DIRITTO ALLA CITTA'
Significato, motivi e contesto di un antico slogan. Sintomi e ragioni dlla sua rinascita
Il mio intervento, come enuncia il sottotitolo, sarà articolato in due parti:
1. Significato, motivi e contesto dello slogan “diritto alla città”, che ebbe una grande fortuna alla fine del decennio Sessanta del secolo sorso e poi declinò nel corso del decennio successivo.
2. Sintomi e ragioni della sua rinascita, che si manifesta – secondo molti studiosi della città e della società – nei nostri anni: gli anni della globalizzazione e, soprattutto, del neoliberismo.
A queste due parti vorrei anteporre qualche considerazione di carattere un po' più generale, che vi servirà a comprendere il mio punto di vista sugli argomenti che svilupperò. Credo che sia buona norma non presentarsi enunciando solo i propri titoli formali, ma anche dichiarando qual'è la propria posizione, la propria ideologia.
PREMESSA. ALCUNE PAROLE
Ideologia
Cominciamo proprio da questa parole: ideologia. E' una parola oggi largamente screditata. Oggi per “ideologia” si intende qualcosa che esclude la ragione, che rinvia a parole e concetti quali schematismo, dogmaticità, partito-preso, pregiudizio e preconcetto. Il significato classico del termine, che condivido e adopero, è invece il seguente: L'ideologia è «quell’insieme di credenze condivise da un gruppo e dai i suoi membri che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali» (T. A. Van Dijk, Ideologie. Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Carocci, Firenze 2004).
Screditare quel termine è stata, in Italia, un’operazione culturale che ha voluto cancellare un preciso fatto storico: che l'ideologia è stata, nei decenni che hanno preceduto il neoliberalismo, «quel sistema di ideali e di valori grazie ai quali la politica si è mossa in vista di interessi generali e di obiettivi di largo respiro» (A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di Simonetta Fiori, Roma-Bari, Laterza, 2009).
Sostenere che l’ideologia è morta, rendere il termine sinonimo di “dogmatismo” e “preconcetto, ha aiutato a inculcare l'idea (e la prassi) che la politica è pura amministrazione. E quando la politica si riduce a pura amministrazione, la gestione della macchina prevale sugli obiettivi che dovrebbero guidarla. La politica diventa gestione del potere fine a sé stessa: gli unici interessi da servire sono quelli di chi della politica è il gestore.
Politica
Un'altra parole per me importante è – appunto – la parola politica. Una parola oggi molto di moda, anche se in senso prevalentemente negativo. Una parola che viene adoperata spesso rovesciata nel suo significato fino a divenire un'arma contro l'avversario: si rovescia in anti-politica.
Per me la “politica” non è solo quella che si fa nelle istituzioni e nei palazzi del potere, è anche quella che si promuove là dove si è accusati di praticare l'”anti-politica”. La definizione di politica che a me pare eccellente – negli anni in cui la “politica” ufficiale sembra più interessata all'accumulazione del potere da parte di chi ce l'ha già anziché al realizzarsi di interessi generali della società – è quella che ne diede don Lorenzo Milani, quando fece esprimere a uno scolaro della sua Scuola di Barbiana la sua esoerienza:
«Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica» (Lorenzo Milani, Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967).
Politica è insomma, anche per me, l'unirsi tra più persone per “uscire insieme” da un problema che è di tutti – o almeno di molti, dei “tutti” di una determinata comunità – o dell'intera società.
Comunità e società, democrazia e istituzioni, rappresentanza e partecipazione. E poi, accanto a politica, economia (quella che oggi è diventata la padrona della politica). Ecco altre parole chiave sulle quali mi piacerebbe ragionare con voi. Ma non posso dedicare tutto il mio spazio al preambolo, quindi accennerò soltanto ad altre due parole: città e storia.
Città
Comprendere che cosa è città dovrebbe essere facile per persone che – come noi tutti in quest'aula - di essa ci occupiamo professionalmente. Io ho dedicato anni importanti della mia vita a cercar di comprenderlo , e ne è nato un libro (Edoardo Salzano, Urbanistica e società opulenta, Laterza, Roma 1969). Passati alcuni anni (una quarantina) mi sono accorto che la città alla quale mi ero riferito era una particolare città; la città dell'Europa, forse la più ricca di qualità e più rivelatrice di principi di carattere universale, ma non credo l'unica, nè la sola portatrice di principi e valori d'interesse universale.
