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Il programma elettorale di "Uniti per l'Ulivo"
11 Dicembre 2005
Scritti 2004
Il testo del programma elettorale (aprile 2004) che Giuliano Amato ha preparato per la coalizione dei partiti raggruppati sotto la sigla "Uniti per l'Ulivo" (DS, Margerita, Socialisti italiani, Repubblicani). Pubblicherò anche gi altri appena mi perverranno.

Prefazione, L’Europa contro le nostre paure

Siamo entrati nel XXI secolo sentendoci intorno un mondo profondamente cambiato; un mondo nel quale buona parte dei nostri punti di riferimento si sono spostati e il futuro che ci aspetta è incerto e non è affatto detto che per noi europei sia migliore.

Certo, la scienza sta aprendo speranze prima impensabili per il miglioramento della vita, ma varca limiti sino a ieri invalicabili nella lotta alla malattia e alla fame e ci pone dilemmi etici che mai avremmo pensato di dover risolvere. Gravano poi su di noi l’insicurezza e gli incubi che nascono da un terrorismo che stentiamo a capire, ma che avvertiamo come un portato di quella globalizzazione, che negli ultimi decenni ha abbattuto confini a cui eravamo abituati da secoli. E poi le ansie legate ai cambiamenti climatici, al deterioramento dell’ambiente, alla sicurezza dei cibi che mangiamo. E infine le incertezze che vengono da un’economia che smuove imprese,capitali e persone da una parte all’altra del mondo, che genera in tal modo opportunità sinora sconosciute, ma elimina anche vecchie sicurezze di lavoro, di reddito, di identità stessa delle nostre città, dove oggi ci troviamo a vivere con persone tanto diverse, ed espongono così a cambiamenti e tensioni da cui si rischia molto spesso di uscire più da perdenti che da vincitori.

Sono rischi, tensioni e paure, che risalgono a cause che sentiamo lontane da noi, matasse di cui non possiamo afferrare il bandolo. Ma non è così. Nulla di ciò che speriamo, ma anche nulla di ciò che temiamo, accade per cause estranee a1le nostre ‘scelte ‘e alle nostre azioni. La scienza, l’economia, il modo in cui le nostre società sono organizzate e in larga misura lo stesso clima sono ciò che noi li facciamo essere, anche quando hanno dimensioni planetarie e globali. Se vogliamo cambiare in meglio, occorre solo che ci portiamo all’altezza ditali dimensioni. Le trasformazioni del mondo entrano infatti nelle nostre case, ma non è certo da lì che le possiamo orientare. E’ l’Europa che ci permette di farlo.

Grazie alla lungimiranza della generazione che ci ha preceduto, noi europei abbiamo la fortuna di averla l’Europa. Nel corso del XX secolo essa ci ha dato la pace fra noi, un mercato comune, una moneta unica. Ora sta a noi adeguarla alle nuove sfide e renderla più forte davanti ad esse, e tuttavia anche più vicina ai suoi cittadini, più trasparente. E’ un’Europa con la quale entrare fiduciosi nel futuro quella di cui abbiamo bisogno e per realizzarla è necessario che tutti sappiano compiere delle scelte: le istituzioni europee, i nostri Governi, ma anche noi cittadini.

Occorrono scelte perché nel mondo vinca la pace, e questo vuol dire battersi affinché le guerre finiscano, non semplicemente tirarsene fuori; per rilanciare una crescita che dia lavoro e non distrugga l’ambiente, i dire saper rinunciare a molte comode posizioni di rendita; per avere servizi migliori, e questo vuole anche dire imparare a guardare al di là dei propri cancelli e dei propri steccati. Diritti e responsabilità. Condividere le politiche della Lista Prodi significa contribuire a realizzarle, perché per un’Europa al servizio di tutti serve l’impegno di ognuno.

La Lista Prodi ha ascoltato tutti e ciascuno, ha chiesto il contributo degli esperti e della gente comune, ha mobilitato associazioni di cittadini e parti sociali. E nel farlo ha percepito quanta attenzione ci sia in esse all’interesse collettivo, quanto esse siano capaci di elaborare proposte lungimiranti, quanto lavoro comune la politica possa intraprendere con loro. Perciò oggi siamo sicuri di avere un buon progetto complessivo e proposte concrete efficaci.

Il programma che presentiamo in queste pagine - con una prima parte dedicata al disegno generale e una seconda alle proposte specifiche per ciascuna figura sociale e per singoli temi - si articola intorno a un preciso filo conduttore: più libertà e più iniziativa, ma anche più governo o, meglio, migliore governo per promuovere e valorizzare le capacità di tutti e di ciascuno. Perché l’Europa, dalle imprese alla ricerca, dall’agricoltura alla finanza, dal welfare ai sistemi formativi soffre per un uso sbagliato e distorto delle sue risorse e per un eccesso di cattiva regolamentazione, molto spesso nazionale, e a volte anche europea: vincoli imposti non per stupidaggine, ma per difendere questo o quell’interesse. La ripresa della crescita e una politica sociale giusta e promotrice essa stessa di crescita cominciano da qui: dal buon governo, dalla capacità di scrivere regole intelligenti, nell’interesse di tutti, non per favorire pochi.

Non ci sono, ricette miracolose. Quando. le. Ferrari perdevano il Gran Premio i meccanici di Maranello non hanno pensato neppure per un minuto che fosse possibile tornare a vincere solo usando una benzina più potente: hanno smontato il motore e poi lo hanno rimontato pezzo per pezzo, sostituendo quelli che non funzionavano. Così sono tornati a vincere. Questo è l’impegno della Lista Prodi: dare all’Europa, e all’Italia, un buon governo.

1. Per tornare a crescere

“Costruire l’Economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. Era il marzo del 2000 quando il Consiglio europeo di Lisbona si poneva questo obiettivo. Sono passati quattro anni. Ma come una palla da tennis sgonfia che ad ogni lancio rimbalza sempre meno, così l’Europa, ogni anno, vede arretrare la sua competitività e la sua capacità di creare crescita e posti di lavoro. Con l’Italia del Governo di Silvio Berlusconi che si distingue in termini negativi in quasi tutti gli indicatori.

Servono palle nuove. Serve una classe dirigente che sappia esercitare la sua 1eadei serve un disegno complessivo per creare sviluppo e sicurezza, servono progetti concreti per centrare l’obiettivo.

Questa è la sfida della Lista Prodi. L’Europa non può più aspettare: deve tornare a crescere e deve rafforzare la sua posizione nel mercato globale. Deve liberarsi dalla trappola in cui è finita, stretta tra la grande capacità innovativa dell’economia americana e i successi asiatici spinti dall’imitazione e dai bassi salari. Solo con più crescita e più qualità nella crescita potremo affrontare i problemi di una società che invecchia e trasformare, rafforzandolo, lo Stato sociale: per tornare a creare sviluppo nella sicurezza di tutti.

