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Fabrizio Bottini
L’uomo che inventò lo sprawl
14 Novembre 2011
Tesi Ricerche Dissertazioni
Certe volte sono proprio le cose che abbiamo davanti agli occhi a sfuggirci di più. La sintetica biografia di un urbanista del primo ‘900 che riuscì a intravedere qualcosa

Quando il giovane Earle S. Draper arriva nel Sud, dal suo punto di vista quella è davvero una straordinaria nuova frontiera. In Europa impazza ancora la prima guerra mondiale, si prepara a trionfare la cultura delle avanguardie artistiche e degli estremismi politici. Anche dall’altra parte dell’Atlantico, partecipazione alla guerra europea a parte, si prepara l’età del jazz, e cominciano a spuntare numerosi i primi grattacieli, al punto che New York per difendersi (e soprattutto difendere il valore degli immobili) si approva nel 1916 la prima ordinanza moderna di zoning. Nel vecchio Sud, dove ancora di solito si fa rigorosamente il baciamano alle signore, dove non si capisce e non si capirà davvero per generazioni che i neri non sono più schiavi, di tutto questo frastuono arrivano al massimo lontani echi.

Draper si è laureato da pochissimo in landscape architecture all’Università del Massachusetts, e la sua passione per quella che allora non si chiama ancora urbanistica lo ha spinto a cercare e trovare prestissimo un posto nello studio di John Nolen, massimo rappresentante della grande scuola americana di progettazione di quartieri suburbani integrati, che discende direttamente dal primo Frederick Law Olmsted. Proprio in questo periodo lo studio Nolen è impegnato nella realizzazione di un importante progetto a Charlotte, North Carolina, il quartiere suburbano di fascia alta di Myers Park, e il giovane architetto è incaricato di seguirne via via gli sviluppi attuativi, i perfezionamenti richiesti dal mercato ad esempio per l’organizzazione del verde, le sistemazioni stradali secondarie ecc.

È un grande momento di sviluppo economico per il Sud: se le metropoli si caratterizzeranno a cavallo di questi anni per l’età del jazz, o il mito dei solidi facili alla Al Capone, gli ex stati della guerra di secessione stanno vivendo una forse più radicale trasformazione, abbandonando il modello agricolo verso un’economia più industriale. Nel settore tessile, ad esempio, anche sulla spinta delle lotte dei lavoratori si sta abbandonando sia il vecchio modello del decentramento produttivo rurale che quello ottocentesco delle company town originarie, vere e proprie piccole dittature economiche fatte di segregazione sociale e dominio quasi assoluto dell’impresa su qualunque aspetto della vita quotidiana. Anche qui, come in parte già avvenuto in Europa, si ritiene che la realizzazione di borghi modello possa essere una risposta più semplice di quella del riconoscimento di maggiori diritti per i lavoratori.

Si apre in sostanza un ampio mercato per la progettazione urbanistica, specie per quella più attenta a certe qualità che vadano oltre la pura efficienza delle abitazioni, dei servizi tecnici, del rapporto funzionale casa-lavoro. Anche alla realizzazione del primo quartiere borghese modello suburbano di Myers Park (quelli che oggi la critica anche new urbanism definisce virtuosi suburbi tranviari) si potrebbero sommare moltissime nuove imprese del genere, come capisce rapidamente il giovane Draper. Propone allo studio Nolen di rafforzare presenza e disponibilità nella regione, ma gli rispondono picche: la ditta ha altri progetti di sviluppo. Lui però ha già deciso: è questa la sua nuova casa.

Interessato sin da studente all’urbanistica, Draper costruisce la sua cultura di progetto (e di approccio alla committenza) sostanzialmente su due filoni culturali. Il primo è quello della tradizione naturalistica all’americana che discende da Andrew Jackson Downing, e attraverso Olmsted sr. e Nolen consolida il modello del sobborgo a bassa densità otto-novecenteco. Il secondo è quello della città giardino europea, intesa non tanto nelle sue radici riformiste, quanto esclusivamente nel portato formale-funzionale divulgato dai lavori di Unwin e Parker. Per tutti gli anni ’20 lo studio di Draper sviluppa un proprio approccio innovativo al modello della company town “riformata”, che si allontana via via dallo schematismo originario di una specie di villaggio-monastero con al centro la fabbrica, circondata dalle celle-abitazioni (che è sostanzialmente anche quello del nostro decantato Crespi d’Adda).

