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Lodo Meneghetti
Lettera aperta a Cesare de Seta
25 Marzo 2004
Ravello
Ricevo il 3 febbraio 2004, e inserisco volentieri, questa lettera aperta di un saggio testimone delle vicende della costiera amalfitana: di un maestro che non si fa incantare dai gesti, quando conosce e ama i contesti. Leggibile e scaricabile anche in formato pdf

Caro de Seta,

ho coniato uno slogan, molto tempo fa, relativo a un certo comportamento dominante nel mondo degli architetti, urbanisti, universitari e no, e quant’altri: nessuno legge nessuno. Sicché il dibattito non esiste più (ricordo il periodo fra Cinquanta e Sessanta quando c’era anche la polemica, emblematico lo scontro fra Rogers e Banham e fra le rispettive riviste) se non talvolta concertato quasi ad arte in sede di piccola corporazione. Nelle riviste? Non parliamone. Sotto questi riguardi il sito di Eddy potrebbe consistere nel contrario. Benché, ho osservato qui altra volta, non sempre, anzi raramente, nasce l’ampia discussione che ci si aspetterebbe attorno al dato tema o problema. Si susseguono l’uno all’altro interventi anche interessanti, ma vanno a formare una catena di anelli spesso non agganciati. Insomma, non si discute o lo si fa poco. Poi sulla questione Ravello salta la polveriera (e le altre centomila, un milione?), improvvisamente (tutti, prima, se ne fregavano), a causa del benedetto o maledetto progetto Niemeyer. Ho dovuto constatare, sorpreso, la mancanza di ricordi di com’era, cos’era effettivamente Ravello entro la natura montano-marina prima dei consueti processi italiani di, stiamo leggeri per carità di patria, modificazione o cosiddetto sviluppo. Non solo, ma ho subito percepito che nel gruppo dei “favorevoli” pochissimi conoscono realmente il luogo e tutto il contesto amalfitano (intendo nell’arco storico, magari per pura ragione d’età), così come certamente non conoscono l’intero disastro paesaggistico, urbanistico ambientale del paese. Bene, io ho subito espresso la mia adesione alla posizione di Salzano, talmente corretta e motivata che non è facile respingerla se non alterando la verità circa il punto nodale, vale a dire la questione di legalità.

Ma non da qui voglio riprendere. Ho letto le vostre lettere, così condite di reciproche dichiarazioni di stima entro il dissidio (quanto a questo tu rivanghi addirittura lo scontro con Cederna, sempre condito da tanto sentimento d’amicizia, attorno alla piramide del Louvre, per mostrare che, tu quella volta duramente contrario, valuti caso per caso, fuor di ogni radicalismo generico. Idem circa l’opposizione Salzano – Gasparrini (“dolcissimo”, che bello essere così signorili!). Voglio invece pregarti, tu che rappresenti l’assoluta diversità rispetto ai soggetti ai quali il mio slogan è applicabile, di leggere il mio pezzo, Bellezza a Ravello, che Eddy ha pubblicato, esprimendoti in particolare sulla conclusione. Perché in realtà vera te lo chiedo? Perché leggo, qui accanto al computer, il tuo ricordo di Piero Bottoni a Capri, pezzo datato da Capri, 4 gennaio MMIII, che hai avuto la gentilezza di concederci per la pubblicazione su uno dei quaderni dell’Archivio Piero Bottoni, il quarto, Piero Bottoni a Capri. Architettura e paesaggio, 1958-1969. Mi pare che il tuo commento, sia riguardo alla “grotta” di Bottoni, talmente riservata e penetrata nella natura, sia riguardo alle sue piccole case, potrebbe ricadere in quella concezione dell’architettura “capace di non ergersi”; quantomeno, se perdoni un’autocitatazione da altra fonte, potresti consentire che “non esiste architettura degna del nome senza sentimento di appartenenza” (al passato come al presente, e, assolutamente e strettamente, al contesto. Riporto qualche tratto del tuo scritto sperando che lo leggano altri che certamente non l’hanno visto nel fascicolo dell’archivio. “Bottoni, da architetto di talento, aveva perfettamente assimilato il modo di costruire dei capomastri dell’isola: che, un tempo, dovevano essere bravissimi. Infatti le sue case […]sono in tutto e per tutto assimilabili alle tipiche tipologie residenziali delle case capresi […]. Né più né meno di quanto aveva propagandato con la mostra su L’architettura rurale alla V Triennale Pagano: ritornare agli etimi dell’ architettura senza architetti, come dirà un celebre libro di Bernard Rudofky che pure aveva scelto il golfo di Napoli per le sue sperimentazioni razional-mediterranee con il suo amico e socio Luigi Cosenza. Bottoni molti anni dopo quella lezione l’aveva assimilata così bene e fatta propria che faceva case assolutamente razionaliste senza che nulla lo lasciasse trasparire. […] nulla apparentemente le distingue dalle più anonime case capresi: se poi si esaminano i disegni tecnici ci avvediamo che sono dei piccoli capolavori di existenz minimum: secondo la più severa norma delle tipologie tedesche: Il loro miracolo sta in questo e in questo Bottoni è un erede spirituale di Pagano e delle sua lezione sull’Onestà dell’architettura, come titolava un suo celebre editoriale di Casabella” (p. 55 del fascicolo citato). Mi sembra chiaro che né tu volessi rivendicare allora una sorta di architettura mimetica, ma volessi esprimerti, penso, contro quella che i razionalisti di “Quadrante” (fra cui il giovane Bottoni) chiamavano architettura arrogante; né io perorarla ora contro il “gesto” di Niemeyer, peraltro una cosa di tali dimensioni e, va detto, talmente disinteressata alla contestualità, da sfiorare la definizione cara ai pionieri di “Quadrante”. Ciò che vorrei si facesse nella già lesa Ravello è esattamente quel che ho già scritto: cura, risanamento del corpo malato, ricostruzione della perduta giovanile bellezza come nuova bellezza senile. E questo, purtroppo, il grande brasiliano, col suo progetto (suo, non suo? schizzo, disegno, modello? Non interessa qui) non può farlo, ne è all’opposto.

Un caro saluto da

Lodo Meneghetti

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