I punti fermi della mia ricerca di allora, e i principi di partenza per una nuova investigazione, sono tutti desumibili da due espressioni intimamente legate:
1. la città non è un aggregato di case ma è la casa della società, quindi non hanno senso le interpretazioni basate su dati esclusivamente o principalmente quantitativi o descrittivi, mentre è fondamentale la presenza, accanto all'ineliminabile dimensione dell'”IO”, quella altrettanto fondamentale del “NOI”;
2. la città non è comprensibile se non si tiene sempre presente lo stretto legame tra le sue tre dimensioni, “ urbs, civitas, polis”, la città come sistema di strutture fisiche, di relazioni sociali, di capacità politica.
Naturalmente – come tutto nella vicenda dell'uomo – questi due attributi della città non devono essere considerati ipostatizzando il presente, la nostra esperienza personale, ma allargando lo sguardo sulle dimensioni della geografia e della storia: dell'universo spaziale e di quello temporale.
Oggi mi sembra particolarmente importante la seconda parola, storia. Perciò dedicherò a questa qualche ulteriore minuto del preambolo.
Storia
«Natura di cose altro non è che nascimento di esse», scriveva Giambattista Vico. Senza avere consapevolezza della nostra storia (e del modo in cui le cose sono nate) non si è neppure capaci di pensare a un futuro diverso dal presente che viviamo. Non è quindi un caso se, per spegnere sul nascere qualunque tentativo, speranza, sforzo per cambiare lo stato di cose attuale e costruire un domani diverso dall' oggi, lo slogan più espressivo dell'attuale fase del sistema capitalistico – il neoliberismo – è quello coniato da Margareth Tatcher, “There is no alternative”, non c'è alternativa: il famoso acronimo TINA.
E' appena il caso di precisare che consapevolezza della storia – e della sua importanza per comprendere l'oggi e preparare il domani – non ha nulla a che fare con la nostalgia, con il lamentoso rimpianto per i tempi andati. Significa invece ricordare che la storia è maestra di vita (Historia Magistra Vitae): la storia ci insegna a vivere, cioè a cambiare, a crescere, a migliorare, noi stessi e il mondo.
Ma veniamo adesso alla nostra storia più vicina. In particolare, a quegli anni nei quali nacque, si sviluppò e divenne portatore di azioni lo slogan del quale ci stiamo occupando: il “diritto alla città”.
SIGNIFICATO, MOTIVI E CONTESTO
DELLO SLOGAN “DIRITTO ALLA CITTÀ”
Che vuol dire “diritto”?
La parola “diritto ha almeno due significati. Può significare norma che garantisce al soggetto portatore del diritto determinate prestazioni, o privilegi, o condizioni, nell'ambito del dispositivo giuridico vigente. In Italia, ho diritto al servizio sanitario nazionale, ho diritto a partecipare all'elezione di chi governa, e quant'altro stabiliscono la Costituzione e il sistema di norme che ne deriva. Oppure, “diritto” può significare aspirazione, tensione, rivendicazione di qualcosa che ancora non è riconosciuto dal sistema di regole sociali in atto, ma che è il risultato sperato di un'azione che sento necessaria.
Quando parliamo di “diritto alla città come qualcosa che si è manifestato nel corso degli anni Sessanta del secolo scorso ci riferiamo a questo secondo significato del termine. La rapida esplorazione che faremo di quegli anni ci rivelerà che, per alcuni rilevanti aspetti, quel secondo significato dell'espressione “diritto alla città” (diritto come rivendicazione) si è tradotto, sia pure parzialmente, in diritto giuridicamente sanzionato.