Più governo meno dirigismo. Tagliare le tasse non basta. Il centro-destra in questi anni ha teorizzato un assoluto liberiamo sia sociale sia economico, lasciando gli italiani soli davanti a uno dei peggiori cicli economici del dopoguerra. Un liberismo a parole, che in realtà non ha neppure realizzato l’uguaglianza delle opportunità: ha semplicemente privilegiato i più forti e gli interessi corporativi, dalle leggi ad hoc per le squadre di calcio alle liberalizzazioni bloccate, in primis quelle dei servizi pubblici locali

L’Europa ha bisogno di più mercato, di più concorrenza, ma questo richiede una forte capacità di governo. Il che non vuol dire statalismo o dirigismo, ma regole - in primis per abbattere rendite e monopoli - e politiche pubbliche capaci di incidere sui fattori decisivi della crescita, senza le quali neppure una riduzione delle tasse può generare una crescita solida e duratura. I tagli fiscali sono positivi solo se davvero aumentano la capacità di acquisto dei cittadini e non generano, invece, una riduzione dei servizi a loro disposizione o un aumento nel costo degli stessi servizi e delle tasse degli enti locali. Ma non basterebbero comunque da soli in un’Europa dove il costo di troppi servizi risente ancora della mancanza di concorrenza, dove la ricerca e l’innovazione sono insufficienti a renderci competitivi, dove per molti, a partire dalle donne, sono di altra natura gli ostacoli che impediscono di lavorare.

Un nuovo “Patto di stabilità” per mettere i denti al processo di Lisbona. Per tornare a crescere vanno innanzi tutto messi i denti al processo di Lisbona, che si occupa appunto di questi problemi. La nostra proposta è collegare tali politiche al Patto di stabilità, estendendo anche ad esse il sistema di vincoli e sanzioni che oggi protegge l’equilibrio dei bilanci europei.

Il Patto va rafforzato ponendolo maggiormente al servizio della crescita. L’obiettivo del bilancio in surplus o vicino al pareggio va mantenuto, ma bisogna fare sì che, nella valutazione dei saldi, da un lato una attenzione speciale sia riservata alle voci di spesa che contribuiscono direttamente alla crescita, come gli investimenti in formazione superiore, ricerca, innovazione, infrastrutture; dall’altro siano penalizzate le entrate che sono frutto di misure una tantum, come i condoni, che indeboliscono nel medio periodo la sostenibilità dei bilanci. Insomma: meno incentivi ad abbellire artificialmente i conti, e più incentivi a fare le riforme e a investire nel capitale umano.

In questo contesto, i paesi della zona euro potranno procedere con maggiore coordinamento degli altri, definendo criteri comuni per i rispettivi bilanci in modo da potenziare gli effetti positivi delle loro azioni e da prevenire invece divergenze di politiche nazionali, dalle quali tutti sarebbero danneggiati proprio in ragione della moneta che condividono.

Nuove regole per l’Europa della ricerca. Quando un’economia diventa ricca, come è oggi l’Europa, tre soli fattori possono consentirle di continuare a crescere: miglior capitale umano, e cioè più istruzione, e poi ricerca e innovazione. L’investimento in istruzione, ricerca e innovazione è oggi il motore fondamentale della crescita. L’Irlanda, che a tale investimento ha prioritariamente destinato le stesse risorse dei fondi strutturali europei, è il paese che è cresciuto di più In molti altri Paesi d’Europa, invece, davanti alle difficoltà dei conti pubblici, è proprio questo il primo capitolo di spesa ad essere penalizzato. Ma sarebbe un’illusione ritenere che sia solo una questione di soldi. Possiamo spendere quanto vogliamo, ma se prima non abbatteremo le barriere, nazionali e corporative, dietro le quali, in nome delle ricerca, si difendono interessi particolari , non andremo lontano.

La priorità è trattenere in Europa i migliori e anche attrarre i migliori dal resto del mondo. Ma per riuscirci, nell’università come nella ricerca bisogna saper fare delle scelte. Creiamo lo spazio europeo dell’università e della ricerca, in modo da spingere le Università a uscire dal loro localismo e da consentire alla comunità scientifica di convergere sui migliori centri di ricerca europei, senza interferenze burocratiche.

Le università devono tornare ad essere, come avveniva alle loro origini medioevali, una rete del sapere senza barriere tra Stati. Va resa possibile la mobilità dei professori al di là dei confini nazionali, e soprattutto va introdotta un po’ di sana concorrenza fra le università, eliminando le barriere e le nicchie oggi esistenti. In Europa non esistono centri di eccellenza come Boston o Stanford negli Stati Uniti: non solo perché mancano le risorse, ma prima ancora perché quelle poche di cui disponiamo si disperdono in mille rivoli per l’incapacità di scegliere e dire qualche no. Vanno creati centri di eccellenza, avendo il coraggio di concentrare le risorse su pochi istituti di alta qualità. Vanno create cattedre di ricerca europee da assegnare sulla base di una selezione che non guardi alla nazionalità, ma garantisca che vengano scelti i migliori; va fissato un sistema comune di riferimento per la valutazione dei professori e dei risultati della ricerca, basato non su strumenti burocratici, ma semplicemente sulla qualità delle pubblicazioni scientifiche internazionali prodotte; i finanziamenti devono essere assegnati in funzione della capacità degli atenei di attrarre studenti da luoghi anche lontani.

La ricerca europea, però, non andrà lontano senza una profonda revisione del bilancio dell’Unione, che oggi destina alla ricerca solamente un decimo delle risorse destinate all’agricoltura. Vanno, poi, incentivati gli investimenti privati attraverso una legislazione che favorisca la cooperazione tra Università e imprese, attraverso crediti di imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo, attraverso una nuova disciplina comune della proprietà intellettuale, attraverso incentivi a brevettare - ad esempio prevedendo il rimborso del costo delle pratiche necessarie per ottenere un brevetto in funzione dei risultati poi ottenuti - che alimenti i processi di spin-off, attraverso una più favorevole disciplina per il venture capital, attraverso la completa deducibilità fiscale di tutti i contributi privati a titolo gratuito alla ricerca e all’istruzione.

Oggi molti giovani promettenti debbono abbandonare gli studi, mentre il costo vero dell’istruzione non è addebitato neppure a chi potrebbe pagarlo. Per questo è imprescindibile un’altra priorità: la promozione e la valorizzazione dei talenti, indipendentemente dalla loro provenienza sociale. La Lista Prodi ne fa uno dei suoi obiettivi principali. Ne parleremo anche più avanti, ma da subito va sottolineata la nostra determinazione a far pagare chi può e al tempo stesso allargare il sistema delle borse di studio, utilizzando anche il prestito di laurea, da rimborsare solo dopo il conseguimento di un reddito da lavoro non inferiore a un dato ammontare. Un programma da estendere anche a studenti scelti all’inizio dell’ultimo anno della scuola media superiore, perché è lì che spesso si decide il futuro dei talenti.

Sostenere le imprese d’avanguardia, non proteggere i monopoli locali. Ci sono ambiti nei quali la ricerca europea è all’avanguardia e ha alimentato imprese d’avanguardia. Su questi settori dobbiamo puntare con forza per una crescita che sia insieme innovativa e ispirata alla tutela dell’ambiente per l’oggi e il domani. Perché la protezione dell’ambiente non solo può essere in armonia con la crescita economica, ma è anche strumento di promozione di nuove tecnologie. Ed è con tali tecnologie, prima ancora che con i vincoli, che potremo assicurarci la qualità dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo, di un habitat dal quale non scompaiano né le foreste né le biodiversità; per non parlare dei nuovi e tanti lavori di cui abbiamo bisogno.

