E’ diffusa l’impressione che il ridimensionamento del progetto del parco del Gennargentu, come previsto dalla legge 394/1991, corrisponda alla rinuncia a farlo davvero (nonostante le assicurazioni che qualcosa di diverso e di meglio è in programma). E’ andata così, dopo decenni di dibattito, guarda caso in una delle migliori stagioni della politica per quanto riguarda la difesa del territorio dell’isola.
C’è chi ha fatto festa. E c’è chi ritiene che le popolazioni di quei luoghi splendidi che sbagliando, contro l’ interesse dei propri figli, hanno rifiutato di aderire a quel progetto, abbiano una linea simile a quella delle comunità che chiamano i “loro” progetti in riva al mare con i nomi degli imprenditori edili, che chiedono libertà di azione per soddisfare rendite senza contropartite.
In ambedue i casi si tratta di posizioni di retroguardia –punti di vista introversi – sia che attribuiscano un valore di scambio alle risorse, sia che si richiamino ai valori d’uso millenari per impedire una scelta da cui verrebbero, come in altri casi, benefici importanti. Le iniziative che puntano a cominciare da capo immaginando una soluzione extra legge 394, hanno rinunciato ad estrarre dall’avversione per il parco una spiegazione, che sarebbe utile– lì e altrove – per fare qualche passo almeno per combattere pregiudizi e mistificazioni. Per ricominciare è indispensabile chiarire cosa c’è prima del punto: non si faranno passi se le ragioni di chi si oppone al progetto resteranno nella nebulosa delle cose mezzo dette, declinando la tiritera del parco “calato dall’alto”, (frutto di una volontà del parlamento e di un’intesa Stato- Regione in almeno tre passaggi istituzionali).
Il dissenso è sembrato spesso una messinscena ideologica. Un riconoscimento privilegiato è stato fatto passare per un castigo, con la parola d’ordine delle autonomie locali sopraffatte e l’evocazione ricorrente e caricaturale dell’uomo-pastore scacciato dai suoi territori, dei diritti espropriati, delle pratiche tradizionali impedite,ecc.
Non è così. C’è nella letteratura sui parchi europei ( e nell’esperienza solida in tanti luoghi) e in tutte le disposizioni di legge, compresa quella italiana, un orientamento che mira a esaltare le attività che si svolgono nei territori protetti, specie quelle pastorali che invece si estinguono lentamente da quelle parti. Sono solo impedite le aberrazioni, gli eccessi che pure negli usi atavici si ravvisano – tanto più con la sensibilità di oggi verso la natura in pericolo – e che una cinquantina di anni fa sembravano ammissibili a fronte di risorse ambientali giudicate inesauribili. Qualcosa nel frattempo è successo: la più evoluta nozione di bene ambientale induce a smettere di considerare comunque buone le attività che nelle campagne si svolgono da secoli, perché non contaminate dalla modernità (che non sempre è un male) o dalla scienza (che aiuta di sicuro), con l’argomento che la vita e le pratiche agropastorali non ammettono troppi cambiamenti perché “così si fa da sempre”. E, d’altra parte, l’isola dove “passavamo sulla terra leggeri”, come nel racconto di Sergio Atzeni, qualche grave manomissione l’ha subita nei secoli, nonostante la bassa densità insediativa. Basta guardare gli incendi che non sono stati e non sono cicliche naturali calamità.
La caccia. Ormai regolamentata dappertutto era ancora negli anni Cinquanta sostanzialmente libera in Sardegna. La sua progressiva limitazione tiene conto di un’accresciuta differente sensibilità e pure delle nette diffuse contrarietà che suscita.
Ma diversamente da quanto si è detto per affossare il parco nemico, neppure nelle aree protette la caccia è del tutto impedita. Sono ammessi prelievi di selvaggina (sotto la sorveglianza dell'Ente, precisa l’art. 11 della legge) che gli strumenti di gestione possono disciplinare a vantaggio dei residenti. Ecco perché la rivolta contro il parco, guidata con clamore da compagnie di cacciatori – soggetti non trascurabili ma parzialmente rappresentativi della società – appare inspiegata.
E a fronte di un dissenso confuso non si è mai saputo nulla del consenso: perché qualcuno che avrà intravisto i benefici del parco ci sarà da quelle parti, magari impossibilitato, diciamo così, a fare sentire la sua voce. Niente ha contato – a proposito di cooperazione nei processi decisionali – l’opinione dei sardi che non stanno sotto il Supramonte. Si è deciso, in pochi, che quel parco non si può fare. Ma non si è chiarito perché ciò che non si può tra Barbagia e Ogliastra è stato fatto senza traumi, anzi con successo, in realtà con caratteri socio-economici simili del sud del Paese, dove gli usi del territorio sono molto radicati.
E’ vero, bisognava spiegare meglio. Ma il confronto nel merito, che avrebbe fatto capire bene le cose, non c’è stato.
Perché solo con la nomina degli organi di gestione si può pervenire alla redazione degli strumenti per il governo del parco ( piano e regolamento) che non si possono, per legge, approvare senza o contro la comunità. Ma a questo punto non si è arrivati – lasciando crescere l’insofferenza per i vincoli provvisori – proprio per la contrarietà alla composizione del consiglio direttivo che non si può fare tutto in casa. Perché la presenza di istranzos nell’organo di gestione è il necessario contrappeso di punti di vista esterni, soprattutto di uomini di scienza, che serve a garantire che le finalità di tutela, finanziate con denaro pubblico, siano rispettate. Non basta autocertificare che tutto va bene se si vogliono attrarre investimenti e visitatori da ogni parte del mondo.
Perché l’idea di parco sottintende una convinta relazione tra locale e globale, tra antichi saperi e nuove economie, tra la difesa della propria identità e le indispensabili proiezioni transnazionali. Questo vale tanto più per una comunità che non può permettersi di restare immobile confondendo l’orgoglio di appartenere a quelle montagne con le piccolissime convenienze di parte a tenere tutto fermo.
E’ il confronto, l’apertura senza pregiudizi, che può determinare il cortocircuito in grado di aprire un nuovo processo: altri sguardi aiutano a vedere, a vedersi meglio ( penso, ad esempio, al beneficio venuto alla Sardegna da esploratori- scienziati come La Marmora che illustrò caratteri di luoghi e costumi dell’isola nel continente sollecitando i sardi a guardare con più attenzione la propria terra).
Si va, sembra di capire, verso un parco più domestico, governato senza intromissioni, e più piccolo ( con chi ci sta) e, immagino,con pochi vincoli. Un proposito che sembra ridursi all’aspetto nominalistico. L’adozione di un marchio- reclame ( che funziona solo a corollario di un progetto più ampio) faticherà per affermarsi, se si guarda al tempo lungo impiegato per promuovere denominazioni di origine illustri (come il Chianti) che alludono all’intreccio di paesaggi e produzioni agricole. E il tempo conta molto. Nessuno impedisce di andare in questa direzione. Ma si tratta proprio un’altra cosa, di una rinuncia che alla resa dei conti apparirà evidente, una piccolissima cosa contro il declino di questi luoghi di cui occorre parlare senza reticenze.