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Chiara Ilaria; Durante Boniburini
voglia di equità
3 Settembre 2011
Tesi Ricerche Dissertazioni
Resoconto di un workshop sull’equità e alcune riflessioni sul tema. Pubblicato in: Bartolini, S. et alii (a cura di) Territori di Ricerca. Ricerche di Territorio. Atti dell’VIII Convegno Nazionale della Rete Interdottorato in Pianificazione Urbana e Territoriale del 20 ottobre 2009, Firenze, Alinea 2010.

La scelta del tema del workshop

Nel proporre come ipotesi di lavoro il tema dell’”equità”, piuttosto che partire da una definizione univoca del concetto abbiamo preferito affidarci ad un ventaglio di parole chiave, aventi tutte una funzione di richiamo ad alcune questioni cardine e di spunto per la discussione collettiva, nonché come guida per i dottorandi nella scelta del workshop nel quale inserirsi. Le parole che abbiamo proposto sono state le seguenti: bene comune, costruzione sociale, etica, egemonia, identità, ecologia, processi di pianificazione non istituzionali, diseguaglianza urbana, diritto alla città, empowerment, qualità, partecipazione.

Tuttavia, implicitamente, il nostro punto di partenza è stato il concetto di equità inteso, nell’ambito della pianificazione, come la possibilità per tutti gli abitanti di fruire dei beni che costituiscono la città e di partecipare al suo governo, indipendentemente dalle condizioni economiche e sociali e dal potere di ciascuno, ma in base alle differenti esigenze, includendo tutti i soggetti, ivi compresi i gruppi più marginalizzati. Assumere l’equità in questo senso significa attribuire alla pianificazione un obiettivo sociale ed enfatizzare il ruolo politico, prima ancora di quello tecnico.

Alla base del desiderio di affrontare un tema così complesso c’è la volontà di ricostruire dei percorsi di senso in cui l’equità diventi chiave di lettura per molte delle questioni irrisolte dell’attualità, esplicitando il ruolo di quelle disparità e ingiustizie sociali che tendono ad essere attenuate, se non negate, dal paradigma interpretativo dominante.

Le diseguaglianze di reddito, di distribuzione delle risorse e dei benefici, rafforzano gli esistenti spazi di esclusione e ne creano di nuovi, sia a livello globale che locale. Le diseguaglianze aumentano in termini di sfruttamento, marginalizzazione e segregazione su base economica, sociale e razziale, in termini di potere decisionale e di rappresentazione, così come emergono nuove vulnerabilità sociali sotto l’effetto dei problemi del mondo del lavoro, delle metamorfosi della condizione salariale, della riduzione delle garanzie sociali e più generalmente come risultato delle trasformazioni strutturali del sistema socio-economico attuale.

I mutamenti investono l’economia - ora globalizzata, liberalizzata, finanziarizzata - contrassegnata sempre più da uno stile speculativo e predatorio e soggetta a periodiche crisi; investono l’assetto politico-istituzionale, che nella prospettiva di uno stato più snello e più moderno che "regola ma non gestisce" vede la progressiva riduzione dell’intervento statale nella ridistribuzione delle risorse e dei benefici sociali e territoriali, il trasferimento di risorse e beni dal pubblico al privato e il supporto all’accumulazione privata attraverso politiche e interventi a rafforzamento dei diritti individuali (proprietà privata in primis) a discapito della tutela dell’interesse collettivo e di quello dei gruppi deboli.