Vogliamo Stati che incentivino gli imprenditori coraggiosi a rischiare, non Stati che consentono l’accumularsi di rendite e quindi offrono agli imprenditori l’incentivo perverso a catturare quelle rendite anziché a competere sui mercati globali.

Servono investimenti nelle biotecnologie e nelle scienze della vita, nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nelle fonti d’energia rinnovabili, nell’industria aero-spaziale, nelle grandi reti europee. Qui gli Stati hanno un ruolo importante da svolgere: non attraverso la proprietà delle imprese, che devono stare sul mercato, ma attraverso una regolamentazione intelligente e investimenti pubblici nelle tecnologie. D’altronde tra principali successi economici dell’Europa unita ci sono proprio due imprese — due “campioni europei” - il Consorzio Airbus nell’aeronautica e la STMicroelectronics nei semiconduttori, nate in virtù di una cooperazione transnazionale e cresciute lungo quel delicato crinale che è il rapporto fra la ricerca e l’industria.

E servono investimenti nell’innovazione applicata ai processi produttivi, organizzativi e amministrativi di industrie più tradizionali. Un aspetto, quest’ultimo, particolarmente importante per l’Italia. Perché c’è una specificità del nostro settore industriale, che è quella dei prodotti di alta qualità che può trarre grandi vantaggi dall’innovazione applicata ai processi.

Una buona politica deve saper “accompagnare” le imprese sui mercati del mondo con una efficiente rete di servizi, incéntivandole a “fare squadra”; deve proteggere i marchi del Made in Italy dalla concorrenza sleale; deve offrire una burocrazia amica che dia risposte in tempi certi; deve favorire il merito e la qualità anche attraverso norme che facilitino la contendibilità delle imprese a livello europeo; deve utilizzare ogni margine possibile per incentivi fiscali mirati a favorire la crescita delle aziende.

Non più una giustizia poco civile. Una giustizia civile efficiente è una formidabile infrastruttura per lo sviluppo. La sua celerità e la sua affidabilità, non solo garantiscono meglio i diritti di tutti i cittadini, ma incidono sulle scelte di lungo periodo delle aziende.

In questo senso la Lista Prodi sostiene una rapida approvazione della Costituzione europea che introduce il principio del mutuo riconoscimento tra gli Stati membri delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziarie e della loro esecuzione; e prevede la promozione della compatibilità delle norme di procedura civile applicabili negli Stati membri.

Il nostro Paese ha il record di durata dei processi: oltre 9 anni e mezzo per tutti e tre i gradi di giudizio, circa il 70% in più della media UE. Questo danneggia fortemente la possibilità dell’Italia di tenere il passo delle economie degli altri Paesi Ue.

Occorre perciò istituire tribunali specializzati in materia commerciale e occorre intervenire sulle inutili farraginosità delle procedure, sulla eccessiva ampiezza delle impugnazioni e sulla dimensione e distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari. Ma anche liberalizzare la professione di avvocato nell’Unione, permettendo ad avvocati provenienti da nazionalità diverse di lavorare insieme uniformando le professionalità. Per l’Italia non potrà che essere un vantaggio. La liberalizzazione, infatti, accompagnata dalla determinazione forfettaria dell’onorario - non legata quindi al numero delle prestazioni fornite in ciascun processo - induce a non abusare delle garanzie processuali e costituisce un forte incentivo per l’avvocato a chiudere rapidamente la controversia con una transazione.

Una finanza a supporto della crescita. Le imprese europee hanno bisogno di un sistema finanziario che assicuri al più ampio insieme di soggetti un accesso immediato al credito.

La vicenda Parmalat, e ancor prima la Cirio e i bond argentini, hanno gravemente danneggiato un gran numero di risparmiatori e pericolosamente scosso la fiducia in tutto il sistema creditizio e produttivo italiano. La Lista Prodi è dalla parte dei risparmiatori: qualunque ipotesi di riforma deve partire dalla necessità di difendere il risparmio dei cittadini. Anche perché solo partendo da qui, sarà possibile ricostruire la fiducia necessaria intorno a tutto il sistema del credito.

In questo senso c’è una riforma complessiva del sistema dei controlli italiani da portare a termine in tempi rapidi, ma il caso Parmalat ha anche evidenziato come davanti a questi problemi l’Italia da sola non basta più, serve più Europa.

Molte transazioni economico-finanziarie oggi avvengono su scala continentale o mondiale. E’ necessario, dunque, dotarsi di strumenti di controllo almeno di livello continentale. Le resistenze nazionali sono ancora forti, ma sempre più miopi: bisogna creare in tempi brevi una “centrale dei rischi” europea, per poi far nascere una vera e propria Commissione di Vigilanza europea.

Ma senza una maggiore concorrenza fra le banche europee, che superi la segmentazione nazionale dei mercati, difficilmente si centrerà l’obiettivo di avere un sistema del credito che finanzi progetti e idee vere, e non scatole vuote. Vogliamo che imprese e consumatori possano servirsi di banche efficienti, indipendentemente da quale sia la loro nazionalità, non che siano costretti a pagare i costi di banche inefficienti solo perché battono bandiera nazionale. Alle banche italiane dobbiamo chiedere di mettersi alla testa di aggregazioni europee, non di difendersene o di subirle. E le istituzioni devono avere l’intelligenza di saper accompagnare tali processi.

Il parlamento europeo non è ancora riuscito ad approvare una legge sulle acquisizioni societarie. Troppi interessi costituiti, travestiti da sentimenti patriottici, hanno ostacolato ogni iniziativa in questo senso. La Destra italiana e’ corresponsabile di questo fallimento. Una priorità per il nuovo parlamento europeo e’ quella di approvare una legge che non discrimini contro le acquisizioni estere e metta tutte le imprese europee sullo stesso piano.

Le liberalizzazioni da completare: un’arma per fermare l’inflazione. Al di là delle banche c’è tutto il ciclo delle liberalizzazioni da completare. Dal settore delle utilities , alle professioni, all’energia, vi sono beni e servizi fondamentali per i cittadini e le imprese che continuano ad essere gravati da rendite di posizione. Non si può più restare in mezzo al guado. Solo una compiuta liberalizzazione potrà andare incontro alle esigenze de consumatori e degli utenti, garantendo loro beni e servizi migliori e più economici, ed eliminando uno svantaggio di costi che oggi è tra le zavorre che più frenano la competitività delle nostre aziende.

L’Italia continua ad esser il grande paese europeo con l’inflazione più elevata. Il governo Berlusconi non è stato capace di completare le liberalizzazioni e quindi dice che è colpa dell’euro. Lo Stato ha una sola arma per combattere l’inflazione: la concorrenza. Inizi ad usarla e vedrà quanto rapidamente scenderanno i prezzi.

Esistono ancora troppe differenti barriere all’entrata nei diversi paesi europei. In Francia ci vogliono 16 permessi diversi, che richiedono almeno 66 giorni, per iniziare una qualsiasi attività economica. In Inghilterra i permessi sono solo 7 e i giorni 11.

