Le discussioni sulla grazia a Sofri, riaperte dall’articolo di Stefano Folli (20 luglio) hanno riacceso quelle su tante ferite non ancora rimarginate del nostro passato prossimo e hanno fatto risuonare una toccante, ampollosa e ambigua parola, riconciliazione. Come il direttore del Corriere e molti altri, credo che a Sofri possa e debba essere concessa la grazia, che non implica necessariamente la convinzione della sua innocenza e non esclude il dissenso o la disistima nei confronti di ciò che scriveva in quel sanguinoso ieri o di ciò che scrive nel melmoso oggi. Non è certo un maestro, né cattivo né buono, piuttosto uno scolaro con una supponenza da primo della classe, ma si è comportato esemplarmente nella sua pesante esistenza di detenuto e ha esemplarmente rifiutato la possibilità di essere illegalmente libero. Colpevole o innocente, ha scontato una dura pena e sarebbe giusto che gli venisse concessa la libertà, che non costituirebbe un pericolo per nessuno.
La famiglia Calabresi ha dimostrato nei suoi riguardi una magnanimità e una serenità che sono difficilissime in chi è stato straziato da una feroce violenza e attestano una rara umanità. In linea generale, tuttavia, la grazia - nei confronti di chiunque - dovrebbe prescindere dal perdono dei familiari della vittima, un arcaico residuo tribale della barbara confusione tra diritto e legami di sangue. La tragedia greca ha già rappresentato 2.500 anni fa la dolorosa, luminosa ascesa dello spirito umano dall’oscura legge del clan a quella universale dei cittadini e della ragione. La famiglia ama, soffre, gioisce - tutte cose umanamente più importanti del codice - ma non può emettere sentenze né influire sulle sentenze. Ci possono essere famiglie sensibili, affettuose, brutali, di sentimenti elevati o crudeli, distrutte dal dolore per la perdita di un loro caro o quasi indifferenti a tale lutto; non è dal loro stato d’animo che può dipendere un provvedimento di legge. La grazia non è il perdono, cosa altissima ma diversa; viene concessa dal capo dello Stato, della comunità di cittadini legati da un libero reciproco patto e non dalla parentela.
A parte la grazia, le sentenze vanno valutate prescindendo da simpatie o antipatie personali e ideologiche, diversamente da coloro che accettano il verdetto quando condanna Andreotti e lo contestano quando lo assolve o viceversa. È più che legittimo contestare una sentenza, ma - almeno finché si ritiene di vivere in uno Stato difettoso ma pur sempre di diritto e non in uno Stato totalitario e terroristico, contro il quale v’è solo la resistenza armata - la si può correggere solo per via giudiziaria, tramite altra sentenza. Così ha fatto ad esempio Andreotti, il quale ha impugnato le sentenze contro di lui, ma, a differenza di Berlusconi, non ha cercato di delegittimare i giudici e il sistema giudiziario, ben sapendo che ciò costituisce la premessa della negazione dello Stato e della guerra civile. Basta questa differenza di comportamento per dimostrare che Andreotti, qualsiasi giudizio si possa avere su di lui, è un uomo di Stato o almeno un vero politico, mentre Berlusconi non è, neanche in misura minima, né l’uno né l’altro.
La richiesta di grazia per Sofri è stata collegata a un’ipotesi di amnistia per detenuti condannati per delitti compiuti in nome del terrorismo politico - collegamento scorretto, perché la grazia è un provvedimento individuale. I terroristi - ritenendo di vivere in uno Stato illegittimo, anti-democratico e repressivo - hanno ovviamente contestato la legittimità dei giudici e delle loro sentenze. È ovvio che, dinanzi ai tribunali di Stalin o di Hitler, l’unica reale difesa del cittadino maciullato sarebbe stata la lotta armata.
È meno ovvio che l’Italia degli anni Settanta e di oggi fosse e sia, nonostante tutte le sue miserie e le sue tenebre, un Paese totalitario ignaro di diritti.
Invece secondo il professor Toni Negri, leader di Autonomia operaia e condannato per partecipazione a banda armata, vi sarebbe una voluta e pianificata continuità tra le persecuzioni inflitte dalla magistratura italiana ai terroristi negli anni di piombo e le persecuzioni inflitte ora da essa a Berlusconi, al quale Negri ha espresso pubblicamente solidarietà e che evidentemente egli considera «vittima della giustizia borghese» come i condannati per la lotta armata, lotta che ha visto cadere assassinati tanti galantuomini. È strano che un capo di governo non si senta offeso da tale accostamento e non senta il bisogno di respingerlo.