Henry Lefebvre
Henry Lefebvre coniò l'espressione “diritto alla città”, nell'ambito di una riflessione sulla città e l'urbanistica condotta con gli strumenti d'analisi e interpretazione della scuola marxista. In polemica con le culture dell'epoca Lefebvre studiò la città non nelle sue forme e funzioni, ma nel meccanismo della sua produzione. La città era per lui il prodotto dell'azione della società, quindi strettamente legata (e anzi determinata) dalle regole e dagli interessi dei rapporti di produzione, quindi dal gioco di potere delle classi sociali. Egli vedeva il deterioramento della città (e della condizione urbana) come conseguenza dei rapporti (di produzione e di potere) propri del sistema capitalistico-borghese.
Secondo la sintesi che Ilaria Boniburini ne ha esposto alla Scuola di eddyburg del 2009, «per Lefebvre la città è un oeuvre, un’opera, una realizzazione alla cui costruzione tutti gli abitanti partecipano: gli “abitanti”, non solo i residenti e i cittadini. Il diritto alla città è il diritto alla vita urbana, all’abitazione, ai luoghi dell’incontro e dello scambio, ai tempi e ai ritmi necessari per un uso pieno dei luoghi e delle opportunità». La sua realizzazione «richiede una scienza capace di comprendere la città, un’ urbanistica orientata ai bisogni sociali e una forza politica e sociale capace di metterle in atto». Questa forza Lefebvre la individuava nella classe operaia, cui il pensiero marxista affidava la responsablità storica di superare dialetticamente il sistema capitalistiico-borghese.
E' interessante osservare oggi – nel pieno dell'affermazione del tema dei “beni comuni” e della riflessione sulla nuova rivendicazione della “città come bene comune” - che Lefebvre poneva l'accento sulla necessità di stabilire il primato del valore d’uso; ciò che a suo parere richiedeva il controllo della sfera economica, quindi una riconfigurazione delle relazioni di potere.
Ancora due corollari della visione lefebvriana del “diritto alla città”: esso, per Lefebvre, «postula il diritto a partecipare (tutti gli abitanti dovrebbero avere un ruolo centrale nelle decisioni che contribuiscono alle trasformazioni urbane), e postula il diritto all’appropriazione che include la prerogativa di occupare».
Il biennio 1968-69 in Italia
Il pensiero di Lefebvre ebbe una forte influenza nel pensiero e nelle azioni che dominarono nel biennio di grandi trasformazioni che fu il 1968-69, momento di massima tensione di un periodo (dagli inizi degli anni Sessanta alla fine del decennio successivo) che vide realizzarsi in Italia una fase ricca di riforme profonde della società.
Si tratta di un biennio (e di un ventennio) che nei decenni successivi il pensiero dominante ha fatto di tutto per cancellare – riducendoli all'immagine di un periodo di tensioni sociali anarcoidi, dominate da un terrorismo di sinistra.
Gli storici dell'Italia contemporanea (da Paul Ginzborg a Guido Crainz, per non citare che quelli i cui articoli ospito spesso su eddyburg) hanno cominciato a raddrizzare le cose e a ristabilire una memoria corretta di quegli anni. Io stesso – non come storico, ma come testimone - ne ho scritto con una certa ampiezza, anche nel mio libro Memorie di un urbanista (Corte del Fontego, 2010), nel quale cerco di ragionare sull'Italia che ho vissuto: un'Italia nella quale, le ragioni della società e della politica e quelle della città e dell'urbanistica sembravano – e anzi erano – strettamente collegate. Non solo nel pensiero di qualche accademico e di qualche intellettuale, ma nella vita della società nel suo insieme.
Furono anni di tumultuosa trasformazione del nostro paese. Anni di cambiamenti della vita sociale, economica, politica, culturale, e anni di grandi riforme: riforme vere, riforme della struttura, e non riformicchie come quelle di cui si parla da qualche decennio.
Di quegli anni vorrei ricordare soprattutto due cose: il ruolo delle forze sociali, le conquiste ottenute. Il diritto alla città come rivendicazione, e il diritto alla città come norma.
Le forze sociali
Due componenti furono a mio parere essenziali, oltre al movimento degli studenti: il movimento per l’emancipazione delle donne, il movimento operaio.
Inizio dal movimento femminile, perché fu cronologicamente il primo a scendere in campo su un aspetto del “diritto alla città”. E lo faccio particolarmente volentieri anche perché oggi è l'8 marzo.
