Non solo la Biennale Architettura, ma anche le ricorrenze sottolineano i problemi della città e del territorio. È da poco passato il quarantennale della frana di Agrigento, il disastro urbanistico che travolse una parte rilevante della città siciliana provocando riflessioni e tentativi di riforme, e le immagini offerte dai vari «paesaggi italiani» ci dicono che anche oggi - a fronte della crescita disciplinare e culturale che pure si è registrata a partire da quell'avvenimento - la situazione delle politiche e delle pratiche urbanistiche resta molto problematica, a indicare azioni inadeguate e, forse, nuovi rischi di evanescenza civile della disciplina.
Il ripetersi di calamità naturali come frane e alluvioni rivela un ambiente sempre più fragile di fronte ai cambiamenti climatici: un mondo «in cottura» - come lo ha definito Jeremy Leggett - che trova un territorio indebolito dalla rottura delle più elementari regole di organizzazione idrogeologica, oltre che delle strutture principali degli apparati paesistici. D'altra parte, il paesaggio soffre della ormai abnorme pervasività della «città diffusa». A distanza di qualche anno dall'analisi, ancora oggi utile, di Arturo Lanzani nel suo Paesaggi italiani (Meltemi 2002), che riusciva a cogliere prospettive nell'inviluppo tra «morfologie sociali, trame insediative e quadri ambientali», gli stessi contesti appaiono spesso rozzamente stravolti dalla inarrestabile crescita del costruito.
Macchie scure sulla pianura padana
Di questi fenomeni la disciplina urbanistica offre interpretazioni profonde quanto brillanti. È il caso, recentissimo, degli studi contenuti nel Rapporto «Itater 2020», L'armatura infrastrutturale e insediativa del territorio italiano del 2020, concluso da poco per il Ministero delle Infrastrutture da un gruppo della Società Italiana degli Urbanisti. I luoghi del «Belpaese», così come ci vengono restituiti dal rapporto, appaiono da nord a sud stravolti dalla diffusione insediativa. La «Grande Torino» si è sparsa oltre la collina, nella campagna piemontese. L'area metropolitana milanese si rivela - vista dal satellite - come un «macchione grigio» che si estende dalle Prealpi varesine, alla Brianza, alla Orobia, fino all'Oltrepo pavese, con una megaconurbazione che lascia solo qualche isola di verde, agricolo o forestale e lambisce sempre più le rive del Po. Più a est, oltre il Garda e Verona, la «marmellata insediativa veneta», basata su tre tipi di abuso, fiscale, sociale e ambientale, sconvolge il paesaggio storico ecorurale («nella campagna, interrotta da piccoli villaggi, per ogni campanile c'è una ciminiera»). È un prezzo che non basta a evitare l'incipiente crisi dell'economia del Nordest, dovuta all'esaurimento di spazi e risorse territoriali, ma anche alle spietate regole della globalizzazione (i distretti dovrebbero diventare «dislarghi» per affrontare le sfide della competizione con le tigri asiatiche e le bizzarie di un mercato sempre più oligopolistico, come sostiene fra gli altri Luciano Gallino).
Restano così gli ingombri territoriali del «modello Nec», ormai in crisi: la megacittà lineare della costiera adriatica che, alimentata da turismo e terziario, dal Veneto prosegue in Romagna, Marche e Abruzzo, fino al Gargano, sostanzialmente senza soluzioni di continuità. Nel basso adriatico, emergono ancora le urbanizzazioni allargate di Bari e del Brindisino. Dall'altra parte, Bologna che si allunga sulla via Emilia, e, superato ad «alta velocità» l'Appennino, la «media città toscana» (la piana Firenze-Prato-Pistoia che, attraverso l'Arno, tende a saldarsi con la urbanizzazione tirrenica che si estende ormai dalla Versilia a Livorno). Ancora, la nuova centralità della «grande Roma» da ricercare nella campagna romana. Verso Sud la «megalopoli campana» che va da Napoli a Caserta: un continuum insediativo che colpisce per la sua irrazionalità, quasi voluta (rifiuti prossimi e interni a campi coltivati, addirittura anche a servizi sanitari, talora a fungere da barriera tra aree residenziali e attrezzature di servizi).
Chiudono lo stivale gli ottocento chilometri di città costiera calabra, jonica e tirrenica, dove si affolla l'ottanta per cento di popolazione calabrese che svuota un interno ecologicamente tanto prezioso quanto fragile. Di fronte, la Sicilia dal paesaggio ambivalente, dove si alternano episodi dai valori paesistici altissimi a grandi ambiti di costruito, città ormai molto più grandi delle proprie armature ambientali ed economiche, degradate e congestionate. In Sardegna, infine, alle minacce di resa nei confronti della diffusione urbana costituita dalle conurbazioni cagliaritana e di Sassari-Alghero e ancora dalla città turistica della Costa Smeralda, sembrano voler rispondere le politiche di tutela del paesaggio e di sviluppo sostenibile del territorio proposte dal governo regionale di Renato Soru.
