Qual è la formula per far rinascere una città industriale in declino? Primo: identificare un quartiere degradato. Secondo: spingere una comunità di artisti a trasferirsi lì. Terzo: far sì che giornali e televisioni ne parlino, in modo che la zona diventi rapidamente di moda. A quel punto i bar e i ristoranti si moltiplicheranno, i borghesi ricchi cominceranno a popolare le strade, i prezzi saliranno.
Richard Lloyd, sociologo alla Vanderbilt University di Nashville, in Tennessee, dice che questo modello sta diventando fondamentale per lo sviluppo di quella che definisce l''economia dell'estetica', cioè di un'economia post-moderna basata sempre più sulla cultura e sulla creatività. Per sostenere questa tesi, Lloyd ha scritto un libro -'Neo-Bohemia: art and commerce in the post-industrial city' - per descrivere il ruolo crescente che le culture artistiche giovanili giocano nel capitalismo post-moderno.
La 'Neo-Bohème' di cui parla Lloyd è assai diversa dalla Bohème della Parigi del 1840, quando Henri Murger coniò il termine per descrivere una cultura ribelle che faceva scandalo. Lloyd, che ha a lungo studiato l'evoluzione di Wicker Park, un quartiere di artisti di Chicago, applica le sue idee a tutte le città moderne che hanno visto rapidamente svanire le ciminiere e al loro posto nascere un'economia basata sui servizi avanzati. Secondo lui oggi i giovani artisti alternativi sono diventati i portatori d'acqua, e di idee, della nuova economia post-moderna.
Nel suo libro Lloyd, intellettuale trentenne che porta l'orecchino e mostra grande empatia nei confronti delle nuove culture ribelli, rielabora il concetto di 'classe creativa' inventato alcuni anni fa da Richard Florida, sottoponendolo a una dura critica. Lo abbiamo intervistato.
In che modo la Neo-Bohème di oggi è diversa dalla Bohème della Parigi di Baudelaire?
"I quartieri degli artisti di oggi sono molto simili a quelli del passato. Come allora, per esempio, si trasformano rapidamente in zone per ricchi. Ma oggi questi quartieri giocano un ruolo più importante nell'economia urbana. Sono laboratori di ricerca e sviluppo per la produzione dell'economia dell'entertainment, dei media, della pubblicità, dei lavori legati all'estetica".
Lei ha studiato soprattutto il caso di Chicago.
"Chicago è una città importante per capire i cambiamenti in corso. Fino a vent'anni fa era il prototipo della metropoli industriale: produceva acciaio ed era il centro del commercio del bestiame. Ma ha dovuto reinventarsi: oggi produce soprattutto cultura, finanza e tecnologia. E in questo contesto i quartieri della Neo-Bohème, come Wicker Park, giocano un ruolo nuovo".
Che caratteristiche hanno questi quartieri?
"Sono aree per loro stessa natura candidate a diventare punti di attrazione dell'estetica post-industriale. Hanno ampi locali che possono essere usati come loft dagli artisti, o come gallerie, night club, coffee shop. Questi quartieri sono in costante cambiamento. Una volta che un quartiere viene identificato come 'area artistica' il suo momento magico è già finito, i prezzi salgono, i nuovi artisti non possono più andarci a vivere e devono inventare un nuovo posto creativo".
Come è successo a Manhattan nel Greenwich Village e a Soho...
"Certo. Oggi gli artisti non possono più permettersi di vivere lì. Come non possono più vivere nel Quartiere Latino, a Parigi. Ma sopravvivono gallerie d'arte, spazi per le performance, bar e coffee shop. E queste 'istituzioni' offrono opportunità di lavoro agli artisti, che infatti lavorano come barman o come camerieri e questo costituisce una delle parti più importanti di questo processo. Il successo di Williamsburg a New York dipende dalla metropolitana veloce che trasporta gli artisti in pochi minuti nel Village, dall'altra parte dell'East River. Non si può capire la vita degli artisti contemporanei senza studiare l'industria dei bar, perché è qui che la maggior parte degli artisti lavora".
La Neo-Bohème è un fenomeno americano oppure mondiale?
"Non credo che sia solo americano, né solo occidentale. Mi sono chiesto se esista anche in città come Bombay. Ma penso di sì. La Neo-Bohème è un fenomeno legato alla transizione dall'economia industriale a un'economia sempre più basata sulla produzione di immagini e cultura. E questo è un fenomeno generale".
Un esempio europeo?
"Un paio d'anni fa, durante un soggiorno in Olanda, lessi un giornale che si chiedeva perché molti artisti oggi preferiscono Rotterdam, città dell'industria e del porto, ad Amsterdam, più affascinante e cosmopolita. È evidente che oggi i creativi convergono a Rotterdam proprio per certi tipi di spazi post-industriali - i capannoni dismessi per esempio - che fino a ieri sembravano anacronistici e che invece sono diventati il centro di nuove attività. Gli artisti sono attratti da questi spazi, li colonizzano e li fanno tornare alla vita".
Torniamo agli artisti-baristi: che cosa c'entrano con l'economia post-industriale?