Il movimento femminile era rappresentato in quegli anni quasi esclusivamente dall'Unione Donne Italiane. Fu particolarmente rilevante la vertenza aperta dall'UDI all'inizio degli anni Sessanta nell'intento di liberare le donne dall'obbligo del lavoro casalingo.
L’Udi aveva lanciato una vasta campagna per l’istituzione di servizi che alleggerissero le lavoratrici (e le donne in generale) dal peso della gestione domestica; tra le attività svolte su questo tema, una legge d’iniziativa popolare, sulla quale si raccolsero oltre 50mila firme, e un convegno per la previsione dei servizi sociali nella pianificazione urbanistica.
Il titolo del convegno era “Obbligatorietà della programmazione dei servizi sociali in un nuovo assetto urbanistico”. Si svolse a Roma, il 21-22 marzo 1964. Tre delle quattro relazioni di base furono svolte da altrettanti urbanisti: Giovanni Astengo, Edoardo Detti e Alberto Todros.
Ma decisivo fu soprattutto il ruolo del movimento dei lavoratori, nelle sue espressioni sindacali e in quelle politiche.
Voglio ricordare soprattutto l’autunno del 1969, che fu certamente il momento più alto dello scontro sui problemi del territorio e della sua organizzazione: si trattava di affermare il diritto alla città come componente essenziale di una società riformata. Quei temi non erano agitati solo da èlite intellettuali e dalle componenti più radicali della sinistra (allora espresse dall’ala della sinistra del Psi che faceva capo a Riccardo Lombardi). Era l’insieme dei sindacati dei lavoratori che scendeva in campo, con l’appoggio del maggiore partito della sinistra, il Pci.
Il ruolo delle forze sociali è stato riconosciuto, tra gli altri, dallo storico Paul Ginsborg. In quegli anni, scrive, «le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana erano ben più forti che all’epoca di Sullo e dell’inizio del centrosinistra. La principale differenza consisteva nella presenza attiva del movimento operaio».
E voglio ricordare che un ruolo essenziale nel raggiungere i risultati (al di là delle cause legate alle trasformazioni della struttura economica e alla politica internazionale) fu il fatto che la spinta delle rivendicazioni sociali trovava la sponda delle istituzioni, tramite partiti politici che erano ancora – secondo quanto detta la Costituzione – i canali attraverso i quali i cittadini potevano «concorrere con metodo democratico ala politica nazionale».
I risultati
Non voglio dilungarmi troppo. Mi limito a ricordare alcune delle maggiori trasformazioni che ebbero un riflesso concreto sul diritto – più precisamente, sulla norma – anche se, malauguratamente, non ebbero il tempo sufficiente per tradursi nei fatti in modo adeguato.
Nel campo del nostro interesse di urbanisti e studiosi della città ricordiamo che:
Con la “legge ponte” urbanistica del 1967 e con i successivi decreti del 1969 si ottennero in Italia
- la generalizzazione della pianificazione urbanistica,
- il primato delle decisioni pubbliche nelle trasformazioni del territorio,
- l’obbligo a vincolare determinate quantità di aree per servizi e spazi pubblici.
Con le leggi per la casa del 1962 (piani per l’edilizia economica e popolare), del 1967 (obbligo della pianificazione comunale, disciplina delle lottizzazioni e standard urbanistici), del 1971 (programma decennale per l’edilizia abitativa e avvicinamento delle indennità d’esproprio ai valori agricoli), del 1977 (programmi per il recupero dell’edilizia esistente) e 1978 (limitazioni all’affitto degli alloggi privati) si ottenne la possibilità:
- di controllare tutti i segmenti dello stock abitativo,
- di realizzare quartieri residenziali dotati di tutti gli elementi che rendono civile una città,
- di ridurre il prezzo degli alloggi in una parte molto ampia del patrimonio edilizio.