Nel contesto della società capitalistica del welfare l’obiettivo della giustizia sociale era largamente condiviso tant’è che, a fianco dei diritti individuali di libertà e politici, si sono affermati i diritti sociali che esprimono la maturazione di nuove esigenze e nuovi valori, tra cui quello dell'uguaglianza non solo astratta, ma anche in termini di servizi e benessere. Anche in Italia negli anni Sessanta e Settanta una serie di parole d’ordine e di lotte (e poi di conquiste) miravano a questo obiettivo: “diritto alla città” (PCI, 1969), “casa come servizio sociale” (Indovina, 1972), accesso ai servizi e alle attrezzature collettive utili alla vita quotidiana individuale e sociale (Salzano, 1969, UDI, 1964) e non ultimo la partecipazione dei cittadini al governo della città (Della Pergola 1974) quindi giustizia sociale non solo come una questione di distribuzione di benessere, servizi, opportunità, ma anche in termini di democrazia partecipativa ed eliminazione delle strutture di dominazione e segregazione. Il richiamo all’ecologia è un riferimento sia alle riflessioni di Murray Bookchin (1989) che mirano a unificare le tematiche ambientali, femministe e comunitarie con quelle sociali e a stimolare un approccio antiautoritario, che di Wolfgang Sachs (2002) che si riferisce ad un concetto di giustizia intergenerazionale - proiettando sull’asse temporale il principio dell’equità nel rapporto tra le generazioni presenti e quelle future – oltre che intragenerazionale.

La parola egemonia vuole richiamare sia la questione del potere in generale, che stimolare una riflessione su alcune definizioni dominanti di equità, giustizia sociale, uguaglianza che tendono a circoscrivere la problematica attorno alla ridistribuzione o ancora peggio a identificare nel mercato l’agente supremo predisposto all’allocazione più “equa” delle risorse. In contrapposizione a questa interpretazione si può assumere l’uguaglianza come contrario di privilegio e non come omologazione e massificazione (Zagrebelsky 2007), dal momento che «trattare le persone con giustizia può implicare un trattamento tra loro difforme e, d’altro canto trattarle come se fossero tutte uguali non significa trattarle con giustizia» (Lummis 1998, p.416).

La “voglia di equità” sembra porsi controcorrente rispetto alle principali tendenze che hanno contrassegnato negli ultimi decenni l’urbanistica. Questa ha privilegiato l’obiettivo dell’efficacia della pianificazione rispetto a quello dell’equità (Martinelli 2002), sulla scia di una politica che ha cercato di raggiungere la “governabilità” riducendo lo spazio della democrazia. Infatti la ricerca di accordi con la proprietà immobiliare (che ha caratterizzato la pianificazione a partire dalla spinta esercitata dalle aziende proprietarie di complessi industriali che, per effetto della ristrutturazione dell’industria manifatturiera, divenivano obsoleti e suscettibili di diversa “valorizzazione economica”) è diventata un obiettivo delle politiche urbane che hanno individuato l’efficacia nello stipulare accordi remunerativi per i proprietari, rinunciando di conseguenza ad assegnare priorità alle esigenze dei cittadini in quanto tali e in particolare dei gruppi sociali più deboli.

La presentazione delle ricerche e delle domande dei partecipanti ha stimolato il dibattito della prima giornata e inserito nel ragionamento sull’equità nella pianificazione i primi elementi su cui confrontarci; possiamo ricondurli a tre filoni principali che si intersecano tra di loro: nel primo ci si interroga sull’equità nella costruzione delle scelte che riguardano il territorio attraverso processi partecipativi; nel secondo si indaga il ruolo del planner tra attenzione alle pratiche informali e responsabilità tecnica; nel terzo si affronta il tema della partecipazione e dei beni comuni da una prospettiva territoriale e ambientale.

Dopo il workshop, alcune riflessioni sul tema

I quesiti posti dalle dottorande hanno espresso delle preoccupazioni e degli interessi specifici e di tipo prettamente tecnico-operativo, difficili da affrontare approfonditamente in un contesto eterogeneo come quello creatosi nel workshop. L’apporto dei discussant è stato quello di collocare le domande all’interno del dibattito più generale, riconducendole a problematiche di ampio respiro. Questo ci ha portato a risalire ai concetti di base, alla pluralità e alla conflittualità degli approcci e delle definizioni, per cui la discussione è stata molto ampia, si è ramificata in molte direzioni, ma non si sono formulate delle risposte o delle ricette. Risulta perciò difficile restituire un senso generale e compiuto all’insieme degli spunti che sono emersi; ci proponiamo qui di esprimere una serie di considerazioni che raccolgono parte di quanto si è detto e lo interpretano alla luce delle nostre opinioni e conoscenze.