A queste analisi così precise, però, non sempre corrisponde un fertile rapporto tra disciplina e politiche urbanistiche, anche se proprio su scala regionale, e a livello normativo, si avverte probabilmente l'unico tentativo di un qualche rilievo di reazione rispetto al quadro descritto. Difficile però cercare soluzioni singolari, pure nell'ambito delle architetture sostenibili rappresentate alla Biennale. Ma se le istituzioni del settore soffrono spesso per inadeguatezza culturale e programmatica, è la disciplina urbanistica stessa oggi a mostrare grandi disagi, poiché la forte crescita di alcune aree di problemi ha ulteriormente complicato un quadro già confuso.
Innanzitutto la domanda sociale, già in dissolvenza, si è ulteriormente dispersa fin quasi a «liquefarsi». Nei confronti di quello scivolamento verso una «società di scarti», capace di esprimere «grumi di identità» solo attraverso «le nuove dimensioni del consumo», descritto da Zygmunt Bauman in Vita liquida, la disciplina ha manifestato una eccessiva rigidezza, che si è accompagnata alla «crescente difficoltà a implementare politiche pubbliche di gestione della città e del territorio», come ha scritto Luigi Mazza in Prove parziali di riforma (Franco Angeli, 2004). Un tema, questo, che tocca un nodo critico, forse «ideologicamente» enfatizzato negli ultimi anni dalla «ubriacatura di mercato» e dalle «magnifiche sorti e progressive» delle privatizzazioni che hanno segnato ampi strati della cultura progressista e di sinistra.
Abitanti stanziali e abitanti nomadi
Altri problemi sono derivati di recente dalla necessità di comporre dinamiche socioculturali sempre più complesse con le crescenti esigenze di tutela dell'ambiente e del paesaggio. Tutto ciò ha portato a escludere, di fatto, dalle scelte urbanistiche istituzionalizzate, gli «abitanti». In realtà questi problemi - magari in forme meno marcate rispetto agli anni recenti - si erano già avvertiti già dalla fine della fase «riformista» della politica urbanistica, all'inizio degli anni '80, e avevano contribuito a far considerare forse irrimediabilmente obsolete le diverse tipologie di piano che costituivano il dispiegamento del «progetto moderno».
In Trasformazioni e governo del territorio (Franco Angeli 2004) uno dei più raffinati interpreti delle vicende urbanistiche non solo italiane, Pier Carlo Palermo, preside della facoltà di Architettura e Società di Milano, individuava nell'esperienza di «progettazione urbanistica» (legata direttamente o indirettamente alle elaborazioni di Bernardo Secchi) e nelle versioni più recenti dell'urbanistica «razional-riformista» (ruotante attorno all'Inu, con Giuseppe Campos Venuti tra le figure di maggior rilievo) gli estremi tentativi di superamento dei modelli trascorsi e di riproposizione della «pianificazione e governo del territorio» come strumento risolutivo dell'organizzazione socio-spaziale delle città. Questi progetti prefigurano nuovi meccanismi di interazione con un quadro sociale assai più dinamico e complesso del passato (compresi gli «abitanti nomadi» di Deleuze e Guattari, quando esistono) e provano a disegnare gli apparati fondativi dello strumento per dispiegarne le ulteriori elaborazioni, tecniche e politiche, culturali e programmatiche.
Quello che viene in luce è una centralità del ruolo dell'istituzione territoriale ai diversi livelli, che spesso costituisce il momento più debole del meccanismo. Le crisi delle istanze politico-istituzionali finiscono infatti per riversarsi sul processo di piano, condizionandolo progressivamente. Lo scarto tra un programma fondato soprattutto sulla domanda di innovazione sociale e un quadro istituzionale ormai espressione di interessi tesi a trasformare o usare città e territorio secondo logiche appartenenti a mercati anche diversi (ma certamente estranee alle istanze degli abitanti) diventa un nodo critico pressoché insormontabile, capace di mettere in crisi anche i «progetti di territorio» basati sulla programmazione concertata.
Emergono dunque due piani di problemi, che già si erano profilati rispetto ai «vecchi» arnesi disciplinari, ma che ora esplodono clamorosamente a fronte dei tentativi di rinnovo. Non importa che questi si trovino nel solco della pianificazione «virtuosamente» aperta alla domanda sociale o nelle proposte di svolta drastica, di nuova azione dall'alto, interrelata alla capacità di offerta trasformativa (la «programmazione concertata»). In estrema sintesi, possiamo affermare che nelle ultime fasi siamo stati di fronte a un'azione sul territorio talmente incapace o nolente di tener conto dei suoi valori da produrre - nel negarli - problemi crescenti, problemi che dallo specifico delle sensibilità ambientali, paesaggistiche e socio-culturali, sono diventati fatti critici nel quotidiano di ciascuno.