E indicherei come coda di questo periodo nei successivi, terribili anni 80, alcune ulteriori importanti conquiste normative, quali le leggi per la tutela del suolo e delle acque e per la tutela del paesaggio. Di fronte alle catastrofi di questo novembre vorrei ricordare il principio, implicito in queste ultime due leggi, secondo il quale la definizione normativa delle condizioni necessarie per garantire l’integrità fisica e l’identità culturale del territorio devono avere la priorità sulle scelte di trasformazione, quindi sui piani urbanistici e sulle pratiche edilizie. Principio che fu da subito disatteso e contraddetto.
Ma usciamo dal nostro stretto campo, per comprendere meglio. E ricordiamo che in quegli stessi decenni, sincronicamente e per merito degli stessi soggetti, culture, movimenti, si ottennero altre grandi conquiste sul terreno dei diritti sociali, strettamente collegati alla condizioni urbana.
Ricordiamo:
- lo statuto dei diritti dei lavoratori,
- la scala mobile,
- il servizio sanitario nazionale,
- la libertà per le donne di interrompere la gravidanza e
- la libertà per tutti di divorziare,
- l’istituzione degli asili nido e della scuola materna di stato,
- il tempo pieno nella scuola elementare,
- il voto ai diciottenni
- l’estensione della democrazia, nelle istituzioni, nella scuola e nelle fabbriche.
SINTOMI E RAGIONI DELLA RINASCITA
DEL “DIRITTO ALLA CITTÀ”
La svolta
Il mondo è molto cambiato dagli anni nei quali il “diritto alla città” si tradusse da rivendicazione a sistema di norme. Gli storici concordano ormai sugli anni in cui va collocata la svolta, e sul nome della fase che da allora è cominciata. In Italia si colloca nella metà degli anni 80 del secolo scorso, e segue di pochi anni quella iniziata con le presidenze di Ronald Reagan e di Margaret Tatcher (cui David Harvey accompagna, come terzo e quarto cavaliere dell’apocalisse, Pinochet e Deng Tsao Ping). Il mondo cambia giro. Inizia la fase di quello che in Italia si chiama Neoliberismo, e nel resto del mondo Neoliberalism. Una fase del tutto nuova del sistema capitalismo; quella che nel suo recente libro Luciano Gallino definisce – secondo me con grande precisione – Finanzcapitalismo.
Dall’economia delle cose si passa all’economia della carta. Il Denaro non è più un mezzo per comprare Merci e produrre più Merci, ma è il Denaro in sé che diventa il fine: trasformare il Denaro in più Denaro producendo Merci o – sempre più largamente – trasformando Beni comuni in Merci per produrre sempre più Denaro.
É una mutazione totale dell’economia capitalistica. Che trascina con sé una mutazione profonda della società, dell’uomo – e naturalmente anche della città e del modo in cui si svolge il mestiere dell’urbanista.
Vediamo alcuni aspetti generali di questa mutazione. Dall’equilibrio tra privato e pubblico (e tra individuale e collettivo) si è passati al dominio del privato e dell’individuale. Dal ruolo del mercato come strumento di definizione dei prezzi delle merci si è passati al Mercato come dominus indiscusso d’ogni decisione (e a un “mercato” il quale, come abbiamo appreso nella crisi recente, è composto da 25 soggetti che decidono sui destini del mondo intero). La politica è diventata un’ancella dell’economia data, si è schiacciata su di essa.
Le conseguenze della svolta neoliberista sulla città (sull’habitat dell’uomo) sono state devastanti. Voglio sottolinearne tre aspetti a mio parere più significativi.
Dal pubblico al privato
Innanzitutto è pofondamente colpito il carattere pubblico, comune, collettivo della città nel suo insieme.
Nella nostra storia quel carattere era stato ritenuto raggiungibile mediante l’affermazione di un principio (il diritto/dovere della collettività di decidere l’uso del suolo e le trasformazioni urbane) raggiungibile mediante due strumenti:
- lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire),
- lo strumento di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa, promossa e garantita da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.
Oggi si sostituisce di fatto la pianificazione pubblica con la contrattazione delle decisioni sulla città con la proprietà immobiliare: non vi è città che non presenti testimonianze molteplici di questa nuova prassi di “urbanistica contrattata”.