Queste restrizioni rappresentano una forma di protezione delle imprese esistenti ed un ostacolo alla forma one di nuove imprese. E’ compito del parlamento europeo uniformare queste misure, cercando di ridurre i costi all’entrata.

Ambiente e agricoltura. La qualità ambientale è la condizione imprescindibile del progresso economico. La Lista Prodi la considera come parte integrante di una modernizzazione strutturale dell’economia e come una dimensione trasversale di ogni politica settoriale. La politica nei confronti dell’ambiente può essere un fattore determinante per la ripresa della crescita economica. Ciò richiede di ribaltare in la visione tradizionale che considerava l’ambiente come un freno allo sviluppo economico.

Le politiche agricole, innanzi tutto, vanno viste in questo contesto. La Lista Prodi promuove una maggiore competitività del settore agricolo europeo attraverso la qualità, la sicurezza alimentare dei consumatori e la sostenibilità ambientale e territoriale delle attività rurali, non con l’accettazione incontrollata e acritica di tecnologie produttive, di cui non sia comprovata la compatibilità con tale sicurezza e con tale sostenibilità.

Ma anche qui si devono compiere delle scelte. L’iperprotezione di cui godono alcune produzioni agricole europee è francamente inconciliabile con il giusto obiettivo di una globalizzazione più democratica. Anziché difendere produzioni anacronistiche di commodities, gli agricoltori devono avere il coraggio di puntare sulla capacità di aggiungere valore alle produzioni esaltando la qualità storica dei propri prodotti e le potenzialità, anche turistiche, dei territori. Uno strumento essenziale per la modernizzazione, in primo luogo della catena alimentare, sono le grandi cooperative agricole, che rafforzano i produttori e difendono gli stessi consumatori dalle speculazioni che si annidano nell’intermediazione. Gli agricoltori sanno che lungo la strada della modernizzazione l’Europa guidata da noi non li lascerà soli.

Il rilancio dell’agricoltura può avere un ruolo cruciale nella difesa del territorio e dell’ambiente. Ma non basterà l’agricoltura a contrastare il degrado degli equilibri naturali e soprattutto le profonde alterazioni climatiche indotte dalle emissioni di gas serra. La Lista Prodi rilancerà in questo senso il ruolo dell’Europa nella promozione e nel coordinamento di politiche sostenibili di consumo energetico e di protezione del territorio.

Politiche che passano per l’attuazione degli accordi di Kyoto, ma anche per una nuova sfida: l’uso generalizzato dell’energia prodotta dall’idrogeno e dalle altre fonti non inquinanti. L’Europa deve dare a se stessa, ed estenderlo al mondo, l’obiettivo di un progressivo abbattimento dell’uso dei combustibili fossili per generare energia Per questo dovrà dedicare grandi risorse allo sviluppo di programmi di ricerca per lo sviluppo di fonti energetiche di tipo rinnovabile, con la speranza che un giorno essa possa davvero trasformarsi in un’economia libera dai fossili.

Il Mezzogiorno è Europa. La crescita dell’intera Unione Europea, nei prossimi decenni dipenderà in gran parte dalla capacità delle sue regioni più deboli di camminare con le proprie gambe.

Non servono trasferimenti improduttivi, ma investimenti nei fattori di competitività: ricerca e innovazione, infrastrutture fisiche e immateriali, capitale umano. E’ una strada che l’Ullivo e la stessa Europa hanno già intrapreso con successo: ora bisogna soprattutto vigilare che le risorse per le politiche di coesione vengano adeguatamente finanziate anche dopo 1’ allargamento, semplificare ulteriormente le procedure, accrescere la sussidiarietà, rafforzare la diffusione delle buone pratiche.

Dopo i tanti errori del passato, il Mezzogiorno d’Italia ha davanti a sé la possibilità concreta di un futuro diverso. Nella globalizzazione, infatti, l’atout di un patrimonio storico, culturale e ambientale come quello del nostro Sud può trasformarsi in un grande vantaggio competitivo. Se sapremo valorizzarlo con un’organizzazione efficiente, il Mezzogiorno potrà davvero diventare un ineguagliabile fornitore di servizi tradizionali e avanzati all’intera Europa, con straordinarie possibilità di crescita.

C’è poi un’ulteriore occasione. E’ quella determinata dai mutati scenari geopolitici che possono fare del Sud un ponte dell’Europa nel Mediterraneo. E’ interesse del Continente intero valorizzare il Mezzogiorno come avamposto per intercettare commerci, possibilità imprenditoriali, nuovi mercati che nel Mediterraneo possono aprirsi. E sarà senz’altro utile, in questo senso, l’istituzione della Banca euromediterranea, come strumento di finanziamento di infrastrutture e di promozione delle imprese in questa direzione.

Il patrimonio storico dell’Europa, le sue città, la sua cultura: straordinarie leve di crescita civile. Nell’economia “globale” i paesi ce la fanno solo se sanno trovare una propria specializzazione, aree nelle quali eccellere e distinguersi dagli altri. Abbiamo già parlato di innovazione e capitale umano, ma vi è un’altra area nella quale l’Europa ha un forte vantaggio comparato: la sua storia, la sua cultura, le sue città.

La valorizzazione del patrimonio storico e culturale dell’intera Europa può essere uno straordinario volano per la crescita di tutto il Continente. Le città, i territori, i paesaggi, i monumenti, le tradizioni, i borghi antichi sono valori primari della nostra riconoscibilità, della nostra memoria e della nostra cultura, ma sono anche un’infrastruttura d’importanza decisiva per la qualità ed il futuro del nostro sviluppo.

L’Unione deve riconoscere che questo capitale diffuso, ma spesso soffocato o degradato, è una grande risorsa per rilanciare un modello europeo capace di coniugare realmente innovazione economica e coesione sociale. In questo senso i fondi europei dovranno essere impegnati sempre meno in interventi settoriali e sempre più in progetti integrati urbani e territoriali. Anche così le risorse per le politiche di coesione territoriale potranno sviluppare il massimo delle potenzialità locali.

Molte delle città europee - Barcellona, tra tutte - hanno intrapreso questo cammino mostrando formule attraverso cui far lavorare insieme finanziamenti comunitari, politica ed imprenditoria locale. I successi sono stati evidenti e li vogliamo replicare potenziando le azioni a favore dello sviluppo urbano.

Ma, su tutto, va promosso un programma straordinario per ristrutturare e restituire ai propri abitanti i centri storici degradati delle città di alto valore storico-culturale (con quelle del nostro Mezzogiorno in primo piano). Perché è lì, da Palermo a Lisbona, che c’è la nostra storia e la nostra identità. Ed è da lì che l’Europa deve ripartire per trovare un nuovo senso al suo stare nel mondo.

Per valorizzare al meglio questa risorsa, e in considerazione della specificità italiana, la Lista Prodi si farà anche promotrice dell’istituzione di un”Agenzia europea per la conservazione e il restauro” con sede nel nostro Paese. Un istituto che avrà come missione, appunto, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale e artistico degli Stati membri nel proprio contesto ambientale e naturale, attraverso il finanziamento di centri di studio di eccellenza, la catalogazione dei beni, il controllo qualificato sulle aggressioni ambientali e la valorizzazione del turismo.

