Secondo il diritto italiano i vincoli posti dagli strumenti urbanistici decadono dopo un certo periodo di tempo? Quindi se si vuole tutelare un’area di pregio, che non si sia potuta acquisire, occorre scendere a patti col proprietario e concedergli una quota di edificabilità, lì o altrove? E il proprietario fondiario cui una previsione urbanistica (ad esempio, un piano regolatore approvato) ha attribuito una certa edificabilità, può pretendere dal Comune un indennizzo se questi ritenga di modificare la destinazione d’uso ed eliminare, o ridurre fortemente, l’edificabilità? È quindi necessario, per ragioni di diritto [1], compensare il proprietario la cui area non sia più edificabile come inizialmente previsto?
A queste domande si tende a dare, da qualche anno, una risposta positiva: non da parte dei giuristi, ma da parte di numerosi urbanisti, e dagli amministratori che da essi si lasciano convincere.
Sempre più diffusamente si parla infatti di “perequazione”. Non come pratica introdotta con il comparto (1942) e, più tardi (1967), con la lottizzazione convenzionata, da estendere ad altri casi. Ma come sistema che consente di sfuggire alla decadenza dei vincoli e alla mancata riforma del diritto dominicale. Antesignano, il comune emiliano di Casalecchio al Reno; sponsor, l’Istituto nazionale di urbanistica, a partire dal 1995.
E sempre più diffusamente si propongono complesse pratiche di “compensazione” con trasferimenti di cubature su e giù per le campagne. Esemplare il caso del PRG di Roma, approvato dalla Giunta comunale nel luglio 2002 e da allora soggetto a una serie consistente di critiche soprattutto al sovradimensionamento.
Non sono un giurista (benché per fare l’urbanista qualcosa del diritto bisogna pur conoscerlo). Ho consultato qualche amico che ne sa, e ho letto qualche documento. Proverò a dimostrare che, sulla base del diritto vigente oggi in Italia, “compensazioni” e “perequazioni” possono essere suggerite da opportunità politiche, ma non sono affatto la conseguenza obbligata di norme perverse, che tutelino troppo profondamente gli interessi dei proprietari a dispetto degli interessi generali.
La Corte costituzionale ha avuto, negli anni, un orientamento costante e costantemente ribadito [2], che può essere riassunto nei termini seguenti.
È necessario distinguere due tipi di vincoli alla libera disponibilità della proprietà immobiliare. Un primo tipo di vincoli (i giuristi li definiscono “vincoli ricognitivi”) deriva dal fatto che il legislatore abbia stabilito che una determinata “categoria di beni”, per la sua intrinseca natura, merita di essere tutelata in modo particolare, limitando le possibilità di trasformazione dei beni che ricadono in quella categoria. Un secondo tipo di vincoli (i giuristi li chiamano “vincoli funzionali” o “urbanistici”) comprende quelli che la pubblica amministrazione pone su determinati immobili (aree o edifici che siano) in relazione all’utilizzazione che ne vuol fare.
È chiara la ragione della distinzione.
Nel secondo caso è l’amministrazione che decide, in modo sostanzialmente discrezionale, che è lì, su quell’area, che conviene prevedere la costruzione di una scuola o il passaggio di una strada. Sono vincoli posti in relazione alla funzione (d’interesse pubblico) che si vuole assegnare a quell’immobile, e al disegno urbanistico che si vuole realizzare. Sono vincoli che vengono apposti a questa o quell’altra area con una certa “discrezionalità amministrativa”: il disegno urbanistico avrebbe potuto essere diverso, la funzione collocata in un altro sito.
Nel primo caso, invece, il legislatore ha stabilito che tutti i beni appartenenti a quella determinata categoria (per esempio, i boschi, o gli edifici anteriori al 1900, o i terreni terrazzati oppure, più generalmente, i beni d’interesse paesaggistico) devono essere utilizzati senza compromettere le caratteristiche proprie di quella categoria di beni. L’atto amministrativo che impone il vincolo a un determinato bene (quel bosco o quell’edificio antico) non è una decisione autonoma, ma è semplicemente il riconoscimento che quel determinato bene appartiene alla categoria di beni che la legge ha voluto tutelare: è un vincolo “ricognitivo”, perché la sua imposizione a un determinato oggetto deriva dalla ricognizione che l’atto amministrativo (il PRG, o l’elenco, o il decreto) effettua per individuare gli oggetti che, all’interno di un determinato perimetro, appartengono a quella categoria.