Si arriva addirittura a voler decretare che il diritto di edificare appartiene strutturalmente alla proprietà del suolo. Ma il primo passo era stato compiuto quando si erano inventati quegli strumenti urbanistici anomali (programmi complessi, programmi integrati, e poi tutte le sigle immaginabili) che consentivano a un accordo stipulato tra amministratore e proprietario di derogare alla pianificazione ordinaria – soggetta a una procedura di larga evidenza pubblica.
E un passo successivo era stato effettuato quando, con il PRG di Roma redatto e approvato da amministrazioni di sinistra, con consulenti di sinistra, si inventarono presunti “diritti edificatori” (fino ad allora sconosciuti al diritto e ai giuristi), che avrebbero comportato l’obbligo del pagamento di pesanti indennizzi a un comune che avesse voluto ridurre, motivatamente, l’edificabilità sul suo territorio concessa da un piano regolatore troppo permissivo.
Il trionfo della rendita
La condizione grazie alla quale il governo pubblico poteva esercitare il suo diritto /dovere di regolare le trasformazioni dell’habitat dell’uomo era considerato – nei regimi liberali prima ancora che in quelli socialdemocratici e socialisti - la capacità del governo pubblico di ridurre il peso della rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia) sulle decisioni e sui costi della trasformazione della città, e di trasferirne l‘incremento dal privato al pubblico, per reinvestirlo nel miglioramento delle funzioni urbane.
In Italia, agli inizi degli anni 70 la necessità di contenere i grandi plusvalori della rendita immobiliare era così largamente condivisa che la stessa Confindustria dichiarava di sostenere una riforma urbanistica che, contenendo la rendita, avrebbe garantito buoni profitti senza colpire i salari.
Ma le cose cambiarono rapidamente. Gli stessi gruppi industriali che avevano criticato la rendita trovarono comodo appropriarsene, intrecciare sempre più profondamente rendita e profitto, e anzi spostare la loro attenzione dalle attività industriali a quelle immobiliari
Il percorso iniziò negli anni delle grandi trasformazioni del sistema produttivo (dalla manifattura al terziario), per svilupparsi fino ai nostri anni. La finanziarizzazione dell’economia aiutò la rendita urbana ad accrescere il suo peso nell’insieme del sistema economico e della percezione del territorio.
All’inizio degli anni 90 l’esplodere della bolla edilizia sembrò segnare il punto d’arresto del trend immobiliarista. Ma alla fine del decennio l’espansione riprese alla grande. Ricominciò un ciclo di “valorizzazione” immobiliare con livelli di crescita mai raggiunti in precedenza. Si aprì la fase che Walter Tocci definisce della “rendita pura”: la fase in cui si celebra il trionfo della rendita immobiliare, diventata (insieme a quella finanziaria) il fine dell’intero sistema economico.
Per servire la crescita e l’appropriazione privata della rendita fondiaria gli amministratori hanno introdotto significativi cambiamenti nelle loro politiche. Aiutate, e anzi sospinte dalla legislazione nazionale, hanno proceduto allo smantellamento della pianificazione urbanistica e territoriale quale era stata definita nei decenni precedenti .
Ora, gli strumenti foggiati per tentare di porre ordine e razionalità nelle trasformazioni urbane e territoriali erano considerati solo un impaccio al libero esplicarsi della legge del massimo sfruttamento delle potenzialità economiche (in termine di valore di scambio) del territorio.
Alto è il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sul terreno stesso dello sviluppo economico per effetto della scelta compiuta dalle aziende di spostare gli investimenti, gli interessi, l’intelligenza, dalla produzione al mattone, e per di più al “mattone di carta”. Ma ancora più pesante è il prezzo che hanno pagato le città e i territori, le condizioni di vita degli abitanti, la ricchezza dei beni culturali e del paesaggio.
Le conseguenze del trionfo della rendita sono sotto i nostri occhi. Si è manifestata una grande euforia immobiliare, che ha stimolato la produzione edilizia e alimentato la domanda, determinando così un balzo in avanti della valorizzazione della rendita. Il cambiamento è stato enorme, non solo in termini quantitativi. È cambiato radicalmente il ruolo della città nei confronti dell’economia. La città è diventata sempre di più una usata per accrescere le ricchezze private. Il territorio viene devastato da un consumo di suolo impressionante, le condizioni di vita nelle aree urbane peggiorano sempre di più, la sottrazione di risorse ai cicli vitali della biosfera cresce continuamente.
