Sono d’accordo con Enrico Fierro, l’esercito non serve, è una parata inutile, uno spreco. Ha ragione Enrico Pugliese, servono maestri, non soldati. In molti sulla stampa, in questi giorni, si sono chiesti com’è stato possibile passare, in meno di dieci anni, dal rinascimento alla città che muore. Provo ad aggiungere qualche modesta riflessione. Che cosa fu il rinascimento di Napoli? Secondo me fu la speranza che demmo ai napoletani di diventare cittadini normali, abitanti di una città normale. “Sindaco, ci avete levato lo scorno dalla faccia”, dicevano in tanti quando inauguravamo scuole, parchi e biblioteche nei favolosi primi cento giorni e nei primi anni dell’amministrazione Bassolino. Simbolo del rinascimento fu la restituzione alla città di una splendente piazza del Plebiscito. “Napoli la deforme, Napoli l’incurabile, la disperata, il recinto ribollente, amarissimo del degrado. E adesso, di colpo, Napoli la rinata, Napoli la sfolgorante. La sue sterminate difficoltà sopravvivono, tutte. Ma da qualche settimana questo luogo di fastose meraviglie ritrovate sembra somigliare pochissimo alla patria dei De Lorenzo e dei Pomicino. Si intuiscono le emozioni di un riscatto non solo di superficie ma di coscienze”, così scrisse Donata Righetti su La Voce, allora diretta da Indro Montanelli, quando la piazza fu inaugurata.
Più ancora di piazza del Plebiscito, simbolo del rinascimento e della speranza fu il progetto Bagnoli. L’idea era di trasformare l’Italsider in occasione per risarcire la città degli spazi e delle qualità urbane negate da quarant’anni di uno sviluppo urbano criminale, fatto di cemento e di asfalto (le sostanze che nella coscienza nazionale definiscono l’identità di Napoli moderna). Ci volle coraggio (come ce n’era voluto per piazza del Plebiscito). Non fu facile far accettare la nostra impostazione da una cultura politica che vedeva lo sviluppo solo nella conferma di improbabili attività industriali. L’idea vinse a furor di popolo, per primi gli operai e il sindacato. Ma sono passati dieci anni dall’approvazione del progetto e della nuova Bagnoli non c’è traccia. Procede stentatamente un’operazione di bonifica che non finisce mai. La speranza è diventata uno scandalo. Da tempo ho il sospetto, forse un po’ più del sospetto, che, in effetti, il mondo politico napoletano aspetta la volta buona per rimettere tutto in discussione. Tre anni fa, la candidatura di Napoli a ospitare la Coppa America pareva fatta a posta per far saltare, impunemente o quasi, il progetto Bagnoli. Una caterva d’incompetenti, economisti, giornalisti, architetti in lista d’attesa, da allora continua a divulgare sconfortanti vacuità, a ripetere che 120 ettari di parco pubblico a Bagnoli sono un’esagerazione, che quello spazio deve essere dato subito a chi sa farlo fruttare, che il portafoglio viene prima del verde pubblico, che il comune di Napoli non può sprecare le poche risorse di cui dispone per contentare i capricci di qualche anima bella.
Perciò è morta la speranza.
Le ragioni di ciò che sta succedendo a Napoli sono complesse e sarei uno stolto se pensassi che basta rimettere mano con determinazione al progetto Bagnoli per trovare il bandolo della matassa. Bagnoli è solo un esempio. Ma serve per ricordare che a Napoli c’è stata una radicale mutazione del pensiero politico, che io non so spiegarmi. Capisco che gestire (peraltro male) l’esistente è più facile che costruire un difficile futuro e che ci si è illusi così di rischiare meno, ma mi pare una spiegazione troppo semplice. Certamente non è possibile tornare indietro e sono convinto che siano ormai indispensabili dolorosi cambiamenti, anche al vertice del potere locale, per restituire credibilmente ai napoletani la legittima aspirazione a vivere in una città normale. Senza di che non è possibile fuggire da Gomorra.