IL LIBRO di Will Hutton ( Europa versus America. Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa) costituisce un mosaico quasi perfetto della maggior parte, e certo per noi la più importante, delle tessere che compongono lo stato del mondo attuale. Ignora e non è succube dello "spirito dei tempi", togliendo così ogni banalità alle sue argomentazioni; stabilisce con vigore intellettuale e stilistico alcuni principi di riferimento, basati su vasta cultura e conoscenza approfondita della storia politica e delle idee dell’Occidente. Ogni prefazione o presentazione che non fosse un semplice invito alla lettura, potrebbe dunque rivelarsi superflua. Ma è difficile sottrarsi alla tentazione di indicare alcune osservazioni, risvegliate a latere della lettura, che riguardano la situazione soprattutto culturale italiana ed europea, oltre a qualche possibile minore divergenza di valutazioni critiche. Tutto ciò in ordine sparso o senza pretese organiche che risulterebbero in ogni caso inadeguate. Ed è perciò quel che farò.
Le tesi di Hutton sono un macigno che cade nella palude delle provinciali e stantie elucubrazioni di molti nostri autoproclamati riformisti di sinistra e di destra. Il riformismo nostrano è, infatti, spesso appiattito sull’esaltazione di un acritico e malinteso trapianto di istituti e ideologie proprie del nuovo capitalismo finanziario nordamericano, che nel "dio mercato", nella deregolamentazione, nell’unica regola posta dall’economia privata, nella privatizzazione del diritto, in cui tutto si affida alla volontà delle parti, hanno prosperato prima e sono naufragati poi con il fallimento della dittatura dei mercati finanziari. Mercati senza regole, senza freni e che obbediscono solamente alla volontà e agli interessi di individui sempre più spregiudicati. E tutto avviene in un gioco capace solo di creare squilibri difficilmente correggibili e irrimediabili ingiustizie sia a livello di economia mondializzata, sia nelle vicende di politica internazionale. La presunta razionalità assoluta dei mercati, già storicamente contestata da Fernand Braudel, sta alla base di queste nuove tendenze e costituisce peraltro l’armamentario intellettuale delle tesi più conservatrici e retrive oggi in voga negli Stati Uniti.
Anticipiamo parte della prefazione che ha scritto per il volume di Will Hutton Europa versus America. Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa (Fazi, pagg. 400, euro 21,50 con un saggio di Massimo Panarari) il libreria da domani
Quelle, per intenderci, che hanno portato al fallimento di Enron, Arthur Andersen, WorldCom e via dicendo, e, mentre scrivo, al ben più grave fallimento del vertice di Cancun.
Singolare destino quello del nostro finto riformismo che trova radici culturali solo nel superficiale conservatorismo d’oltreoceano, contro il quale l’autore dispiega una sfilata di critiche severe con una sequela di argomenti che mettono a nudo la società americana.
La seconda lezione che Will Hutton ci impartisce riguarda l’impostazione europea dei problemi ed è una lezione che viene da un cittadino del Regno Unito, paese che conta il maggior numero di euroscettici.
La mondializzazione dell’economia, e più genericamente i fenomeni, non solo economici, che si qualificano nella globalizzazione, comportano un superamento dello Stato-nazione. A una cultura esclusivamente americana, Will Hutton contrappone un bagaglio di alternative, che affondano radici profonde nella civiltà europea. Queste radici si sono sviluppate nell’humus del Cristianesimo, formalizzato o meno nella nuova Costituzione europea, in principi di solidarietà che trovano la loro filosofia di base nelle spinte del socialismo democratico. Radici, infine, che uniscono tutti gli Stati membri dell’Unione Europea e che si contrappongono al selvaggio individualismo americano, del quale questo libro ci offre una descrizione precisa e a volte spietata sia nei confronti della vita interna della società americana (e perché non ricordare anche che oltre cinque milioni di americani sono rinchiusi nelle carceri?), sia della politica estera del governo USA. Entrambe sono accomunate da utilitaristiche quanto grossolane - ancorché oggi vincenti - credenze neoconservatrici, le quali sono riuscite a sommergere almeno parzialmente la pur nobile tradizione di tutela delle libertà individuali e dell’associazionismo che Alexis de Tocqueville aveva individuato come la più solida piattaforma della democrazia americana.
La contrapposizione fra la cultura europea e quella conservatrice e dominante d’America risulta impietosa. La ricostruzione attenta dell’influente pensiero politico di Robert Nozick svela le profonde ingiustizie sociali, conseguenziali a un’ideologia che considera qualsivoglia intervento pubblico di giustizia redistributiva nei confronti delle classi meno abbienti come una minaccia allo Stato di libertà che ogni individuo deve considerare come l’unica suprema virtù da tutelare, per evitare derive totalitarie.