Dobbiamo difendere le tante specificità culturali locali, ma dobbiamo anche essere capaci di metterci insieme per creare quella massa d’urto necessaria per imporre il nostro patrimonio e la nostra produzione culturale in giro per il mondo. Dall’invadenza dell’industria culturale americana ci si difende anche così, non erigendo inutili barriere.

Le città, luoghi di convivenza. Le città non sono soltanto una parte del nostro patrimonio storico e culturale. Sono anche i luoghi dove si rende concreta la globalizzazione facendo vivere le une accanto alle altre persone di etnie e di culture diverse. Sono i luoghi dove crescono la maggior parte dei nostri bambini, dove gli adulti lavorano e sono alla disperata ricerca di più distesi tempi di vita, sono i luoghi dove molti dei nostri anziani passano i loro ultimi anni in un crescente bisogno di servizi che funzionano.

Città sicure, città nelle quali sia possibile spostarsi con facilità, trovare case a basso costo e di buona qualità, avere spazi verdi dove i bambini possano giocare e strade sicure perché possano andare a piedi a scuola; servizi sanitari e assistenziali per chiunque né abbia bisogno e, in primo luogo, per gli anziani: tutto questo non è e non può essere un sogno, deve essere un impegno comune delle città europee, a garanzia irrinunciabile della civile convivenza tra diversi e del modello sociale di cui i ‘Europa vuole essere espressione e paladina nel mondo.

Più pluralismo e migliore servizio pubblico nei mezzi di comunicazione. Della nostra cultura e della nostra democrazia, infine, fanno parte anche i mezzi di comunicazione di massa e, in particolare, le televisioni. In questo settore, purtroppo, l’Italia non dà un buon esempio all’Europa.

La Lista Prodi intende perciò chiedere al nuovo Parlamento europeo un forte impegno perché il futuro dei media sia più democratico e più ricco. Promuoverà, dunque, politiche tese a rafforzare il pluralismo informativo, ad allargare il mercato dei media e a qualificare il ruolo del servizio pubblico, che va riportato agli standard che ne sono la ragion d’essere e che legittimano lo speciale finanziamento che esso riceve dai cittadini. Ma si farà anche promotrice di una disciplina europea del conflitto di interessi contenente una chiara separazione tra proprietà o gestione di imprese radiotelevisive e l’esercizio di rilevanti funzioni istituzionali.

2. Lavoro, Welfare e risorse umane

Un’Europa in cui si lavori di più, perché si può lavorare di più. Troppe donne oggi sono prigioniere di una doppia vita che le costringe a rinunciare o alla maternità o al lavoro, troppe donne e troppi uomini restano fuori dal mondo del lavoro perché non hanno professionalità adeguate o semplicemente non trovano l’occasione giusta, troppi bambini e troppi giovani sono condannati sin dalla prima infanzia a un destino di esclusione.

Il risultato è che in Europa troppo pochi lavorano. Il 60 per cento delle persone tra i 15 e i 64 anni, contro il 70 per cento negli Stati Uniti e obiettivo che i capi di Governo dell’Unione si sono dati per il 2010. E qui l’Italia ha il primato del tasso di occupazione più basso d’Europa, il 55 per cento. E’ questo il primo vincolo alla nostra crescita, sono queste le priorità che in campo sociale una buona politica oggi deve affrontare e risolvere.

L’orgoglio di una società diversa da quella americana. Purché funzioni. Siamo orgogliosi di essere europei per le istituzioni di sicurezza sociale che l’Europa si è data e molti, anche negli Stati Uniti ci invidiano. Tuttavia le sfide dei nuovi tempi, l’allungamento della vita media, l’accesso delle donne al mondo del lavoro, la diffusione di percorsi più liberi ma anche più individuali e flessibili, sino alla precarietà, la difficoltà a creare nuovi posti di lavoro hanno reso quelle istituzioni inadeguate a rispondere ai nuovi bisogni.

Perciò, pur nella consapevolezza che non esiste e non potrà esistere un unico modello di Welfare europeo, il riformismo non può sottrarsi alla sfida di riformare le istituzioni sociali, nella certezza che tale sfida e quella altrettanto prioritaria per il lavoro si intrecciano oggi a doppio filo. In un tempo nel quale la stessa crescita dipende largamente dalla valorizzazione del nostro capitale umano, riformare il welfare significa renderlo non un peso, ma un fattore propulsivo della stessa crescita attraverso la valorizzazione di ogni giovane, di ogni donna, di ogni adulto. Vanno rimossi gli ostacoli che oggi cancellano progetti di vita e ciascuno va messo in condizione di formarsi, di aggiornarsi e di lavorare. E vanno difesi coloro che non possono difendersi da soli.

Il Welfare inclusivo. Paradossalmente, lo stato sociale europeo, da strumento di inclusione sociale, sta diventando sempre più una ragione di esclusione di chi sta fuori, anche nell’ambito dei confini europei. Per evitarlo ecco le nostre proposte, cominciando dalla rete di protezione minii loro che sono i veri esclusi di oggi.

• Tolleranza zero nei confronti della povertà minorile e delle disuguaglianze che già nell’età pre-scolare predispongono all’esclusione i bambini poveri. Bisogna contrastare il peso dell’eredità familiare e sociale in modo da rendere indipendenti le potenzialità di successo nella vita dai privilegi sociali ed ereditari. Per questo l’Unione dovrà aderire alla Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo, secondo la quale bambine e bambini, ovunque siano e da qualunque parte del mondo vengano, devono essere trattati tutti allo stesso modo e avere tutti gli stessi diritti. Per questo una rete di servizi educativi e di assistenza familiare per i bambini da O a 3 anni è un obiettivo prioritario, non solo per conciliare il lavoro della madre e del padre con la cura dei figli, ma prima di tutto per favorire la piena formazione degli stessi figli, così come avevamo cominciato a fare in Italia con la legge del 1996 che riguardava la promozione dei diritti dei bambini. La Carta di Barcellona ci chiede di accogliere negli asili nido almeno il 33% delle bambine e dei bambini. E’ un obiettivo minimo che l’Europa dovrà realizzare.

• Coordinamento tra le reti di protezione sociale di ultima istanza fra i paesi europei, facendo sì che gradualmente il diritto a un reddito minimo, conformato sia pure da ciascun paese in ragione delle proprie specificità (e quindi come reddito minimo garantito da alcuni, come reddito di inserimento da altri) diventi comunque una delle istituzioni cardine di cittadinanza europea. Sono, infatti, proprio queste le componenti dello stato sociale che rischiano per prime di venire ridimensionate dalla concorrenza al ribasso tra gli Stati al fine di attrarre capitali. Coordinarle al livello europeo serve non solo a proteggerle dalle pressioni competitive ma anche ad evitare che i flussi di immigrazione si concentrino sui Paesi che hanno le misure di protezione più generose.

