Fino a che punto una discussione sull'Ottobre bolscevico può limitarsi al resoconto storico, all'elenco delle vicende prima e dopo la presa del Palazzo d'Inverno del 7 novembre 1917? Se si richiama alla memoria l'insieme di questioni cruciali che il partito di Lenin dovette affrontare - prendere o no il potere, nazionalizzare o meno le industrie, come costruire uno «Stato operaio e contadino», quali rapporti con i poteri locali dei Soviet, quali punti scegliere per qualificare un programma socialista e via elencando - salta subito agli occhi il significato politico della discussione. Impossibile, quindi, confinare nello specialismo storiografico una costellazione di temi che evocano in primo piano l'interrogativo di che cosa sia oggi la politica e come essa si definisca, per quanto riguarda la tradizione comunista, in rapporto alle questioni sollevate dalla rivoluzione russa. Sono gli stessi interrogativi evocati dall'intervento di Rossanda Rossanda sulle pagine di "Liberazione" sabato e sui quali torniamo oggi con un nuovo intervento di Luciano Canfora, studioso della storia del movimento operaio, oltre che docente di filologia greca e latina presso l'Università di Bari. Si tratta, a prima vista, di mettere a fuoco l'attualità della rivoluzione nel nostro tempo, di valutare lo stato di salute dei partiti di massa e chiedersi se corrispondano o meno alla migliore forma di organizzazione ed espressione del consenso, se abbiano oggi la capacità di dirigere i processi sociali o debbano, al contrario, abdicare a questa funzione in nome di qualche istanza ancora imprecisata.
E' proprio dal rapporto partiti-rivoluzione (tra «direzione» e «spontaneità», avrebbe detto Gramsci) che parte il ragionamento di Luciano Canfora. La domanda è radicale: quale iniziativa possono intraprendere i partiti in un'epoca come quella attuale in cui i nuovi mezzi tecnologici - in prima fila la televisione - hanno «modificato e sottratto al controllo della politica i meccanismi di formazione del consenso»? Se un tempo erano i partiti a organizzare il consenso, «oggi è la televisione a modellare il senso comune. Pensiamo soltanto al martellante ripetersi dei messaggi pubblicitari nella testa delle persone. La pubblicità è il vero telegiornale della nostra epoca, il luogo in cui si formano i modelli dominanti».
Nella visione di Lenin il partito era sicuramente un luogo d'intersezione fondamentale tra la classe e l'iniziativa politica. Ma chi fa le rivoluzioni, i partiti o i processi sociali?
I partiti sono il prodotto storico, essi stessi, di processi sociali profondi che li trascendono. Prendiamo il caso della rivoluzione francese: prima degli eventi del 1789 i giacobini non esistevano, sono emersi solo in corso d'opera e come risposta a bisogni a essi preesistenti. E hanno realizzato una politica procedendo per tentativi, indovinando o sbagliando. In un discorso alla Costituente Palmiro Togliatti ebbe a dire: "le rivoluzioni non le fanno i partiti: i partiti al più le dirigono, se ne sono capaci". Se questo era vero nel '47 (anno in cui l'ondata resistenziale non era ancora spenta, ma gli Alleati presidiavano saldamente la nostra penisola), a maggior ragione è vero oggi, dopo che gli stati nati da rivoluzioni endogene (Urss) o esportate (Est Europa) sono crollati. Inoltre l'odierna tecnologia nonché la modifica del corpo sociale nell'Europa "a prima velocità" (quella più ricca) hanno reso anacronistica ogni nostalgia della "rivoluzione" di tipo giacobino-bolscevico. Mi riferisco ovviamente alla cosiddetta tecnica della presa del potere. Il che non toglie che i rapporti sociali tendono per loro natura ad essere "rivoluzionati" (per motivi ancor più profondi di quelli descritti da Marx). Nel mondo attuale però tutto è reso più difficile dal carattere planetario dei fenomeni di dominio e per contro dal carattere frantumato e incomunicante delle ribellioni.
Ma le rivoluzioni funzionano, a volte, anche come modelli per altre rivoluzioni indicando delle strade che prima non c'erano, seppur fiutabili nell'aria. L'Ottobre aprì la via ai movimenti di liberazione coloniale: questo non va messo nel bilancio?
La rivoluzione sovietica partì, nel convincimento dei suoi artefici, come volano di un fenomeno "mondiale" (di crollo del capitalismo, per lo meno in Europa: per loro il mondo era soprattutto l'Europa) ma, dopo il fallimento delle rivoluzioni in Germania e Ungheria e la vittoria della controrivoluzione in Italia, si trovò dinanzi all'alternativa: perire ovvero arroccarsi "in un paese solo" guardando al sollevamento del Terzo Mondo. E' quanto dice lucidamente Lenin nel '23 (Meglio meno, ma meglio). Fu la prima rivoluzione del Terzo Mondo ed ha funzionato per tutto il XX secolo in tal senso. Anche il suo esito postremo conferma questa analisi.
Fare la rivoluzione senza "sporcarsi le mani" con il potere è possibile? E' pensabile una trasformazione molecolare della società al di fuori dei Palazzi?
La rivoluzione senza potere è il modo di procedere della predicazione "disarmata" (religioni di salvezza etc.). Ma anche le religioni hanno prodotto guerre e potere. Quanto alla «trasformazione molecolare», ci pensa l'evolversi inarrestabile della realtà. Tale "trasformazione" avviene dovunque, tutti i giorni. Chiamarla "rivoluzione" è un gioco di parole.
Il modello bolscevico - si dice - ha prodotto violenza e accentramento del potere...
La violenza delle rivoluzioni è sempre una risposta, una reazione a violenze secolari precedenti. Secondo l'Istat (rapporto del luglio 2004) ci sono ogni giorno in Italia 4 morti sul lavoro in media. Non è violenza questa? Ma non ne parla ormai nemmeno la sinistra, bensì, ogni tanto, Giuliano Zincone sul "Corriere della Sera". Celebrando l'anniversario della rivoluzione francese, Carducci (notare!) scrisse che Marat custodiva «nel sen profondo l'onta di venti secoli» e nel Ça ira (IX sonetto) immagina Luigi XVI prigioniero, che dalla finestra della sua cella «guarda il popolo e a Dio chiede perdono della notte di San Bartolomeo». Naturalmente della violenza rivoluzionaria si mena scandalo, dell'altra no. Il primo settembre 1965 la Cia scatenò in Indonesia un Putsch che portò in pochi mesi al massacro di 700.000 comunisti (segretario del partito era Aidit). E chi ne parlerà più nel XXI secolo?