“E’ finita l’’età dell’oro’. E’ finita la fiaba del progresso continuo e gratuito. La fiaba della globalizzazione, la ‘cornucopia’ del XXI secolo. Una fiaba che pure ci era stata così ben raccontata. Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro.” Crisi finanziaria, depressione, carovita sono solo l’inizio. Il più tremendo bilancio della globalizzazione, e del mercato (anzi del “mercatismo”) suo strumento principe, è la “catastrofe ambientale, capace di erodere alla base le ragioni stesse della nostra sopravvivenza sulla terra”. E “se il funzionamento del meccanismo non verrà rallentato” c’è da attendersi il peggio . Perché “mercatismo e ambientalismo sono termini tra loro incompatibili”. “Non ci può essere ambientalismo con sviluppo forsennato”. Dunque: basta con “il mito dell’economia che è tutto, che sa tutto, che fa tutto”, “dominatrice assoluta della nostra esistenza”. Basta con “gli economisti, sacerdoti e falsi profeti del nuovo credo”. “Perché abbiamo firmato una cambiale mefistofelica con il dio mercato?”
Non sto citando me stessa, né altri ambientalisti. Incredibilmente, quanto sopra riportato reca la firma di Giulio Tremonti, ed è tratto dalla prima parte del suo La paura e la speranza” (Mondadori) da poco in libreria. Con una competenza in materia assai rara tra i politici, l’autore dedica intere pagine all’inarrestabile aumento delle emissioni di gas climalteranti e con scientifica puntualità lo rapporta all’aumento della temperatura terrestre. Correttamente considera anche le posizioni che attribuiscono il fenomeno a cause diverse dalla sovrapproduzione, ma conclude che questa “non è certo una ragione sufficiente per aggiungere catastroficamente al calore solare anche il calore industriale”. Con un coraggio raro anche tra ambientalisti doc afferma che nemmeno la green economy può ritenersi una soluzione, e senza esitare asserisce: “E’ necessario fermare il mercatismo, l’ideologia forsennata dello sviluppo forzato, spinto dalla sola e assoluta forza del mercato”.
Ma lei, onorevole Tremonti, dov’è stato finora? Lei, docente di economia, ministro delle Finanze (1994), ministro dell’ Economia e delle Finanze (2001-2004), vicepresidente del Consiglio (2005-2006), ha mai fatto o proposto qualcosa di appena conseguente con quanto asserisce ora? Non è stato anche lei a raccontarci la favola bella del capitalismo, destinato prima o dopo ad arricchire tutti? e del mercato (che solo oggi tra disprezzo e sgomento chiama “mercatismo”) capace, purché libero dai maléfici “lacci e lacciuoli” di uno stato ficcanaso e invadente, di guidare le sorti del mondo verso infallibili traguardi di abbondanza e benessere? E non è su queste certezze che si è fondato il suo lungo sodalizio con quel monumento vivente al mercato e al Pil che è Berlusconi? E che farà se, Berlusconi vincente, toccherà nuovamente a lei reggere le sorti dell’italica economia? Crede le sarà facile, nella compagnia che si ritroverà, applicare quanto ora afferma necessario, come ad esempio: “La mano privata è così invisibile che, proprio per questo, deve essere sostituita dalla ben più visibile mano pubblica”?
Ma di questo Tremonti non dice, nemmeno quando ne è esplicitamente invitato, al massimo si limita a citare il suo auspicio di una nuova Bretton Woods, che riordini un poco il “forsennato disordine globale”. Oppure, come sere fa a “Porta a porta”, a proposito del crescente impoverimento dei ceti più deboli, suggerisce una distribuzione gratuita di latte, pane e pasta, a ciò utilizzando il volontariato. Non credo servano commenti. Nella seconda parte del libro d’altronde dimentica del tutto “catastrofe ambientale”, “dio mercato”, ecc, e si dedica invece a discettare di “valori”. Valori cristiani precipuamente, e in pratica limitatamente all’Europa (cosa singolare, dopo il suo insistito argomentare di globalizzazione come dimensione oggi non prescindibile). Ma non entro nel merito. Lo ha già fatto ampiamente e sapientemente (e criticamente) Emanuele Severino sul Corriere della Sera.
Questa d’altronde non vuol essere una recensione del libro di Tremonti. Se me ne occupo è perché i contenuti della prima parte rappresentano una vistosa eccezione rispetto all’atteggiamento della più parte del mondo politico di fronte alla crisi ecologica: cioè a quella sorta di “rimozione” dai più messa in atto in presenza di un problema gigantesco, che, affrontato seriamente, vorrebbe la rimessa in causa dell’intero impianto economico oggi attivo in tutto il mondo. Perché quanto con tardiva conversione scrive Tremonti (salvo poi fingere di nulla, in qualche modo passando dalla “rimozione” alla “schizofrenia”) risponde largamente alla realtà che ci troviamo di fronte, e che la politica (quasi tutta) è ben lontana dall’assumere nella sua gravità. Ciò che non può stupire da parte delle destre: difficile immaginare che possano dichiarar guerra a se stesse. Ma le sinistre?