La pianificazione può imporre vincoli dell’uno e dell’altro tipo. Ma mentre per quelli “urbanistici” il vincolo non può essere imposto senza un interesse pubblico che lo motivi, e non può essere protratto senza indennizzo al di là di un termine ragionevole, per i vincoli “ricognitivi” non è necessario nessun indennizzo, perché il vincolo è “coessenziale” al bene.
Espressa in termini semplici la tesi prevalente (e anzi, sembra, unanimemente condivisa nel diritto), è opportuno adesso riferirsi precisamente al testo di alcune sentenze. Già nel 1966 (sentenza 19 gennaio 1966, n. 6) la Corte costituzionale aveva
"rilevato che la legge non può disporre indennizzi quando i modi e i limiti che essa segna ai diritti reali attengono in maniera obiettiva, rispetto alla generalità dei soggetti, al regime di appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni, ovvero quando essa regola la situazione che i beni stessi abbiano rispetto a beni o a interessi della pubblica amministrazione; nel quale caso la legge imprime, per così dire, un certo carattere a determinate categorie di beni, identificabili a priori per caratteristiche intrinseche, salva la possibilità di accertare, con atti amministrativi di destinazione individuale, l'esistenza delle situazioni presupposte rispetto a singoli soggetti e a singoli beni. Solo per le imposizioni che comportano un sacrificio riguardo a beni che non si trovino nella situazione suddetta sorge [...] il problema dell'indennizzabilità."
Pochi anni dopo, in una delle due famose e concorrenti sentenze del maggio 1968 (sentenza 29 maggio 1968, n. 56), la Corte costituzionale si sofferma più ampiamente e organicamente sull’argomento e afferma che
"i beni che formano il patrimonio paesistico della comunità costituiscono essi stessi una categoria a contorni certi, dato il carattere tecnico del giudizio che la pubblica amministrazione è chiamata a emettere per delinearla in concreto, e che è suscettibile di sindacato giurisdizionale."
La Corte rileva che
"i beni immobili qualificati di bellezza naturale hanno valore paesistico per una circostanza che dipende dalla loro localizzazione e dalla loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge. Costituiscono cioè una categoria che originariamente è di interesse pubblico, e l’amministrazione, operando nei modi descritti dalla legge rispetto ai beni che la compongono, non ne modifica la situazione preesistente ma acclara la corrispondenza delle concrete sue qualità alla prescrizione normativa. Individua il bene che essenzialmente è soggetto al controllo amministrativo del suo uso in modo che si fissi in esso il contrassegno giuridico espresso dalla sua natura e il bene assuma l'indice che ne rivela all'esterno la qualità; e in modo che sia specificata la maniera di incidenza di tali qualità sull’uso del bene medesimo. L'atto amministrativo svolge [...] una funzione che è correlativa ai caratteri propri dei beni naturalmente paesistici e perciò non è accostabile a un atto espropriativo; non pone in moto, vale a dire, la garanzia di indennizzo apprestata dall'articolo 42, terzo comma, della Costituzione."
E la sentenza prosegue:
"Nell'ipotesi di vincolo paesistico su beni che hanno il carattere di bellezza naturale, la pubblica amministrazione, dichiarando un bene di pubblico interesse o includendolo in un elenco, non fa che esercitare una potestà che le è attribuita dallo stesso regime di godimento di quel bene, così che le sia consentito di confrontare il modo di esercizio di alcune facoltà inerenti a quel godimento con l'esigenza di conservare le qualità che il bene ha connaturali secondo il regime che gli è proprio e di prescrivere adempimenti coordinati e correlativi a tali esigenze. L'amministrazione può anche proibire in modo assoluto di edificare[...]. Ma, in tal caso, essa non comprime il diritto sull’area, perché questo diritto è nato con il corrispondente limite e con quel limite vive; né aggiunge al bene qualità di pubblico interesse non indicate dalla sua indole e acquistate per la sola forza di un atto amministrativo discrezionale, com'è nel caso dell'espropriazione considerata nell'articolo 42, terzo comma, della Costituzione, sacrificando una situazione patrimoniale per un interesse pubblico che vi sta fuori e vi si contrappone."