Si tratta in sostanza, naturalmente al netto della centralità della funzione produttiva, e seguendo un modello suburbano a bassa densità, di una correzione del quartiere industriale verso la neghborhood unit, specie per quanto riguarda l’organizzazione del verde, degli spazi collettivi, di tutto ciò che conferisce identità e appartenenza. Come direbbe forse un progettista di oggi, sense of place. Il modello, specie partendo già dal contesto ex rurale, subisce quanto e più del quasi contemporaneo Radburn l’influenza crescente dell’automobilismo di massa, che proprio nelle zone di campagna e suburbio del Sud ha già nell’era pre-depressione un primo significativo sviluppo. Sviluppo pienamente accettato da Draper (e del resto anche dalla cultura della rooseveltiana Resettlement Administration). Basta guardare per un istante la planimetria dell’insediamento di Norris in Tennessee, firmato già da responsabile per il planning della Tennessee Valley Authority nel 1933, per notare quanto le distanze e l’induzione all’uso dell’auto non sembrino rappresentare affatto un problema, per Draper. Almeno in termini di principio, perché qualcosa è cambiato.

È cambiata forse, soprattutto, la cultura urbanistica, sulla spinta del medesimo riformismo rooseveltiano, così come di singole esperienze come quelle delle ricerche e polemiche sulla regione di New York, o il primo dibattito sul futuro dell’area metropolitana di Washington ecc. Negli anni ’30 si parla molto, moltissimo, di decentramento, addirittura di dispersione urbana. Gli sviluppi delle telecomunicazioni e dei trasporti, una nuova organizzazione del lavoro e della distribuzione commerciale, fanno sì che anche i sogni più sfrenati, come la Broadacre di Frank Lloyd Wright, trovino in qualche modo realizzazione concreta, almeno parziale. Gli studi della sociologia urbana afferenti all’innovativa Scuola di Chicago individuano già anche alla scala regionale, e non più solo cittadina, una nuova identità condivisa, una abitabilità allargata dello spazio, una disponibilità ad esperienze quotidiane in qualche modo più nomadi che stanziali. Tutto questo, Earle Draper lo accetta: non è sempre stato il sogno americano, la mobilità assoluta, la libertà individuale di rapporto col mondo esterno?

Ma proprio questa nuova consapevolezza, l’individuazione della dimensione regionale metropolitana, fanno emergere la necessità di coordinamento, di complementarità. Detto più terra terra: che senso ha muoversi liberamente da un luogo all’altro se tutti i luoghi finiscono per essere identici? Meglio ancora, se la ricchezza della nuova entità è data dalla convivenza di elementi urbani e rurali, compito della pianificazione sarà quello di valorizzare e sviluppare al massimo questa diversità, sottolineando gli aspetti specifici della città densa, del territorio agricolo, insomma di tutte le unità costitutive. E invece, pare non stia affatto andando così. La grande macchina organizzativa, istituzionale, conoscitiva della TVA, istituita proprio per monitorare e promuovere un tipo di integrazione del genere su un enorme territorio, vede l’emergere di qualcosa di vagamente inquietante: la diffusione, la dispersione non consapevolmente programmata, ma lasciata vuoi al caso, vuoi via via ai particolarismi del mercato, diventa qualcosa di nuovo.

Che Draper, ormai gentiluomo del Sud attento a non offendere orecchie sensibili, impiega un po’ a chiamare col suo nome, anche perché quel termine usato così ancora non l‘ha inventato nessuno, salvo le mamme quando sgridano i bambini perché non si sta “stravaccati” sul divano. La dispersione urbana si sta stravaccando sul territorio, è una tendenza facilmente rilevabile già negli anni ’30 ovunque lo sviluppo economico abbia messo a disposizione le risorse necessarie. E la dispersione urbana quelle risorse se le divora, a volte spostando diseconomie su altri territori, a volte obliterando gli stessi luoghi. La parola sprawl, però, che negli stessi anni ’30 si diffonde probabilmente anche in Europa (personalmente ne ho trovate tracce negli atti della britannica Commissione Scott sul paesaggio), sembra restare lì, sospesa nell’allarme lanciato da Draper agli urbanisti americani. E a giudicare da certa pubblicistica dalla coda di paglia, le cose anche oggi non sono cambiate tantissimo: lo “sviluppo” innanzitutto. Per rifletterci su, però forse è meglio ascoltarle tutte, le parole dell’Uomo che Inventò lo Sprawl.

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