La cesura tra istituzioni decisionali e partecipazione sociale costituisce peraltro oggetto di numerosi studi. Sono molti i temi a proposito dei quali il disagio urbano si è già «rivoltato» in proposta progettuale, fino a produrre addirittura forme di autogoverno, sia pur limitate ad aree tematiche spesso fortemente contestualizzate, che riguardano tuttavia diverse questioni. Valga per tutti l'esempio di Firenze, dove l'amministrazione - certo di salde tradizioni democratiche e riformiste - spinge i rappresentanti di associazioni e movimenti a programmare, insieme ai professori del Laboratorio per la Democrazia, agli urbanisti più avanzati, ambientalisti e sinistra radicale, una lista alternativa a quella dell'Unione. Di questa esperienza, del resto, aveva già parlato Giancarlo Paba nel suo Insurgent city. Racconti e geografia di un'altra Firenze (Mediaprint, 2002).
Alberto Magnaghi ha tentato di affrontare il nodo critico istituzioni/partecipazione fin dall'avvio del programma di ricerca «territorialista». La sua indagine sulle formazioni sociali dei «nuovi abitanti» muoveva dalla crisi, per certi versi irreversibile, del concetto di «comunità», almeno nelle formulazioni più consolidate tra sociologi e urbanisti. Il luogo, tuttavia, restava un concetto distintivo per riterritorializzare contesti troppo spesso degradati, dequalificati, disastrati nella negazione dei valori del patrimonio territoriale. In effetti il filone cresciuto attorno a quelle esperienze di pianificazione «ambientale», «territorialista» o «autosostenibile» si è molto ampliato. Una parte prevalente del campo disciplinare oggi assume il riferimento della «sostenibilità» - come si nota fra l'altro nel volume Complessità del territorio e progetti ambientali, a cura di Maurizio Imperio e Manlio Vendittelli, da poco uscito per Franco Angeli - anche se i più tendono a declinare troppo disinvoltamente tale termine, trascurando i criteri-guida del progetto «territorialista»: critiche al modello di sviluppo globalizzato, affermazione da parte dei nuovi abitanti dei valori tipici del contesto locale, interazioni tecnici-abitanti-istituzioni, azioni dal basso per la costruzione di «scenari di futuro», riterritorializzazione come recupero e riqualificazione del paesaggio e vincoli a ulteriori urbanizzazioni.
Dentro le articolazioni leggere
Il concetto di scenario, visione di futuro, disegnato dagli attori locali per tutelare e affermare il quadro di valori patrimoniali presenti, costituisce oggi un motivo distintivamente innovativo dell'elaborazione territorialista, così come emerge nella raccolta di saggi curata da Magnaghi La rappresentazione identitaria del territorio (Alinea, 2005): esso, infatti, nella sua possibilità di «articolazione leggera» può rispondere ad alcuni dei nodi critici ricordati sopra; è costruito dal basso e favorisce processi di self-governance, anche oltre la partecipazione; permette di interagire - in maniera positiva, dialettica o conflittuale - con il quadro istituzionale fino a determinarne la posizione; costituisce una griglia di valori «costruttivamente interpretati» tali da semplificare la valutazione strategica o più semplicemente di compatibilità delle istanze, pubbliche o private, che eventualmente «dall'alto» si proponessero per quel contesto; è costruito «comunicativamente» per allargare la partecipazione e l'interazione; costituisce una prospettiva dal basso, dal punto di vista dei valori di «quell'ambiente» per l'azione. La rete dei «Laboratori Territoriali», forum composti da studiosi, movimenti e abitanti, è molto cresciuta ed è diventata oggi una trama ampia, che si gioca soprattutto sul piano socio-politico e si distingue armai dall'ambito della ricerca scientifica, anche se mantiene con essa solide relazioni culturali.
La risposta «dal basso» all'incapacità politica di affrontare nodi e temi di un territorio sempre più complesso si è allargata: accanto agli studiosi, ai movimenti, ai soggetti locali che animavano i laboratori ci sono oggi molte istituzioni territoriali. La «Rete» è diventata «Nuovo Municipio», perché vede l'adesione di molte istituzioni che provano a costruire politiche urbanistiche, del paesaggio, dei servizi, dell'accoglienza, dell'educazione: sono insomma quei Percorsi condivisi che hanno dato il titolo a un recente volume di Giovanni Allegretti e Maria Elena Frascaroli, uscito per Alinea.
Qualche tempo fa sembrava che le condizioni per un «laboratorio territoriale», spesso primo passo verso il «Nuovo Municipio», fossero in qualche modo «eccezionali», dato che richiedevano convergenze rare tra attori sociali e quadro istituzionale. Oggi, degrado, invivibilità, deterritorializzazione, perdita di senso dei luoghi, allargano le occasioni di un cambiamento che si proietta verso visioni realmente diverse.