Abbiamo scelto tre chiavi di lettura per organizzare il nostro discorso: la prima riguarda l’equità rispetto all’oggetto, che abbiamo declinato in termini di beni comuni, la seconda riguarda l’equità rispetto ai soggetti, con riguardo al tema della differenza intesa come pluralità, l’ultima è centrata su alcuni degli strumenti disponibili per una pianificazione equa.

Equità rispetto all’oggetto: beni comuni

I termini “comune” e “individuale” non indicano due condizioni opposte e vicendevolmente escludenti, tra di esse ci dovrebbe essere piuttosto la ricerca di un equilibrio e di una reciproca utilità. Fa parte dell’individualismo pensare di poter vivere ciascuno senza dipendere dagli altri ma questa illusione, come sostenuto da Tocqueville, paradossalmente produce l’atomizzazione della società in individui uniformi, il che non implica (anzi esclude) una tendenza verso l’eguaglianza economica (Lummis 1998). Con l’intenzione di allargare il discorso sulla questione distributiva in una prospettiva di giustizia sociale più strutturale, alcuni degli interventi hanno fatto riferimento alla fruizione dei beni comuni e alla loro individuazione e gestione nella pratica del governo del territorio.

L’attribuzione di determinati beni localmente disponibili ai soggetti che utilizzano un determinato territorio può comportare la privazione di quei beni da parte di soggetti che li utilizzerebbero in un altro spazio o in un altro tempo . La visione di chi sceglie/decide deve perciò tener conto dell’altrove e del futuro. A questo proposito il ruolo della pianificazione territoriale può essere decisivo, e grande è la responsabilità dei pianificatori nel rendere evidenti ai decisori le conseguenze delle loro scelte.

Tra i beni comuni c’è certamente la possibilità di fruire delle attrezzature e dei servizi necessari alla vita sociale e alle esigenze individuali di approvvigionamento, salute, apprendimento, cultura, ricreazione ecc., la mobilità sul territorio, la partecipazione alle decisioni sull’organizzazione della città, il godimento di un ambiente sano e di un paesaggio di qualità.

Tuttavia, i beni comuni non sono definiti una volta per tutte; essi derivano dalle disponibilità, dai bisogni, dalla cultura, dai risultati dei conflitti.

La novità introdotta nella definizione del bene comune da parte dell’antropologa Mary Douglas (1994) consiste nel sottolineare come un bene pubblico non possa dipendere dal genere di beni scambiati ma dal tipo di comunità in cui avviene lo scambio e come uno stesso bene può essere sentito diversamente a secondo del gruppo che ne fa uso. Riccardo Petrella (2006) elenca una serie di criteri utili alla definizione di beni comuni, tra cui la responsabilità collettiva, in base alla quale un bene è comune in quanto implica un impegno collegiale al proprio mantenimento e la necessità della democrazia come condizione per l’esistenza dei beni stessi.

Perché un bene assuma il carattere di “comune” deve prima essere ritenuto necessario, di “senso comune” (in questo è rilevante la funzione dell’ideologia) e deve venir conquistato collettivamente. Il discorso sui beni comuni e sui diritti ad essi connessi non può che partire da una ridefinizione condivisa delle risorse collettive, che è apertura al progetto con una valenza fortemente politica: nelle questioni della produzione e riproduzione di risorse ambientali, paesaggistiche o di spazio pubblico emerge la partecipazione come chiave di accesso a questa prospettiva creativa che parte proprio “dall’autodefinizione dei bisogni e degli stili di risposta”(Giusti 1995, p.60).