"Esattamente come avveniva ai tempi della vecchia Bohème, gli artisti non producono solo opere d'arte, ma offrono anche se stessi come opera d'arte. Gli artisti sono vistosi, creativi, anticonformisti, hanno la capacità di creare tendenze. E nei bar, nei ristoranti, nelle gallerie d'arte, dove passano gran parte del loro tempo, riescono a creare l'ambiente giusto. Chi va a mangiare al Greenwich Village, o a Soho, o al Wicker Park di Chicago, va lì proprio per consumare questa atmosfera alternativa, e una delle esperienze che vuole vivere è avere un cameriere con i capelli rosa e il piercing al naso".
Così i giovani artisti diventano attrazioni per turisti?
"Non solo per turisti. Anche per molti cittadini di New York, o di Chicago, perché molti residenti, soprattutto i più istruiti, usano la loro città come fossero turisti. Certo non vanno a visitare la Statua della libertà o l'Empire State Building, ma vanno nei locali underground dove il clima è creato proprio dalle persone che ti servono un drink".
Questo ambiente di nuovi bohémien americani è sempre influenzato dalla cultura europea?
"Certamente. La nuova Bohemia mantiene fede alle sue origini europee, anche se ha caratteristiche meno intellettuali, rispettando una certa tradizione americana".
Lei sostiene che la Neo-Bohème è associata alla nostalgia, la noia, l'ansia. Ne parla come se fosse uno stato della mente.
"Baudelaire e gli Impressionisti sono stati così importanti perché il loro apparire ha coinciso con l'esplosione della metropoli moderna. Sono stati i primi a fare della metropoli il centro dei loro progetti estetici. La Bohème è sia un posto sia uno stato della mente. E queste due cose si rafforzano l'una con l'altra. Le persone che vivono queste esperienze credono nell'arte per amore dell'arte, riconoscono il primato dell'esperienza, hanno la volontà di fare grandi sacrifici personali per ottenere i risultati voluti. Chi abita in quei posti vive un'avventura collettiva che aumenta la creatività di tutti. Stare in quei posti produce uno stato della mente, un senso di sé. Un giorno una di queste persone mi disse: "Dal momento in cui mi sono trasferito a Wicker Park sono diventato un artista di Chicago". E la stessa cosa si può dire di certe zone di Manhattan e di altri posti che sono diventati dei marchi che identificano le persone che ci vivono".
Come possono i nuovi bohémien essere allo stesso tempo dei ribelli e un ingranaggio fondamentale nello sviluppo della new economy...
"Molti giovani artisti non si identificano con la logica capitalista. Rifiutano i lavori da impiegato nelle grandi aziende perché lo ritengono un insulto alla loro sensibilità di artisti. Vogliono vivere poveri e senza certezze, magari drogarsi e costruire la loro avventura senza legami. Ma si tratta di un'eredità del passato inadeguata al mondo di oggi. Questi giovani vanno alla ricerca della libertà personale e della creatività e poi si trovano incatenati a fare lavori in subappalto per aziende di Internet design, e lavorano 12 ore al giorno per produrre spot pubblicitari della Nike".
Richard Florida sostiene che oggi il successo delle città dipende dalla capacità di attrarre la 'classe creativa'. E i quartieri artistici, con la loro effervescenza e la loro tolleranza, sono un ingrediente fondamentale. Cosa la divide da Florida?
"Non sono altrettanto ottimista. Florida pensa che la classe creativa abbia ampia libertà e grande potere sociale. Credo che sbagli. Secondo me molti di questi artisti restano fregati in questo processo. E con loro, anche molti altri. Florida dice che la classe creativa costituisce il 30 per cento della popolazione. E l'altro 70 per cento? Chi paga il prezzo dei privilegi della classe creativa?".
Chi paga?
"Economia globale non significa solo spostare nel Terzo Mondo le attività produttive che avevano sede a Chicago. Significa anche che nelle fabbriche dismesse oggi lavorano grafici e artisti del web che offrono il loro talento ad aziende come la Nike che così trae beneficio da entrambi i lati: da una parte sfruttando il lavoro a basso costo dei lavoratori del Terzo mondo, e dall'altra quello dei creativi di casa nostra. Mi chiedo quali siano i costi sociali di questo fenomeno. Florida ritiene che la vecchia nozione della proprietà dei mezzi di produzione sia superata perché secondo lui la nuova classe dominante è la classe creativa. Ma io sono scettico sul reale potere sociale di questa classe. Ha grande utilità sociale, ma scarso potere sociale".
Lei oggi dice che le aziende del nuovo capitalismo tendono a incorporare le idee dei giovani artisti alternativi. Un po' come ieri l'industria musicale ha incorporato la musica dei neri...
"Credo di sì. Nel dopoguerra la società americana era diventata ricca ma rischiava di diventare sterile. Gli artisti beat furono i primi a ispirarsi alla cultura nera, in particolare al jazz, vedendolo come un'espressione culturale genuina. Nel 1950 Norman Mailer scrisse un articolo intitolato 'White Negro', negro bianco, per descrivere come gli intellettuali bianchi, per avere successo, dovevano ispirarsi alla cultura dei neri, che proprio perché appartenevano agli strati marginali della società erano liberi di esprimersi in modo istintivo. Oggi le aziende si ispirano ai giovani della nuova Bohème".