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Giancarlo Bosetti
Politica bloccata dai poli
6 Dicembre 2005
Scritti 2004
"La tesi è che forze politiche contrapposte, ma di pari potenza, rischiano di far più male che bene". Da la Repubblica del 20 luglio 2004

«Siamo intrappolati in una cattiva parità». Così Stanley Greenberg, il celebre consulente strategico di Bill Clinton e Al Gore (ma anche di Tony Blair e Gerhard Schroeder), ora con John Kerry, sintetizza le cose nel suo libro The Two Americas. E «cattiva parità» significa che entrambe le parti politiche possono a turno assaggiare il frutto della vittoria, ora l´elefante repubblicano, ora l´asino democratico: Carter-Reagan-Reagan-G.H.Bush-Clinton-Clinton-G.W.Bush. L´alternanza è generalmente un bene per le democrazie, ma questo genere di parità così stretta (come nell´indimenticabile e a momenti ridicolo novembre-dicembre americano del 2000) produce dei veleni: battaglie aspre che lasciano il paese ogni volta più diviso, cittadini costretti a una scelta di campo, di qua o di là del fossato.

Perché questa «cattiva parità» fa male alla politica? Greenberg tira fuori, per rispondere a questa domanda, un principio di teoria. E si capisce perché quando il think-tank italiano «Glocus», guidato da Linda Lanzillotta, ha portato l´autore davanti a un uditorio di politici di casa nostra tutti hanno drizzato le orecchie al momento della spiegazione, anche se si tratta propriamente delle due Americhe e non delle due Italie. Le elezioni del 2000, ecco il punto, non sono un incidente casuale e questo incidente non dipende soltanto dal sistema elettorale. Si tratta di una impasse, di un deadlock, del blocco di un´America la cui divisione si è cronicizzata. E questo processo suona indubbiamente familiare anche dalle nostre parti.

Il fenomeno si manifesta perché nessun partito-polo riesce ad affermare la propria egemonia sopra la società e a sopravanzare l´altro. L´ultima volta che si è visto qualcosa del genere è accaduto con il rooseveltismo, ma dalla metà del secolo, nonostante le alterne fortune, si è camminato in direzione della parity. Né il kennedismo né il reaganismo, nonostante la loro epopea mediatica, hanno prodotto qualcosa di simile all´egemonia repubblicana dell´inizio dell´Ottocento o a quella democratica del New Deal. E la parity secondo Greenberg radicalizza il conflitto perché lo spinge sul terreno della cultura: stili di vita molto più che punti di programma, valori più che progetti. Si sceglie il partito in relazione ai giudizi su aborto, omosessualità, accesso alle armi, diritti delle donne, immigrazione e multiculturalismo più che nel confronto tra programmi economici o di politica estera.

Il fatto è che per vincere, il primo comandamento di una strategia elettorale, in queste condizioni di parità, è che devi mobilitare il tuo elettorato e devi in ogni modo evitare di mettere a repentaglio la tenuta dei sostenitori fedeli. Il tentativo di conquistare gli incerti o i voti degli altri viene secondo.

La forza dello stratega Greenberg non sta solo nell´astuzia dei consigli sussurrati all´orecchio del Principe, quanto nella preparazione del terreno della battaglia: lo studio della società americana e del modo in cui l´opinione si forma segmento per segmento.

Ne vengono fuori zone azzurre e zone rosse, a netta prevalenza liberal o a netta prevalenza conservatrice. Il vantaggio dei democratici sui repubblicani è abissale tra gli african-americani (86 contro 8 per cento) e molto largo tra gli ispanici (55 a 37), le donne super-istruite (con titoli di studio post-laurea, 58 a 36), i militanti delle cause laiche (aborto, niente armi, ambientalismo, 63 a 30).

Il mondo dei partisans pro-repubblicani è radicato invece tra i cristiani militanti (72 a 23) nel «profondo Sud» (i bianchi degli Stati del Sud, 59 a 35), i bianchi senza titolo di studio (63 a 30), i «privilegiati» (maschi sposati con laurea, 61 a 32). Ci sono poi le zone grigie dove la partita è aperta: cattolici devoti, uomini con istruzione post laurea, donne anziane senza titolo di studio, donne con redditi famigliari sotto i 30.000 dollari.

Il dramma della scelta strategica sul cammino di ogni politico si presenta sempre come un bivio ad alto rischio. Da una parte sta la prospettiva di conquista nelle aree incerte, dall´altra quella di assicurarsi le proprie truppe: «Prima di tutto non devi minacciare l´entusiasmo dei loyalists», i tuoi elettori fedeli, insiste Greenberg. (Guai dunque ai democratici che dimenticassero l´importanza del voto tra i neri o tra i cittadini di provata fede laica!). Rende di più, nei fatti, lo sforzo per aumentare la convinzione di voto (e l´affluenza alle urne) dei tuoi, che non qualunque stratagemma per spostare dalla tua parte gli incerti.