In Europa ci sono 18 milioni di immigrati regolari che hanno fatto dei nostri paesi il loro progetto di vita. Sono donne, sono bambini, sono famiglie. Loro per primi sono tra le risorse umane che dobbiamo imparare a valorizzare, soprattutto oggi, alla vigilia dell’allargamento. Ci aiutano a crescere di più perché vanno dove il mercato del lavoro ne ha più bisogno, compensando la scarsa mobilità di noi europei. Le restrizioni ai flussi migratori non servono a impedire l’immigrazione. Possono solo renderla più graduale. Barriere anacronistiche come quelle contemplate dal Governo italiano (30.000 ingressi nel 2004 quando le imprese nei chiedono 4 volte tanti) ci impediscono di crescere e finiscono per alimentare l’immigrazione clandestina. Gli immigrati arrivano comunque, anche senza permesso di lavoro, e finiscono per lavorare in nero, il che significa che possono solo ricevere e non contribuire allo stato sociale. La clandestinità fa arrivare i meno qualificati e poi, con l’immancabile sanatoria, ci troviamo con persone che hanno una più alta probabilità di dovere in futuro ricorrere alle prestazioni dello stato sociale. Serve una politica europea dell’immigrazione e serve che sia l’Europa a stabilire le garanzie minime dei diritti degli immigrati, dalla cittadinanza di residenza ai limiti di quella vera e propria reclusione che è la detenzione nei centri di permanenza temporanea. Dovrà uscirne un patto che insieme ai diritti preveda precisi doveri, in nome della condivisione di regole e valori, che sono alla base della nostra convivenza in Europa.

Il Welfare al di sopra della rete di protezione minima. Al di sopra della rete di protezione minima l’asse del Welfare europeo dovrà essere la riduzione delle diseguaglianze attraverso le politiche attive del lavoro e la formazione permanente, grazie alla progressiva convergenza di tutti i nostri Stati verso esistenti all’interno dell’Unione.

C’è molto da imparare dai paesi più piccoli dell’Unione, che riescono a ridurre di più le disuguaglianze in proporzione a ciò che spendono in politiche sociali. Questo significa che molte politiche sociali possono essere meglio gestite su piccola scala e, quindi, per i grandi paesi, a livello locale. Importante è avere politiche attive, che spingano i beneficiari a cercare un lavoro, pena la riduzione del sostegno loro offerto, mentre ha funzionato con successo nel Regno Unito e in Svezia legare la concessione di sostegni al reddito al fatto di avere un lavoro. I sussidi o i crediti di imposta condizionati al lavoro facilitano anche il reinserimento nella vita attiva di quel 30 per cento di donne che in Italia non rientrano nel mercato del lavoro dopo la maternità. Mentre è essenziale è che i contratti di lavoro per gli adolescenti fino a 18 anni abbiano un contenuto prevalentemente formativo.

Altri paesi dell’Unione hanno fatto importanti passi in avanti nella formazione permanente che consente di aggiornare le proprie competenze oltre gli anni degli studi scolastici: formazione per i giovani che interrompono gli studi per un lavoro spesso non qualificato e che rischiano così di condannarsi alla serie B per il resto della vita, per i lavoratori adulti che prima ancora dei cinquant’anni rischiano l’espulsione perché hanno conoscenze obsolete, per le e donne che interrompono la vita lavorativa per crescere i figli o per altre ragioni di cura familiare.

La trasparenza su chi paga e chi riceve, infine, è condizione necessaria per migliorare il welfare. Proponiamo di introdurre una contabilità generazionale delle spese sociali che renda chiaro a tutti come la spesa sociale viene ripartita per età.

Il Welfare che libera tempo. I genitori hanno la necessità e il diritto di non sacrificare il lavoro per la famiglia. E i bambini hanno bisogno del tempo dei genitori. I paesi del Nord Europa si distinguono per il loro più alto tasso di occupazione femminile e per il più alto tasso di natalità rispetto all’Italia ed altri Paesi dell’Europa del Sud. Ci sono pratiche che da loro dobbiamo imparare e di esse fanno parte interventi mirati per aiutare donne e uomini a conciliare lavoro e cura di sé e della famiglia, vita professionale e vita privata, attraverso reti di servizi, dagli asili al pieno tempo scolastico, e reti di cooperazione sociale e collettiva, che liberano le persone “producendo tempo”.

Il Welfare che incoraggia la mobilità. Oggi in Europa muoversi, cercare lavoro in un paese diverso è difficile e spesso non è la lingua l’ostacolo maggiore. Ma della mobilità abbiamo bisogno non solo per ragioni economiche (abbiamo fortissimi divari nei livelli di produttività, dunque possiamo diventare molto più ricchi con una diversa distribuzione territoriale della forza lavoro), ma anche politiche. I cittadini che hanno vissuto in più di un paese dell’Unione sono quelli maggiormente favorevoli all’integrazione politica in Europa.

Il Welfare per chi ha diritto all’assistenza. Nessuno sarà lasciato solo. Uno Stato sociale che sia davvero universale ed inclusivo non esaurisce i suoi compiti nell’aiutare le persone ad aiutarsi. C’è infatti chi - o perché troppo anziano, o perché troppo isolato, o perché semplicemente malato o gravato da handicap permanenti — non saprà che farsene della formazione permanente, degli incentivi a trovare lavoro, dei servizi che “liberano” il tempo. E’ questa una condizione che col passare degli anni colpisce soprattutto le donne, che vivono più a lungo, rimangono sole con redditi spesso bassi, sono esposte alla violenza. Il fondamentale diritto ad una vita serena e dignitosa va assicurato anche a loro.

Il potenziamento dei servizi sanitari e l’assistenza domiciliare e non degli anziani sono diventate, anche in considerazione dell’evoluzione demografica dei prossimi anni, vere e proprie emergenze sociali. E davanti ad esse le istituzioni pubbliche di tutta Europa devono abituarsi, o riabituarsi, a considerare i destinatari dei servizi non soltanto come consumatori, ma come cittadini che fanno valere diritti essenziali di cittadinanza. A questo fine, reti integrate fra pubblico e privato, basate ovunque possibile sul perno ‘essenziale dell’impegno volontario del terzo settore, dovranno offrire insieme più risorse, più energie, più libertà di scelta per gli stessi cittadini.

3. L ‘Europa nel mondo

Europa potenza civile. In un’epoca dominata da rischi globali e dalla minaccia del terrorismo internazionale, gli europei chiedono anzitutto all’Europa più sicurezza e più protezione. E sappiamo che per averle occorre attorno a loro un mondo di pace e di maggiore giustizia.

Sanno che l’Europa è stata in grado di offrirla la pace e lo ha fatto attraverso l’integrazione politica ed economica, che è l’eredità principale dell’ultimo mezzo secolo di storia europea. Attraverso l’Europa, gli Stati nazionali hanno rinunciato alla guerra e posto le basi di uno sviluppo economico e democratico che ha gradualmente coinvolto l’intero Continente. L’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale, infatti, è il compimento di questo processo.