Le «vittime della giustizia borghese» attualmente in carcere per crimini di terrorismo vanno tutelate con fermezza nei loro diritti, come ogni cittadino, e vanno comprese nelle astratte e febbrili passioni che possono averle portate a commettere quegli atti, nei sentimenti talora soggettivamente generosi ancorché distorti e oggettivamente aberranti che li hanno mossi; in quegli smarrimenti, incertezze, confusioni, reazioni emotive, spocchie intellettuali, slanci utopici, esaltazioni pacchiane e sdegnati furori che, incrociandosi con le torbidezze di un’epoca e di una società, possono portare chiunque, e soprattutto un giovane, alle scelte e alle azioni più disperate e colpevoli, come Raskolnikov in Delitto e Castigo .
È augurabile che questa comprensione possa tradursi in provvedimenti giudiziari atti a restituire delle persone alla pienezza della vita civile senza pregiudizio di quest’ultima. Forse si può chiamare tutto ciò «riconciliazione», a patto di intendersi sul termine. Lo Stato e gli ex-terroristi non sono come la Francia e la Germania che, dopo essersi sbranate per secoli, si danno la mano - nello storico incontro fra de Gaulle e Adenauer - riconoscendo la parità dei torti reciproci (a parte il nazismo). Questa è, a tutti gli effetti, un’autentica riconciliazione - sulla quale, peraltro, si basa in buona parte concretamente l’Europa.
La premessa di un’eventuale amnistia per gli ex-terroristi è invece la tranquilla, definitiva e condivisa consapevolezza che lo Stato italiano - malgrado le sue carenze e le sue sacche anche criminose - non era la Germania di Hitler, che dunque il terrorismo non era una scelta solo sbagliata e politicamente insensata e perdente bensì oggettivamente criminosa e che erano nel giusto Pertini e Valiani e non il partito sotterraneo e trasversale, vivo ancor oggi e confluito in gran parte nella destra, di chi diceva «né con lo Stato né con le Brigate Rosse»; il partito di chi era pronto a trattare con i carcerieri di Moro senza turbarsi del fatto che questi ultimi fossero già gli assassini di cinque agenti, evidentemente considerati carne da cannone; il partito di chi, pur di opporsi a ogni tentativo di creare un’Italia più democratica e più libera, flirtava, da reazionario con le frange del terrorismo. Chiarito serenamente tutto questo, si può e si deve aver comprensione di tanti destini umani e restituirli alla vita, senza inchiodarli ai loro errori ma senza riconciliarsi con quegli errori.
Non è un caso che sia la destra a parlare, spesso equivocamente, di riconciliazione. Quest’ultima è tanto più necessaria quanto più brucianti sono, nella storia di un Paese, le ferite da rimarginare. Lo è stata, ad esempio, dopo il ’45, quando si trattava di sanare la lacerazione della guerra civile e di riunificare le due Italie che si erano contrapposte con le armi. Ma questa riunificazione (o riconciliazione) non significava e non significa una via di mezzo tra fascismo e antifascismo o, come mi è capitato di dire, Valiani più Farinacci fratto due. Essa si basa sul chiaro riconoscimento di quale è stata e continua ad essere la parte giusta e quale quella sbagliata, il che significa considerarsi eredi dell’antifascismo e dei suoi valori.
Certo, nel Dna di una nazione, come di un individuo, c’è tutto il passato; Auschwitz fa parte della storia tedesca e ogni tedesco deve saperlo, il che non vuol dire che egli si senta egualmente erede di Himmler e di Goethe, bensì che egli deve costruire la sua storia di oggi e di domani sul rifiuto di Auschwitz.
Il fascismo non è stato certo il nazismo o lo stalinismo, ma anche la nostra storia si basa sul consapevole e sereno rifiuto di esso. Su questa premessa condivisa è possibile e doveroso riconoscere i suoi aspetti positivi, comprendere e rispettare i motivi che hanno indotto molte persone d’animo generoso a credere in esso e dunque integrarlo - ma solo sulla base di questo giudizio - nella nostra memoria storica. L’unità della patria, che permette e presuppone quella riconciliazione, si fonda su una scelta di valori, non su un’ammucchiata. Il patriottismo della Francia è espresso dalla Marsigliese, il canto nato in un momento di estrema divisione e da una precisa scelta di parte, della Rivoluzione - e che per questo oggi può esprimere l’unità del Paese. Così è l’Italia della Resistenza, non quella della marcia su Roma o delle leggi razziali, che può parlare a nome di tutti gli italiani, anche dei caduti a El Alamein.