A questo proposito Ignacy Sachs sottolinea l’opportunità di aprire e tenere viva una discussione generalizzata sugli stili di vita (Sachs 1988) e sul progetto di civiltà (Sachs 1978) - e quindi sulla stessa definizione di un orizzonte comune da parte di ogni società (Giusti 1995) - ponendola alla base di una pianificazione che sappia farsi «visionaria e pluridimensionale, […] organizzatrice del processo di apprendimento sociale» (Sachs 1988, p.39-40).

In questa chiave, bene comune è anche, per esempio, l’accessibilità ad un’abitazione adeguata ad un prezzo commisurato alla capacità di spesa, nel senso che è necessario un sistema equo di pianificazione che regoli i meccanismi del mercato della casa. Considerare il problema dell’abitazione in termini di diritto alla casa apre certamente la possibilità di una rivendicazione (individuale) di tale diritto, ma non necessariamente lo rende a tutti gli effetti attualizzabile e non implica una ristrutturazione del sistema socio-economico che regola il mercato della casa. Riconoscere l’accesso alla casa in termini di bene comune potrebbe portare ad un ribaltamento dell’approccio e creare le condizioni per cui questo bene sia fattivamente disponibile.

«Se per ricchezza intendiamo il surplus economico, comunità diverse tra loro possono operare differenti scelte circa la forma che deve assumere quel surplus. Il surplus, ad esempio, può prendere la forma di consumo privato o di lavori pubblici; può assumere la forma della riduzione dell’orario di lavoro per liberare più tempo da dedicare all’arte, all’apprendimento, ai festival o alle cerimonie. Queste non sono ineluttabilità economiche ma scelte politiche, se per politica intendiamo il fondamentale processo decisionale che riguarda la distribuzione di beni entro una comunità. Se la regola di una giusta distribuzione è “sia dato a ciascuno ciò che gli spetta”, occorre comprendere che nel mondo esistono comunità che si sono organizzate per dare il dovuto alla terra, al mare, alla foresta, ai pesci, agli uccelli e agli animali in genere. Le comunità che si sono organizzate in modo tale da dare alla terra ciò che le è dovuto, magari quelle considerate le più povere, hanno effettivamente mantenuto in questo modo un ampio “surplus” ed una ricchezza comunemente condivisa. Dall’unione tra l’idea antica di cosa pubblica e la concezione ora emergente (o riemergente) di ambiente può nascere una nuova, promettente idea di ciò che è reale “ricchezza”» (Lummies 1998, p.419-420).

Equità nelle differenze

Si è discusso sull’equità anche in riferimento ai soggetti. L’equità comprende l’aspirazione alla soddisfazione dei bisogni riconosciuti socialmente come tali, ma i soggetti hanno bisogni differenti che non sono conciliabili con una definizione astratta dell’eguaglianza (la torta divisa in fette uguali). La prima operazione da compiere (se l’equità ha un significato operativo, cioè è un criterio di scelta) è il riconoscimento concreto delle differenze in termini di bisogni, desideri, condizioni, sia che esse derivino da una diversità di carattere culturale, da vincoli e impedimenti di natura patrimoniale, sociale, economica, oppure ancora dalla presenza di ostacoli di tipo discriminatorio. Probabilmente non tutti possono essere rimossi, ma essi possono certamente essere mitigati; Infatti Francesco Indovina da una lettura complessiva della città stessa come un potente (potenziale) strumento di mitigazione. La città, con il suo mettere insieme stranieri, estranei e differenze può portare ad un nuova concezione di pubblico, in grado di postulare tolleranza e impegno civile e il riconoscimento “dell’impossibile assimilazione reciproca”, che diviene così sinonimo di civiltà e di rispetto della diversità degli altri in tutti i loro aspetti (Young 1990).