Rimane aperto il problema di chiarire perché in Italia gli intellettuali, dentro e fuori dai partiti, non lo abbiano compreso. E perché troppo stesso gli urbanisti abbiano trasformato il loro ruolo da quello di servitori dell’interesse collettivo a facilitatori dei progetti immobiliari.
Lo spazio pubblico
Un altro aspetto emblematico – il terzo - di quella che definisco “la città della rendita” è la progressiva riduzione e mistificazione dello spazio pubblico.
Gli spazi pubblici sono l’anima della città e la ragione essenziale della sua invenzione. Essi sono il luogo nel quale società e città s’incontrano, il luogo nel quale il privato diventa pubblico e il pubblico si apre al privato. Appunto per questo, mi sembra che uno dei segni più gravi dell’attuale crisi della città è nel fatto che gli spazi pubblici sono oggi a rischio, minacciati da mille tentativi di privatizzazione e mercificazione.
Sono rischi che non nascono da oggi. Lo testimonia il tentativo, in corso ormai trionfalmente da qualche decennio, di sostituire agli spazi pubblici i “non luoghi”, caratterizzati dalla ricerca dei requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia):
- la recinzione mentre la piazza è aperta,
- la sicurezza mentre la piazza è avventura,
- l’omologazione mentre la piazza è differenza e identità,
- la natura delle persone che la abitano, clienti anziché di cittadini,
- la distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità.
E lo testimonia, da tempi ancora più lontani, l’assenza della previsione e progettazione di spazi pubblici da grandissima parte delle periferie che da molti decenni circondano e affogano la città.
I diritti nella città del neoliberismo
In sintesi possiamo dire che l’elemento che caratterizza la condizione urbana nella città del neoliberismo all’italiana è la progressiva affermazione di un modello di habitat fondato sulla prevalenza di soluzioni individualistiche, precarie e costose - quindi fortemente differenziate a seconda delle diverse capacità di spesa - ai bisogni che nella fase del welfare urbano erano stati affrontati secondo una logica tendenzialmente egualitaria, solidaristica, collettiva, risparmiatrice di risorse.
Il diritto alla casa si è tradotto nella sollecitazione generalizzata alla ricerca di abitazioni a basso costo, in aree lontane dal centro, possibilmente non “valorizzate” da piani urbanistici (quindi spesso in insediamenti abusivi o illegittimi), non servite da una rete di trasporti collettivi né da servizi pubblici, dotate di un brandello di verde privato in sostituzione dei parchi urbani: la miriade di abitazioni unifamiliari o plurifamiliari che alimentano lo sprawl e formano il sempre più esteso insediamento disperso. A questo modello, propagandato dalle immagini pubblicitarie della “casetta nel verde”, possono accedere quelli che hanno un reddito adeguato. Per gli altri (le giovani coppie, gli anziani soli, e le crescenti legioni di lavoratori precari indigeni o immigrati) l’unica alternativa è un alloggio molto distante dal luogo di lavoro, o una sistemazione di fortuna in un’edificio abbandonato.
Il diritto ai servizi collettivi è sempre più contraddetto e negato. La politica finanziaria sposta continuamente risorse dagli impieghi sociali al sostegno alle attività economiche, agli interventi suscettibili di favorire investimenti immobiliari e finanziari privati, agli investimenti in opere di prestigio ma di scarsa utilità sociale. Ai comuni è sottratta parte delle risorse direttamente trasferite dallo stato; in cambio, l’imposta sulle nuove costruzioni, che era stata istituita nel 1977 per finanziare l’acquisizione e l’utilizzazione di spazi pubblici, è stata “liberata” da questo vincolo e utilizzata per le crescenti esigenze dei comuni. Molte opere pubbliche rilevanti (come gli ospedali) vengono realizzati con un sistema di project financing all’italiana, che accolla allo stato i rischi d’impresa e consente ai finanziatori privati di lucrare aumentando il costo dei servizi accessori. La privatizzazione di servizi pubblici rilevanti per la vita dei cittadini sul territorio (come i trasporti ferroviari) conduce a privilegiare i servizi ad alto prezzo (componenti della “infrastruttura globale”) e a ridurre sistematicamente i servizi a breve e medio raggio e a prezzo più contenuto.