Questa posizione, molto chiara e ragionevolmente motivata, viene ribadita in numerose sentenze successive[3]. Fino alla più recente, quando la Corte, pronunciandosi più specificamente in merito ai cosiddetti “vincoli urbanistici” (di cui parleremo più avanti) ricapitola la propria giurisprudenza anche a proposito di “vicoli ricognitivi” (sentenza 20 maggio 1999, n.179). In questa sentenza la Corte ribadisce che
"non sono inquadrabili negli schemi dell’espropriazione, dei vincoli indennizzabili e dei termini di durata i beni immobili aventi valore paesistico-ambientale, in virtù della loro localizzazione o della loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge."
E ricorda che
"più in generale si è ritenuto che la legge può non disporre indennizzi quando i modi e i limiti imposti - previsti dalla legge direttamente o con il completamento attraverso un particolare procedimento amministrativo - attengano, con carattere di generalità per tutti i consociati e quindi in modo obiettivo [...], a intere categorie di beni, e per ciò interessino la generalità dei soggetti con una sottoposizione indifferenziata di essi - anche per zone territoriali - a un particolare regime secondo le caratteristiche intrinseche del bene stesso. Non si può porre un problema di indennizzo se il vincolo, previsto in base a legge, abbia riguardo ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni, ovvero quando la legge stessa regoli la relazione che i beni abbiano rispetto ad altri beni o interessi pubblici preminenti."
Ma i vincoli ricognitivi non sono forse di competenza dello Stato e, dopo la legge 431 del 1995, delle Regioni? Che c’entrano dunque con le politiche urbanistiche locali e con i piani regolatori, se non come una tutela che viene dall’alto e che come tale deve essere rispettata?
In realtà, porre i “vincoli ricognitivi” non spetta solo gli organi centrali dello Stato, com’era mezzo secolo fa, nè solo alle Regioni, cui la costituzione e i decreti succedutisi dal 1970 al 1977 hanno attribuito, trasferito e delegato competenze e poteri in proposito alla tutela del paesaggio e dell’ambiente. Ma, dopo la legge 431 del 1985, quel compito (e quel potere) spetta anche agli altri enti pubblici dotati di competenze in materia di pianificazione territoriale e urbanistica. Molto chiara in proposito è, ad esempio, la Corte costituzionale con la sentenza n. 378 del 2000. In essa si afferma, riferendosi alla pianificazione in Emilia Romagna:
"[…] proprio perché il legislatore regionale, in linea con la previsione della legislazione statale, ha seguito la via alternativa (al piano paesistico) dello strumento di pianificazione urbanistica, sia pure anche con valenza paesistica e ambientale, non esiste un limite territoriale alle sole zone elencate nel quinto comma dell’art. 82 del d.P.R. n. 616 del 1977 […]. Anzi gli strumenti di pianificazione urbanistica hanno una efficacia normalmente orientata verso l’assetto dell’intero territorio dell’ente investito dello specifico potere di pianificazione. […] Del resto la tutela paesistico-ambientale svolta attraverso uno strumento di pianificazione urbanistica può comportare la protezione di un territorio ben più vasto delle aree strettamente vincolate, per le necessarie connessioni con le zone contermini e per esigenze di coinvolgimento di una sfera più ampia. Ed infatti questa Corte ha avuto occasione di sottolineare che la protezione preordinata dalla legge n. 431 del 1985, sia pure "minimale", non esclude né preclude "normative regionali di maggiore o pari efficienza" […], soprattutto quando vi siano esigenze di una valutazione complessiva (e più ampia) dei valori sottesi alla disciplina dell’assetto urbanistico."