La partecipazione di ciascun soggetto al processo di decisione (al governo), principio che del resto è alla base della nozione di “diritto alla città”, è condizione necessaria per il riconoscimento delle differenze e per una visione plurale della città, tenendo conto che la partecipazione stessa non avviene su basi di uguaglianza intesa come assenza di disparità. Si apre a questo proposito la questione del potere, dell’egemonia, di chi la esercita, in nome di quali interessi. È evidente che l’attuale distribuzione dei poteri privilegia i pochi (i più dotati, i più ricchi…) rispetto agli altri. Questo pone il problema (l’obiettivo) politico di dar voce e forza ai più deboli; le stesse pratiche dell’empowerment non sono tuttavia prive di ambiguità. Il rischio di un uso strumentale della partecipazione è anch’esso emerso nel corso della discussione, sia nel senso di una falsificazione del consenso, che nasconde un piegarsi agli interessi degli attori forti, sia nel senso di una manipolazione di attori e culture locali.

«Nessuna forma di interazione o partecipazione sociale può caricarsi di significato ed essere liberatoria sino a che i singoli individui coinvolti non agiscano come esseri umani liberi ed equanimi; ed il fatto che tutte le società sino ad oggi hanno sviluppato credenze largamente condivise (religioni, ideologie, tradizioni, ecc.) le quali, a loro volta, condizionano ed aiutano ad originare persone interiormente non-libere e parziali. Il dilemma è di difficilissima soluzione in un momento in cui le antiche modalità di condizionamento socioculturale hanno assunto forme nuove ed inquietanti. L’economicizzazione della vita sotto tutti i suoi aspetti (culturali, politici e sociali) assoggetta chi vi partecipa, in tutto il mondo, a processi di manipolazione addizionale spesso non manifesti e di tipo strutturale, con il risultato di portare le persone a credere che i propri pregiudizi, i propri condizionamenti e la propria mancanza interiore di libertà rappresentino non solo espressioni della propria libertà, ma anche di una libertà ancora più grande e di là da venire» (Rahnema 1998, p.134).

Strumenti per la conquista dell’equità

L’equità non è un dato naturale della società, forse di nessuna società, di certo – come abbiamo già detto – non di quella attuale. Essa va conquistata, non verrà graziosamente concessa da chi esercita il potere e dispone della maggioranza delle risorse disponibili. È quindi essenziale il ruolo del momento pubblico e della politica, intesa non come un’attività specializzata riservata a pochi, ma come una dimensione essenziale dell’uomo e della società, di cui la partecipazione è parte integrante.

«Lo spazio civico - polis, città o quartiere - è la culla in cui l’uomo si civilizza (letteralmente!) al di là del processo di socializzazione in seno alla famiglia. “Civilizzare”, in questo senso, è sinonimo di politicizzare, di trasformare una massa in un corpo politico deliberante, razionale, etico. La realizzazione di questo concetto di civitas presuppone esseri umani che si aggreghino non come monadi isolate, che comunichino, direttamente con modalità espressive che vanno “oltre le parole”, che dibattono razionalmente in maniera diretta, faccia a faccia, e giungano pacificamente ad una comunicanza di opinioni tali da rendere possibili le decisioni e coerente con i principi democratici la loro applicazione. Formando e facendo funzionare tale assemblee, i cittadini formano anche se stessi, perché la politica non è nulla se non è educativa, se la sua apertura innovativa non promuove la formazione del carattere» (Bookchin 1993, p.32).

In questo momento storico la società civile trova espressione attraverso la problematizzazione degli stili di vita e la formazione di comitati che si oppongono anche radicalmente alle posizioni della politica dei partiti, che oggi più che mai non comprende la partecipazione come spazio del conflitto e della contestazione. La teorizzazione della partecipazione come possibilità di «ri-centrare il potere politico nella società civile» (Giusti 1995, p.11) deriva in parte proprio da questa crisi della politica, e in parte dalla parallela crisi della razionalità tecnica.

