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Angelo Guglielmi
Sui 50 anni della RAI
11 Dicembre 2005
Scritti 2004
”Anche il telespettatore compie cinquant'anni. Prima si sorprendeva, ora subisce”. Giovanni Visone intervista Angelo Guglielmi sui 50 anni della RAI. Da l’Unità del 1 gennaio 2004.

50° anniversario trasmissioni TV in Italia

Cinquant’anni fa nasceva la televisione. Prima di parlare di com’era la Rai di quei primi anni, proviamo a guardare dall’altra parte dello schermo. Lì vediamo comparire per la prima volta una nuova figura, il telespettatore. In seguito verrà studiato come un vero e proprio tipo umano, e declinato in vari modi, come teleabbonato, ad esempio, o teledipendente. Ma è così da subito? Secondo lei quando si afferma questa nuova figura e come si modifica nel tempo?

«Mi sono fatto una domanda: come mai in Italia non esistono i grandi giornali popolari che in altri paesi vengono diffusi in milioni di copie? Il motivo non è che gli italiani non leggono. Il motivo è che la televisione è intervenuta prima che potessero nascere questi giornali e quindi si è impossessata di questo lettore popolare, carpendo la sua attenzione. La televisione nel 1954 esplose, e in brevissimo tempo conquistò il proprio lettore, dapprima sorprendendolo, suggerendogli reazioni di stupore, e poi via via trasformandolo in un cliente fisso che non aveva più nemmeno la forza di rinunciare a quella che era divenuta ormai una abitudine inestirpabile».

Dunque il telespettatore nasce insieme alla televisione?

«Certo, la sua non è una nascita misteriosa. Naturalmente non nasce immediatamente come figura passiva, ma lo diventerà, quando non sarà più lui a scegliere ma si farà scegliere a priori, quando non avrà più bisogno di compiere uno sforzo di consapevolezza. In quel momento nasce il lettore passivo, come oggi, un lettore a cui puoi dare tutto quello che vuoi e le reazioni non sono mai tali da mettere in crisi la sua figura. Perché ormai è una figura costruita per sempre. Quando un lettore diventa permanente anche la varietà dei giudizi diventa un fatto automatico. Può maledire la televisione, ma questo non influisce nel suo atteggiamento di fondo. Le critiche di questo lettore immutabile non servono a correggere la televisione. La sua diffidenza non produce nulla».

Abbiamo creato il telespettatore, o lettore, eterno?

«Sì, ma accanto al lettore passivo ne può nascere un altro. Come quello che, non per vantare ciò che abbiamo fatto, era stato creato dalla nostra rete tre. Un nuovo lettore che è sparito insieme alla rete. Sono lettori aggiuntivi, che durano il tempo delle motivazioni che hanno provocato il loro interesse».

Torniamo all’interno dello schermo, andando un po’ avanti in questa ricostruzione per grandi temi. Anni ’60: un decennio di grandi cambiamenti, non solo per il ’68. Nella cultura italiana c’è un grande rinnovamento di linguaggi e approcci alla realtà. Tutto questo viene recepito dalla televisione?

«Affatto. Negli anni ’60 la televisione è pedagogica. E’ la televisione dalla DC e vuole sopperire alle deficienze della scuola, alla mancanza di quei mezzi che consentono alle persone di avere notizie base. L’analfabetismo era alto, la povertà del meridione era a livelli ottocenteschi. La televisione quindi seguiva un progetto pedagogico. Naturalmente fatto a immagine di chi la dirigeva. Ovvero la DC, con il suo schema di valori molto essenziali: piccolo perbenismo, piccola devozione, che doveva servire anche a costruire elettori che conservassero per cinquant’anni questo partito che ormai si identificava con un’Italia modesta, mediocre, senza prospettive che non fossero quelle di una vita più o meno composta, grigia».

Insomma: non ha recepito nulla.

«Ovviamente la televisione nasce come nuovo linguaggio, ma di cui non vengono sfruttate le potenzialità. Viene vissuto solo nella sua valenza strumentale, non nella sua valenza creativa, nella sua autonomia espressiva. E’ visto come uno strumento su cui far viaggiare una vecchia cultura».

Ma allora quando avviene un cambiamento? Forse nel decennio successivo?