La tesi keynesiana che gli uomini pratici, che pretendono di essere liberi da qualsivoglia influenza intellettuale, sono in genere schiavi di qualche defunto economista è ancora corretta. E lo è anche perché lo stesso Keynes considera sul medesimo piano le idee degli economisti e quelle dei filosofi politici.
Cade qui un riferimento alla suprema ipocrisia, decantata da Bernard de Mandeville nella sua opera La favola delle api del 1728, quella cioè che consiste nel fingere di fare la felicità dei bisognosi rifiutando loro ogni assistenza. Ma certamente la «mano invisibile» di Adam Smith o il laissez-faire dei fisiocrati che presuppongono un’armonia e un ordine naturale degli interessi privati accompagnano questa visione dell’ideologia conservatrice americana, che sta permeando non solo la storia contemporanea del capitalismo, ma gli stessi meandri di una globalizzazione condotta secondo profonde sproporzioni fra paesi poveri e paesi ricchi, come Joseph Stiglitz ha dimostrato una volta per tutte.
Certamente non sono solo gli europei, aggiunge poi Will Hutton, ad avere il monopolio dell’idea di eguaglianza e di giustizia sociale. Anzi, contro il conservatorismo degenerativo del capitalismo finanziario che permea la vita materiale e intellettuale americana, si erge l’elaborazione filosofica di un nuovo contrattualismo sociale da parte di John Rawls, il quale nella sua Teoria della giustizia del 1971, vede la stipula di quel contratto sociale nella originaria posizione di chi è condizionato da un «velo di ignoranza» e non conosce nulla né della sua vita passata né delle chance future, ma desidera vivere in una società nella quale le libertà di tutti siano rispettate e il principio di uguaglianza imponga che sia favorito il più debole. Questa teoria è decisamente influenzata dalla più autentica tradizione europea e si contrappone decisamente alla vincente filosofia minimalista, estranea a qualsiasi principio di welfare state teso a garantire libertà e uguaglianza.
Il conservatorismo ha avuto il suo centro di irradiazione nelle grandi corporation che non solo hanno portato l’intero sistema economico a una morbosa dipendenza da Wall Street, ma hanno ridotto la cultura totalizzante della società americana alle valutazioni di Borsa e ai sofisticati meccanismi del capitalismo finanziario.
Le ideologie che si sprigionano dalla formuletta della ricerca del «valore per gli azionisti» (shareholders’ value), assurta a unico obiettivo della corporation, hanno portato alla grande rinuncia a ogni principio che non sia quello del profitto, sia nella vita economica che in quella politica. Manca qui, forse, il rilievo che le vicende delle corporation, pur così attentamente esaminate, hanno subìto il distruttivo paradosso di essere spinte prima a uno sviluppo inarrestabile per poi essere travolte dalla stessa matrice, cioè il conflitto di interessi generalizzato che ha colpito, senza che se ne sia trovato un rimedio efficace, i gangli vitali della civiltà materiale americana.
La dittatura dei mercati finanziari, infiacchiti dal virus del conflitto di interessi, ha distrutto buona parte degli altri poteri dello Stato e sta minacciando ogni principio della tradizionale grande democrazia americana, privandola di quell’equilibrio che un sistema di controlli e contrappesi (checks and balances) garantiva in modo esemplare. Le regole dei commerci internazionali sono ormai elaborate dalle grandi corporation multinazionali. Il governo americano e gli altri governi coinvolti nel processo di globalizzazione, all’insegna del libero mercato, seguono, e dove possono favoriscono, il nuovo centro di potere sovranazionale, svincolato da qualsiasi limite o condizionamento politico.
Non è un caso che anche i più acuti intellettuali americani inizino a paventare e a denunciare la perdita o l’offuscamento degli stessi diritti di libertà, che possono velocemente portare a una zoppa democrazia illiberale. Citerò solo, rinviando ad esso, il libro di Fareed Zakaria, The Future of Freedom, del 2003. Inoltre, basterà ricordare la mancanza di ogni diritto alla difesa e al giusto processo ai presunti terroristi rinchiusi nella base americana di Guantanamo.