Quest’ultima è riconducibile alla scoperta della “complessità “ e dell’incertezza che connotano la condizione attuale; quindi crisi del sapere esperto, ma anche cambiamento del concetto di territorio, non più riducibile a spazio delle funzioni, ma luogo complesso, vivente, individuato dall’intreccio di dimensioni fisiche e sociali, dotato di specificità (Magnaghi 1990).

In questo quadro la conoscenza e il progetto non sono più delegate agli esperti, ma devono coinvolgere gli attori che sono radicati nelle famiglie, nelle istituzioni e nei movimenti sociali della società civile (Friedmann 1993).

La partecipazione quindi implicherebbe una rivoluzione nel linguaggio della pianificazione, un allargamento dello spazio della democrazia (ma anche della responsabilità), una maggiore efficacia del piano legata al suo avvicinamento rispetto alla molteplicità delle pratiche che si propone di governare (Giusti 1995).

A questo punto viene spontaneo chiedersi se la “produzione” di città e territori equi o processi trasformativi equi sia un obiettivo raggiungibile. Nel tentare di dare una risposta possiamo partire dal ragionamento di Giovanni Caudo che propone di trattare l’equità come un criterio per orientare l’azione, potremmo dire un principio guida che impronti le singole scelte a prescindere dal risultato finale . A sostegno di questa interpretazione viene citato il teorema dell’impossibilità della scelta collettiva di Kenneth Arrow, secondo il quale è impossibile decidere in maniera universalmente valida quale sia l’interesse collettivo; da qui la necessità di riformulare la domanda sull’equità: in base a quali parametri giudicare l’equità delle scelte?

La proposta emersa è quella di un ritorno alla concretezza dei casi e delle situazioni, raccogliendo l’invito di Albert Hirshmann a collocare la nostra ineludibile condanna all’incertezza in una prospettiva positiva e creativa opposta alla tesi dell’inutilità della pianificazione. Al contrario valutare la complessità del reale diventa uno strumento per «capire e correggere gli errori fatti, per attuare politiche flessibili che pur non pretendendo di predeterminare un preciso risultato, si incamminino però verso una strada, un sentiero di crescita, una possibilità di miglioramento. Tale cammino deve essere tale da lasciare comunque spazio alla variabile “incertezza sociale” pur tentando di indirizzarla verso i criteri o i valori ritenuti più auspicabili» (Poma 1994, p.26).

Un altro elemento su cui abbiamo riflettuto e dibattuto a lungo è il ruolo del planner. Spesso nel corso della discussione ci si è chiesti se nei processi partecipativi il planner non rinunci alla sua “responsabilità tecnica”, una preoccupazione a cui vorremmo però quantomeno affiancare la preoccupazione opposta di chi sostiene che l’intervento del professionista produca un effetto mutilante, si pensi alla demistificazione del ruolo dell’esperto in Ivan Illich (1978).

A questo proposito si può citare la pluralità delle figure ipotizzate per confrontarsi, sia pure con accenti e priorità diversi tra loro, con quello che è stato trattato come un dilemma (nonchè origine di vari paradossi): si pensi al pianificatore critico di Forester, evidenziatore di problemi in un contesto comunicativo, al pianificatore radicale di Friedmann, intento a facilitare l’espressione degli attori sociali e perennemente in bilico tra teoria e pratica radicale, al professionista riflessivo di Shon che costruisce conoscenza nel corso dell’azione in un contesto conflittuale, per cui questa consiste nella difesa del proprio punto di vista da quelli avversari, ma anche in un continuo sforzo di comprensione. Per una trattazione più completa del tema si rimanda al testo di Giusti (1995), nel quale egli stesso propone una propria sintesi critica, in cui si sottolinea la funzione del planner in quanto «costruttore di contesti, scenari, immagini complessive di città capaci di inquadrare in maniera verosimile l’azione locale, volti non a prescrivere comportamenti ma a orientarne l’azione»(Giusti 1995, p.242).