L’equazione “vincolo ricognitivo uguale vincolo imposto per legge”, che costituisce un’opinione corrente nel mondo perequativo, è quindi priva di fondamento. Lo è certamente per gli aspetti paesaggistici, poiché la stessa legge nazionale 431/1985 prevede la possibilità di redigere “piani urbanistici” che possono riguardare (anzi, di norma riguardano) l’intero territorio. Lo è più in generale per tutte le categorie di vincoli preordinati alla tutela paesistico-ambientale che possono essere apposti, attraverso i piani urbanistici, anche in virtù di leggi regionali più restrittive di quella nazionale. Tale orientamento della Corte prelude ad un’altra fondamentale statuizione: hanno facoltà di individuare sul territorio beni da sottoporre a vincoli ricognitivi non indennizzabili, quindi, le Regioni, le Province e anche i Comuni, nell’ambito della pianificazione ordinaria. La Corte costituzionale lo ribadisce nella stessa sentenza:
"Del resto, la pianificazione urbanistica a livello comunale non ha carattere esaustivo e non riassorbe, con funzione di prevalenza, le altre forme di pianificazione o gli altri vincoli non urbanistici, poiché qualsiasi intervento che modifica il territorio non deve porsi in contrasto con tutti gli altri vincoli su di esso esistenti (paesistici, culturali, di rispetto delle ferrovie e delle autostrade, del demanio marittimo ecc.), ancorché la pianificazione urbanistica comunale non escluda tale tipo di intervento o lo consenta. Il principio è reciproco anche nei rapporti tra vincoli non urbanistici e vincoli derivanti da pianificazione urbanistica comunale. Riguardo alla sfera degli interessi coinvolti e delle esigenze relative al territorio, giova sottolineare che la tutela del bene culturale è nel testo costituzionale contemplata insieme a quella del paesaggio e dell’ambiente come espressione di principio fondamentale unitario dell'ambito territoriale in cui si svolge la vita dell'uomo (sentenza n. 85 del 1998) e tali forme di tutela costituiscono una endiadi unitaria. Detta tutela costituisce compito dell’intero apparato della Repubblica, nelle sue diverse articolazioni ed in primo luogo dello Stato (art. 9 della Costituzione), oltre che delle regioni e degli enti locali."
Sulla facoltà (anzi, il dovere) dei Comuni a sviluppare, approfondire e articolare l’individuazione dei beni territoriali da sottoporre a tutela effettuata dalle Regioni la Corte si era del resto già espressa all’indomani dell’entrata in vigore della legge 431 del 1985, con la sentenza n. 151 del 24 giugno 1986. La Corte aveva affermato in quella sede che la legge 431/1985,
"discostandosi nettamente dalla disciplina delle bellezze naturali contenuta nella legislazione precostituzionale di settore (l. n. 1497 del 1939) introduce una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, implicante, cioè, una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce del valore estetico-culturale, in aderenza all'art. 9 Cost., che assume tale valore come primario. Detta tutela non esclude nè assorbe la configurazione dell'urbanistica quale funzione ordinatrice degli usi e della trasformazioni del suolo nello spazio e nel tempo, devoluta alle Regioni: la nuova normativa provvede, bensì, al raccordo - nell'ambito stesso della nuova tutela e nei suoi rapporti con l'urbanistica - tra competenze statali e competenze regionali, mediante soluzioni ispirate al principio di leale cooperazione, sia istituendo un rapporto di concorrenza, strutturato in modo che le competenze statali sono esercitate (solo) in caso di mancato esercizio di quelle regionali e (solo) in quanto ciò sia necessario per il raggiungimento dei fini essenziali della tutela; sia proiettando quest'ultima (in modo dinamico) sul piano dell'urbanistica, col regolare l'esercizio qualificato, e teleologicamente orientato in senso estetico-culturale, di competenze regionali in materia urbanistica."
Anche la pianificazione comunale, in altri termini, deve farsi carico dell’esigenza di individuare sul territorio i beni che è necessario sottoporre a vincolo ricognitivo (non indennizzabile), “proiettando” così la tutela, “in modo dinamico, sul piano dell’urbanistica”.