Un’economia che da un lato va dilapidando le risorse del pianeta oltre ogni sua sopportabilità e mettendo a rischio il nostro stesso futuro, dall’altro (ma questo Tremonti non lo dice) sempre più va precarizzando e sfruttando il lavoro, non potrebbe (dovrebbe?) essere per le sinistre occasione per “entrare in conflitto con il modello economico sociale e fare dell’ alternativa ad esso il proprio elemento paradigmatico”, (parole di Bertinotti durante il forum con il manifesto)?
Indubbiamente tra le file della Sinistra Arcobaleno sono molte ormai le persone pienamente consapevoli della gravità di un problema che condiziona e determina ogni momento del nostro esistere. Come con la massima chiarezza scrive Franco Giordano nell’Introduzione a “Sinistra Europea”, “Oggi l’emergenza ambientale è, indiscutibilmente, il problema cardine di ogni politica che si collochi a sinistra (…) è questione di politica generale.” Allo stesso modo, specie tra quanti si occupano specificamente della materia, esiste la coscienza di come siano sempre i più poveri (operai addetti a processi tossici, profughi in fuga da alluvioni e desertificazioni, gente che vive in prossimità di discariche o fabbriche inquinanti, ecc.) a pagare lo scotto più alto del guasto ecologico; ciò che immediatamente iscrive il problema tra le ragioni storiche della sinistra.
Eppure non sempre, nel concreto, le posizioni e le scelte politiche rispondono a questa coerenza. Non di rado anzi il problema viene interamente omesso, come una materia marginale, da accantonare quando si tratti di Politica Economica (penso ad esempio a due interventi a firma Marcello Villari e Alfonso Gianni, per altri versi di tutto rispetto), o anche quando si discute a tutto campo della necessità di una nuova sinistra (penso al Forum pubblicato su del 23 scorso, in cui l’ambiente è appena nominato, di passaggio). Così le proposte programmatiche: certo prevedono misure utili, necessarie anzi, per tentare di contenere il guasto ecologico, e però restano sostanzialmente interne alla realtà economica data, senza discuterne le logiche portanti.
Tra le sinistre il conflitto capitale-lavoro in qualche modo sembra ancora esaurire la storia. Non si considera insomma, non abbastanza, che il conflitto capitale-natura (cioè la devastazione degli ecosistemi e la possibile fine della specie umana ad opera dell’attuale modo di produzione, distribuzione e consumo) dimostra la reale irrazionalità del capitalismo, idee e macchine. Ne decreta la sconfitta. Le stesse cause della crisi attuale, di cui più nessuno nega la gravità, con tutta evidenza lo dicono. Al di là delle difficoltà immediate - finanziarie, da sopraproduzione, ecc. -parlano infatti di una duplice crisi: da un lato l’impoverimento del mondo del lavoro, che fino a ieri costituiva un enorme bacino di consumo, e quindi di profitto; dall’altro l’esaurimento delle risorse, petrolio in primis, e le conseguenze del mutamento climatico, che sempre più pesano sui fatturati. Parlano insomma di una situazione in cui accumulare plusvalore è sempre più difficile, ma in cui le cause della crisi economica sono le stesse che oggi rendono il mondo insostenibile: ecologicamente e socialmente.
E’ a partire di qui che le sinistre potrebbero, forse dovrebbero, avviare quel cambio di passo che l’intera politica mondiale chiede. Spingendo lo sguardo oltre i confini nazionali, su una realtà globale che è tale economicamente ma non politicamente, e che esige una conduzione che non sia solo quella dei grandi poteri economici. E mettendo sotto accusa una società ricca che sarebbe in grado di sfamare l’intera popolazione del globo, mentre abbiamo un miliardo e mezzo di persone sottoalimentate. Una società tecnologicamente avanzata tanto da poter soddisfare i reali bisogni di tutti con una ridotta quantità di lavoro, mentre invece gli orari continuano ad aumentare, al fine di produrre quantitativi crescenti di merci sempre più scadenti, destinate in poche settimane a finire in discarica. Una società scientificamente in grado di far vivere tutti a lungo e in buona salute, ma in cui si continua a morire di aids perché i farmaci hanno costi inaccessibili, e sempre più si muore di tumori a causa di aria, acqua, territori inquinati. Una società che, quando i mercati si fanno pigri e la produzione ristagna, ha sempre una nuova guerra di riserva, così da riattivare la produzione di armi e far ripartire il Pil. Possono le sinistre tollerare oltre una società cosiffatta?
Lo so, è un compito da far tremare, ma a cui non credo ci si possa sottrarre. E d’altronde sapere che questo è il compito delle sinistre, e dichiararlo, richiamandosi anche alle altre sinistre europee che un po’ dovunque oggi mostrano nuova vitalità, forse sarebbe un buon argomento anche in campagna elettorale.