Tutto questo, però, non è più sufficiente. Gli europei sanno anche — e gli attentati a Madrid lo hanno drammaticamente ricordato — che la loro pace non reggerà se non riuscirà a fare progressi anche altrove. L’Europa non è già più un’isola di stabilità; e lo sarà sempre meno se il mondo attorno ai suoi nuovi confini continuerà a precipitare nei conflitti e nella arretratezza. In un mondo globale, l’insicurezza esterna diventa la nostra stessa insicurezza, la fine della pace interna.

L’Europa deve quindi imparare ad occuparsi del mondo per riuscire ad occuparsi di sé: dovrà diventare una potenza civile con una influenza globale e non solo regionale.

I valori condivisi dell’Unione rappresentano la nostra identità collettiva: la democrazia come metodo di buon governo, la sicurezza attraverso l’integrazione, sono tratti fondanti dell’esperienza comunitaria. Un’esperienza che i paesi europei non devono dimenticare, dividendosi nuovamente di fronte alle sfide globali; ma devono invece valorizzare, trasferendola in un’azione internazionale comune.

Europa-potenza civile non significa una politica estera priva di strumenti militari. Significa una potenza che sceglie di integrare interessi e valori; e che subordina l’uso della forza all’esterno, necessario in casi estremi, ad obiettivi politici democratici, alla difesa dei diritti umani e a regole multilaterali. Proteggere i diritti umani e rafforzare il diritto internazionale sono in realtà l’unica speranza per dare a un mondo che appare fuori controllo, e dominato da rischi globali, speranze di sviluppo, di giustizia, di stabilità. Costruire un multilateralismo efficace è per l’Europa potenza civile un obiettivo strategico da raggiungere e insieme una condizione per esistere sul piano internazionale.

Se parlerà con una voce sola, anche se non sempre unica, l’Europa potrà incidere: lo dimostra il peso europeo nella Organizzazione mondiale del Commercio. Se parlerà con voci nazionali in contrasto, l’Europa non peserà affatto.

Per contare di più sarà importante, anche, poter contare su industrie della difesa maggiormente integrate. Investire nella creazione di un’industria della difesa europea non significa essere guerrafondai: significa piuttosto dare all’Europa l’opportunità di giocare un ruolo indipendente nella soluzione dei conflitti mondiali, senza restare alla mercé degli Stati Uniti.

Contro il terrorismo. Il terrorismo internazionale, nel tragico nesso che unisce l’11 settembre americano all’ 11 marzo europeo, costituisce per i popoli di entrambi i lati dell’Atlantico un terribile nemico comune da contrastare con uguale determinazione e convinzione. Questo non significa che i paesi europei, a cominciare dall’Italia, debbano per ciò stesso appoggiare le scelte internazionali compiute dall’amministrazione Bush. Compito dell’Europa, e di una nuova politica estera italiana, è anzi di puntare a costruire una strategia multilaterale più efficace di lotta al terrorismo.

L’Europa potenza civile deve attuare concretamente una strategia unitaria contro il terrorismo. Deve evitare rimozioni, ma deve anche evitare l’illusione che il terrorismo internazionale possa essere sconfitto solo con la forza militare. E deve riuscire a chiarire in che modo combinerà maggiore sicurezza e continua difesa delle libertà democratiche. Se le società democratiche sono bersagli privilegiati del terrorismo internazionale, è solo mantenendo le nostre caratteristiche di società democratiche che possiamo sconfiggerlo.

La lotta al terrorismo è la priorità: ma richiede, proprio per potere avere successo, che le tensioni politiche e sociali esistenti sul piano internazionale vengano affrontate e non trascurate. E’ la priorità che sottolinea l’importanza delle altre priorità: la lotta alla povertà, alle malattie, all’emarginazione, all’esclusione dalla formazione e dalle risorse.

L’Europa deve credere in una battaglia globale e a lungo termine per l’uscita di milioni di persone da condizioni di miseria. E deve trovare, per poterla vincere, nuovi e più efficaci strumenti di azione: deve coinvolgere il settore privato negli aiuti allo sviluppo (per esempio, con meccanismi simili all’8 per mille); deve azzerare il debito degli Stati più poveri, deve liberalizzare i mercati e abolire un protezionismo agricolo che d’altra parte impedisce una riforma indispensabile del bilancio ‘dell’Unione, deve essere in prima linea per l’affermazione dei diritti democratici là dove essi sono negati, per i diritti delle donne (una chiave essenziale per la modernizzazione delle società islamiche), per i diritti dei bambini e degli adolescenti e contro il loro sfruttamento nel lavoro, contro la prostituzione minorile, la tratta, l’abuso, la violenza, il loro uso nelle guerre.

Nei rapporti transatlantici, vanno discusse le condizioni perché possa esistere una “comunità d’azione” transatlantica rinnovata, non puramente rivolta al passato ma in grado di identificare le priorità comuni di oggi. Storicamente, la politica americana ha avuto successo quando è stata internazionalizzata, coinvolgendo anche l’Europa: questo significa che un ruolo globale più solido dell’Europa offre un’alternativa multilaterale agli Usa che fondamentalmente riflette gli interessi sia degli americani sia degli europei.

Ciò vale anche per il futuro del Medio Oriente e del Mediterraneo, e cioè della vasta area che costituisce - assieme ai Balcani e all’Asia centrale - una priorità geopolitica decisiva dell’Europa allargata. L’allargamento, che già è andato oltre i loro confini, è destinato ad includere gli stessi Balcani, mentre nei confronti di altri paesi vicini l’Europa dovrà creare l’anello degli amici, attraverso speciali rapporti di partnership privilegiata. Verso il mondo arabo essa dovrà impegnarsi per rispondere alle tre ragioni principali che secondo i rapporti delle Nazioni Unite sono alla base del suo mancato sviluppo: assenza di libertà, esclusione delle donne dalla vita civile e scarso accesso alla conoscenza. Un ampio settore del mondo arabo è tuttavia in movimento, alla ricerca di spazi di libertà e di crescita. Questo fermento va incanalato, favorendo la creazione di una rete tra associazioni dei paesi dell’area, e incentivando così la nascita di sindacati e partiti politici, in quei paesi dove le uniche forme assembleari avvengono nelle moschee. E’ vitale, per il destino del mondo arabo e per l’integrazione di milioni di persone nelle società europee, che l’Islam moderato prevalga sul fondamentalismo.

E’ altrettanto vitale, per il futuro di quest’area, che i conflitti ancora aperti vengano risolti in modo pacifico ed equo: l’Europa ha un interesse comune alla soluzione del conflitto Israelo-palestinese, sulla base di due Stati reciprocamente sicuri; alla stabilizzazione di un Iraq democratico e governato dai propri cittadini; alla graduale evoluzione di un Iran che rinunci a dotarsi di armi nucleari.

La democrazia non deve essere imposta dall’alto, ma deve essere un processo che veda protagonisti gli arabi stessi. Non c’è nessuna vera incompatibilità tra Islam e democrazia, e l’avvicinamento della Turchia all’Unione potrà dimostrarlo. Il conflitto, piuttosto, è tra regimi autoritari e stato di diritto.