La questione dei vincoli urbanistici fu posta per la prima volta in termini compiuti con la prima delle due sentenze del 1968: la n. 55. In realtà le due sentenze (che ad alcuni frettolosi commentatori apparvero allora in contraddizione tra loro) compongono tra loro un unico ragionamento: legato dalla distinzione tra “vincoli ricognitivi” e “vincoli urbanistici” che ho all’inizio sottolineato, e che è davvero fondativa per qualsiasi valutazione in materia.
La tesi che la Corte costituzionale argomenta nella sentenza 55/1968 può essere sintetizzata come segue. Il piano regolatore generale, una volta approvato, ha vigore a tempo indeterminato; anche i vincoli di destinazione di zona per uso pubblico sono validi a tempo indeterminato e sono immediatamente operativi. Però al vincolo di piano non segue necessariamente l’atto concreto dell’espropriazione, e quindi del pagamento di una indennità: il vincolo ha validità a tempo indeterminato, e ugualmente indeterminato è il momento nel quale il comune avrà l’intenzione e la possibilità di realizzare l’opera prevista. Viene così a determinarsi “un distacco tra l’operatività immediata dei vincoli previsti dal piano regolatore generale ed il conseguimento del risultato finale”. Questo, sostiene la Corte, è costituzionalmente illegittimo.
Ma la sentenza suggerisce anche al legislatore il possibile riparo. La sentenza afferma infatti che il legislatore potrebbe anche porre limitazioni pesantissime alla proprietà, a tre condizioni: che la norma sia stabilita in relazione a tutte le proprietà appartenenti a una determinata “categoria di beni”, senza discrezionalità; che questo derivi da una esigenza d’interesse generale; che la limitazione non annulli il valore economico del bene. In caso contrario, la limitazione è legittima, ma va indennizzata.
Com’è noto, il legislatore non seguì la via indicata dalla Corte. Ne eluse l’insegnamento, stabilendo un sistema di proroghe e di “validità a tempo determinato” [4] dei vincoli urbanistici (quelli ricognitivi non furono mai messi in discussione). Molti comuni, non riuscendo ad avviare le procedure di acquisizione delle aree entro i termini, con nuovi provvedimenti urbanistici rinnovarono i vincoli decaduti. A qualche comune andò bene, ad altri no.
Finalmente, nell’inerzia del legislatore, la Corte intervenne con una nuova sentenza, la n. 179 del 1999. In essa la Corte afferma che i vincoli urbanistici
"assumono certamente carattere patologico quando vi sia una indefinita reiterazione o una proroga sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza […]. Ciò ovviamente in assenza di previsione alternativa dell’indennizzo […], e fermo, beninteso, che l’obbligo dell’indennizzo opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia)."
Ma nello stesso tempo la sentenza stabilisce in quali casi la reiterazione del vincolo non sia “patologica”, e quindi non sia criticabile per incostituzionalità. Ribadisce ulteriormente la piena validità (e la non indennizzabilità) dei vincoli ricognitivi, ma afferma che devono considerati “come normali e connaturali alla proprietà, quale risulta dal sistema vigente”, e quindi non indennizzabili, anche
"i limiti non ablatori posti normalmente nei regolamenti edilizi o nella pianificazione e programmazione urbanistica e relative norme tecniche, quali i limiti di altezza, di cubatura o di superficie coperta, le distanze tra edifici, le zone di rispetto in relazione a talune opere pubbliche, i diversi indici generali di fabbricabilità ovvero i limiti e rapporti previsti per zone territoriali omogenee e simili."
Quindi, ad esempio, non sono indennizzabili i vincoli consistenti nelle destinazioni a zona agricola. Non pongono analogamente problemi di indennizzabilità, o altra compensazione,
"i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene."