«Negli anni ’70, con la fine della direzione Bernabè, quando cominciarono a uscire le prime sentenze della corte, cominciarono a comparire le prime televisioni locali, poi nacque anche la Fininvest: fu in quel periodo che la Rai iniziò a cambiare. La situazione non le consentiva più di vivere la sua mediocre compostezza, per quanto potesse avere un suo valore. Perché è vero che quella televisione contribuì a creare un linguaggio unico, come è vero che per la prima volta i disgraziati uniti dalla miseria del sud appresero che esisteva il romanzo, i Promessi Sposi o Delitto Castigo; ogni venerdì poi c’era il teatro… Ma fu alla fine degli anni ’70 che la televisione per la prima volta divenne televisione: cominciò a pensare a sé stessa e a essere utilizzata non soltanto come strumento di educazione di base ma anche per proporre trasmissioni innovative come Televacca di Benigni o L’altra domenica di Arbore. E poi finalmente si arrivò alla nostra Raitre, nell’87 che costruiva un’offerta sul presupposto che la televisione fosse non più uno strumento ma essa stessa un linguaggio, e quindi capace di produrre conoscenze aggiuntive, rispetto al cinema o al teatro o alla letteratura. In quel momento la televisione, colta nel suo potenziale più profondo, divenne il grande linguaggio della realtà».

Quale fu la grande novità? Che il contatto con la realtà non avveniva più solo attraverso le grandi inchieste giornalistiche?

«Esattamente. Una volta esistevano i documentari e le inchieste. Noi li abbiamo aboliti e abbiamo iniziato ad offrire in diretta la realtà. Il linguaggio del giornalista era un linguaggio manipolato. Noi invece mettevamo “in scena” la realtà, mostrandola, scoprendola allo spettatore, non interpretandola. L’occhio era libero di guardare quello che voleva. Fino a quel momento la televisione italiana era stata molto attenta a quello che capitava all’estero, mentre nascondeva la politica interna o la manipolava, la dolcificava. Noi allora ci siamo detti: facciamo quello che la televisione fino ad oggi non ha fatto. Non occupiamoci di politica estera, non facciamo più cinema o teatro: apriamo la televisione sulla realtà interna. E questa è stata la grande invenzione che ha contagiato tutte le reti televisive».

Quale fu l’influenza della televisione privata sulla Rai, fu inizialmente positiva?

«La televisione privata ha avuto inizialmente un effetto positivo, perché ha costretto la televisione pubblica a scuotersi, a liberarsi da un paternalismo soffocante. Le televisioni di Berlusconi nacquero come emittenti locali e poi divennero televisioni nazionali. Nell’87 sfidarono la Rai. E la Rai fu costretta ad accogliere la sfida. In quell’occasione nacque la nostra Raitre. E nella stessa occasione nacque il primo Celentano, che distrusse il varietà con la miscela dei generi. Lasciò sorpresi i critici che il giorno dopo dissero immediatamente che la televisione non si poteva mettere in mano a un dilettante. E invece quel dilettantismo fu compreso immediatamente dal grande pubblico. Fu una grande novità. Ruppe gli schemi, al di là dei suoi sermoni basati su un cattolicesimo di destra. E da allora il varietà non è più andato avanti».

Si è perso oggi il nuovo rapporto con la realtà inventato dalla sua Raitre?

«No, la televisione è ancora quella la televisione, ma in chiave degenerata. E’ ancora una televisione come racconto, come “il romanzo della realtà”, ma la realtà adesso è quella dei “cessi”. Questa è la differenza: noi fissavamo l’occhio della telecamera sulla realtà sociale, storica e politica; loro lo hanno piazzato sul “cesso”. E non c’è nessun motivo per raccontarlo».

Dunque dagli anni ’80 ad oggi nessuna novità?

«Una sì: la fiction nazionale. Quella non esisteva. Ma anche la fiction è un modo di dolcificare, addomesticare temi che apparentemente appartengono all’attualità. Certo, c’è stata La meglio gioventù. Ma il livello medio è molto basso. Questo perché non si capisce che la televisione è un grande linguaggio, che non è condannata ad essere quello che oggi c’è».

Ma come e quando potrà cambiare?

«Di sicuro non potrà cambiare fino a quando le televisioni non conosceranno l’autonomia. Perché la prima condizione della creatività è l’autonomia. Ma le televisioni non sono autonome: sono in mano o del potere politico o del potere economico. La Rai a questo punto è quanto di peggio, perché oggi il potere politico è peggio del potere economico. Questo ha determinato un personale molto basso, servo dei politici, che non è lì per fare televisione, non ha nessuna competenza particolare. La televisione di oggi è fatta da dilettanti».

In passato era diverso?

«Anche noi eravamo arrivati a Raitre per una nomina politica. Ma coloro che ci avevano nominato avevano capito che avrebbero ricavato maggiore vantaggio se avessero difeso la nostra autonomia. Pertanto avevano deciso di non disturbarla. Per convenienza, s’intende. Avevano capito che in termini d’immagine avrebbero guadagnato di più non disturbando la nostra autonomia che chiedendo di assumere quella persona, di far lavorare quell’attore loro amico. Fu Veltroni ad avere questa accortezza, fu furbissimo. Una furbizia che dimostra ancora oggi nella gestione del comune».

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