: “suggerimenti di buone pratiche” che possono essere applicate a differenti contesti (Gibelli infra), non dimenticando che il territorio è un sistema e che il governo delle sue trasformazioni spetta alla mano pubblica, e che perciò è essenziale riportare gli spazi pubblici all’interno della pianificazione: anzi, porli al suo centro (Baioni infra).

Parlare di pianificazione della città e del territorio oggi può apparire – ed è – singolarmente controcorrente. Come lo è del resto parlare di difesa e riconquista dello spazio pubblico, di riscatto del (e non “dal”) lavoro, di rivendicazione di un Noi divorato dall’individualismo. Ma la corrente oggi egemonica, se non viene arrestata, conduce alla morte dell’umanità: di quella che è in ciascuno di noi, come di quella che popola il pianeta Terra.

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