Ma c´è anche la ambizione cui un politico non può ovviamente neppure rinunciare, quella di combattere nelle zone competitive, dove la battaglia è aperta. L´idea, molto spesso evocata dai politici «realisti», che le campagne elettorali in regime di parità si decidono con la conquista di una manciata di voti incerti, «al centro», ha un fondamento ma va presa con cautela e deve misurarsi con il «realismo» di Greenberg secondo il quale devi portare al voto i tuoi. Ma devi stare attento che la polarizzazione non soffochi la tua narrative, come è accaduto ultimamente ai Democratici.

La parola «narrative» ci conduce al punto decisivo del programma elettorale. E qui non basta più la somma di eventuali promesse alle varie categorie. Qualche volta il politico riformista, moderato, di governo, di centro-sinistra o di centro-destra, tende a pensare il programma come qualche cosa di obbligato, spigoloso e talora indigesto, che deve essere offerto al pubblico con una aggraziata presentazione ad opera di consulenti. Tuttavia lo spin-doctoring di un programma indigesto non basta a renderlo vincente. Il buon racconto in un certo senso è il programma stesso, non solo la sua cosmesi. E il suo contenuto non si può allontanare da quel che una effettiva politica di governo potrà poi essere.

Il famoso «contratto con gli Italiani», per fare un esempio di casa, aveva forza narrativa ed era capace di mobilitare le truppe partisan, dunque funzionava. Era anche irrealistico, fatto che poi è diventato un problema. Ma questo è un altro discorso e riguarda il governare non il votare, il che avrà magari il suo peso sull´elettorato più riflessivo.

Il modello di tutte le «narrative» era la grande eloquenza di John Kennedy, volta al futuro. Non fu da meno il Clinton del ´92 (che aveva accanto Greenberg) con il suo progetto democratico riformista. Correzioni di timone sono necessarie per vincere, ma il leader non deve mai perdere contatto con l´ispirazione di fondo della sua parte. Le politiche dell´immigrazione non possono eccedere in lassismo, ma i Democratici non devono neppure abbandonare il valore della «diversità» che rende la loro visione fortemente alternativa a quella dei Repubblicani.

I voti di area repubblicana che Kerry guadagnerebbe con una politica più simile a quella dell´elefante sono meno di quelli che perderebbe tra i democratici, regalandoli magari al guastafeste «narcisista» Ralph Nader.

Ci sono molti mezzi che possono aiutare a vincere le elezioni, alcuni dei quali Greenberg illustra anche se li colloca tra le idee «che gli vengono e non gli piacciono». Uno di questi è la strategia definita in tedesco «ber dem» o «del 100 per cento»: se in una zona sociale hai una netta prevalenza puoi spingere, radicalizzare e sfondare le linee fino a fare il pieno. I Democratici potrebbero farlo per esempio tra le donne super-istruite o tra i militanti laici (quelli che adorano Michael Moore) calcando la mano sui temi dell´aborto o dell´ambiente (come i Repubblicani possono fare spingendo su una linea dura anti-immigrazione). A farlo bene si vince, confessa lo stratega. I problemi verranno dopo. Anche questo è Greenberg-pensiero, pensiero tattico: «strategia numero 4».

Ma il programma ideale rimane quello modellato sul progetto Apollo. E il New Apollo Project, che forse andrà in scena con John Kerry, è quanto segue: sforzo dirompente, paragonabile a quello che finì sulla Luna, per affrontare il riscaldamento globale; riduzione delle emissioni di biossido di un terzo in 25 anni; investimenti nella gasificazione del carbone; crediti di imposta per sviluppare energie rinnovabili e auto a idrogeno; mettere gli Stati Uniti alla guida del mondo in questo virtuoso rinnovamento tecnologico.

Lo stratega non rinuncia all´idea che all´America farebbe bene un ciclo egemonico su queste basi, anziché il contrasto sul filo del rasoio, fino al conteggio dell´ultimo voto. Un ciclo Democratico, naturalmente.

I riconoscimenti alla bravura di Greenberg arrivano da ogni parte del mondo, da Israele come dal Sud Africa (da Barak a Mandela), dai boss accademici di Yale e Harvard (come Robert Dahl, Theda Skocpol, Joseph La Palombara), ma il più spiritoso lo ha pronunciato un falco neocon e leo-straussiano come Willliam Kristol, il direttore della rivista «The Weekly Standard»: «Memo per il candidato democratico 2004: non leggere questo libro perché tira fuori la miglior strategia mai vista per battere Bush, il che sarebbe male per l´America. Dunque, please, please, ignora Greenberg».

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