La Corte precisa anche tecnicamente questo caso, e aggiunge:
"Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l’iniziativa economica privata - pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento. Si fa riferimento, ad esempio, ai parcheggi, impianti sportivi, mercati e complessi per la distribuzione commerciale, edifici per iniziative di cura e sanitarie o per altre utilizzazioni quali zone artigianali o industriali o residenziali; in breve, a tutte quelle iniziative suscettibili di operare in libero regime di economia di mercato."
Ma la Corte aggiunge ancora una ulteriore precisazione. Essa ricorda come la giustizia amministrativa
"a proposito della reiterazione dei vincoli, ha delineato un diritto vivente (che deve essere tenuto presente per risolvere la questione di legittimità costituzionale prospettata), secondo cui la reiterazione dei vincoli urbanistici decaduti per effetto del decorso del termine può ritenersi legittima sul piano amministrativo se corredata da una congrua e specifica motivazione sulla attualità della previsione, con nuova ed adeguata comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti, e con giustificazione delle scelte urbanistiche di piano, tanto più dettagliata e concreta quante più volte viene ripetuta la reiterazione del vincolo."
In definitiva, in questa stessa sentenza 179/1999, che è stata giudicata come escludente in modo tassativo ogni ipotesi di reiterazione dei vincoli, la Corte indica la piena legittimità costituzionale delle reiterazioni a talune condizioni. E afferma esplicitamente che
"la reiterazione in via amministrativa degli anzidetti vincoli decaduti (preordinati all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo), ovvero la proroga in via legislativa o la particolare durata dei vincoli stessi prevista in talune regioni a statuto speciale (v., per quest’ultimo profilo, sentenze n. 344 del 1995; n. 82 del 1982; n. 1164 del 1988) non sono fenomeni di per se inammissibili dal punto di vista costituzionale. Infatti possono esistere ragioni giustificative accertate attraverso una valutazione procedimentale (con adeguata motivazione) dell’amministrazione preposta alla gestione del territorio o rispettivamente apprezzate dalla discrezionalità legislativa entro i limiti della non irragionevolezza e non arbitrarietà."
Utile riepilogo è costituito dall’ultimo paragrafo dell’articolata sentenza dove la Corte, sintetizzando l’insieme degli approdi delle sue argomentazioni, afferma che
"restano al di fuori dell'ambito dell'indennizzabilità i vincoli incidenti con carattere di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni - ivi compresi i vincoli ambientali-paesistici -, i vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianificazione urbanistica, i vincoli comunque estesi derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato, i vincoli che non superano sotto il profilo quantitativo la normale tollerabilità e i vincoli non eccedenti la durata (periodo di franchigia) ritenuta ragionevolmente sopportabile."
In altri termini, se il comune, con un piano regolatore aveva destinato una particolare area a zona d’espansione, o comunque aveva attribuito una utilizzazione che comportava l’edificazione, e poi con un successivo documento urbanistico aveva modificato questa destinazione prevedendo utilizzazioni diverse (per esempio, zona agricola), il proprietario ha diritto a una qualche forma di risarcimento o d’indennizzo? Esiste insomma una “diritto all’edificabilità” che, una volta ottenuto dal proprietario, gli appartenga come parte del proprio patrimonio?
La giurisprudenza è costante nell’affermare che l’interesse pubblico, espresso dalle amministrazioni legittimate a compiere gli atti amministrativi, prevale sull’interesse dei privati proprietari. L’unica attenzione che legislazione e giurisprudenza costantemente pongono è che l’atto con il quale si comprimono i legittimi interessi dei proprietari siano adeguatamente motivati, e che la compressione del legittimo interesse sia altrettanto adeguatamente indennizzata.
Motivazione e indennizzo, sono dunque i due elementi cardine che temperano la piena potestà della pubblica amministrazione e garantiscono gli interessi legittimi del proprietario (non sembra che legislazione e giurisprudenza, in Italia, si siano occupati altrettanto del cittadino non proprietario).