In nome di un multilateralismo efficace, l’Europa deve contribuire ad una riforma complessiva dell’ONU — composizione del Consiglio di sicurezza, criteri di intervento, strumenti a disposizione — che permetta di fondare sulla forza del diritto internazionale azioni collettive a difesa della sicurezza e dei diritti umani. La responsabilità di proteggere i popoli, che è parte. integrante degli obiettivi della Carta delle Nazioni Unite, deve prevalere sulle barriere degli Stati nazionali. In un sistema di sicurezza collettiva adattato alle sfide del dopoguerra fredda, le Nazioni Unite, l’UE e la NATO si rafforzeranno a vicenda.

Una leadership politica europea. La prima condizione perché l’Europa riesca a compiere questo salto di qualità — da area regionale a potenza civile globale — è la convergenza e coerenza delle posizioni nazionali: un “ministro degli esteri” europeo, come disegnato dal Trattato costituzionale, costituisce un elemento-chiave in tal senso. La Costituzione europea permette quindi dei passi avanti importanti, ma che andranno consolidati attraverso dei passi ulteriori: creazione di un servizio diplomatico europeo, integrazione crescente delle forze militari, armonizzazione delle posizioni nelle Nazioni Unite, fino a un seggio europeo nel Consiglio di Sicurezza.

La seconda condizione di una Europa attore globale è la chiarezza dei valori e dei principi internazionali su cui orientare la posizione dell’Unione: giustizia, pace e democrazia non possono più rimanere confinati alle politiche nazionali. L’Unione europea non può quindi abdicare alla responsabilità di difendere questi valori, quando vengano violati diritti umani fondamentali, anche attraverso l’uso della forza sotto mandato delle Nazioni Unite: ma la forza sarà sempre, per l’Unione, una risorsa ultima.

La natura complessa dei processi di globalizzazione richiede, infatti, forme di intervento ad ampio spettro e con strumenti diversi ma integrati. Non si fronteggiano i grandi dilemmi legati all’evoluzione demografica e ai flussi migratori, al degrado ambientale, ai grandi divari di reddito e condizioni di vita, alle grandi reti criminali e al terrorismo con istituzioni parcellizzate e prive di bussole e di obiettivi davvero prioritari e comuni.

L’Europa, da questo punto di vista, ha almeno tre vantaggi comparati, che deve sfruttare al meglio: dispone di strumenti di azione e di influenza ad ampio raggio (dalla diplomazia al peso economico, dai legami culturali alla forte presenza nelle principali sedi internazionali); è forte di una sorta di “legittimità intrinseca” derivante dalla sua natura di organizzazione multinazionale democratica con una forte componente sopranazionale; e infine è parte integrante di una più ampia comunità di Stati e di popoli, che ha un enorme potenziale di influenza su scala mondiale.

Abbiamo di fronte a noi un mondo gravido di rischi, vecchi e nuovi; ma anche di opportunità. L’Europa è una tipo di potenza “adatta” per contribuire a trasformare i rischi in opportunità: per aiutare a governare, in modo equo e democratico, i processi di globalizzazione. Ma bisogna che l’Unione europea voglia farlo e che sia in grado di farlo, come del resto chiedono i cittadini europei.

La premessa indispensabile è una nuova leadership politica europea, che sia conscia di due verità molto semplici: nessuno degli Stati nazionali, preso singolarmente, è più in grado di esercitare una vera influenza all’esterno e quindi a proteggere i suoi cittadini all’interno; non ci sarà vera sicurezza europea senza sicurezza e giustizia globali.

4. La Costituzione europea

Rimettiamoci al lavoro per la Costituzione europea. E’ questa la nostra carta di identità: quella che ci permette di indicare a tutto il mondo i valori in cui crediamo.

Con la Costituzione noi offriamo a noi stessi la possibilità di organizzare con decisioni condivise la nostra sicurezza e il nostro sviluppo. Ma è anche la maniera di dire al mondo intero che è possibile vivere concretamente, in un grande spazio di mezzo miliardo di persone, la democrazia, la sicurezza, lo Stato di diritto: garantendo con la nostra Carta fondamentale diritti e principi che valgono non solo per i nostri cittadini ma per ogni persona umana che si trovi nel nostro territorio.

L’Unione europea propone così un ordinamento politico che supera le divisioni fra gli Stati nazionali. Esso è un modello, già imitato, per una democrazia internazionale basata su regioni multistatali. Dimostra che non vi è una deriva incontrollabile alla globalizzazione, ma che la globalizzazione si può governare con politiche adeguate alle sue dimensioni. E soprattutto con un’azione politica costante dell’Unione che abbia al suo centro, come dice la Carta dei diritti approvata a Nizza, la persona. La Carta dei diritti costituisce una vera e propria carta di identità dell’Unione, perché disegna un modello sociale europeo diverso da altri propri dell’Occidente democratico -basti pensare al valore attribuito ai diritti sociali e al divieto assoluto della pena di morte- e permette una civile convivenza fra persone di diversa nazionalità, cultura, lingua e religione, assicurando a ciascuno il rispetto della sua identità della sua dignità, della sua libertà, della sua diversità. La lai delle istituzioni e di tutti i poteri pubblici è lo strumento per garantire equamente i diritti di ciascuno. E su tale garanzia è fondato lo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia comune dell’Unione.

Il progetto costituzionale elaborato dalla Convenzione non è fino in fondo quello che avremmo voluto e che avrebbe voluto la stessa Commissione Prodi. Eppure l’approvazione del progetto da parte della Convenzione rimane il segno di un nuovo inizio della comune impresa europea, da cui non si può più tornare indietro. Tutti sanno che le attuali istituzioni, pensate per una comunità di Stati molto più ristretta di quella che prospetta con l’allargamento, non sarebbero in grado di fronteggiare le sfide che attendono l’Europa fuori e dentro i suoi confini. D’altra parte, la prospettiva di club ristretti di Stati che decidono per tutti - cosa diversa dalle speciali “cooperazioni”, previste e in qualche caso auspicate dal progetto della Convenzione - ha il fiato corto, riflette un’epoca che è alle nostre spalle. Solo l’approvazione della Costituzione può evitare la paralisi decisionale dell’Unione.

Nessuno, alla Convenzione, ha pensato a un “Superstato” europeo. Al contrario, l’obiettivo che la Convenzione si è dato è stato quello di disegnare istituzioni concentrate su funzioni chiaramente delineate, in modo che la loro forza non contrasti con quella delle istituzioni nazionali, ma sia una risorsa comune a disposizione di tutti.

La grande, storica avventura dell’allargamento a 25 Stati, guidata dalla Commissione europea di Romano Prodi, si è rivelata ogni giorno di più una necessità più che una opportunità. Ma l’allargamento significa anche che l’Unione deve poter contare su istituzioni forti ma non rigide. Istituzioni che devono consentire la flessibilità necessaria per tenere insieme tutti. gli Stati membri intorno a comuni obiettivi, ma rispettandone i diversi ritmi di integrazione.

Il governo delle “differenziazioni” fa parte di questo nuovo ordinamento della Grande Europa, reso coerente e “uguale” dal grande quadro istituzionale unico: un solo Parlamento, un solo Consiglio, una sola Corte dì giustizia, soprattutto una sola, indipendente Commissione europea.

Rimettiamoci al lavoro per riportare l’Italia in Europa. E l’Unione europea in Italia.

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12 Dicembre 2005

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