Stando agli autori sopra citati, si potrebbe affermare che più che rinunciare alle proprie responsabilità il planner persegua l’accesso ad una diversa responsabilità, collocata in un’ottica in cui è centrale la problematica del rapporto tra conoscenza e potere. Non esistono questioni esclusivamente tecniche o esclusivamente politiche, non si opera semplicemente in un regime di incertezza in cui sperare di scoprire “soluzioni”, ma piuttosto si fronteggiano “ambiguità strutturali” che richiedono l’espressione di giudizi di valore e la costruzione di “soluzioni” (Giusti 1995).

Questo implica anche un importante componente “creativa” del pianificare, intesa come capacità di immaginare connessioni nuove tra elementi esistenti, di giocare con il quotidiano per ricomporlo in una sintesi non statica, come capacità di applicare le “regole" esistenti in maniere nuove o a campi nuovi e di istituirne di diverse. Una componente che comporta quindi una continua ai cambiamenti della società, per soddisfare in maniera sempre più varia nuovi bisogni, esprimendo una costante ricerca di nuove forme di relazioni, nuove mutevoli modalità del vivere insieme.

Questa prospettiva trova degli interessanti echi nella rivendicazione di David Harvey al diritto alla città (Harvey 2008) come diritto di scegliere di diventare altro da sé, diritto ad una socialità creativa e plurale, il diritto degli abitanti di realizzare (e concepire) forme spaziali e sociali alternative: di fare e rifare le nostre città. Implica la messa in discussione delle strutture fisiche e istituzionali che il mercato ha prodotto e ci ha imposto; un nodo da rilevare è infatti la componente distruttiva della creatività: innovare implica necessariamente sottrarre spazio alla tradizione, e quindi, inevitabilmente, distruggere parte di ciò che è dato per certo.

Il seme della trasformazione dovrebbe emergere dalle contraddizioni dell’organizzazione presente, basarsi sulle possibilità esistenti ed essere capace di puntare verso differenti traiettorie di sviluppo, raccogliendo le manifestazioni di discontento, innovazione sociale e creatività espresse a livello locale, pur nel loro particolarismo e limitata visione globale e complessiva.

Della prospettiva di Harvey (1996, 2003, 2008) ci sono sembrati stimolanti e rilevanti per il discorso che si è svolto nei due giorni del workshop, due aspetti. Innanzitutto il voler porre attenzione alla qualità di tutti gli ambienti – l’ambiente costruito, sociale, politico-economico e naturale – che equivale a porre in relazione dialettica le trasformazioni della natura con i possibili modi di autorealizzazione di una particolare forma di natura umana. In secondo luogo la necessità di atteggiamento rivoluzionario (sia nel pensiero che nella politica) che riparte dall’esplorazione e dalla costruzione di processi sociali e forme spaziali alternative, sia di lungo termine che attraverso movimenti e azioni locali di breve periodo, senza aspettare il compimento di una rivoluzione politica che metta le nostre città nella condizione di consentire a nuove e migliori relazioni sociali e territoriali di fiorire.

Occorre una forte azione di traduzione, da parte dell’architetto insorgente (Harvey 2003): tradurre le aspirazioni politiche nella varietà e eterogeneità delle condizioni socio-ecologiche e politico-economiche, mettendo insieme e relazionando differenti costruzioni discorsive e rappresentative del mondo, confrontandosi continuamente con le condizioni e le tendenze attuali dello sviluppo geografico diseguale, tenendo conto di ciò che abbiamo in comune e registrando le differenze, difendendo i diritti (compreso quello di vivere in un ambiente sano, di controllare collettivamente i beni comuni, di cambiare, di produrre spazio…) riconoscendo che la loro formulazione deriva dalla concretezza della vita sociale e che rimarranno privi di significato se non accompagnati da un processo di individuazione e formazione collettiva, e dal necessario sostegno delle istituzioni.

Per i riferimenti bibliografici si veda il PDF allegato

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