Ecco alcune sentenze, dal 1980 al 2001 (sono riprese dalla, Rassegna di giurisprudenza dell’urbanistica di Renzo Poggi; i corsivi sono miei):
Nel 1980 il Consiglio di Stato, in adunanza plenaria, ha stabilito che
"l’amministrazione comunale, se pure non è tenuta a motivare le scelte urbanistiche generali considerate nella loro globalità (se non nei casi in cui tali scelte incidano su lottizzazioni già approvate), deve peraltro motivare l’adozione di una variante al piano regolatore generale che quelle scelte abbia approvato, indicando le ragioni che hanno determinato la totale o parziale inattualità del piano o la convenienza di migliorarlo." [5]
Il TAR Lombardia ha sentenziato, nel 1982, che
"la variante al piano regolatore comunale abbisogna di una particolare motivazione solo quando al posizione del privato, proprietario dell’area, risulti “consolidata” per effetto di precedenti convenzioni lottizzate stipulate con il comune, e non anche quando trattasi di aree sulle quali insiste un semplice manufatto edilizio” [6].
Il Consiglio di Stato, IV Sezione, ha affermato nel 1984 che
"è illegittima la variante al piano regolatore generale in contrasto con un preesistente piano di lottizzazione, che non indichi i motivi di interesse pubblico che giustificano il mutamento della sistemazione urbanistica del territorio" [7] .
Ma veniamo ad anni più vicini. In una sentenza del 2000 il Consiglio di Stato, Sezione V, ha giudicato che
"il comune, in sede di adozione di una variante al piano regolatore generale, ha la facoltà ampiamente discrezionale di modificare le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica ed analitica per le singole zone innovate, salva peraltro la necessità di una congrua indicazione delle diverse esigenze che si sono dovute conciliare e la coerenza delle soluzioni predisposte con i criteri tecnico-urbanistici stabiliti per la formazione del piano regolatore" [8].
Il TAR Lombardia, sez. Brescia, ha stabilito nel 2001 che
"neppure la preesistenza di un piano di lottizzazione approvato e già convenzionato costituisce - per se sola - un ostacolo alla modifica delle previsioni urbanistiche vigenti su una determinata area, proprio perché il prg non rappresenta uno strumento immodificabile di pianificazione del territorio, sul quale i privati possano fondare sine die, le proprie aspettative, ma è suscettibile di revisione ogni qual volta sopravvenute esigenze di pubblico interesse, obiettivamente esistenti ed adeguatamente motivate, facciano ritenere superata la disciplina da esso dettata" [9].
Con la medesima pronuncia il tribunale ha argomentato che
"il comune, pur avendo la più ampia discrezionalità di rivedere le previsioni urbanistiche in sede di disciplina del proprio territorio, tuttavia, anche in assenza di una preesistente lottizzazione convenzionata, ove abbia ingenerato precisi affidamenti sulla edificabilità nel proprietario dell’area, non può adottare una variante che modifichi le previsioni già in vigore, senza addurre una circostanziata motivazione sulle particolari ragioni di pubblico interesse che abbiano reso necessario incidere sulle posizioni giuridiche del privato costituitesi con l’avallo dell’amministrazione e senza una congrua comparazione tra i vari interessi in conflitto" [10].
Nel medesimo anno il Consiglio di Stato, V sezione, ha giudicato che
"sono illegittime le deliberazioni comunali di adozione di variante a piano regolatore generale che modificano la destinazione urbanistica di aree oggetto di convenzione di lottizzazione precedentemente autorizzate, senza recare una congrua e puntuale motivazione in ordine alla preponderanza dell’interesse pubblico sotteso alla nuova destinazione urbanistica sull’interesse precedente e che aveva trovato espressione nell’approvata lottizzazione" [11].
L’esemplificazione della giurisprudenza potrebbe proseguire a lungo. Ciò che mi interessa sottolineare è che, se è legittimo modificare con uno nuovo strumento urbanistico, al limite escludendo l’edificabilità, una lottizzazione convenzionata già stipulata purché se ne motivino adeguatamente le ragioni, a maggior ragione ciò è possibile se si tratta di una semplice previsione di PRG. In tal caso, neppure una specifica motivazione sembra necessaria. E meno che meno è necessario un indennizzo.