E le stesse opere d’interesse generale e sovra-locale (le ferrovie e i porti, gli ospedali e le dighe, e tutte le attrezzature a grande scala) non vengono definite, collocate, progettate, gestite finalizzandole agli interessi collettivi che devono soddisfare, non sono inquadrate perciò in una visione sistemica del territorio, non rispettano quindi della priorità della tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale de territorio, ma tengono conto di un solo requisito: la quantità di danaro che possono far circolare, gli affari che possono consentire, gli arricchimenti che possono produrre nei patrimoni dei soggetti che le promuovono o le realizzano.
Un filo di speranza
La possibilità di opporsi, e di uscire positivamente dalla crisi attuale, oggi è legata a un filo molto tenue. É costituito dalla presenza di una miriade di episodi che nascono spontaneamente dalla società e rivelano il trasformarsi diinsofferenze individuali in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta) che sono forse l’unico segnale positivo che possiamo scorgere.
Mi riferisco al variegato complesso dei movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Sono fragili, discontinui, limitati dal volontarismo che li caratterizza, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Ma nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.
Proviamo a elencare gli argomenti che sollecitano la formazione di comitati e gruppi di cittadinanza attiva, delle migliaia di luoghi dove si stanno sperimentando modi nuovi di “fare politica”, di occuparsi insieme del destino di tutti.
- Le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio, sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità.
- La condizione della salute dell’uomo, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche.
- Le condizioni della vita urbana, sempre più caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti
- Le difficoltà gravi per accedere ad alloggi a prezzi ragionevoli in luoghi dai quali sia facile e comodo accedere ai servizi e al lavoro.
- La precarietà della condizione lavorativa, della certezza di un reddito adeguato alle necessità della vita sociale.
- La mercificazione (con le tre tappe della privatizzazione, aziendalizzazione e commercializzazione) di beni pubblici essenziali, come l’acqua, la salute, la formazione.
- I diritti civili: della libertà e della cittadinanza per tutti, di un’equità vera nell’accesso di tutti ai beni dell’informazione, della partecipazione, della decisione, dell’eguaglianza di diritti tra persone minacciate dalla segregazione a causa del colore della pelle, della cultura e della religione, dell’etnia e della lingua, del genere e della condizione sociale.
Se guardiamo a queste rivendicazioni nel loro insieme vediamo che in esse si manifesta la spinta a trasformare i disagi individuali in un’azione comune. É un passaggio importante. Ricorda l’espressione raccontata da don Lorenzo Milani di cui vi ho parlato.
Un nuovo “diritto alla città”
É ormai ricca la letteratura che riprende questa espressione. Si sono occupati dell’argomento, sviluppando l’originaria analisi di Lefebvre, David Harvey, John Friedmann, Don Mitchell, Susann Parnell, Edgard Pieterse, e molti altri. Sono anche numerosi i tentativi di mettere in rete le mille esperienze che in tutto il mondo si stanno sviluppando, inquadrandole nel dibattito teorico. La letteratura e numerose eperienze sono raccolte in un libro in corso di pubblicazione a Bruxelles (The right to the city. The city as common good. Between social politics and urban planning, a cura di Ilaria Boniburini et al., «Cahier de La Cambre Bruxelles», La Lettre volée, 2012).
La luce che si vede, attraverso i rottami della crisi, è che sta emergendo la rivendicazione di un nuovo diritto alla citta, che comprende quelli delle rivendicazioni del secolo scorso, le integra e arricchisce con nuove rivendicazioni.
La nuova idea di città che sta emergendo è esprimibile in un’espressione semplice e semplicemente comprensibile, a un concetto al quale implicitamente rinviano tutte le vertenze che sopra ho elencato: occorre che la città, e anzi l’intero habitat dell’uomo, sia considerato un bene comune.
Ma su questo, magari riprenderemo il discorso in un’altra occasione.