Insomma, la strategia intellettuale del neoconservatorismo americano che ha avuto in Robert Nozick l’estremo e più accreditato profeta, sembra ingoiare se stessa in una sorta di irreversibile cupio dissolvi. Non mancano neppure nel libro gli accenni ai tentativi da parte degli Stati Uniti di riportare indietro la situazione, come se queste marce a ritroso fossero possibili in una stagione storica di movimenti tellurici mai sperimentati prima con tale accelerazione. E qui potremmo citare da ultimo il tentativo di rimettere in pista una legislazione che aveva avuto in altre epoche - e il riferimento d’obbligo è alla crisi del 1929 col New Deal roosveltiano - un indiscusso successo. Ma il Sarbanes-Oxley Act del 2002 frettolosamente approntato dal Senato americano subito dopo lo scoppio dei grandi scandali finanziari sopra citati, si è subito rivelato un’arma spuntata e inefficace per combattere il virus del conflitto di interessi che insidia, ancora oggi indisturbato, la dittatura dei mercati finanziari. La possibilità del passo indietro è inesorabilmente impedita dall’espansione dei processi di globalizzazione che hanno mostrato finora una caratteristica univoca, quella cioè di essere null’altro che un’appendice del capitalismo finanziario americano e della sua politica.
Da un lato il processo di globalizzazione, dettato dalla dittatura dei mercati finanziari, e dall’altro l’abbandono, all’interno di singoli Stati membri dell’Unione, delle loro radici culturali e storiche, hanno condotto spesso anche in Europa a una sorta di scimmiottamento delle regole e dell’ideologia del conservatorismo americano. L’autore parla del micidiale abbraccio dell’orso che stringe la Gran Bretagna, sempre più contigua alle direttive d’oltreoceano. Ma la situazione italiana sembra ancora peggiore.
E veniamo dunque al trapianto in Europa delle mode americane.
Inizio subito con qualcuno dei miti che costituiscono il cascame dell’ideologia del «dio mercato» senza regole. Primo fra questi quello che va sotto il nome di corporate governance. Più di quaranta codici di corporate governance sono stati elaborati nei paesi dell’Unione Europea e ognuno di essi, come ho cercato di dimostrare altrove, ha rivelato inefficacia e inconsistenza. D’altra parte negli Stati Uniti le cosiddette regole di corporate governance hanno dimostrato la loro assoluta inutilità di fronte alle crisi finanziarie di Enron e di quelle che l’hanno seguita: inutilità quasi pari a quella dei codici etici.
Ma vi è una ragione di più per rifiutare il trapianto Europa delle mode americane di corporate governance. Basta infatti rendersi conto che l’esigenza di avere una disciplina societaria, ancorata, più che a norme, a regole di autoregolamentazione, è dovuta alla situazione del tutto particolare presente negli Stati Uniti. Va infatti considerato che il diritto societario americano è di appannaggio dei singoli Stati, mentre il diritto dei mercati finanziari è federale. Siccome le leggi statali lasciano la massima libertà agli statuti societari nel disciplinare ad libitum i rapporti fra gli organi sociali (assemblee dei soci, amministratori, manager), il raccapricciante risultato è stato che ogni società quotata aveva una disciplina diversa, a seconda dello Stato in cui era incorporata e degli articoli del proprio statuto creati in totale libertà. Dopo l’ubriacatura delle scalate societarie degli anni Ottanta, si rese necessario cercare un minimo di uniformità per le società quotate che facevano appello al pubblico risparmio, alla ricerca di una sorta di correttivo alla deriva nei mercati finanziari della deregolamentazione selvaggia. Ed ecco che nacquero le regole di corporate governance, le quali, per la maggior parte, quando non si limitano ad affermazioni generiche, sono già contenute nelle legislazioni societarie europee. Il trapianto in Europa non solo è inutile, ma anche dannoso, perché mina il rigore normativo tradizionale al diritto europeo e favorisce l’affievolimento delle norme giuridiche ad esclusivo vantaggio dell’autoregolamentazione contrattuale degli interessi privati all’insegna del neoconservatorismo liberista. Non è però un caso che la recente riforma del diritto societario italiano sia stata impostata sulla piena libertà e autonomia statutaria, con un impianto che si rivela intempestivamente ispirato all’ideologia neoconservatrice americana, nel momento in cui, fra l’altro, viene abbandonata negli Stati Uniti col Sarbanes-Oxley Act del 2002 e, soprattutto, dal diritto comunitario europeo. [...]
In conclusione, quella di Will Hutton è una ricerca che affonda i suoi artigli nelle più riposte radici della cultura europea. Più riposte perché vive soprattutto in quei settori che l’opinione pubblica anche colta tende a trascurare. Ed è ancora un inno all’Europa, per il quale dobbiamo essere grati all’autore, che ci ha consegnato una testimonianza di giustificato ottimismo sul nostro destino.