In altri termini , non esiste alcun “diritto all’edificabilità” da parte del proprietario, né se questi è stato in precedenza gratificato da una previsione edificatoria poi cancellata, e neppure se, sulla base di quella previsione, aveva ottenuto l’approvazione di un piano di lottizzazione convenzionata e aveva stipulato con il comune i relativi atti.
È possibile a questo punto riepilogare per giungere a una conclusione.
Non esiste impedimento giuridico a modificare le previsioni del piano regolatore comunale vigente ove ciò sia necessario, senza che ciò comporti alcun obbligo di indennizzare o compensare in alcun modo il proprietario che abbia avuto una riduzione della utilizzabilità urbanistica della sua area.
Non esiste impedimento giuridico (e anzi esiste una sollecitazione da parte del giudice costituzionale) alla individuazione, da parte dei Comuni, di aree da sottoporre a tutela per motivi connessi ai valori culturali, archeologici, storici, paesaggistici (con specifico riferimento al paesaggio agrario) o a situazioni di fragilità e di rischio, e su cui quindi imporre un vincolo ricognitivo.
Non esiste impedimento giuridico a vincolare per utilizzazioni pubbliche (a sottoporre quindi a vincolo urbanistico) aree già sottoposte a vincolo ricognitivo, ove le ragioni del vincolo lo consentano e compatibilmente con le trasformazioni e le utilizzazioni coerenti con tali ragioni.
Non esiste obbligo a indennizzare i proprietari di aree, destinate a svolgere una funzione di pubblica utilità, per la quale la normativa urbanistica comunale preveda la gestione economica da parte del proprietario delle attrezzature e degli impianti di cui si ipotizza la realizzazione.
Ove sia necessario sottoporre a vincoli urbanistici di tipo espropriativo immobili che non ricadano nei due casi precedenti, e che non siano neppure acquisibili mediante le normali procedure della lottizzazione convenzionata praticata almeno dal 1967, l’indennità espropriativa non deve compensare ipotesi di edificabilità diverse da quelle che le leggi in materia dispongono. A meno che il Comune non sia così sciocco da promettere edificabilità diffuse e “spalmate” su gran parte del territorio comunale.
Edoardo Salzano
Venezia, 10 gennaio 2003
[1] Sottolineo “per ragioni di diritto” perché possono esserci motivi di opportunità politica o sociale che inducono ad agevolare determinati gruppi di proprietari; ma non è di questi aspetti che voglio occuparmi.
[2] A partire dalle sentenze n. 55 e 56 del 1968, fino alla sentenza 378 del 2000. Le rilevantissime sentenze del 1968 le ho commentate a suo tempo: Dopo la sentenza della Corte Costituzionale – La responsabilità a sciogliere i nodi nella questione del suolo urbano, in “Città e Società”, n.6, nov.- dic. 1968. Vedi anche: V.De Lucia, E.Salzano, F.Strobbe, Riforma urbanistica 1973, edizioni delle autonomie, Roma 1973: E Salzano, Fondamenti di Urbanistica, Laterza editori, Bari-Roma, 20024.
[3] Si vedano le sentenze 15 luglio 1969, n. 136; 26 aprile 1971, n. 79; 20 febbraio 1973, n. 9; 4 luglio 1974, n. 202; 20 dicembre 1976, n. 245; 16 giugno 1988, n. 648; 17 luglio 1989, n. 391; 20 luglio 1990, n. 344; 28 luglio 1995, n. 417.
[4] Legge 19 novembre 1968, n. 1187. In realtà nell’approvare la legge il Parlamento si era impegnato a risolvere più sostanzialmente la questione approfittando della proroga quinquennale che si era concesso.
[5] Cons. Stato, Ad. Plenaria, 21 ottobre 1980 n. 37.
[6] TAR Lombardia, Sez. Milano, 6 maggio 1982 n. 254.
[7] Cons. Stato, Sez IV, 5 dicembre 1984 n. 884
[8] Cons. Stato, sez. IV, 3 luglio 2000 n. 3646.
[9] TAR Lombardia, sez. Brescia, 12 gennaio 2001, n. 2.
[10] Ibidem.
[11] Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1385.